IL
CAMPANELLINO D’ARGENTO
di
Daniela Quadri
“Ehi, qualcuno mi dà una mano?” Domando, mentre aspetto pazientemente accanto al
lettone in ferro battuto nella mia stanza preferita; quella in cui il sole del
pomeriggio gioca con i grandi cuscini morbidi, dove mi raggomitolo coprendomi
gli occhi con una zampina immacolata.
Vorrei
tanto riuscire a salire sul letto con un semplice balzo. Ma ultimamente
succedono cose strane. Qualcuno deve aver sollevato il letto da terra, per
scherzo o per dispetto. Anche il calorifero sotto la finestra non è più al suo
posto, e se voglio curiosare fuori devo lasciarmi prendere e trasportare fin là
sopra.
Poco
male, la vista da quassù è davvero interessante. I fili tra i pali della luce
si piegano dondolando sotto il peso degli uccellini, gonfi come palle da tennis
stanche di correre per gli immensi campi celesti.
Ho
perso il conto di quante volte il tepore della primavera si è avvicendato al
freddo dell’inverno.
E
adesso anch’io sento il bisogno di riposare.
«Ma
che amore! Piccolo micino, che ci fai qui tutto solo?» Quei suoni
incomprensibili arrivavano dolci e suadenti alle mie orecchie piegate
all’ingiù, sotto la lieve pioggerellina di marzo. Non sapevo neanch’io come ero
capitato lì. Solleticato dalla curiosità mi ero gettato all’inseguimento di un
invisibile moscerino che si librava nell’aria, e tutto a un tratto avevo perso
il mio mondo. I grandi fari impazziti che mi inseguivano mi avevano spinto a
cercare un rifugio temporaneo. Quando quei mostri si fossero ritirati avrei
riguadagnato la strada di casa dove sicuramente mi stavano aspettando.
Ma
quella voce, come un canto di sirena, mi impediva di scappar via.
«Gatto!
Sì, è proprio un bel nome» Dissero, con uno schiocco delle labbra, quelle mani
di ragazzina che mi sollevarono da terra.
Stretto
al suo petto mi sentivo di nuovo protetto e, quando sollevai la testa per
guardarla con i miei occhi verde smeraldo, mi innamorai di lei. Col naso umido
annusai la sua mano, e con la lingua smerigliata le dissi “Portami con te, la
tua casa mi aspetta!”.
L’uomo
col camice bianco gesticola, e quell’odore inconfondibile di paura e dolore che
impregna la sua pelle mi rende come sempre irrequieto. Ormai lo riconosco a
distanza e vorrei che non si avvicinasse, che non mi toccasse. Una volta gli
facevo sudare sette camicie, ma adesso le mie gambe sono malferme e instabili
come il mio equilibrio.
“Ahi, non premere così forte. Mi fa tanto male lì. Smettila per favore.” Lo supplico
con una smorfia di dolore negli occhi.
Ma
lui no, continua a tastarmi la pancia. Scuote la testa. E io capisco tutto dal
suo odore. Adesso è ancora più intenso e non promette niente di buono.
Con
quanti nomi strani mi chiamavate, e come ridevate quando vi accorgevate di aver
attirato la mia attenzione. Non che io li comprendessi, ma col tempo le vostre
voci mi erano diventate familiari, come le vostre smorfie affettuose di cui non
potevo più fare a meno. Già dopo pochi mesi, lo spazio ristretto
dell’appartamento non riusciva più a soddisfare il mio desiderio di avventura.
Agognavo a ben altri orizzonti, e fu così che un giorno decisi di esplorare la
grande pianta di oleandro sul terrazzo. Piantai le mie unghie nel tronco rugoso
e cominciai a risalire lungo i rami, lasciandomi scivolare fin sulle punte
estreme. Raggiunsi la cima dove il fogliame era più tenero, ma le fronde
sottili si aprirono, e invano tentai di
aggrapparmi a qualche solido appiglio. Scivolando inesorabilmente mi trovai
sbalzato nel vuoto. Non avevo paura, ma solo desiderio di sentire di nuovo la
terra sotto le zampe. Istintivamente mi girai nell’aria e il mio volo si
concluse tra le braccia di uno sconosciuto.
«Ehi, piovono gatti qui!» Ridevano tra di loro i ragazzi che mi avevano raccolto a
mezz’aria.
Dopo
qualche leccata di ringraziamento ai miei salvatori, mi ritrovai tra le mura di
casa.
Ma
sempre di mura si trattava, e il mio spirito indomito si riprese subito dallo
spavento.
Il
corrimano del balcone della cucina attirava da tempo la mia attenzione. Un
pomeriggio decisi di percorrerlo tutto, ignorando il divieto di sconfinare nel
balcone dei vicini. Con un balzo piombai sul pavimento, e attraverso la
porta-finestra socchiusa mi addentrai alla scoperta di un nuovo mondo.
Cos’erano
tutte quelle splendide stoffe lucide sul tavolo? Forse una degna accoglienza
per il mio arrivo inaspettato. Senza indugiare oltre mi lanciai su di esse,
godendo di quella nuova sensazione sotto i polpastrelli. La mia gioia si spense
quando una donna, con un grembiule curioso da cui pendevano strani arnesi
taglienti, punte sottili e fili colorati, entrò nella stanza spalancando la
bocca con un’espressione sorpresa.
«Guarda
un po’ che disastro hai combinato, brigante!» E la sua mano alzata mi fece
capire che era meglio rientrare alla base.
Di
lì a qualche giorno la fortuna mi diede modo di lavare l’onta subita.
La
donna col grembiule si era presentata alla porta di casa. Teneva sulle braccia
un pacchetto che consegnò; doveva trattarsi di pantaloni rammendati da quello
che riuscii a intravvedere. La vicina fu invitata a entrare e, mentre le veniva
offerto un calice di vino dolce, cominciai a girarle attorno acquattandomi il
più possibile a terra. I miei cerchi si facevano sempre più stretti e, quando
fui certo che nessuno mi prestava attenzione, sferrai l’attacco.
Con
un salto acrobatico afferrai uno dei suoi grossi e succulenti polpacci e, senza
darle il tempo di emettere un solo grido, lo azzannai di gusto. In un batter
baleno scappai lasciando una goccia di sangue che rigava la carne bianca a sola
testimonianza della mia vendetta.
La
luce intensa e spettrale che piove dalle lampade mi ferisce gli occhi e mi fa
tremare. L’odore penetrante del disinfettante mi stordisce.
Un
dolore improvviso e acuto sotto la pelle mi scuote per un istante, come la
puntura di un insetto molesto che non riesco più a scacciare. Le immagini si
fanno sfocate, i colori sbiadiscono e i contorni si perdono in una grigia
evanescenza in cui mi lascio cullare.
I
miei guai ebbero inizio quando mi accorsi di non essere più l’unico beniamino
di casa. Avevano deciso che avevo bisogno di compagnia. Per non sentirmi solo
tutto il giorno quando andavano a scuola e al lavoro. Ma qualcuno aveva forse
chiesto il mio parere?
I
nuovi arrivati erano una coppia di pappagallini gialli, con degli incredibili
pennacchi verde mela sulla sommità del capo, che cianciavano tutto il giorno
nella loro lingua esotica dall’accento un tantino snob. Il terzo incomodo
invece grazie al cielo non possedeva l’uso della parola, e se ne stava tutto il
giorno a girare, pavoneggiandosi nella sua livrea rosso fuoco, dentro una
boccia di vetro piena d’acqua.
Ormai
non avevo scelta; dovevo fare buon viso a cattivo gioco, e così decisi con
grande spirito di ospitalità di dare il mio personale benvenuto ai miei
coinquilini.
Avevo
più volte tentato di scambiare qualche convenevole con i Signori Cocorito, ma i
due avevano sempre altezzosamente ignorato la mia presenza. Quella mattina però
non ero dell’umore giusto, e non ero disposto ad accettare oltre tanta
maleducazione. Mentre la Signora Cocorito era occupata con la toilette
mattutina, mi avvicinai al Signor Cocorito che se ne stava appollaiato
sull’asticella della gabbietta e, appoggiando il muso tra le sbarre, infilai
una zampa cercando di stringergli la mano come d’uso tra gentiluomini. E cosa
ti combina quel rozzo villano? Così all’improvviso mi tirò una gran beccata sul
naso, che sfortuna vuole mi si era incastrato tra le sbarre.
Poi
tutti e due si misero a starnazzare come le Oche del Campidoglio. Neanche
avessi tentato di intrufolarmi in casa loro senza invito! Da tutte le stanze accorsero in loro
soccorso; volevano salvarli dalle grinfie del gatto malvagio. E, nel gran
putiferio che si era scatenato, alla fine ci rimediai pure un paio di
scapaccioni ben assestati sul groppone.
Ecco
quello che ci si guadagna a essere ben educati in questo mondo ingrato!
Tutta
un’atra storia invece fu l’incontro con Mr. Fish. I suoi modi molto British
erano veramente impeccabili, anche se devo dire un po’ troppo freddi e
distaccati per il mio carattere felino passionale ed estroverso. Amavo
trascorrere i pomeriggi appoggiato al bordo della boccia di vetro residenza di
Mr. Fish, lappando di tanto in tanto quel liquido saporito che mi faceva venire
l’acquolina in bocca. Certo è che la mancanza di favella di Mr. Fish rendeva
noiose le ore trascorse in sua compagnia, e fu allora che pensai di movimentare
un po’ le cose, rendendo per così dire la nostra conoscenza più intima. Mi ero
messo in mente che forse l’essere così taciturno di Mr. Fish dipendesse da
tutta quell’acqua che lo circondava, e che sicuramente gli riempiva anche la
bocca. In quelle condizioni sfido chiunque a riuscire a proferire parola! Se lo
avessi tolto da lì, certamente la nostra conversazione ne avrebbe guadagnato.
Detto fatto mi appoggiai sulle zampe posteriori e con quelle anteriori cercai
di aiutare Mr. Fish ad uscire dalla sua prigione, ma quello invece di
collaborare continuava a sgusciarmi tra le zampe. La pazienza si sa non è una
delle doti proverbiali di noi gatti, e fu così che ad un certo punto mi spazientii
di fronte a tanto divincolarsi, e con un colpo di genio presi a colpire l’acqua
con le zampe gettandola fuori dalla boccia. Quando ebbi versato metà dell’acqua
sul tappeto, Mr. Fish si ritrovò a sbattere in preda alle convulsioni sul
pavimento. Credetemi, in quel momento mi prese un tale spavento che avrei
voluto fuggire via. Ma poi, come al solito, il mio animo nobile e generoso ebbe
il sopravvento. Restai lì a guardarlo, e ogni tanto gli davo un colpetto con la
zampa pensando che questo l’avrebbe aiutato nel suo incessante girarsi e
rigirarsi.
Anche
quella volta la fortuna non mi fu amica. La tragedia di Mr. Fish si stava
consumando che ormai il sole era calato, e fu proprio allora che la porta di
casa si aprì. Eccoli erano tornati, chi dal lavoro e chi dalla palestra, ma
credete forse che mi abbiano ringraziato per il pronto intervento e l’
amorevole assistenza prestati a Mr. Fish? Neanche per idea! Anche stavolta fui
ingiustamente accusato di essere il colpevole, e allontanato dalla boccia
dentro la quale era stato prontamente ributtato il subdolo Mr. Fish, che dopo
l’accaduto continuò imperterrito a farmi assurde e grottesche boccacce dal suo
inespugnabile nascondiglio.
Memore
delle precedenti esperienze con miei
coinquilini, decisi che non avrei più dato confidenza ad alcun essere vivente.
Ero o non ero un gatto? E allora come si addice ai miei simili mi sarei
dedicato alla caccia, piuttosto che a cercare di stringere rapporti di buon
vicinato.
Ma
anche la caccia non diede i risultati sperati. Un giorno passeggiavo
tranquillamente sul terrazzo quando udii uno strano pigolio. Mi avvicinai
quatto quatto, non mi sarei lasciato assalire da qualche belva ignota. In un
angolo tra due vasi di gerani rossi c’era un esserino tremante. A dire il vero
mi sembrò alquanto brutto; spelacchiato e incapace di saltare e correre sulle
corte gambette, mi faceva un po’ pena e un po’ ribrezzo. Mentre il piccolo
emetteva il suo richiamo sempre più acuto ed insistente, vidi nel cielo una
sagoma nera che volteggiava inquieta. Un merlo, ecco cos’era, e quello doveva
essere uno dei piccoli caduto dal nido.
Ancora
una volta non seppi resistere al mio istinto di buon samaritano e,
avvicinandomi con cautela all’uccellino spaurito, lo presi tra le fauci con
molta delicatezza. Fu un gesto protettivo e cercai di non fargli del male,
tenendomi al tempo stesso a debita distanza dal suo beccuccio appuntito.
Col
piccolo in bocca andai dritto in cucina, e tutto fiero lo posai davanti ai
piedi della mia padroncina. Questa volta ero certo avrei avuto la mia giusta
ricompensa per la cattura così magistralmente effettuata.
Ma
un grido di spavento mi fece rapidamente cambiare idea. Invertii immediatamente
la rotta e me la diedi a gambe levate. Non mi sarei fatto rimproverare e
strapazzare per un gesto di pura umanità!
Arrivò
l’estate e le mosche che entravano dalle finestre aperte si posavano ovunque.
Tutti
si davano un gran daffare per liberarsene colpendole con strofinacci, e menando
manate a vuoto nell’aria.
Quel
gioco mi sembrava divertente ed ero sicuro che, laddove gli altri fallivano
miseramente, io sarei riuscito a compiere la grande impresa. Prendere quei
fastidiosi insetti, e avere una di quelle fantastiche caramelle al gusto di
merluzzo come ricompensa, era diventato un chiodo fisso per me.
Alcune
mosche si erano posate sui vetri della finestra della cucina ed io,
arrampicandomi lungo il bordo del lavandino, ero saltato sul davanzale interno
appostandomi proprio a tiro sotto di loro. Immobile come una statua non muovevo
neppure un baffo, per timore di farmi scoprire dalle mie prede.
Lasciai
passare ancora qualche istante e poi, con un colpo di zampa ben assestato, ne
afferrai una e nell’eccitazione del momento la inghiottii. Non l’avessi mai
fatto! Quella dispettosa cominciò a dibattersi nella mia gola con un solletico
insopportabile. I conati di vomito non tardarono a farsi sentire, e di lì a
poco mi ritrovai a vomitare sul pavimento.
Altro
che eroe! Avevo fatto la figura dell’incapace. Ma questa volta avrei sfruttato
la situazione a mio favore.
Ingigantendo
il malessere, mi strusciai con sguardo sofferente contro le gambe della mia
padroncina, che pensò bene di ricompensare con il premio sospirato il coraggio
che avevo dimostrato.
Dopotutto
non è così brutta questa sensazione. Socchiudo gli occhi e mi ci abbandono.
Sdraiato nella mia cesta sul balcone di casa mi appisolo dolcemente, mentre i
raggi del sole di prima estate riscaldano il mio pelo setoso. Un gorgoglio di
piacere e di serenità mi riempie la gola. Adesso sono altro da me. Le buffe
mascherine color dell’erba nuova chine su di me sono l’ultima immagine che
scorre nei miei occhi vitrei.
Certo
che di fatti straordinari me ne capitarono così tanti da far venire il pelo
ritto anche al Gatto con gli Stivali, il mio eroe preferito. Come l’assurdo
incidente con quel sacchetto che stavo ispezionando. Sì perché è noto che a noi
gatti piace rovistare per cercare il cibo, piuttosto che trovarlo già pronto
nella ciotola. La pappa pronta è roba per cani mansueti e fedeli; noi felini
amiamo correre qualche rischio per procacciarci il cibo. Ma quella volta le
cose si erano complicate più del previsto.
Avevo
visto gettare dei succulenti rifiuti in un sacchetto di plastica nera, e volevo
accertarmi che non fosse rimasto qualche buon boccone da mangiare. Me ne stavo
lì tranquillo a rovistare e a sbocconcellare quelle delizie, quando non so come
il filo che chiudeva l’apertura del sacchetto mi finì sotto i denti. In men che
non si dica quel malefico mi si infilò giù per la gola facendomi mancare il respiro.
Il cielo volle che la padroncina fosse nei paraggi, e vedendo i rifiuti sparsi
tutt’intorno mi costrinse ad aprire le fauci. Ben presto fu chiaro che il filo
era finito nel mio stomaco, e di lì a breve si sarebbe attorcigliato alle
budella provocandomi dei dolori lancinanti.
Venni
portato al pronto soccorso veterinario per un controllo d’urgenza. Appena
arrivato fui anestetizzato, e la radiografia mostrò il filo scomparso dentro la
mia pancia. Non so come fecero, ma dopo poche ore il filo era stato espulso dal
mio corpo. Il veterinario aveva detto che avrei impiegato almeno un paio di
giorni per smaltire l’anestetico, ma poverino non mi conosceva per niente!
Dopo
tre ore ero già tornato in piena attività; saltellavo allegramente per la casa,
e per festeggiare lo scampato pericolo decisi di assaggiare con un morso quel
grosso cavo nero che si attorcigliava come un serpentello intorno al tavolino
in salotto.
Nessuno
seppe mai con certezza come mai il telefono smise improvvisamente di squillare
nei giorni successivi, ma mi sembrò di cogliere uno sguardo sospettoso negli
occhi dell’uomo con la tuta blu che osservava il cavo tranciato di netto,
quando mi vide aggirarmi nei paraggi.
Cosa
successe invece la sera, in cui dal cielo cominciarono a scendere quelle
palline così incantevolmente lievi e fredde, ancora non riesco a spiegarmelo.
C’era
un gran trambusto intorno alla casa. Un andirivieni di sconosciuti, che per
giorni avevano fatto un gran chiasso portando assi sconnesse di legno tenute
insieme da lunghi pali arrugginiti. Dopo che se ne furono andati, pesanti
impalcature circondavano la casa su due lati. Se durante il giorno mi toccava
starmene rintanato in qualche angolo, la sera potevo finalmente dare sfogo alla
mia curiosità. Me ne uscivo sul balcone, e saltando sulle assi cominciavo un
lungo viaggio sospeso nel vuoto come un novello Indiana Jones. Mi chiedo sempre
se qualcosa sarebbe cambiato nella vita del famoso archeologo, se al suo fianco
avesse avuto un compagno d’avventure indomito come me! Avevo calcolato che per
compiere il giro intorno alla casa impiegavo circa dieci minuti, e mi ero
organizzato in maniera tale da rientrare prima che venisse chiusa per la notte
la porta del balcone.
Ma
quella sera ci fu quella sorpresa dal cielo; quelle stelline che cadevano fitte
fitte, e che sparivano non appena cercavo di afferrarle. Non le avevo mai viste
prima, ed erano così belle che non potevo lasciarmele sfuggire. Mi attardai, e
quando tornai indietro la porta del balcone era già chiusa. Cercai di spingerla
e di strusciare la zampa contro il vetro per farmi sentire, ma invano. A niente
servirono i miei miagolii; erano tutti convinti che fossi già da tempo andato a
dormire. Anche se la mia cesta era vuota, la padroncina sapeva che avevo tanti
nascondigli nella casa in cui amavo trascorrere la notte.
E
quella fu una lunga notte. Rimasi rannicchiato vicino all’armadietto delle
scope per cercare di non disperdere il calore del mio corpo, e pensai a lungo a
quelle stelline luccicanti che rischiaravano il buio delle tenebre.
Quando
la mattina dopo mi trovarono intirizzito sul balcone, non mi lasciai commuovere
dalle loro carezze.
Me
ne andai indispettito nella mia cesta e continuai a starnutire per tutto il
giorno. Ah no che non gliela avrei data vinta! Per almeno due settimane
avrebbero dovuto offrirmi solo i croccantini e i bocconcini più prelibati.
Sono
sempre stato un gatto di compagnia, anche se non ho mai amato particolarmente
le feste. Soprattutto quelle che si festeggiano con grandi esplosioni e scoppi.
Fuochi d’artificio mi sembra li chiamino. Ma per me erano solo botti che mi
facevano tremare i timpani, mi rimbombavano nella testa e mi costringevano a
starmene nascosto per giorni interi. Che gusto ci trovino gli umani in tutto
ciò non l’ho mai capito! So solo che per anni ho dovuto sopportare le
conseguenze della loro baldoria, mentre a me toccava restare in casa tutto solo
con il terrore che una di quelle bombe facesse esplodere la mia cesta. Per
questo cercavo un rifugio più nascosto. Di solito restavo rintanato sotto il
letto, o nell’interstizio dietro il mobile a muro. Un posto alquanto scomodo,
ma più sicuro di un rifugio antiaereo; lì nessun botto per quanto intelligente
avrebbe potuto scovarmi!
E
a niente servivano le moine per cercare di farmi capitolare, ed uscire dal mio
nascondiglio la mattina del Day After. Sordo a qualsiasi richiamo, anche a
quello del cibo, non davo segni di vita.
Una
volta rimasi acquattato in fondo all’armadio per tre giorni di fila.
Solo
il bisogno estremo della lettiera, riuscì infine a farmi crollare. Ma uscii
solo col favore delle tenebre. Nessuno avrebbe dovuto assistere alla mia
debacle. Un gatto che si rispetti fugge, ma non alza mai bandiera bianca.
Il
telo leggero che copre il tavolo operatorio non riesce a smorzarne il gelo
acuto, che irrigidisce il mio corpo immobile nell’attesa. Il torpore dei
muscoli non mi impedisce di percepire suoni ovattati; gocce di sangue cadono
pesanti come pioggia che scivola tra le foglie degli alberi e il pulsare
rallentato del mio cuore assopito.
Crescendo
capii quali erano i miei veri interessi e feci il possibile per coltivarli.
Il
televisore mi aveva sempre incuriosito; quella strana scatola da cui uscivano
suoni, e nella quale stava rinchiuso un mondo in miniatura mi affascinava. O
forse quello che mi attraeva era il potere che esercitava sugli umani, capaci
di stare ore ed ore seduti in adorante contemplazione davanti ad essa.
Il
mio studio degli esseri umani prevedeva anche un certo periodo di tempo
trascorso accanto a loro, preferibilmente accovacciato su un comodo divano, o
disteso in poltrona sotto un caldo plaid. È così che bisogna fare per diventare
parte di un branco mi ha sempre detto l’istinto, ma quello che l’istinto non
sapeva è che così facendo avrei imparato ad affezionarmi a loro.
Se
la televisione mi aveva insegnato a sviluppare il mio senso di appartenenza ad
un gruppo, la carta stampata aveva certamente acuito le mie capacità di
imitazione comportamentale.
Quante
volte li avevo osservati, con le teste chine e assorte, sopra quei fogli che
frusciavano invitanti in quasi ogni stanza della casa. Perfino in bagno c’era
qualcuno che non riusciva a separarsene! Dovevano ben essere importanti e pieni
di attrattive, e chi ero io per privarmi di tanta ricchezza?
Avevo
quindi deciso di partecipare a quella esperienza tipicamente umana e, quando mi
trovai per la prima volta a tu per tu con uno di quei grandi fogli dal
terribile puzzo di petrolio, mi sorse un dubbio.
Qui
non funzionava come con il televisore; non bastava fissarli perché si
animassero ed emettessero suoni. Quei fogli non davano segni di vita,
nonostante ci rimanessi seduto sopra per parecchi minuti.
Pensai
quindi che la mia tattica andasse modificata. Ogni volta che mi sedevo sopra a un foglio cominciavo a lacerarlo con le unghie, riducendolo in tante
striscioline filanti. E così funzionò. Quando un umano mi vedeva così intento a
domare i fogli cominciava a sbraitare cercando di spingermi via. E quando si
accorgeva che non era possibile, abbandonava la presa lasciandomi vincitore sul
campo di battaglia.
Un
gioco che però mi stancò presto.
Pensai
allora di migliorare la mia conoscenza del galateo. Sapersi comportare bene a
tavola è fondamentale per ogni gatto che voglia fare buona impressione in
società.
E
per me era venuto il momento di passare letteralmente dai piani bassi a quelli
alti. Stanco di attendere che un’anima pia mi porgesse qualche bocconcino
prelibato, decisi che avevo diritto al mio posto di commensale a tavola. Per
convincere tutti che era il caso di assegnarmi una sedia, presi a camminare su
e giù per la tavola apparecchiata, annusando qua e là le pietanze in bella
mostra e dando ogni tanto una leccatina di apprezzamento.
In
quattro e quattro otto si trovò una seggiolina tutta per me. Ah, che fantastici
pranzetti ci siamo fatti tutti insieme! Andavo pazzo per le olive in salamoia e
gli stuzzichini di formaggio grana, anche se il mio preferito in assoluto era
il fragrante pollo appena sfornato.
Il
suo profumo celestiale mi faceva comparire all’improvviso, come un fantasma che
si aggira inquieto sul luogo del delitto.
Non
provo dolore quando la lama vellutata del bisturi incide la mia pelle. Il
tintinnio dei ferri, che si muovono veloci dentro di me, mi ricorda il
campanellino d’argento appeso al collarino rosso di cui andavo tanto fiero,
scuotendolo con un elegante cenno del capo per annunciare il mio regale
passaggio. Ma adesso rimane solo il silenzio. Un silenzio denso e scuro come
una notte senza luna.
Corro,
di nuovo agile e leggero come un tempo. La luce che mi avvolge è come una
musica soffusa e carezzevole. Mi fermo per lappare. Non è acqua quella che
scorre incessantemente dalla fonte, ma latte tiepido e profumato. Riprendo il
mio cammino sicuro nell’erba folta che nasconde tesori dai mille sapori. Mi
sazio e lentamente mi adagio sotto una fresca cascatella di soffici piume. Mi
lascio scaldare dai raggi avvolgenti di un sole eterno, che accende di colori
vividi i miei ricordi.
All’improvviso
dalle nuvole posate su un orizzonte rosso fuoco, vedo scendere una pioggia
fitta di perle tremolanti come petali scossi da una brezza malinconica.
“Ehi, che fate? Non piangete, vi prego! Tendete l’orecchio e potrete sentire ancora il
mio campanellino.” Sorrido scuotendo il capo, mentre mi lecco le zampe e le
passo dietro le orecchie.
Adesso
lo so.
Questo
è il giardino, dove i fiori si schiudono al dolce tintinnare dei campanellini
d’argento.
Grazie Stefania, mi hai dato una grande felicità! Ogni volta che rileggo questo racconto mi commuovo e penso all'amico peloso che non c'è più, ma che mi è sempre vicino ����
RispondiEliminaMi sono commossa anch'io a rileggerlo :'(
RispondiEliminaComplimenti Daniela è bellissimo e commovente. In tanti anni ho visto diversi gatti andar via e ognuno era speciale. Penso che la nostra vita sia insipida senza un animale al fianco :)
RispondiEliminaDavvero bello e originale! Complimenti!
RispondiEliminaBravissima Daniela! Veramente bello e commovente. Complimentoni! ��
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