Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

martedì 11 ottobre 2016

Numero 241 - Un bel racconto - 11 Ottobre 2016





IL CAMPANELLINO D’ARGENTO

di

Daniela Quadri

“Ehi, qualcuno mi dà una mano?” Domando, mentre aspetto pazientemente accanto al lettone in ferro battuto nella mia stanza preferita; quella in cui il sole del pomeriggio gioca con i grandi cuscini morbidi, dove mi raggomitolo coprendomi gli occhi con una zampina immacolata.
Vorrei tanto riuscire a salire sul letto con un semplice balzo. Ma ultimamente succedono cose strane. Qualcuno deve aver sollevato il letto da terra, per scherzo o per dispetto. Anche il calorifero sotto la finestra non è più al suo posto, e se voglio curiosare fuori devo lasciarmi prendere e trasportare fin là sopra.
Poco male, la vista da quassù è davvero interessante. I fili tra i pali della luce si piegano dondolando sotto il peso degli uccellini, gonfi come palle da tennis stanche di correre per gli immensi campi celesti.
Ho perso il conto di quante volte il tepore della primavera si è avvicendato al freddo dell’inverno.
E adesso anch’io sento il bisogno di riposare.



«Ma che amore! Piccolo micino, che ci fai qui tutto solo?» Quei suoni incomprensibili arrivavano dolci e suadenti alle mie orecchie piegate all’ingiù, sotto la lieve pioggerellina di marzo. Non sapevo neanch’io come ero capitato lì. Solleticato dalla curiosità mi ero gettato all’inseguimento di un invisibile moscerino che si librava nell’aria, e tutto a un tratto avevo perso il mio mondo. I grandi fari impazziti che mi inseguivano mi avevano spinto a cercare un rifugio temporaneo. Quando quei mostri si fossero ritirati avrei riguadagnato la strada di casa dove sicuramente mi stavano aspettando.
Ma quella voce, come un canto di sirena, mi impediva di scappar via.
«Gatto! Sì, è proprio un bel nome» Dissero, con uno schiocco delle labbra, quelle mani di ragazzina che mi sollevarono da terra.
Stretto al suo petto mi sentivo di nuovo protetto e, quando sollevai la testa per guardarla con i miei occhi verde smeraldo, mi innamorai di lei. Col naso umido annusai la sua mano, e con la lingua smerigliata le dissi “Portami con te, la tua casa mi aspetta!”.

L’uomo col camice bianco gesticola, e quell’odore inconfondibile di paura e dolore che impregna la sua pelle mi rende come sempre irrequieto. Ormai lo riconosco a distanza e vorrei che non si avvicinasse, che non mi toccasse. Una volta gli facevo sudare sette camicie, ma adesso le mie gambe sono malferme e instabili come il mio equilibrio.
“Ahi, non premere così forte. Mi fa tanto male lì. Smettila per favore.” Lo supplico con una smorfia di dolore negli occhi.
Ma lui no, continua a tastarmi la pancia. Scuote la testa. E io capisco tutto dal suo odore. Adesso è ancora più intenso e non promette niente di buono. 

Con quanti nomi strani mi chiamavate, e come ridevate quando vi accorgevate di aver attirato la mia attenzione. Non che io li comprendessi, ma col tempo le vostre voci mi erano diventate familiari, come le vostre smorfie affettuose di cui non potevo più fare a meno. Già dopo pochi mesi, lo spazio ristretto dell’appartamento non riusciva più a soddisfare il mio desiderio di avventura. Agognavo a ben altri orizzonti, e fu così che un giorno decisi di esplorare la grande pianta di oleandro sul terrazzo. Piantai le mie unghie nel tronco rugoso e cominciai a risalire lungo i rami, lasciandomi scivolare fin sulle punte estreme. Raggiunsi la cima dove il fogliame era più tenero, ma le fronde sottili  si aprirono, e invano tentai di aggrapparmi a qualche solido appiglio. Scivolando inesorabilmente mi trovai sbalzato nel vuoto. Non avevo paura, ma solo desiderio di sentire di nuovo la terra sotto le zampe. Istintivamente mi girai nell’aria e il mio volo si concluse tra le braccia di uno sconosciuto.
«Ehi, piovono gatti qui!» Ridevano tra di loro i ragazzi che mi avevano raccolto a mezz’aria.
Dopo qualche leccata di ringraziamento ai miei salvatori, mi ritrovai tra le mura di casa.
Ma sempre di mura si trattava, e il mio spirito indomito si riprese subito dallo spavento.
Il corrimano del balcone della cucina attirava da tempo la mia attenzione. Un pomeriggio decisi di percorrerlo tutto, ignorando il divieto di sconfinare nel balcone dei vicini. Con un balzo piombai sul pavimento, e attraverso la porta-finestra socchiusa mi addentrai alla scoperta di un nuovo mondo.
Cos’erano tutte quelle splendide stoffe lucide sul tavolo? Forse una degna accoglienza per il mio arrivo inaspettato. Senza indugiare oltre mi lanciai su di esse, godendo di quella nuova sensazione sotto i polpastrelli. La mia gioia si spense quando una donna, con un grembiule curioso da cui pendevano strani arnesi taglienti, punte sottili e fili colorati, entrò nella stanza spalancando la bocca con un’espressione sorpresa.
«Guarda un po’ che disastro hai combinato, brigante!» E la sua mano alzata mi fece capire che era meglio rientrare alla base.
Di lì a qualche giorno la fortuna mi diede modo di lavare l’onta subita.
La donna col grembiule si era presentata alla porta di casa. Teneva sulle braccia un pacchetto che consegnò; doveva trattarsi di pantaloni rammendati da quello che riuscii a intravvedere. La vicina fu invitata a entrare e, mentre le veniva offerto un calice di vino dolce, cominciai a girarle attorno acquattandomi il più possibile a terra. I miei cerchi si facevano sempre più stretti e, quando fui certo che nessuno mi prestava attenzione, sferrai l’attacco.
Con un salto acrobatico afferrai uno dei suoi grossi e succulenti polpacci e, senza darle il tempo di emettere un solo grido, lo azzannai di gusto. In un batter baleno scappai lasciando una goccia di sangue che rigava la carne bianca a sola testimonianza della mia vendetta.

La luce intensa e spettrale che piove dalle lampade mi ferisce gli occhi e mi fa tremare. L’odore penetrante del disinfettante mi stordisce.
Un dolore improvviso e acuto sotto la pelle mi scuote per un istante, come la puntura di un insetto molesto che non riesco più a scacciare. Le immagini si fanno sfocate, i colori sbiadiscono e i contorni si perdono in una grigia evanescenza in cui mi lascio cullare.



I miei guai ebbero inizio quando mi accorsi di non essere più l’unico beniamino di casa. Avevano deciso che avevo bisogno di compagnia. Per non sentirmi solo tutto il giorno quando andavano a scuola e al lavoro. Ma qualcuno aveva forse chiesto il mio parere?
I nuovi arrivati erano una coppia di pappagallini gialli, con degli incredibili pennacchi verde mela sulla sommità del capo, che cianciavano tutto il giorno nella loro lingua esotica dall’accento un tantino snob. Il terzo incomodo invece grazie al cielo non possedeva l’uso della parola, e se ne stava tutto il giorno a girare, pavoneggiandosi nella sua livrea rosso fuoco, dentro una boccia di vetro piena d’acqua.
Ormai non avevo scelta; dovevo fare buon viso a cattivo gioco, e così decisi con grande spirito di ospitalità di dare il mio personale benvenuto ai miei coinquilini.
Avevo più volte tentato di scambiare qualche convenevole con i Signori Cocorito, ma i due avevano sempre altezzosamente ignorato la mia presenza. Quella mattina però non ero dell’umore giusto, e non ero disposto ad accettare oltre tanta maleducazione. Mentre la Signora Cocorito era occupata con la toilette mattutina, mi avvicinai al Signor Cocorito che se ne stava appollaiato sull’asticella della gabbietta e, appoggiando il muso tra le sbarre, infilai una zampa cercando di stringergli la mano come d’uso tra gentiluomini. E cosa ti combina quel rozzo villano? Così all’improvviso mi tirò una gran beccata sul naso, che sfortuna vuole mi si era incastrato tra le sbarre.
Poi tutti e due si misero a starnazzare come le Oche del Campidoglio. Neanche avessi tentato di intrufolarmi in casa loro senza invito!  Da tutte le stanze accorsero in loro soccorso; volevano salvarli dalle grinfie del gatto malvagio. E, nel gran putiferio che si era scatenato, alla fine ci rimediai pure un paio di scapaccioni ben assestati sul groppone.
Ecco quello che ci si guadagna a essere ben educati in questo mondo ingrato!

Tutta un’atra storia invece fu l’incontro con Mr. Fish. I suoi modi molto British erano veramente impeccabili, anche se devo dire un po’ troppo freddi e distaccati per il mio carattere felino passionale ed estroverso. Amavo trascorrere i pomeriggi appoggiato al bordo della boccia di vetro residenza di Mr. Fish, lappando di tanto in tanto quel liquido saporito che mi faceva venire l’acquolina in bocca. Certo è che la mancanza di favella di Mr. Fish rendeva noiose le ore trascorse in sua compagnia, e fu allora che pensai di movimentare un po’ le cose, rendendo per così dire la nostra conoscenza più intima. Mi ero messo in mente che forse l’essere così taciturno di Mr. Fish dipendesse da tutta quell’acqua che lo circondava, e che sicuramente gli riempiva anche la bocca. In quelle condizioni sfido chiunque a riuscire a proferire parola! Se lo avessi tolto da lì, certamente la nostra conversazione ne avrebbe guadagnato. Detto fatto mi appoggiai sulle zampe posteriori e con quelle anteriori cercai di aiutare Mr. Fish ad uscire dalla sua prigione, ma quello invece di collaborare continuava a sgusciarmi tra le zampe. La pazienza si sa non è una delle doti proverbiali di noi gatti, e fu così che ad un certo punto mi spazientii di fronte a tanto divincolarsi, e con un colpo di genio presi a colpire l’acqua con le zampe gettandola fuori dalla boccia. Quando ebbi versato metà dell’acqua sul tappeto, Mr. Fish si ritrovò a sbattere in preda alle convulsioni sul pavimento. Credetemi, in quel momento mi prese un tale spavento che avrei voluto fuggire via. Ma poi, come al solito, il mio animo nobile e generoso ebbe il sopravvento. Restai lì a guardarlo, e ogni tanto gli davo un colpetto con la zampa pensando che questo l’avrebbe aiutato nel suo incessante girarsi e rigirarsi.
Anche quella volta la fortuna non mi fu amica. La tragedia di Mr. Fish si stava consumando che ormai il sole era calato, e fu proprio allora che la porta di casa si aprì. Eccoli erano tornati, chi dal lavoro e chi dalla palestra, ma credete forse che mi abbiano ringraziato per il pronto intervento e l’ amorevole assistenza prestati a Mr. Fish? Neanche per idea! Anche stavolta fui ingiustamente accusato di essere il colpevole, e allontanato dalla boccia dentro la quale era stato prontamente ributtato il subdolo Mr. Fish, che dopo l’accaduto continuò imperterrito a farmi assurde e grottesche boccacce dal suo inespugnabile nascondiglio.
Memore delle precedenti esperienze con  miei coinquilini, decisi che non avrei più dato confidenza ad alcun essere vivente. Ero o non ero un gatto? E allora come si addice ai miei simili mi sarei dedicato alla caccia, piuttosto che a cercare di stringere rapporti di buon vicinato.
Ma anche la caccia non diede i risultati sperati. Un giorno passeggiavo tranquillamente sul terrazzo quando udii uno strano pigolio. Mi avvicinai quatto quatto, non mi sarei lasciato assalire da qualche belva ignota. In un angolo tra due vasi di gerani rossi c’era un esserino tremante. A dire il vero mi sembrò alquanto brutto; spelacchiato e incapace di saltare e correre sulle corte gambette, mi faceva un po’ pena e un po’ ribrezzo. Mentre il piccolo emetteva il suo richiamo sempre più acuto ed insistente, vidi nel cielo una sagoma nera che volteggiava inquieta. Un merlo, ecco cos’era, e quello doveva essere uno dei piccoli caduto dal nido.
Ancora una volta non seppi resistere al mio istinto di buon samaritano e, avvicinandomi con cautela all’uccellino spaurito, lo presi tra le fauci con molta delicatezza. Fu un gesto protettivo e cercai di non fargli del male, tenendomi al tempo stesso a debita distanza dal suo beccuccio appuntito.
Col piccolo in bocca andai dritto in cucina, e tutto fiero lo posai davanti ai piedi della mia padroncina. Questa volta ero certo avrei avuto la mia giusta ricompensa per la cattura così magistralmente effettuata.
Ma un grido di spavento mi fece rapidamente cambiare idea. Invertii immediatamente la rotta e me la diedi a gambe levate. Non mi sarei fatto rimproverare e strapazzare per un gesto di pura umanità!
Arrivò l’estate e le mosche che entravano dalle finestre aperte si posavano ovunque.
Tutti si davano un gran daffare per liberarsene colpendole con strofinacci, e menando manate a vuoto nell’aria.
Quel gioco mi sembrava divertente ed ero sicuro che, laddove gli altri fallivano miseramente, io sarei riuscito a compiere la grande impresa. Prendere quei fastidiosi insetti, e avere una di quelle fantastiche caramelle al gusto di merluzzo come ricompensa, era diventato un chiodo fisso per me.
Alcune mosche si erano posate sui vetri della finestra della cucina ed io, arrampicandomi lungo il bordo del lavandino, ero saltato sul davanzale interno appostandomi proprio a tiro sotto di loro. Immobile come una statua non muovevo neppure un baffo, per timore di farmi scoprire dalle mie prede.
Lasciai passare ancora qualche istante e poi, con un colpo di zampa ben assestato, ne afferrai una e nell’eccitazione del momento la inghiottii. Non l’avessi mai fatto! Quella dispettosa cominciò a dibattersi nella mia gola con un solletico insopportabile. I conati di vomito non tardarono a farsi sentire, e di lì a poco mi ritrovai a vomitare sul pavimento.
Altro che eroe! Avevo fatto la figura dell’incapace. Ma questa volta avrei sfruttato la situazione a mio favore.
Ingigantendo il malessere, mi strusciai con sguardo sofferente contro le gambe della mia padroncina, che pensò bene di ricompensare con il premio sospirato il coraggio che avevo dimostrato.

Dopotutto non è così brutta questa sensazione. Socchiudo gli occhi e mi ci abbandono. Sdraiato nella mia cesta sul balcone di casa mi appisolo dolcemente, mentre i raggi del sole di prima estate riscaldano il mio pelo setoso. Un gorgoglio di piacere e di serenità mi riempie la gola. Adesso sono altro da me. Le buffe mascherine color dell’erba nuova chine su di me sono l’ultima immagine che scorre nei miei occhi vitrei.

Certo che di fatti straordinari me ne capitarono così tanti da far venire il pelo ritto anche al Gatto con gli Stivali, il mio eroe preferito. Come l’assurdo incidente con quel sacchetto che stavo ispezionando. Sì perché è noto che a noi gatti piace rovistare per cercare il cibo, piuttosto che trovarlo già pronto nella ciotola. La pappa pronta è roba per cani mansueti e fedeli; noi felini amiamo correre qualche rischio per procacciarci il cibo. Ma quella volta le cose si erano complicate più del previsto.
Avevo visto gettare dei succulenti rifiuti in un sacchetto di plastica nera, e volevo accertarmi che non fosse rimasto qualche buon boccone da mangiare. Me ne stavo lì tranquillo a rovistare e a sbocconcellare quelle delizie, quando non so come il filo che chiudeva l’apertura del sacchetto mi finì sotto i denti. In men che non si dica quel malefico mi si infilò giù per la gola facendomi mancare il respiro. Il cielo volle che la padroncina fosse nei paraggi, e vedendo i rifiuti sparsi tutt’intorno mi costrinse ad aprire le fauci. Ben presto fu chiaro che il filo era finito nel mio stomaco, e di lì a breve si sarebbe attorcigliato alle budella provocandomi dei dolori lancinanti.
Venni portato al pronto soccorso veterinario per un controllo d’urgenza. Appena arrivato fui anestetizzato, e la radiografia mostrò il filo scomparso dentro la mia pancia. Non so come fecero, ma dopo poche ore il filo era stato espulso dal mio corpo. Il veterinario aveva detto che avrei impiegato almeno un paio di giorni per smaltire l’anestetico, ma poverino non mi conosceva per niente!
Dopo tre ore ero già tornato in piena attività; saltellavo allegramente per la casa, e per festeggiare lo scampato pericolo decisi di assaggiare con un morso quel grosso cavo nero che si attorcigliava come un serpentello intorno al tavolino in salotto.
Nessuno seppe mai con certezza come mai il telefono smise improvvisamente di squillare nei giorni successivi, ma mi sembrò di cogliere uno sguardo sospettoso negli occhi dell’uomo con la tuta blu che osservava il cavo tranciato di netto, quando mi vide aggirarmi nei paraggi.
Cosa successe invece la sera, in cui dal cielo cominciarono a scendere quelle palline così incantevolmente lievi e fredde, ancora non riesco a spiegarmelo.
C’era un gran trambusto intorno alla casa. Un andirivieni di sconosciuti, che per giorni avevano fatto un gran chiasso portando assi sconnesse di legno tenute insieme da lunghi pali arrugginiti. Dopo che se ne furono andati, pesanti impalcature circondavano la casa su due lati. Se durante il giorno mi toccava starmene rintanato in qualche angolo, la sera potevo finalmente dare sfogo alla mia curiosità. Me ne uscivo sul balcone, e saltando sulle assi cominciavo un lungo viaggio sospeso nel vuoto come un novello Indiana Jones. Mi chiedo sempre se qualcosa sarebbe cambiato nella vita del famoso archeologo, se al suo fianco avesse avuto un compagno d’avventure indomito come me! Avevo calcolato che per compiere il giro intorno alla casa impiegavo circa dieci minuti, e mi ero organizzato in maniera tale da rientrare prima che venisse chiusa per la notte la porta del balcone.
Ma quella sera ci fu quella sorpresa dal cielo; quelle stelline che cadevano fitte fitte, e che sparivano non appena cercavo di afferrarle. Non le avevo mai viste prima, ed erano così belle che non potevo lasciarmele sfuggire. Mi attardai, e quando tornai indietro la porta del balcone era già chiusa. Cercai di spingerla e di strusciare la zampa contro il vetro per farmi sentire, ma invano. A niente servirono i miei miagolii; erano tutti convinti che fossi già da tempo andato a dormire. Anche se la mia cesta era vuota, la padroncina sapeva che avevo tanti nascondigli nella casa in cui amavo trascorrere la notte.
E quella fu una lunga notte. Rimasi rannicchiato vicino all’armadietto delle scope per cercare di non disperdere il calore del mio corpo, e pensai a lungo a quelle stelline luccicanti che rischiaravano il buio delle tenebre.
Quando la mattina dopo mi trovarono intirizzito sul balcone, non mi lasciai commuovere dalle loro carezze.
Me ne andai indispettito nella mia cesta e continuai a starnutire per tutto il giorno. Ah no che non gliela avrei data vinta! Per almeno due settimane avrebbero dovuto offrirmi solo i croccantini e i bocconcini più prelibati.
Sono sempre stato un gatto di compagnia, anche se non ho mai amato particolarmente le feste. Soprattutto quelle che si festeggiano con grandi esplosioni e scoppi. Fuochi d’artificio mi sembra li chiamino. Ma per me erano solo botti che mi facevano tremare i timpani, mi rimbombavano nella testa e mi costringevano a starmene nascosto per giorni interi. Che gusto ci trovino gli umani in tutto ciò non l’ho mai capito! So solo che per anni ho dovuto sopportare le conseguenze della loro baldoria, mentre a me toccava restare in casa tutto solo con il terrore che una di quelle bombe facesse esplodere la mia cesta. Per questo cercavo un rifugio più nascosto. Di solito restavo rintanato sotto il letto, o nell’interstizio dietro il mobile a muro. Un posto alquanto scomodo, ma più sicuro di un rifugio antiaereo; lì nessun botto per quanto intelligente avrebbe potuto scovarmi!
E a niente servivano le moine per cercare di farmi capitolare, ed uscire dal mio nascondiglio la mattina del Day After. Sordo a qualsiasi richiamo, anche a quello del cibo, non davo segni di vita.
Una volta rimasi acquattato in fondo all’armadio per tre giorni di fila.
Solo il bisogno estremo della lettiera, riuscì infine a farmi crollare. Ma uscii solo col favore delle tenebre. Nessuno avrebbe dovuto assistere alla mia debacle. Un gatto che si rispetti fugge, ma non alza mai bandiera bianca.
Il telo leggero che copre il tavolo operatorio non riesce a smorzarne il gelo acuto, che irrigidisce il mio corpo immobile nell’attesa. Il torpore dei muscoli non mi impedisce di percepire suoni ovattati; gocce di sangue cadono pesanti come pioggia che scivola tra le foglie degli alberi e il pulsare rallentato del mio cuore assopito.  

Crescendo capii quali erano i miei veri interessi e feci il possibile per coltivarli.
Il televisore mi aveva sempre incuriosito; quella strana scatola da cui uscivano suoni, e nella quale stava rinchiuso un mondo in miniatura mi affascinava. O forse quello che mi attraeva era il potere che esercitava sugli umani, capaci di stare ore ed ore seduti in adorante contemplazione davanti ad essa.
Il mio studio degli esseri umani prevedeva anche un certo periodo di tempo trascorso accanto a loro, preferibilmente accovacciato su un comodo divano, o disteso in poltrona sotto un caldo plaid. È così che bisogna fare per diventare parte di un branco mi ha sempre detto l’istinto, ma quello che l’istinto non sapeva è che così facendo avrei imparato ad affezionarmi a loro.
Se la televisione mi aveva insegnato a sviluppare il mio senso di appartenenza ad un gruppo, la carta stampata aveva certamente acuito le mie capacità di imitazione comportamentale.
Quante volte li avevo osservati, con le teste chine e assorte, sopra quei fogli che frusciavano invitanti in quasi ogni stanza della casa. Perfino in bagno c’era qualcuno che non riusciva a separarsene! Dovevano ben essere importanti e pieni di attrattive, e chi ero io per privarmi di tanta ricchezza?
Avevo quindi deciso di partecipare a quella esperienza tipicamente umana e, quando mi trovai per la prima volta a tu per tu con uno di quei grandi fogli dal terribile puzzo di petrolio, mi sorse un dubbio.
Qui non funzionava come con il televisore; non bastava fissarli perché si animassero ed emettessero suoni. Quei fogli non davano segni di vita, nonostante ci rimanessi seduto sopra per parecchi minuti.
Pensai quindi che la mia tattica andasse modificata. Ogni volta che mi sedevo sopra a un foglio cominciavo a lacerarlo con le unghie, riducendolo in tante striscioline filanti. E così funzionò. Quando un umano mi vedeva così intento a domare i fogli cominciava a sbraitare cercando di spingermi via. E quando si accorgeva che non era possibile, abbandonava la presa lasciandomi vincitore sul campo di battaglia.
Un gioco che però mi stancò presto.
Pensai allora di migliorare la mia conoscenza del galateo. Sapersi comportare bene a tavola è fondamentale per ogni gatto che voglia fare buona impressione in società.
E per me era venuto il momento di passare letteralmente dai piani bassi a quelli alti. Stanco di attendere che un’anima pia mi porgesse qualche bocconcino prelibato, decisi che avevo diritto al mio posto di commensale a tavola. Per convincere tutti che era il caso di assegnarmi una sedia, presi a camminare su e giù per la tavola apparecchiata, annusando qua e là le pietanze in bella mostra e dando ogni tanto una leccatina di apprezzamento.
In quattro e quattro otto si trovò una seggiolina tutta per me. Ah, che fantastici pranzetti ci siamo fatti tutti insieme! Andavo pazzo per le olive in salamoia e gli stuzzichini di formaggio grana, anche se il mio preferito in assoluto era il fragrante pollo appena sfornato.
Il suo profumo celestiale mi faceva comparire all’improvviso, come un fantasma che si aggira inquieto sul luogo del delitto.
 
Non provo dolore quando la lama vellutata del bisturi incide la mia pelle. Il tintinnio dei ferri, che si muovono veloci dentro di me, mi ricorda il campanellino d’argento appeso al collarino rosso di cui andavo tanto fiero, scuotendolo con un elegante cenno del capo per annunciare il mio regale passaggio. Ma adesso rimane solo il silenzio. Un silenzio denso e scuro come una notte senza luna.

Corro, di nuovo agile e leggero come un tempo. La luce che mi avvolge è come una musica soffusa e carezzevole. Mi fermo per lappare. Non è acqua quella che scorre incessantemente dalla fonte, ma latte tiepido e profumato. Riprendo il mio cammino sicuro nell’erba folta che nasconde tesori dai mille sapori. Mi sazio e lentamente mi adagio sotto una fresca cascatella di soffici piume. Mi lascio scaldare dai raggi avvolgenti di un sole eterno, che accende di colori vividi i miei ricordi.
All’improvviso dalle nuvole posate su un orizzonte rosso fuoco, vedo scendere una pioggia fitta di perle tremolanti come petali scossi da una brezza  malinconica.
“Ehi, che fate? Non piangete, vi prego! Tendete l’orecchio e potrete sentire ancora il mio campanellino.” Sorrido scuotendo il capo, mentre mi lecco le zampe e le passo dietro le orecchie.
Adesso lo so.
Questo è il giardino, dove i fiori si schiudono al dolce tintinnare dei campanellini d’argento.




5 commenti:

  1. Grazie Stefania, mi hai dato una grande felicità! Ogni volta che rileggo questo racconto mi commuovo e penso all'amico peloso che non c'è più, ma che mi è sempre vicino ����

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  2. Mi sono commossa anch'io a rileggerlo :'(

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  3. Complimenti Daniela è bellissimo e commovente. In tanti anni ho visto diversi gatti andar via e ognuno era speciale. Penso che la nostra vita sia insipida senza un animale al fianco :)

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  4. Davvero bello e originale! Complimenti!

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  5. Bravissima Daniela! Veramente bello e commovente. Complimentoni! ��

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