lunedì 24 marzo 2014

Numero 199 - Magazine 7, Van Gogh in primo piano - 24 Marzo 2014


Magazine n° 7
24 Marzo 2014

Voglio dedicare l'intero numero del Magazine di questa settimana a Cinzia che da più di un mese ci regala servizi degni di una grande rivista, su pittori famosi!
Voglio dirle G.R.A.Z.I.E per il tempo che dedica alla costruzione di questo Blog che vuole mantenere un suo "STILE" che sia volto esclusivamente al positivo, trattando argomenti culturali e motivazionali, senza cadere mai nella "rissa" che fa tanto audience in altri luoghi;-)

Grazie, quindi, a Cinzia per l'impegno che mette ogni settimana nel proporci la vita di un pittore con le sue opere, arricchendo il nostro sapere. Grazie a chi ci segue con affetto, a chi dedica qualche minuto del suo tempo per lasciare un pensiero, un'opinione, un suggerimento.

Grazie a tutti e buona settimana!



Vincent Van Gogh
(1853 – 1890)
a cura di Cinzia


Vincent si dedica alla pittura per ribellarsi ad una società pragmatistica che lo ha sempre respinto, considerando il profitto come unico fine del lavoro; costantemente colmo d’angoscia, si è sempre interrogato sul significato dell’esistenza, del proprio essere nel mondo.

Quando si fece pastore e poi missionario tra i minatori del Borinage, in Belgio, viene espulso anche dalla Chiesa, solidale con i padroni.

Si può dire che diventi pittore per disperazione, non per vocazione; a trent’anni si rifugia tra colori e pennelli, pagando questa sua rivolta con il manicomio ed il suicidio.

Nel primo periodo, in Olanda, si concentra sulla miseria e sulla disperazione dei contadini, causata dall’industrialismo che prospera nelle città, portando carestia nelle campagne, privando oltre che la gioia di vivere, perfino la luce ed i colori.

Dipinge la loro condizione con toni cupi, bui, sono quadri monocromatici:

(I mangiatori di patate – 1885)

Questo è il dipinto più importante del periodo olandese, Vincent lo considera (anche in seguito) uno dei suoi capolavori, nel quale è impressa un’immagine di grande crudezza e realismo: Vincent esalta la grossolanità dei personaggi, usando colori scuri e sporchi.

In una lettera al fratello spiega di aver voluto sottolineare come “questa gente ha zappato la terra con le stesse mani nodose che ora protende nel piatto” ed aggiunge “parlo del lavoro manuale e di come essi si sono guadagnati onestamente il cibo.”

Le figure appaiono isolate, i loro sguardi non si incrociano e la ragazzina in ombra, di spalle, è un fattore di distanziamento che esclude dalla scena lo spettatore.

Questo quadro rimane un “manifesto” del suo credo artistico e sociale: il suo “quadro di storia” più significativo.

Nel 1886, si stabilisce a Parigi dal fratello Theo, conosce gli impressionisti e trasferisce questo suo cambiamento sulle tele, proponendo un cromatismo violento.

Abbandona i temi sociali perché capisce che l’arte non deve essere uno strumento, ma un agente di trasformazione della società e più precisamente, un’esperienza che l’uomo fa del mondo; l’arte deve inserirsi come una forza attiva nella società, una luminosa verità contro la crescente tendenza all’alienazione.

Anche la tecnica della pittura deve mutare, opporsi alla tecnica meccanica dell’industria, non si tratta più di rappresentare il mondo in modo superficiale o profondo: ogni segno di Vincent è un “gesto” con cui affronta la realtà per cogliere e far proprio il suo contenuto essenziale, la vita, quella vita che la società borghese, col suo lavoro alienante, estingue nell’uomo.

Vincent cerca in tutti i modi di dipingere la realtà nella sua espressione più vera, una percezione della realtà nella sua esistenza “qui ed ora”, una pittura vera fino all’esasperazione, all’assurdo, al delirio, al tragico, alla morte.

Si può osservare come fa il ritratto del postino Roulin, uno dei suoi migliori amici ed uno dei più fedeli della sua vita:

 ( Ritratto di Joseph Roulin – 1888)

Che sia un postino si vede dall’uniforme turchina e gallonata, dalla scritta cubitale sul berretto: la dominante coloristica del quadro è proprio lo spicco del giallo-oro sul blu della stoffa.

Non c’è alcun interesse sociale , Vincent non ritrae il signor Roulin perché sia un postino, né perché lo interessi come tipo umano.

E’ una realtà che non giudica né commenta: può solo subirla passivamente oppure rifarla con gli atti mestieranti del pittore.

Infatti, VIVE lo spessore del panno nella densità opaca del turchino, la ruvidezza spinosa della barba in un intreccio di secche pennellate, non divagando sull’ambiente.

Vincent sembra riflettere: la realtà è altro da me, ma senza l’altro io non avrei coscienza del mio essere, io, non sarei; quanto più l’altro è altro, diverso, incomunicante, tanto io sono io, tanto meglio scopro la mia identità, il senso-non-senso del mio essere nel mondo.

Il “tragico” nel ritratto del postino Roulin è vedere la realtà e vedersi nella realtà con lucida evidenza; è tragico riconoscere il nostro limite nel limite delle cose e non potersene liberare.

E’ tragico, di fronte alla realtà, non poterla contemplare, ma dover fare e fare con passione e furia: lottare per impedire che la sua esistenza distrugga la nostra.

L’arte diventa “mestiere di vivere”, Vincent contrappone questo, disperatamente, al lavoro meccanico dell’industria, che non è vita.

Certamente, a livello stilistico, non è facile farlo rientrare in una categoria, anche nel suo periodo, prolifero di movimenti, dall’Impressionismo al Simbolismo, dal Decadentismo al Futurismo.

Vincent porta a compimento la propria formazione tra un fermento di stili ed orientamenti, ma, nonostante il suo interesse ai movimenti più progressisti, non fa parte né dell’Impressionismo, né del Pointillisme, né può essere considerato un simbolista: Vincent si costruisce uno stile che rimane soltanto suo, personalissimo.

Sperimenta, senza sosta, l’espressività del colore e l’uso di pennellate diverse, allungate, puntinate, a virgola, per trasmettere sulla tela i suoi stati d’animo.

Vincent spiega a Gauguin che i colori assumono, per lui, il significato di “concetti poetici”, la loro intensificazione o distorsione, gli permettono di raggiungere la tanto cercata fusione tra percezione visiva e psichica.

Insieme alle esperienze parigine, giunge a maturazione lo studio delle stampe giapponesi che indirizza Vincent verso una semplificazione delle forme.

In questo periodo, Vincent si trasferisce in Provenza, ad Arles nella Casa Gialla con Gauguin: i loro caratteri e le propensioni artistiche si scontrano; nonostante questo, accade un avvicinamento stilistico nel quadro “ Ricordo del giardino di Etten – 1888”


Questo quadro è attraversato da un’atmosfera misteriosa, risentendo dell’ascendenza di Gauguin, del quale Vincent ha un’enorme ammirazione, lo considera la sua “guida”.

Tra i due amici esiste una differenza sostanziale: tanto Gauguin vuole allontanarsi dalla realtà, quanto Vincent vuole coglierne l’emozione.

Ma le tensioni tra i due amici aumentano, al punto che una notte Vincent (già preda di un forte esaurimento), vedendo uscire Gauguin di casa, si mutila l’orecchio destro con un rasoio e lo consegna ad una prostituta; ritorna a casa, dove il giorno seguente viene trovato, svenuto, dalla polizia.

Gauguin che ha dormito in albergo, scoperto l’esito della nottata, riparte per Parigi senza vedere l’amico, limitandosi ad avvertire Theo, il fratello di Vincent.

Dopo due settimane di ospedale, dipinge in più tele il proprio autoritratto con l’orecchio bendato:

 (Autoritratto con l’orecchio bendato – 1889)

In questo autoritratto, il suo sguardo sfugge quello dell’osservatore e la pennellata è spezzata in piccoli tratti verticali, accidentati.

La giacca abbottonata ed il cappello in testa contribuiscono a trasmettere un senso di chiusura; Vincent parla tranquillamente delle proprie condizioni, rendendosi conto di incutere paura alla gente.

In seguito, una seconda crisi nervosa costringe Vincent ad un nuovo ricovero, una volta dimesso riprende a lavorare, ma i cittadini di Arles firmano una petizione, chiedendone l’internamento.

Vincent non si oppone, ma, in una lettera al fratello scrive “Sogno di accettare con fermezza il mio mestiere di pazzo, ma ecco, non mi sento proprio la forza necessaria per assumere questo ruolo.”

Ma, Vincent decide di farsi ricoverare nel manicomio di Saint-Remy, non lontano da Arles, dicendo che non riesce più a vivere da solo.

In questa struttura, Vincent non riceve alcuna cura specifica, ha il permesso di dipingere anche fuori del ricovero.

Il luogo gli trasmette tranquillità, ma, l’atmosfera deprimente gli infonde uno stato di malinconia esistenziale, perdendo ogni speranza di guarigione.

Vive nel terrore di essere assalito da nuovi attacchi allucinatori, dei quali parla con orrore, riferendosi alla pittura come la salvezza dall’abulia totale.

In questo periodo dipinge molto, il suo stile è ancora in evoluzione, verso una sempre maggiore espressività; la sua fonte d’ispirazione è la natura, un esempio è “ Il giardino di Saint-Paul – 1889:


In questo quadro si nota il richiamo alle linee decorative dell’arte giapponese, evocate nell’andamento contorto di alcuni tronchi.

Anche il cielo diventa ornamento, attraverso l’uso della pennellata a virgola, differenziandolo solo nel colore rispetto alle chiome degli alberi, tanto che l’orizzonte sembra non esistere.

La superficie della tela sembra ondeggiare, dando l’impressione di una ripresa in movimento.

Pochi mesi dopo, Vincent è preda di una fortissima crisi che lo getta in una profonda depressione, ancora più aggravata dalla proibizione di dipingere, imposta dai medici, poiché nel corso dell’ultimo attacco ha tentato di ingerire dei colori.

Ad un anno dal suo ricovero, nel 1890, Vincent lascia la Provenza per andare a Parigi; gli ultimi mesi sono stati sereni, dieci dei suoi dipinti di Arles e Saint-Remy hanno ricevuto grandi apprezzamenti alla nuova esposizione degli Indépendants, soprattutto da parte dei colleghi, tra cui Monet, Pissarro, Bernard  e perfino Gauguin gli ha scritto una lettera colma di complimenti.

Qui, incontra l’eccentrico dottor Gachet (amico di Victor Hugo, Paul Cézanne, Camille Pissarro) che entra immediatamente in sintonia con Vincent, il quale incontra finalmente qualcuno con cui condividere i suoi interessi, le proprie vedute sull’arte.

Vincent trova in Gachet il tanto cercato modello e, dopo sole due settimane di conoscenza, si appresta a ritrarlo, lavorando molto intensamente:

 (Ritratto del dottor Gachet – 1890)

Il dipinto è estremamente innovativo, l’artista abbandona le pose statiche  e convenzionali dei ritratti eseguiti ad Arles, cogliendo l’amico in un gesto familiare.

Nell’espressione triste di Gachet, Vincent vede “l’espressione disillusa del nostro tempo.”

Ci sono diversi tipi di pennellata nell’opera: il piano del tavolo è steso in modo piatto, mentre la giacca ed una parte dello sfondo hanno tratti curvilinei; la parte superiore dell’opera, è riempita con incroci ortogonali che hanno caratterizzato i ritratti provenzali.

A turbare questo equilibrio tra Vincent e Gachet sono una serie di problemi capitati al fratello Theo (la moglie ed il figlio si ammalano gravemente), come sempre Vincent se ne sente in colpa e viene attanagliato dall’angoscia; ha un diverbio con Gachet e rompe ogni rapporto con lui.

Terrorizzato all’idea di subire nuovi attacchi depressivi, il 27 luglio 1890 si spara un colpo di pistola, nei campi.

Si ferisce soltanto, ma muore due giorni dopo, il 29 luglio 1890, avendo completamente perso la volontà di vivere.

***

Per Vincent, lo strumento principale per esprimere sentimenti trasmessi dalla natura è il colore, è convinto che la “cromia” sia il miglior modo per esprimere la propria soggettività e comunicarla agli altri.

Oltre al colore, usava la pennellata quale mezzo espressivo: personalissima, sempre in evoluzione con tratti, puntini, virgole, spirali.

Vincent ricercò, durante la sua vita artistica, l’autenticità della visione, un’interpretazione sincera di un modello realmente esistente.

Camille Pissarro disse di lui : “Costui o diventerà pazzo, o ci farà mangiare la polvere a tutti quanti.
Se poi farà l’uno e l’altro, non sono in grado di prevederlo.”

 (Campo di grano con corvi – 1890)


lunedì 17 marzo 2014

Numero 198 - Magazine n° 6 "Cosa c'è sotto?" - 17 Marzo 2014



Rivista on line 
numero 6
del 17 Marzo 2014

In questo numero:
- Cosa c'è sotto? Di Stefania Convalle
- Vecchi diari. Di Stefania Convalle
- Joan Mirò. Di Cinzia in arte Fidanzacinzia


Cosa c'è sotto?

La fotografia dell'iceberg mi ha suggerito alcune considerazioni: ma cosa c'è sotto?
La prima cosa che mi è venuta in mente, reduce da qualche mese da un corso di medicina cinese, è che l'iceberg ben rappresenta l'approccio alla medicina vista da Oriente e vista da Occidente. L'Occidente, tendenzialmente, cura il sintomo e quindi la parte "visibile" dell'iceberg, mentre l'Oriente va a cercare la causa e per far questo prende in considerazione la persona nel suo insieme di corpomentespirito.

Ma a parte questa piccola dissertazione, la fotografia mi sembra una bella metafora per chiederci, senza farne una domanda velata di diffidenza: cosa c'è sotto?

Cosa c'è sotto, per esempio, a certi comportamenti che abbiamo e che notiamo negli altri, durante la vita?
Siamo capaci di "guardare oltre", o per meglio dire, riferendosi sempre alla foto in questione, andare in profondità nei rapporti con gli altri? 

Ci chiediamo, quando conosciamo qualcuno, cosa ci sia dietro la maschera che si indossa ogni giorno?

(Foto di Gianluca Sgattoni - fotografo emozionale)

(Foto di Gianluca Sgattoni - fotografo emozionale)

Prendo in prestito queste due belle foto di Gianluca Sgattoni,il fotografo emozionale che ci sta accompagnando in questi ultimi numeri della rivista, dove ci mostra delle maschere. E ben si sposano col nostro quesito di oggi: ma sappiamo davvero chi abbiamo davanti? In questa vita frenetica, fatta di rapporti virtuali e, a volte, superficiali, ci prendiamo la briga di fermarci a parlare davvero con gli altri, per conoscere l'anima e il cuore delle persone, cosa si portano dentro, il loro bagaglio di vita?

Vale la pena di chiederselo.
Secondo me.

Vecchi diari

Qualche tempo fa, sistemando casa, ho ritrovato un piccolo quadernino che fu il primo diario di mia madre, quello che iniziò a scrivere più di 70 anni fa, nel 1943, quando era una bambina di 10 anni.
A parte l'emozione di me-figlia nel leggere quelle parole che mi hanno ricordato parte del  suo background, sono rimasta colpita da un paio di paginette che raccontano, dal punto di vista di una bambina, i momenti di un bombardamento durante la seconda guerra, la paura, la fuga, la prepotenza dei tedeschi, l'arrivo degli inglesi e con un distacco emotivo dettato dall'innocenza della bambina stessa, quella frase terribile finale in cui racconta che "molta gente non era così contenta perché aveva perso i parenti nei bombardamenti o i tedeschi li avevano portati via."

A ognuno, le proprie riflessioni.





Joan Mirò
(1893 – 1983)


E’ un artista dalla personalità introversa, poco espansiva anche se profondamente gentile; nel suo intimo, esuberante per una inesauribile proliferazione di idee, di forme, di sentimenti contrastanti.

Lui stesso afferma “Sono di indole tragica, taciturna, tutto mi disgusta: la vita mi sembra assurda.” Ha, dunque, un carattere meditativo, spesso afflitto, in lotta con se stesso.

In apparenza, la sua arte è lontana da qualsiasi schema, selvaggia, ma, in realtà, rigorosamente calibrata, come il suo stesso temperamento; non bisogna lasciarsi ingannare dai magheggi del suo processo creativo, né dall’illusoria infantilità di certe sue espressioni figurali.

Nell’arte di Mirò ci sono delle “costanti”; per esempio, la tendenza verso un genere di composizione decisamente asimmetrica con conseguente ricerca del vuoto come elemento principale dell’opera, pur nel garbuglio di figure e di segni ed una decisa presenza di un colore timbrico.

La ricerca di una nuova spazialità non più volumetrica, diversa sia da quelle naturalistica, surreale che cubista, la creazione di un “alfabetario” di segni e l’aspetto grafico-decorativo del “lettering” per raggiungere anche nell’opera grafica di tipo pubblicitario una dignità che si ritrova nelle opere di arte “pura”.

A partire dal dipinto fondamentale “La fattoria” (1921 – 1922)


l’artista assume definitivamente la sua personalità d’inventore autonomo.

Le immagini più ricorrenti nei dipinti e nelle opere grafiche e plastiche di Mirò sono astri, soli, lune, esseri all’apparenza umana ed animalesca, elementi di origine sessuale, segni a forma di virgole, di accenti, di asterischi.

I “titoli” delle opere di Mirò sono un complemento importante della sua complessa poetica: essi sono quasi sempre costanti, perché la maggior parte di essi elencano componenti iconografiche dell’opera, fiori, uccelli, astri, donne, ecc.

Ma, spesso, i titoli si complicano, comprendendo precisi particolari ‘narrativi’:
-“Il diamante sorride al crepuscolo”
-“Volo d’uccello alla prima scintilla dell’alba”
-“Libellula dalle elitre rosse all’inseguimento di un serpente che guizza a spirale verso la stella cometa”

Solitamente, Mirò attribuisce il titolo all’opera a posteriori, talvolta dopo mesi, quando la configurazione del dipinto è ormai organizzata; quindi, non c’è un’intenzione iniziale di creare un determinato racconto secondo uno schema narrativo preesistente.

La sua arte nasce dalle pieghe profonde dell’inconscio e del sogno e riesce a far vivere, con l’uso di linee e colori l’universo immaginifico che è presente in ognuno di noi.

Le opere realizzate tra il 1926 ed il 1927 propongono figure fantastiche, quasi creature fiabesche, che spiccano su fondi saturi di colore.

(Figura che lancia una pietra ad un uccello – 1926)

( Cane che abbaia alla luna – 1926)

 ( Nudo – 1926)

 ( Fondo blu – 1927)

In seguito ad un viaggio nei Paesi Bassi, nel 1928, è fortemente influenzato dalla pittura fiamminga ed olandese, ricche di elementi figurativi, che gli ispirano la creazione di due opere:

( Interno olandese I – 1928)

 (Interno olandese II – 1928)

Il risultato è un vortice dinamico di esseri che si muovono all’interno di uno spazio coloratissimo dove regna la fantasia.

Profondissimi blu ed accesissimi rossi possono comunicare la sensazione del mare, del cielo e dell’infinito, oppure ricondurre alla rabbia ed alla disperazione; per esempio, nell’opera del 1937 “Natura morta con scarpa vecchia”, eseguita durante la guerra civile spagnola:



Tra il 1933 ed il 1936 realizza disegni-collages: una serie di ritagli di giornale che mostrano parti meccaniche oppure oggetti quotidiani attaccati su cartoni che si trasformano in figure astratte:
(disegno – collage – 1933)

Ciò che spinge Mirò a creare un quadro è l’emozione, procurata da qualsiasi cosa: un filo, una goccia, un granello di sabbia, da qualcosa di insignificante nasce un mondo al quale l’artista dà un titolo.

Per questo, Mirò rifiuta di definire astratte le sue opere, perché egli ritiene siano sempre espressione di una realtà, non fosse altro che quella “spirituale” dell’artista.

Intorno agli anni Quaranta inizia la sua produzione in ceramica; esegue piatti, vasi, ma anche imponenti opere decorative per spazi pubblici.

Poi, negli anni Sessanta si dedica alla scultura vera e propria, talvolta colorata, partendo da materiale trovato e poi assemblato insieme, fuso nel bronzo: un esempio è “Ragazza che se ne fugge” del 1968, dove le gambe rosse di un manichino si trovano sotto un volto giallo sormontato da un rubinetto.

Insomma, il suo intento creativo, sia in campo grafico-pittorico che in quello scultoreo, è dar vita alle immagini latenti che si risvegliano in lui e che si incarnano nei personaggi, nei paesaggi e nelle forme scultoree fantastiche.

E’ interessante notare che quando Mirò s’impadronisce di una tecnica e ne coglie i segreti, non l’abbandona fino a quando non la considera “esaurita”.

Infaticabile, tenace e mai appagato sperimentatore, un artista eclettico, pronto a rivelare sempre nuove ed ulteriori sfaccettature della sua ricchissima ed indomabile personalità.




lunedì 10 marzo 2014

Numero 197 - Rivista n°5 - 10 Marzo 2014



Rivista on line 
Numero 5
del 10 Marzo 2014

In questo numero:
- Conosciamo Gianluca Sgattoni, fotografo emozionale;
- L'arte di Giacomo Balla, a cura di Cinzia, in arte Fidanzacinzia;
- Il cibo in poesia, a cura di Marilena Mascarello.

Questa settimana desidero aprire la rivista on line presentandovi un fotografo che ho avuto la fortuna di conoscere. Le sue foto mi hanno da subito colpita perché assai poetiche e di contenuto sociale.

Quest'oggi ve ne propongo tre:

Il volo dell'Angelo

Questa prima foto, "Il volo dell'Angelo", mi ha colpita subito per due motivi: il primo è il movimento che "arriva" osservando l'immagine, quasi come se stessimo guardando un video e non una fotografia; il secondo è la perfetta fusione dell'uomo nella Natura, Terra - Cielo, la lavanda, il campo di grano, e l'uccello in volo con le ali spiegate e in mezzo l'essere umano che trova le proprie radici nella terra, ma che da sempre ambisce a spiccare il volo.



 Questa seconda fotografia fa parte dell'album che nella sua pagina di Facebook, Gianluca Sgattoni ha nominato come "Scatti rubati". E' una foto che mi ricorda un gioco de "La settimana enigmistica": "Trova l'intruso";-) A parte la battuta, credo sia uno scatto che abbia "fermato" in un'immagine un momento della società odierna, il lavoro, il sacrificio, il bambino che gioca, semisdraiato sotto il banco...
Un fotografia che sembra un film a giudicare da quante cose "racconta"...

 Mercato in Provenza

Di quest'ultima fotografia, mi colpiscono i colori, o i non-colori, e come la donna (bellissima) si integri perfettamente, a partire dal colore dei capelli, con i toni circostanti delle mura, della strada, degli oggetti in vendita.

Sapete che la mia passione più grande è la scrittura e devo dire che le fotografie di Gianluca Sgattoni mi procurano un moto d'ispirazione per il quale scriverei una storia per ogni suo scatto.
Bravo davvero, "emozionale" senza ombra di dubbio!


Giacomo Balla

(1871 – 1958)
di CINZIA in arte Fidanzacinzia

Nasce a Torino nel 1871, già da adolescente si avvicina alla musica, con lo studio del violino, per poi interessarsi al disegno ed alla pittura.

Il padre gli trasmette la passione per la fotografia, questa conoscenza tecnica sarà determinante per la formazione della visione estetica della sua pittura.

Vive a Torino fino al 1895, poi si trasferisce a Roma, dove rimane per tutta la vita.

A Roma, si propone come pioniere della nuova tecnica divisionista, incontra seguaci ed allievi, tra cui Umberto Boccioni, Gino Severini e Mario Sironi: questa tecnica trova nella separazione del colore un mezzo efficace per esprimere la dinamica del movimento.

Balla è un uomo di assoluta serietà, profondo, riflessivo e “pittore” nel più ampio senso della parola.

Tratteggia piccoli tocchi di colore primari, accostati gli uni agli altri, che generano un effetto multicolore e cangiante del riverbero luminoso.

Nascono i quadri di Balla : 
                 (Fallimento 1902)  

(La pazza 1903-1905) 

 (La giornata dell’operaio – 1904) 

Sono quadri che ritraggono la questione sociale: le classi deboli, i diseredati, soggetti che Balla predilige.

Mentre, più avanti, il suo interesse si sposta verso un maggior lirismo, nei suoi quadri si avverte un sentimento intimo e raccolto, raffigurando anche affetti familiari:

 (Villa Borghese 1910)  

 (Affetti 1910) –

Il Divisionismo si attenua per diventare morbido e delicato, il colore avvolge le forme e ne determina i contrasti: si alternano vaste zone in penombra con energici bagliori di luce, come in una sovraesposizione fotografica che rivela la forma in maniera improvvisa.

Dall’inizio all’adesione al movimento futurista (1900 – 1910) la pittura di Balla è precisa, quasi fotografica: il comandamento basilare per tutta la sua vita è uno soltanto “La semplicità è la base della bellezza”, anche quando approderà all’astrattismo.

La sua ricerca è l’eliminazione del superfluo per esaltare la verità degli elementi; sostiene che tutte le grandi opere sono eseguite con mezzi tecnici semplicissimi.

E’ una ricerca che mira all’obiettività, proiettandolo verso i fenomeni della scienza, lasciando l’apparenza per la sostanza del vero, arrivando alla scomposizione della luce e del movimento, ne sono, qui di seguito, due mirabili esempi:

(Lampada ad arco 1910 ) 

(La bambina che corre sul balcone 1912)

 “Astrazione” per Balla significa muovere dalla realtà, per indagare lo scheletro e la struttura implicita, arrivando alla fine anche ad una sola linea, non per questo meno vera.

A Parigi, approfondisce la sottile tecnica del “pointillisme”, l’unica che può sintetizzare il movimento e la luce.

Ogni lavoro di Balla è sperimentazione, perché, secondo Balla ed i futuristi, l’Arte non consiste nell’individuazione del Bello ma solo e semplicemente nella Ricerca: ogni cosa non vuole essere realizzazione, ma Progetto.

Balla è un inventore, un mago ed un profeta: lo stesso Balla dice di se stesso “Nel 500 mi chiamavo Leonardo”, da qui, il suo “provare e riprovare”, l’individuazione dei problemi sempre nuovi ai quali dare una soluzione con l’immediata ricerca di problemi successivi da risolvere.

Tra il 1912 ed il 1917 lavora a cicli di pittura, sperimentando ogni mezzo tecnico possibile.

Nelle immagini si accavallano le rondini ed i triangoli della luce, le ruote delle automobili e le auto in corsa, la linea di paesaggio e la “velocità astratta”, Mercurio ed i vortici:
  
(Velocità d’automobile 1913)  

 (Velocità astratta 1914) 

(Mercurio passa davanti al Sole 1914)

La ricerca sull’astrazione la applica anche alla “parola”, mettendo in scena vocaboli o frasi acute come slogan.

I capolavori su questo tipo di ricerca sono le variazioni sulla parola LUCE (nome della prima figlia), le parole sono variopinte, il linguaggio stesso è colore.

Un esempio di linguaggio visualizzato si trova nelle cartoline che Balla indirizza ai suoi amici artisti e non, esse portano in giro per il mondo il suo “verbo” colorato:








           
 Il lavoro artistico di Balla (in ogni sua tecnica sperimentata) consiste nel pensare all’ambiente, vuol dire “uscire dal quadro”, lasciare la soffitta del bohémien ottocentesco per far esplodere il futuro nella strada.


IL CIBO IN POESIA
a cura di
MARILENA MASCARELLO


Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi!
... Perche' il cibo e' poesia... il cibo e' vita di tutti giorni; scandisce le nostre giornate, ci accompagna...
Sensazioni e stati d'animo si mescolano a sapori e profumi...
Non solo cibo, ma anche vino... il buon vino e' protagonista,  il buon vino e' cultura e piacere...
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore:

“I tuoi semi vivranno nel mio corpo,
E i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore,
La loro fragranza sarà il mio respiro,
E insieme gioiremo in tutte le stagioni.”
 (K. Gilbran)



La nespola del Giappone
Per quanto si vogliano uniti, 

non potranno diventare uno 
i suoi noccioli tristi che non ce l'hanno fatta 
a restare divisi, che si sono abbracciati 
con passione sognando 
lo stesso sogno che forma la polpa. 
Gente, gente, non rimproveratela 
per la polpa sottile, e non mangiate, 
non mangiate questa nespola del Giappone.
 (K. Takano)



Poesia del pane
Se io facessi il fornaio

vorrei cuocere il pane
così grande da sfamare
tutta, tutta la gente
che non ha da mangiare.
Un pane più grande del sole,
dorato, profumato
come le viole.
Un pane così
verrebbero a mangiarlo
dall’India e dal Chilì
i poveri, i bambini,
i vecchietti e gli uccellini.
Sarà una data da studiare a memoria:
Un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia.
 (G. Rodari)



Ode all'arancia
A somiglianza tua,
a tua immagine,
arancia,
si fece il mondo:
rotondo il sole, circondato
per spaccarsi di fuoco:
la notte costellò con zagare
la sua rotta e la sua nave.
Così fu e così fummo,
oh terra,
scoprendoti,
pianeta arancione.
Siamo i raggi di una sola ruota
divisi
come lingotti d’oro
e raggiungiamo con treni e con fiumi
l’insolita unità dell’arancia.
Patria
mia,
gialla
chioma,
spada dell’autunno,
quando
alla tua luce
ritorno,
alla deserta
zona
del salnitro lunare,
alle difficoltà
strazianti
del metallo andino,
quando
penetro
il tuo contorno, le tue acque,
lodo
le tue donne,
guardo come i boschi
equilibrano
uccelli e foglie sacre,
il frumento si accumula nei granai
e le navi navigano
per oscuri estuari,
comprendo che sei,
pianeta,
un’arancia,
un frutto del fuoco.
Sulla tua pelle si riuniscono
i paesi
uniti
come settori di un solo frutto,
e Cile, al tuo fianco,
elettrico,
incendiato
sopra
il fogliame azzurro
del Pacifico
è un largo recinto di aranci.
Arancione sia
la luce
di ciascun
giorno,
e il cuore dell’uomo,
i suoi grappoli,
acido e dolce siano:
sorgente di freschezza
che abbia e che preservi
la misteriosa
semplicità
della terra
e la pura unità
di un’arancia
 (Pablo Neruda)

Oppure tutt'altro genere .. una poesia di Antonia Pozzi, poetessa triste, ma che amo molto.



Confidare
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zagara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l'arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l'orzo intorno alla casa.
 (A. Pozzi)


Buona settimana a tutti coloro che saranno arrivati fino in fondo a questo numero!;-)
Buona settimana, due volte, a chi ci farà il regalo di lasciare un commento;-))
...Va beh, sarò buona;-) buona settimana anche a tutti gli altri :-D