venerdì 30 dicembre 2022

Numero 425 - "Una salita per amore. Donne al fronte" di Stefania P. Nosnan - 30 Dicembre 2022


Sono davvero contenta quando scopro delle penne di autrici italiane che non conoscevo. 
Stefania P. Nosnan si occupa di me come Ufficio Stampa e quando ho saputo che anche lei è scrittrice, mi sono incuriosita relativamente alle sue opere.
Proprio un paio di giorni fa ho cominciato a leggere "Una salita per amore. Donne al fronte". 
Che dire... Stanotte all'una e mezzo ero ancora lì che leggevo, e stamattina appena sveglia ho terminato le ultime venti pagine, ancora prima di fare colazione! 
Già questo vi fa capire quanto questo breve ma intenso romanzo mi sia piaciuto, e adesso vi spiego perché.
Prima di tutto ho amato la scrittura di Stefania: semplice, senza fronzoli, diretta. Esattamente come piace a me. Chi frequenta i miei laboratori di scrittura sa che il mio mantra è: non una parola di troppo, non una parola di meno. 
Stefania Nosnan è molto brava a farci entrare subito nella vicenda, a farci amare i personaggi e a stare in apprensione per loro (e infatti la lettura del romanzo mi ha fatto fare le ore piccole, stanotte!). Sapete anche che difendo sempre a spada tratta la scrittura semplice, specificando a caratteri cubitali che  semplice non significa elementare... Scrivere in modo semplice significa avere una grande padronanza della lingua italiana, tale da riuscire a raccontare una storia profonda ed emozionante senza ricorrere allo sfoggio di paroloni o stili pesanti e noiosi. 
Qui troverete, invece, una scrittura fluida, ma incisiva. 
La storia mi preoccupava un po', ambientata ai tempi della prima guerra mondiale, temevo potesse essere troppo cruda o con un eccesso di parte storica che non è nelle mie preferenze.
E invece Stefania ha saputo dosare tutto in modo perfetto, quel tanto che basta per inquadrare la scena. 
Ma entriamoci un po', nella trama.
Le portatrici carniche, delle quali ignoravo l'esistenza e quindi grazie Stefania per averne parlato, erano donne che ogni giorno partivano con le loro gerle piene di cibo, munizioni e lettere e si arrampicavano sulle montagne fino ad arrivare alle trincee. In questo caso, il paese dove vivevano queste donne era Timau e le trincee erano quelle di Pal Piccolo, in Friuli. Mi sono presa la briga di andare a vedere qualche foto (sorgono in quei luoghi musei a cielo aperto) ed è stato molto suggestivo collocare la storia appena letta dentro quelle immagini.
Ma torniamo al romanzo.
Tre donne, Elena - la protagonista - Mara e Milena, sono le portatrici di cui si narra. Elena è una giovane ragazza che vive con la madre, e vive in perenne apprensione per il padre e i due fratelli, anche loro a combattere per difendere l'Italia. 
In trincea, tra i soldati, troviamo Alberto e per lui, come per gli altri soldati, l'arrivo giornaliero delle tre donne diventa motivo di sopravvivenza, anche emotiva.

Il cordone invisibile tra guerra e civiltà era nell'arrivo di quelle tre donne. Quando emergevano da dietro la parete rocciosa era come ricevere una ventata di aria fresca, sapere di non essere stati dimenticati tra quelle vette.

Per i due giovani, che devono fare i conti con una realtà di brutture e privazioni, paure e apprensione per il futuro, quel vedersi ogni giorno anche per pochi minuti diventa una boccata d'aria fresca.

Elena sapeva solo che quei minuti a chiacchierare con Alberto le sembravano un rifugio dalla cruda realtà.

Ci si sorprende come Elena, una ragazza esile ma forte, potesse fare ogni giorno una vita del genere, a contatto anche con la morte di giovani soldati caduti sotto il fuoco nemico. Le portatrici, se all'andata portavano sulle spalle un carico di vita, nella discesa si facevano carico di morti e feriti.

Il suo sguardo tornò su quei poveri e straziati corpi, riconobbe alcuni di loro tra il sangue di cui erano macchiati. Uno di loro le aveva regalato un quadratino di cioccolata la settimana prima.

E quella vita Elena la fece per due anni.

Erano due anni che faceva quella vita e il dolore, che a quel tempo aveva provato, si era congelato. Sembrava che dentro di sé avesse sempre l'inverno; nemmeno l'estate appena passata era riuscita a infonderle calore.

La storia si dipana fino alla disfatta di Caporetto, quando i soldati e la popolazione dovettero ripiegare in Veneto.

Stava lasciando la casa dove era nata, la guerra si stava mangiando tutto come un demone. Aveva potuto raccogliere poco del suo passato e del suo presente, questo le faceva male al cuore. 

Assistiamo, dunque, alle vicende della guerra - che Stefania ci mostra con tutta la delicatezza possibile, denotando una grande sensibilità - e alla forza dell'amore che diventa rifugio e speranza.

Le portatrici carniche ottennero, molti anni dopo la fine della guerra - forse troppi anni dopo - l'Onorificenza "Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto".

 "Una salita per amore. Donne al fronte" mi ha lasciato tante cose. Mi ha dato informazioni su quell'aspetto della guerra, mi ha lasciato un senso di ammirazione per queste donne, un'ammirazione che si allarga a tutte le donne che sono forti più di quanto si pensi e dal coraggio inestimabile. 
Mi ha fatto anche pensare che l'essere umano poco impara dal passato, se pensiamo che nel  momento in cui scrivo tante persone, non lontane dal nostro Paese, stanno vivendo gli stessi disagi e brutture. E siamo nel 2022, anzi, alle porte del 2023.

Impareremo mai qualcosa dalla Storia?

Complimenti ancora a Stefania P. Nosnan che ha voluto rendere omaggio con questo romanzo a una parte di storia che riguarda direttamente la sua terra e l'ha fatto egregiamente.
Il romanzo è uscito nel 2019, edizioni Ensemble. 
La prefazione è di Manuela Di Centa.

Un romanzo che vi consiglio di leggere. Sono sicura che vi piacerà.



§§§

Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle




mercoledì 28 dicembre 2022

Numero 424 - The Fabelmans, la magia del Cinema - 28 Dicembre 2022


Le poche volte che vado al cinema, scelgo con cura il film e rimango immersa in quell’atmosfera per giorni.
Anche questa volta è successo. Anche perché, mentre guardavo lo scorrere delle immagini, pensavo a come sarà il film che sarà tratto dal mio romanzo “Il manoscritto” che, nel 2023, diventerà un film anch’esso. Grande emozione, ma di questo parleremo più avanti.
“The Fabelmans”, l’ultimo film di Steven Spielberg – nonostante fossi scettica – mi ha letteralmente conquistato per svariati motivi.
Un lungometraggio diverso da ciò che siamo abituati a vedere di questo celebre regista. Una storia intima, personale – la sua storia di come si è avvicinato al cinema, di quando e come si è innamorato di quest’arte – raccontando di sé bambino, e poi adolescente, fino al giovane uomo che inizia per davvero la sua strada che lo avrebbe portato ad essere ciò che è.
La scena finale è memorabile, il suo incontro con un grande regista ormai vecchio, che con poche parole gli dà un consiglio di vita, direi, che coinvolge anche lo sguardo di chi gira un film.
Lo sguardo. Ecco.
In “The Fabelmans”, Spielberg è bravissimo a farci capire lo sguardo di chi sta al di là della macchina da presa, che mostra quello che può sfuggire nella vita di tutti i giorni, che può anche dare una visione della realtà differente… 
Una lezione sul Cinema che ho molto apprezzato.
Ma quello che mi ha colpito di più è stata la sua storia, quella della sua famiglia dove è nato e cresciuto.
Scorrevano le immagini e vivevo una sorta di transfert: sua madre, suo padre. Mi sembrava di vedere i miei genitori. La protagonista, Michelle Williams – magnifica – assomigliava tanto a mia madre; anche lei pianista che ha dovuto sacrificare il suo talento alla famiglia, per esempio. Nelle scene dove suona il pianoforte ho rivisto proprio lei, con la sua gioia quando suonava per noi, e si vedeva il trasporto che la portava in un’altra dimensione. 
È lei, nel film, la mamma di Spielberg bambino, che lo spinge a percorrere la strada del cinema, incoraggiandolo sempre, spingendolo a sognare.
Di contro, un padre pragmatico – un po’ come lo era il mio – che invita il figlio più volte alla concretezza, che definisce un hobby quello del cinema, che non crede possa diventare la sua strada.
Un famiglia che si sposta di città in città negli immensi Stati Uniti, fino ad approdare in California; un viaggio che diventa un cammino verso un destino segnato, sia per Steven, sia per le sorti della famiglia stessa.
Nonostante l’intero cast sia eccezionale, l’interpretazione di Michelle Williams è davvero memorabile; arriva dritta l’inquietudine del personaggio che interpreta, il suo entusiasmo per la vita, ma anche la malinconia che l’afferra per la gola per determinate circostanze che però non vi svelo per non spoilerare.
Un film che incanta, commuove, ma fa anche sorridere. E soprattutto fa sognare e insegna che bisogna lottare e credere in quello che capiamo essere il nostro destino.
Bella anche la piccola parte dedicata a uno zio che passa una sola notte in casa Fibelmans, ma saprà lasciare il segno in Sammy (che sarebbe il personaggio di Spielberg ragazzo) che capirà da un monologo dello zio quanto costi essere preda dell’Arte, ma gli spiega che quando il talento è dentro di noi, bisogna arrendersi ad esso, costi quel che costi.
E una battuta della madre, a un certo punto del film, è il messaggio più importante per il giovane: “Non devi la tua vita a nessuno, nemmeno a me.”
Un invito a seguire il proprio destino, il talento, ciò che ci chiama e capiamo essere la nostra strada.
E per fortuna Steven Spielberg ha seguito il consiglio di questa mamma che sembra fragile, a tratti, ma che invece è fortissima e coraggiosa, anche per una decisione che prenderà verso la fine del film.
Due ore e trenta che corrono via senza che lo spettatore provi nemmeno un minuto di noia.
Un film che consiglio a tutti.
Non aspettatevi effetti speciali alla Spielberg, non li troverete.
Troverete molto di più: gli effetti speciali della Vita.


Buona visione!


Alla prossima 
dalla vostra
Stefania Convalle



venerdì 23 dicembre 2022

Numero 423 - Masterbook, leggiamo il racconto classificatosi al 4° posto - 23 Dicembre 2022



Siamo arrivati alla conclusione di questa carrellata di racconti, quelli arrivati nei primi quattro posti. Nei numeri precedenti del blog (420-421-422) avete potuto leggere i primi tre nella loro interezza.
Oggi vi propongo il testo che si è classificato quarto.
Si conclude, dunque, questa esperienza esaltante del Masterbook – prima edizione 2022, un Premio Letterario a eliminazione diretta, attraverso varie Fasi e Prove diverse da quello che si è abituati a vedere, da me ideato e condotto.
Il risultato è stato eccellente: tanti partecipanti che si sono messi in gioco; tanto pubblico che ha partecipato anche al voto popolare; una bella condivisione tra le tante persone che amano scrivere e leggere. Il tutto in una serena atmosfera di competizione sportiva.
Desidero, dunque, ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa nuova mia iniziativa. 
 
Un ringraziamento particolare alla Giuria tecnica, composta dal mio Team di collaboratrici: Cinzia Baroni, Silvana Da Roit, Tania Mignani, Tiziana Mazza e Maria Rita Sanna. Con estrema dedizione e serietà hanno impiegato tanto del loro tempo per leggere, rileggere e scegliere - a volte con difficoltà - i testi, e quindi i concorrenti da mandare avanti. Hanno investito anche i personali sentimenti ed emozioni, con un grande senso di responsabilità. Sono davvero speciali e le ringrazio.
 
La mia menzione d'onore va a 
BARBARA ROMANO
per il suo percorso all'interno del Masterbook 
e per la penna talentuosa.
 
 I risultati finali GIURIA TECNICA
 1° Classificata
Tatiana Vanini
2° Classificato
Stefano Buzzi
 3° Classificata
Giuliana Degl'Innocenti
 4° Classificata
Laura Tarchetti
 
Risultato finale VOTO POPOLARE
 L'incipit che ha ottenuto più preferenze è stato quello di 
Tatiana Vanini
 
Complimenti alla vincitrice e a tutti gli altri finalisti, arrivare in finale in una competizione così strutturata è un ottimo risultato del quale andare orgogliosi!
 
Ecco a voi il racconto che chiude quest'avventura, il quarto classificato.


PICCOLO INCANTO DI CITTÀ 

di

Laura Tarchetti

 

 

La Locanda Centrale

 

Torino è una città speciale. Tutti conoscono i suoi simboli: la Mole Antonelliana, il caval ‘d brons nella sua Piazza San Carlo, la basilica di Superga che domina dalla collina, il castello fiabesco del Valentino. Appare a prima vista solenne, austera, schiva. Ma chi riesce ad avvicinarla davvero, andando a viverla e a conoscerla intimamente, superando la barriera della sua innata ritrosia, scopre che la fitta trama che la compone è un ricamo prezioso e delicato di storia, segreti, emozioni. Sogno e realtà si stringono insieme, abbracciati nelle sue solide maglie. Alcuni angoli nascosti, sconosciuti e irraggiungibili ai più, emanano un’aura d’incanto che esalta il suo fascino storico. Questi sono il vero cuore della città.

Chi, per caso o necessità, si trovi a passare da Corso Moncalieri, lungo il Po, può osservare il doppio viale alberato che in ogni stagione ha un colore differente e i bovindi liberty dei palazzi nobiliari dai maestosi portoni. Se ha tempo, può fermarsi a godere della vista sul fiume da una delle numerose panchine al riparo del traffico. Chi invece prende l’autobus, alla fermata del 37, vede distintamente l’insegna della Banca Nazionale e, al tramonto, le luci invitanti del Ristorante dei Tre Re.  Ma c’è anche un piccolo albergo, poco distante dal Ponte Isabella, che si affaccia tra gli imponenti edifici ottocenteschi che caratterizzano il quartiere. Lo fa così timidamente da mimetizzarcisi. Alla Locanda Centrale, nessuno fa caso. Ha il nome di migliaia d’altri hotel, è qui, è dovunque e da nessuna parte. Questo, ci si creda o no, è un luogo magico.

La nebbia dicembrina scende insieme alla sera sul viale infreddolito, esattamente come il giorno in cui molti anni fa Mario è arrivato qui, cliente dalle tasche vuote e dall’anima in pena. Ora, affacciandosi dietro ai vetri appannati, sente che è una di quelle serate in cui deve accendere l’insegna luminosa. Un ospite speciale è in arrivo. Forse, addirittura più di uno.

Fa scattare l’interruttore e, mentre il neon prende coraggio iniziando a lampeggiare, accende il fuoco nel caminetto che domina l’accogliente salottino a fianco della reception e inizia a preparare il thè.

Anche Mario, come l’hotel che ora gestisce, è un uomo che si nasconde pur senza volerlo. Né alto né basso, né biondo né bruno, giovane e vecchio, si perde nella folla. Potrebbe essere il vicino di casa silenzioso, dalle persiane socchiuse, vestito di nero, forse grigio. Del quale non si rammenta il nome, che è un nome qualunque, come lui. Se anche ha una voce, dev’essere da sentirsi appena, in modo da non disturbare. 
Quando lo si incrocia per strada, gli si passa accanto sfiorandolo, senza accorgersene. Chi è particolarmente sensibile può sentire un fruscìo discreto, ma è questione di un attimo, e già è dimenticato. 

Giulietta, la ragazza che si occupa delle pulizie, ha terminato il turno. Mario la sente fischiettare allegra mentre scende le scale a passi veloci. Piomba nell’ingresso sorridente e spettinata come al solito. “Turbinosa” è l’aggettivo che secondo Mario la inquadra meglio. 
«Capo, se non c’è altro, io vado.»
Mentre raccoglie la borsa che lascia sempre sotto il bancone presidiato da Mario, si blocca un istante, alla vista del vassoio con le tazzine e la zuccheriera. L’espressione si fa interrogativa.
«Uhm… Nuovi ospiti?»
Mario sorride con un cenno d’assenso.
«Esatto, stasera, arrivi speciali.»
«Devo fermarmi, Capo?»
«No, vai a casa, Nathalie t’aspetta. Ci vediamo domani.»
Visibilmente sollevata, Giulietta torna alla modalità turbine e vola verso la porta, lanciandogli un bacio con la mano.
«Grazie Capo, sei un grande. Poi mi racconti.»
Un soffio d’aria gelida l’accompagna all’esterno.

Mario ha conosciuto Giulietta una sera d’agosto, nella calura della città oppressa dall’afa. Non era stato necessario accendere l’insegna. Aveva sentito delle voci concitate all’esterno, ed era uscito giusto in tempo per vedere un’auto rombante sgommare via verso le colline e una ragazza singhiozzare riversa sul marciapiede. Quella volta, era stata la locanda a recarsi dall’ospite.

Quando era guarita dalle pene di quell’amore malsano, le aveva offerto il lavoro. Mario aveva sempre avuto la tendenza ad affezionarsi ai clienti che per varie ragioni si trattenevano per una “vacanza lunga” e con lei, che avrebbe potuto essere anagraficamente sua figlia, non era riuscito a sopportare l’idea del distacco. Giulietta, dal canto suo, si rendeva conto che con tutta probabilità senza un impiego stabile sarebbe tornata presto a navigare in un mare di guai, e con lei anche la sua figlioletta. Così erano iniziati un sodalizio lavorativo e una preziosa amicizia.

Il bollitore inizia a sibilare e Mario si perde nei ricordi.

Sono diverse, le strade che portano alla Locanda e nessuna è segnata sulle mappe. Ognuno degli ospiti trova la sua, da sé. Ciò che accomuna tutti i percorsi è la tenue luce della speranza che dà il coraggio di procedere verso la destinazione, ignota fino all’ultimo.

Per lui, le indicazioni erano sbucate dal cappotto grigio che indossava quel giorno, una dozzina d’anni prima. In piedi, solo, davanti al parapetto proprio al centro del ponte, avvolto dalla nebbia fitta che la luce dei lampioni non riusciva a penetrare, scrutava le acque scure, tranquille e inesorabili del Po scorrere sotto di lui. Parevano chiamarlo, con il loro gorgoglìo sommesso, un canto dolce, come di sirena. Sembrava così facile: farsi abbracciare dai vortici del fiume, smettere di pensare, lasciarsi andare. Nessuno l’avrebbe visto, il traffico scorreva ignaro e ovattato al centro della carreggiata, nessuno l’avrebbe cercato. Forse, così avrebbe potuto ritrovare Lilia, se fosse esistito un luogo lontano, oltre, per rimanere per sempre con lei.
Chiuse gli occhi, per concentrarsi sulla musica dell’acqua. Respirò profondamente l’aria umida e gelida senza sentire minimamente il freddo. Poi prese dalla tasca il cellulare e lo gettò oltre la balaustra. L’apparecchio scomparve in silenzio, regalandogli la piacevole sensazione d’essersi liberato di un peso. Ripeté la stessa azione con il portafoglio. Volando oltre le ringhiere, questo si aprì lasciando libere le poche banconote contenute e un minuscolo foglietto che, volteggiando, tornò verso di lui fermandosi ai suoi piedi. Inizialmente lo ignorò e si tolse il cappotto, appoggiandolo davanti a sé, sul parapetto. In maniche di camicia, il gelo gli mordeva la pelle. La nebbia gelava tra la sua folta barba, incrostandola in un fine merletto perlato.
Il desiderio di non lasciare alcuna traccia lo fece chinare a riprendere il pezzetto di carta sfuggito al proprio destino. Lisciandolo tra le dita intorpidite, vide che si trattava di un cartiglio, di quelli contenuti nei cioccolatini preferiti da Lilia. Erano bigliettini che recavano scritta una breve frase d’amore. A volte succedeva che lei, pur adorando il cioccolato, si dimenticasse persino di mangiarlo, quando scopriva un aforisma o un messaggio particolarmente toccante. Rimaneva sognante con il biglietto tra le mani, dimentica del mondo circostante. In quelle occasioni, Mario la prendeva in giro, fingendo di gustarsi il dolcetto ignorato. Poi, ridevano insieme. Magari facevano l’amore. Ora, non capiva come potesse trovarsi nel suo portafoglio. Il cuore prese a battergli furiosamente, mentre si portava sotto al lampione più vicino per illuminare le minuscole parole stampate.
Tremante, una volta letto il biglietto, chiuse gli occhi e pianse, travolto dall’ondata dei sentimenti. Quando li riaprì, dopo un tempo indefinito, vide nella nebbia una luce calda lampeggiante farsi largo tra le fronde degli alberi spogli, poco oltre il ponte. Gli pareva chiamarlo a sé. Ancora scosso dai singhiozzi, recuperò il cappotto infilandoselo a fatica, i gesti rallentati dal freddo, e si avviò verso il chiarore. Avvicinandosi, la luce diventò più nitida, trasformandosi nell’insegna di una locanda. Con un gesto della mano si asciugò le lacrime che gli tracciavano sentieri ghiacciati sul viso, preparandosi a entrare nella sua nuova, seconda vita.

Il thè è ormai pronto e il suono del cicalino dell’ingresso annuncia l’arrivo di una ragazzina pallida e minuta, una donna sulla trentina e un distinto anziano signore claudicante che varcano insieme, spaesati, la soglia dell’hotel.
Mario interrompe bruscamente il filo dei ricordi e, conoscendo l’importanza del delicato momento dell’accoglienza, va loro incontro.

 

II 

Tre sentieri

 

Dora guarda l’orologio. Ancora mezz’ora alla fine del turno. Ancora una stanza, forse due. É l’8 dicembre e sarebbe bello essere a casa a preparare l’albero di Natale con i bambini, che invece sono dal suo ex. Il giudice il mese precedente li ha affidati a lui, visto il lavoro a tempo determinato di Dora e la scarsa abilità del suo avvocato, l’unico che lei ha potuto permettersi. Il contratto che scade l’indomani, il conto in banca tendente al rosso, la preoccupazione per l’asma del piccolo Ricky che va peggiorando e l’impossibilità di stare vicino a lui come a Maddy, che è più grande ma non abbastanza, le danno la sensazione di sostare sul ciglio di un baratro. Si aggrappa alla foto dei figli che porta sempre con sé, per evitare di cadere. Ma la presa si fa ogni giorno più difficile e, specialmente la sera, si sente scivolare.

Mentre riassetta la stanza 205, Susanna, la collega del terzo piano, la chiama a gran voce dal corridoio.
«Dora! Dove sei?»
Lei si affaccia alla porta tenuta aperta dal carrello della biancheria, quasi scontrandosi con la ragazza che la sta cercando.
«Susi?»
«Dora, mi serve un favore, davvero.»
Lei è sorpresa, conosce la collega e sa che non parla mai a sproposito.
«Se posso, volentieri. Che succede?»
«Devo andare a prendere mia sorella all’aeroporto. Doveva andarci Matteo, ma mi ha messaggiato che è bloccato in riunione. Nostra madre diventerà furiosa se lascio Bella da sola. Nemmeno fosse ancora una bambina…»
Dora annuisce. Problemi familiari piccoli, facilmente risolvibili. Magari i suoi fossero così.
«Insomma, devo fare ancora la 303 e poi avrei finito ma…»
Dora la interrompe.
«Vai pure, la faccio io. Tranquilla.»
Susi l'abbraccia, d’impeto. Già si sta togliendo la divisa, mentre non smette di ringraziarla.
Chiusa la 205, Dora sale in ascensore con il carrello fino alla 303. Un intero turno di otto ore, e nemmeno una mancia. É uso dell’hotel lasciare una busta apposita in ogni stanza, sopra al frigo-bar. La maggior parte dei clienti la ignora. Quando non lo fa, ci mette le briciole, monetine inutili delle quali vuole solo liberarsi. Le banconote sono una rarità e soltanto una volta le è capitato un biglietto da 50 euro: le era parso, mettendoselo in tasca, di rubare.
Inizia preparando la biancheria di ricambio: il letto è quasi intatto, come se il cliente avesse dormito sopra le coperte. La busta delle mance è appoggiata in bella vista sul cuscino. Curiosa, la apre. Dapprima si sente presa in giro. Cosa potrebbe farsene? Poi un senso di nostalgia la pervade. Una sensazione dolce, che la riporta a quando, bambina, passava il giorno di Natale dai nonni, insieme alla numerosa truppa familiare radunata per l’occasione.
Nonno Arturo, autoritario patriarca dai baffi a manubrio e il piglio ottocentesco, teneva molto all’occasione. Ma la sua proverbiale tendenza al risparmio, nonostante fosse più che benestante, si palesava nei particolari. Mano a mano che la famiglia, tra figli, generi, nuore e nipoti andava numericamente aumentando, i cibi in tavola si facevano più scarsi nella quantità e nella qualità. Il vino era scadente, abbondavano pane e patate. Quanto al dolce, al tradizionale panettone si preferiva una focaccia impastata dalla nonna, la cui abilità di cuoca riusciva solo in parte a sopperire alla carenza della materia prima. Davanti alla possente tavolata, prima di sedersi e iniziare quello che a Dora pareva un pranzo interminabile, si sostava per una breve preghiera di ringraziamento. A seguire, ognuno prendeva la busta chiusa che lo aspettava appoggiata sul proprio piatto. Nessuno apriva mai l’involucro. Tutti sapevano già cosa contenesse, e lo facevano sparire a seconda dei casi nella giacca o nella borsa, rassegnati, dimenticandosene all’istante. Era chiaro, invece, come per Nonno Arturo si trattasse di un prezioso presente. Annunciava con voce tonante: «I regali!»
Allora sfoderava il suo miglior sorriso allargando le braccia verso i piatti, con gli occhi luccicanti come Alì Babà di fronte al tesoro. Nessuno aveva mai osato contraddirlo, e la tradizione si era perpetrata fino alla sua morte. La nonna, una volta vedova, aveva eliminato qualunque regalo e di conseguenza anche il problema del fatto che fosse gradito o meno.
Dora guardava sempre con un po’ di preoccupazione, prima che sparisse, la busta di suo cugino Franco. E se fosse toccato a lui? Una volta ne aveva parlato con la Mamma, che aveva riso di gusto e le aveva spiegato brevemente il calcolo delle probabilità. Non era sicura di aver compreso bene, ma si era tranquillizzata. Con il trascorrere degli anni aveva capito che sua madre la sapeva lunga: nessuno di loro, infatti, aveva mai vinto alla lotteria di Capodanno. I biglietti che il Nonno puntualmente comperava e riponeva con cura nelle buste, si erano regolarmente trasformati in carta straccia.

Ora fissa il biglietto della lotteria Italia che occhieggia dalla busta. Una lacrima scende furtiva. Non vincerà, ne è sicura, ma le circostanze che hanno fatto sì che sia suo le danno l’idea che sia una sorta di segnale. Una sensazione di sollievo la pervade. Finisce in fretta il lavoro, uscendo nella nebbia.

Torino sembra diversa, sconosciuta. Sa bene che dovrebbe dirigersi alla fermata del 37, ma rivolge lo sguardo verso il ponte, dal lato opposto. Una luce debole e sconosciuta lampeggia dietro gli alberi. La sta invitando a seguirla, ne è certa.
Dora, senza pensarci, le va incontro.

Sara guarda il calendario e sospira. Deve prendere una decisione, è già l’8 dicembre e il tempo stringe. Pochi giorni ancora e sarebbe troppo tardi. Deve dirlo ai suoi, gli unici che possano aiutarla. Ha fatto le prove davanti allo specchio, fingendo un’aria baldanzosa, poi provando a sembrare tranquilla, con la voce bassa e ferma, ma non è riuscita a trovare la formula giusta. Ha pensato di scappare da casa, ma non saprebbe dove andare, soprattutto dopo che Luca l’ha lasciata. Con lui era stato tutto semplice, e con altrettanta semplicità si era dileguato. Sara non ha perso tempo a rimpiangerlo. Ma se pensa che deve ancora compiere sedici anni e già è in un mare di guai, allora sì, le viene il magone. Da giorni non riesce più a mangiare né a dormire, fingendo che tutto sia a posto, quando in realtà vorrebbe solo confidarsi con qualcuno che non la giudichi, che capisca. Poi ci sono la nausea che non le lascia tregua e, da ultimo, un quattro in latino: un’inezia, ma anche un segnale preciso di quanto tutto stia andando per il verso sbagliato. Come potrà finire l’anno scolastico?
Va in bagno a sciacquarsi il viso con l’acqua fredda. Lo specchio rivela le evidenti occhiaie che l’accompagnano da giorni. Ora o mai più. Scende in cucina: tra un po’ sarà ora di cena.
Suo padre è distratto dalle notizie del telegiornale mentre sua madre sta cercando di sistemare Cisco, che non ne vuole sapere, nel seggiolone.
Si siede, ignorata, alla tavola non ancora apparecchiata. Schiarisce la gola con un colpetto di tosse.
«Papà...»
Suo padre emette un grugnito distogliendo seccato lo sguardo dallo schermo e squadrandola velocemente. Forse è il tono timido della voce della figlia, o forse il fatto che si rivolga a lui invece che alla moglie, che lo spinge a guardarla meglio. In quel momento la vede davvero, diversa, e capisce che qualcosa non va.
«Che c’è, Sara? Cos’hai?»
Ha il solito tono tranquillo, ma traspare preoccupazione. Da quando sua figlia è così magra, tirata? 
Lei esita, le labbra sono secche, la voce non esce. Poi, tutto d’un fiato, ce la fa. In fondo, sono solo due parole.
«Sono incinta.»
Piange, finalmente libera da un segreto più grande di lei.
Un tempo sospeso, di silenzio assoluto: passa un secondo, o un minuto, chissà. Paolo è un uomo mite, Sara non ricorda di averlo mai sentito alzare la voce oppure osare gesti impulsivi. Questa volta è convinta abbia l’occasione di lasciare da parte la sua tradizionale imperturbabilità.
Contemporaneamente, mentre suo padre si alza di scatto, sua madre si accascia sulla sedia a fianco di Cisco che, ignaro, lancia allegro il biberon. Sara, alla vista dei suoi genitori che si muovono come pupazzi meccanici legati da uno strano meccanismo di sincronia, si dimentica per un secondo della situazione e smette di singhiozzare, ammutolita.
Paolo, come un pesce fuor d’acqua, apre e chiude la bocca più volte, nell’incapacità di far uscire voce ed emozioni. Dà spazio solo a un gemito sommesso, un “oh!” soffocato. Poi si risiede e recupera, a fatica, il controllo. Nella propria evidente confusione, rimedia due parole, non abbastanza, ma il necessario per rompere l’impasse.
Racconta, tutto.
Poco più tardi, senza aver mangiato, Sara esce con la scusa di prendere una boccata d’aria. Poteva andare peggio, in fondo. O meglio. Ecco, sarebbe stato bello che suo padre si fosse per una volta arrabbiato, anzi, incazzato. Che l’avesse sgridata, rimproverata, insultata, anche.
Invece no, ha constatato che “il guaio ormai era fatto” e che “bisognava trovare la soluzione”. Sua madre, invece, l’ha soltanto stretta a sé, e quello le è valso più di mille discorsi. Sara sa perché non è intervenuta: stava tutto lì, dentro quell’abbraccio.
La soluzione di Paolo, che non ammette spazio per negoziare, consiste nell’abortire. Quando lei ha provato a obiettare che la mamma, a suo tempo, non l’aveva fatto (e che lei ne era l’evidente prova), lui l’ha zittita.
«È diverso. C’ero io. E ci sono anche adesso. Tu, un uomo non ce l’hai, tuo figlio non ha un padre. Non avresti più un futuro, se lo tenessi. E il bambino nemmeno.»
La nebbia avvolge Sara e i suoi pensieri. Forse suo padre ha ragione. Come potrebbe finire gli studi, con un bambino da accudire? Che ne sarebbe del suo sogno di diventare scrittrice? Estrae un pacchetto di sigarette stropicciato dal giubbotto. Si era ripromessa di non fumare più, per prendersi cura del piccolo dentro di lei. Ma dopo la decisione di suo padre, che ha già fatto un paio di telefonate per “risolvere al più presto”, niente ha più senso. Cerca l’accendino, frugando nelle tasche. Lo Zippo non c’è, saltano invece fuori un paio di monete e un piccolo disco di plastica gialla. Sara lo guarda stranita, non capisce come sia finito lì. È un gettone del luna park, di quelli per l’autoscontro. Le sembrano passati anni luce da quando c’è andata l’ultima volta insieme alla cuginetta Marina, entrambe accompagnate dalla nonna. Giorni felici, Natali magici di risate e meraviglia infantile. Sarebbe bello tornare indietro, anche solo per un poco. Nonna Ester le manca tanto, lei avrebbe capito. Chiude gli occhi e, respirando a fondo, le pare di sentire il profumo dello zucchero filato e la musica gracchiante della giostra. La calda mano della nonna si avvolge intorno alla sua. Quando riapre le palpebre alla nebbia, intravede una fioca luce intermittente che fa capolino nei pressi del ponte, dietro casa. Non l’aveva mai notata, prima. 
Sara, senza pensarci, le va incontro.

Gli hanno detto che è troppo vecchio. Che non hanno più spazio per il suo corso, che non interessa più. Ennio, nel giorno del suo ottantaquattresimo compleanno, siede sulla panchina di fronte alla scuola, oggi chiusa per la festa dell’Immacolata. L’angoscia lo travolge. Non può stare senza di lei, è impensabile.
Ci aveva provato, a lasciarla, quando ormai diversi anni prima era andato in pensione, ma una morsa gli aveva attanagliato lo stomaco e una sensazione di vuoto gli aveva dato le vertigini. Lontano da lei, solo, in una casa che non sentiva sua, non aveva avuto altro pensiero se non quello di rivederla. Aveva trascorso un po’ del suo tempo cercando una scusa, una strategia per riprendersi quella che era la sua vera dimora.
Allora era riuscito a superare il momentaneo distacco grazie alla conoscenza del direttivo scolastico, facendosi assegnare un laboratorio di scrittura creativa, uno dei corsi offerti dall’Università Popolare che occupava alcune aule con lezioni serali per lavoratori.
Eccolo, l’edificio del liceo classico Alfieri, dal quale è entrato e uscito migliaia di volte. Nel quale ha conosciuto frotte di studenti, volti, mani e ha udito infinite voci. Si meraviglia, ora, di non aver scavato un solco tra i gradini dell’ingresso. Aveva varcato quella soglia per la prima volta compiuti quattordici anni, da studente. Poi i corsi di specializzazione e, a seguire, la cattedra di lingua e letteratura italiana fino al congedo. Da ultimo, il corso che l’ha tenuto vivo fino a ora.
Rimasto vedovo ancora giovane, aveva trovato nell’insegnamento la sua missione, gli allievi erano diventati la sua grande famiglia, i suoi figli. Una volta terminati gli studi, continuavano a tornare a trovarlo, a scrivergli, a fargli leggere i loro lavori. Lui si beava di questo affetto, e lo ricambiava. Adesso pare tocchi a lui scrivere la parola “fine”, mettere l’ultimo punto, posare la penna. 
Il bastone appoggiato alla panchina, le giunture che scricchiolano per il gelo e l’umidità, Ennio non ha la forza di rialzarsi, di andarsene a casa. La nebbia ingentilisce il vecchio palazzo austero, la bandiera stinta che penzola dal pennone sopra il grande portone nella semioscurità non gli sembra nemmeno tanto malinconica. La tristezza, la sente tutta dentro di sé. Sarebbe semplice, abbandonarsi lì. Basterebbe avvolgersi bene nel tepore del cappotto, chinare il capo e addormentarsi.
Forse hanno ragione, non ha più niente da dare, non serve più. Una lacrima scivola lenta sulla pelle delicata dell’anziano viso, rigido di freddo. Gli occhiali si appannano.
Ennio cerca nel borsello un fazzoletto o un panno per ripulire le lenti. Trova invece un oggetto che non ricordava di avere. È una penna stilografica d’argento, ma non è sua. Ci sono delle iniziali incise sul cappuccio. La riconosce immediatamente, è quella di suo nonno, giornalista de “La Stampa” in un tempo lontanissimo, nei primi anni del Novecento. Soltanto una volta, da bambino, Ennio era stato in redazione accompagnato dal progenitore. Ricorda un ufficio pieno di oggetti affascinanti e proibiti, nel quale gli era stato raccomandato di non toccare nulla. La curiosità però era consentita, ed essendo più forte di lui, non era riuscito a trattenersi dal fare mille domande. Un pesante macchinario sconosciuto troneggiava al centro della scrivania.
«Che cos’è questa, Nonno?»
«Una macchina per scrivere, Ennio. Un progresso della tecnica.»
«E come funziona?»
«Ora vedrai.»
Il nonno gli aveva accarezzato la testolina ricciuta. Aveva preso un foglio intonso, l’aveva inserito nelle guide e aveva pigiato rumorosamente i grossi tasti in rapida successione. Poi aveva estratto la carta, consegnandola al bambino.
Ennio, pieno di meraviglia, aveva letto ad alta voce.
“La vera scrittura è nel tuo cuore.”
Perplesso, aveva guardato prima il nonno e poi di nuovo il foglio.
«Non capisco, nonno. Che vuol dire?»
«Che la macchina può tracciare segni, ma scrivere è un’altra cosa. Quello che scriviamo è dentro di noi, e solo la penna è capace di collegare il cuore alla carta.»   
Ennio aveva provato a comprendere, ma non era sicuro di esserci riuscito.
«Vuoi dire che la macchina non è brava come la penna?»
«Voglio dire che è uno strumento che funziona bene, come la penna. Ma non è capace di darci le stesse emozioni.»
Il nonno aveva preso un altro foglio e con la stilografica d’argento estratta dal taschino, che recava il complicato monogramma delle sue iniziali sul cappuccio, aveva vergato con un movimento fluido del polso la stessa, identica frase. Aveva poi consegnato il secondo foglio al nipotino.
«La vedi, la differenza?»
Ennio la vedeva. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma il concetto in lui era perfetto, chiaro. Giusto.
Non aveva più rivisto quella penna, fino a quel momento. Sapeva che il nonno la portava sempre con sé.
La rigira tra le dita che si sono fatte blu dal freddo, e chiude gli occhi. Può essere, allora, che, nonostante l’età, abbia ancora qualcosa di utile da fare.
Si alza a fatica, lentamente, puntando il bastone che stenta a far presa sul selciato ghiacciato. Quando finalmente trova la stabilità, invece di rivolgersi verso casa, punta il lato opposto, in direzione del ponte. Una luce tenue lampeggia nella nebbia. Sembra chiamarlo. Senza pensarci, un passo incerto dietro l’altro, la penna stretta nella mano a scaldargli dita e anima, Ennio le va incontro.  

 

 III 

Oltre le nebbie

 

Mario, nelle molte giornate passate alla reception, ha fatto delle ricerche storiche che hanno confermato i racconti che gli aveva fatto Ettore, il suo predecessore. Al tempo in cui la città era Augusta Taurinorum, l’antico cuore romano di Torino, il fiume era un’importante risorsa per i trasporti mercantili. Il Po aveva un corso diverso dall’attuale e nel punto che ora è in corrispondenza con il Ponte Isabella, deviava bruscamente prima verso est e poi di nuovo a ovest con una doppia ansa. Per evitare che le imbarcazioni si incagliassero nel difficile percorso, era sorto un piccolo quanto indispensabile faro, scomparso poi successivamente in epoca tardo-antica, travolto da una piena del fiume che ne aveva deviato il tracciato rendendolo più simile a quello presente. Una leggenda narrava del soldato di guardia che, avvertendo il pericolo, aveva tratto in salvo numerose imbarcazioni lanciando i suoi ultimi segnali, guidandole così per tempo all’attracco, quando invece avrebbe dovuto segnalare la via navigabile.
La Locanda Centrale sorge, secondo i calcoli di Mario, proprio in quel punto. Un nuovo faro, per moderni naviganti smarriti nelle proprie personalissime nebbie.

Questa è la storia che ora racconta, con calma, ai suoi tre nuovi ospiti infreddoliti, che ha fatto accomodare davanti al caminetto e ai quali ha delicatamente, senza fare domande, servito il thè bollente. Sa che ci vorrà qualche minuto, forse qualche ora, prima che riescano a parlare. Ricorda bene le proprie sensazioni di allora: stupore e smarrimento, ma anche la certezza di essere giunto in un luogo sicuro. Una sensazione di protezione e la voglia di riposare la mente e il corpo, unite alla necessità di sentire una voce di conforto. Per lui, era stata quella dell’anziano Ettore, che successivamente, quando Mario era guarito dal suo tormento, l’aveva incaricato di proseguire nella sua missione: guardiano del faro.

Osserva i tre mentre iniziano a sentire il tepore dell’ambiente e a rilassarsi il necessario per iniziare a guardarsi intorno.
Poi, prosegue il racconto con la propria storia, ritornando ancora a quella serata lontana. 
L’anziano signore, che sembrava il più in difficoltà a causa del fisico fragile minato dall’età, lo sorprende per la rapidità con la quale si sta rianimando. È lui, il primo a parlare.
«Mi chiamo Ennio. Anche io sono arrivato qui grazie a un oggetto che non sapevo di avere. La luce mi ha guidato. Non saprei ripercorrere la strada, non la ricordo. Ero sfinito, ma ho continuato.»
Abbozza un sorriso.
«Mi sembra di aver fatto bene.»
Mario gli si avvicina e gli siede accanto, posandogli una mano sulla spalla.
«Hai fatto benissimo, qualunque sia la tua motivazione.»
Ennio esita, poi si decide.
«Se vi va, vorrei raccontarvi di me.»
Mario guarda la ragazzina, che annuisce timida, e la donna, che trova un sorriso che non si aspettava di possedere, non più. Cerca la mano di Ennio, e la stringe per un attimo.
«Certo che ci va, siamo qui apposta.»
Quando termina, sia Mario che le due nuove ospiti sono visibilmente commossi. Non hanno osato interromperlo, ma è evidente dal linguaggio dei corpi che hanno trovato molte analogie con i propri percorsi.
Ennio non ricorda quando si sia sentito così bene come ora.
Si è fatto tardi e Mario ordina una cena per tutti a domicilio, non avendo avuto il tempo di cucinare e nemmeno di chiamare il personale ad aiutarlo. Giulietta sarebbe stata utile, ma la pensa allegra e “turbinosa” a casa con la sua Nathalie, sicuramente una migliore situazione per entrambe.
Sara si scopre affamata come non le accadeva da settimane. E si accorge di avere anche altrettanta voglia di parlare. Ripensa a come solo poco prima non riuscisse a darsi voce, a come il cuore le balzasse in gola soffocando le parole, e le sembra di essere stata teletrasportata in un’altra vita.
«Mario... Posso?»
Lui non aspettava altro che sentire la vocina di quella ragazza che pare ancora una bambina.
«Sicuro, intanto che aspettiamo la cena, tocca a te.»
«Mi chiamo Sara. Sono incinta e quindi…»
Si passa una mano sulla pancia ancora piatta. Ora sa con certezza cosa intende fare.
«…siamo in due, qui.»
Alla fine del racconto, Sara appoggia il gettone giallo dell’autoscontro, testimonianza della sua presenza, sul tavolo del salottino dove le tazze vuote hanno terminato il loro servizio. Ennio apre la mano che finora ha tenuto stretta a pugno, e posa la penna d’argento a fianco del dischetto.
La donna, l’unica a non aver ancora parlato, apre una busta che ha estratto dalla borsetta, e accosta un biglietto della lotteria Italia agli altri due oggetti.
«Io sono Dora. Essere qui, adesso, è la mia vittoria. Vi spiego perché.»
Così anche lei prende a raccontarsi.
Mario sa che se i suoi ospiti sono arrivati contemporaneamente, è perché avevano bisogno non soltanto della locanda, ma anche gli uni degli altri. È sicuro che le loro vite rimarranno in qualche modo intrecciate anche quando lasceranno l’alloggio, una volta “guariti”. Come, non lo sa, ma non è importante: nuove strade si stanno tracciando.
Dopo la cena, trascorsa ad approfondire le reciproche conoscenze, è ormai notte. Fuori, nel silenzio della città che si appresta a prendere sonno, la nebbia si è diradata. Mario consegna a ognuno le chiavi delle rispettive stanze. Non lo sorprende più di tanto il fatto che Dora e Sara vogliano dormire insieme.
Quando si augurano la buonanotte, Sara ha un’ultima domanda per Mario.  É la stessa che vorrebbero fargli Ennio e Dora, ma lei li precede, con quel pizzico di sfrontatezza giovanile che ha ritrovato nelle ultime ore.
«Mario...»
«Dimmi.»
«Che c’era scritto, sul cartiglio, quello di Lilia?»
Mario sorride. Dal taschino del gilet, all’altezza del cuore, estrae il bigliettino e lo va a posare accanto agli altri oggetti, solo apparentemente male assortiti. A guardar bene compongono un disegno perfetto, armonioso. Una trama incantevole, come quella della sua città.
Ognuno dei tre legge il biglietto in silenzio. Poi, si abbracciano senza più necessità di parlare.

Saliti gli ospiti ai piani superiori, Mario rimane solo. Sente Lilia vicina come non mai. Prima di andare a sua volta a riposare, dà un’occhiata al cartiglio, quello con la verità che tanti anni prima, da solo sul ponte, non era riuscito a vedere. 

“D’amore non si muore, mai. D’amore si vive.”


Complimenti a Laura Tarchetti per questo bel racconto pieno di suggestioni!

Ed ora, cala il sipario su questa prima edizione del Masterbook, in attesa della prossima avventura: nel 2023!



Alla prossima

dalla vostra

Stefania Convalle

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

martedì 20 dicembre 2022

Numero 422 - MASTERBOOK - Il racconto del terzo classificato - 20 Dicembre 2022


Oggi ci occupiamo del terzo classificato al primo Masterbook della storia. 
Come sapete si è appena concluso. 

Riporto quanto già detto in proposito nei precedenti numeri del blog (il 420 e 421) dove ho postato i racconti dei primi due classificati, in caso non abbiate letto. Insomma, è lo stesso "cappello" ;-)

Qualche mese fa mi era venuta questa idea, di creare un Premio Letterario un po' diverso - a eliminazione - attraverso varie Fasi e Prove diverse da quello che si è abituati a vedere.
Il risultato è stato eccellente: tanti partecipanti che si sono messi in gioco; tanto pubblico che ha partecipato anche al voto popolare; una bella condivisione tra le tante persone che amano scrivere e leggere. Il tutto in una serena atmosfera di competizione sportiva.
Desidero, dunque, ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa nuova mia iniziativa. 

Un ringraziamento particolare alla Giuria tecnica, composta dal mio Team di collaboratrici: Cinzia Baroni, Silvana Da Roit, Tania Mignani, Tiziana Mazza e Maria Rita Sanna. Con estrema dedizione e serietà hanno impiegato tanto del loro tempo per leggere, rileggere e scegliere - a volte con difficoltà - i testi, e quindi i concorrenti da mandare avanti. Hanno investito anche i personali sentimenti ed emozioni, con un grande senso di responsabilità. Sono davvero speciali e le ringrazio.
 

La mia menzione d'onore va a 

BARBARA ROMANO

per il suo percorso all'interno del Masterbook 

e per la penna talentuosa.

 
 I risultati finali GIURIA TECNICA

 1° Classificata

Tatiana Vanini

2° Classificato

Stefano Buzzi

 3° Classificata

Giuliana Degl'Innocenti

 4° Classificata

Laura Tarchetti

 

Risultato finale VOTO POPOLARE

 L'incipit che ha ottenuto più preferenze è stato quello di 

Tatiana Vanini

 

Complimenti alla vincitrice e a tutti gli altri finalisti, arrivare in finale in una competizione così strutturata è un ottimo risultato del quale andare orgogliosi!
 
In questo Blog riporterò i quattro racconti finalisti, nella loro interezza.
Li posterò uno alla volta perché sono lunghi e quindi meglio dare uno spazio singolo a ognuno.
Procederò in ordine di classifica e quindi ecco a voi, oggi,  il racconto terzo classificato.

VIAGGIO NELLA MENTE

di

Giuliana Degl'innocenti

 

 I

 

La sala d'attesa era avvolta da una gradevole penombra che sembrava avesse il preciso scopo di distendere i nervi e predisporre l’umore al dialogo. Gabriele sedeva sul divanetto in velluto verde con la testa sostenuta dalle mani, mentre i gomiti poggiavano in modo sempre più pressante sulle sue ginocchia, vagando meditabondo ormai da una decina di minuti nell’oceano dei propri pensieri.
«Avvocato Maestrelli? Si può accomodare, il professore si è liberato.»
La voce squillante della segretaria del preclaro psichiatra lo raggiunse nell’istante in cui si trovava assorto nella contemplazione di un grande stampa, posta sulla parete dinanzi a lui: si trattava della riproduzione del quadro di Van Gogh intitolato Barche da pesca sulla spiaggia di Saintes. Si riscosse bruscamente.
«Oh grazie… Arrivo.»
La stanza dell’anziano terapeuta era arredata con cura, seguendo uno stile tradizionale ma non austero, probabilmente volto a indulgere i pazienti a una equilibrata ambientazione. L’immancabile lettino in pelle scura campeggiava di fianco alla scrivania dell’esimio docente, e a Gabriele Maestrelli sembrò che quel sedile lo stesse aspettando da tempo e che lui fosse giunto a quarantasette anni compiuti lottando con tutte le sue forze per evitare di adagiarcisi. Chissà.
Dopo qualche breve convenevole, il Professor Burchianti lo fece finalmente distendere e proruppe con voce pacata ma risoluta: «Avanti Avvocato, tragga un bel respiro e poi inizi col raccontarmi ciò che la turba, cominci pure da dove desidera, l’ordine temporale non conta, contano solo i fatti. Proceda pure, l’ascolto.»
L’Avvocato Maestrelli, allora, vinto l’imbarazzo cominciò.

«Innanzitutto, Professore, tengo a precisare che è la prima volta in tutta la mia vita che mi rivolgo a uno psichiatra.»
«Tutti abbiamo bisogno di aiuto, presto o tardi, non lo sa?»
«Sì, ma non necessariamente questo genere di aiuto. O almeno, io pensavo di non averne bisogno. Sono un civilista, mi occupo di fallimenti e procedure concorsuali. Ho all’attivo numerosi successi professionali, sono sempre stato un uomo che si è conquistato tutto con le sue sole forze, sa, non provengo insomma da una dinastia di legali come tanti miei colleghi. Fin da giovane, avendo perso presto i genitori, mi sono assunto grandi responsabilità, non mi fa paura niente e ce l’ho sempre fatta, cavandomela a testa alta. Ma questa donna mi ha messo davvero kappao e sono qui, ora che è finito tutto, per capire cosa mi è accaduto.»
«Da quel che mi dice forse ha preteso troppo da se stesso. Non siamo invincibili. Ognuno di noi ha diritto ad accettarsi nelle proprie fragilità. Comunque, prosegua in tutta tranquillità.»
 
Iniziò tutto per caso. Gabriele Maestrelli viveva da quattordici anni assieme alla moglie in un quartiere periferico della città, praticamente sin da quando si era sposato. Un matrimonio d’amore, il loro, dal quale non erano nati figli, ma che si era tuttavia strutturato all’insegna del rispetto e della condivisione costante di ogni esperienza di vita. 
Roberta era una donna mite e tranquilla, anche se decisamente fredda e spesso assente emotivamente rispetto all’approccio vivace ed entusiasta che aveva lui nel modo di condurre l’esistenza. Comunque, tra alti e bassi erano sempre riusciti a non cadere, mantenendosi in equilibrio sul filo della quotidianità composta di compiti da correggere, essendo lei insegnante di lettere, e atti da redigere e consegnare agli ufficiali giudiziari, lui, dirigendo appunto da solo lo studio legale di cui era titolare.
Giunse il 2020, lo spartiacque dell’esistenza mondiale, ma anche il grande punto di svolta nelle vite di ogni singolo individuo. La pandemia, infatti, con i suoi tentacoli sinuosi strinse nella morsa della paura dell’isolamento forzato chiunque, generando solitudine e obbligando ciascuno alla prova più dura: l’esame della propria dimensione introspettiva. Ebbene, Gabriele Maestrelli ne uscì sconfitto. Si era sempre ritenuto un uomo forte, amava definirsi un resiliente; invece, il distanziamento sociale, la clausura e il timore diffuso, lo costrinsero a fermarsi e a ripensare alla sua vita. E si scoprì solo, vulnerabile e bisognoso di attenzioni. Roberta era sempre lì con lui, ma dava per scontate troppe cose e tutto quello che fino ad allora anche a Gabriele era sembrato naturale o che in ogni caso aveva accettato rimettendosi senza fiatare, adesso iniziava a pesargli come un macigno, provocandogli un sempre più pressante desiderio di calore umano, intriso di vivo interesse, di accesa attenzione, di ardente apprezzamento. In poche parole, la vanità personale batteva cassa alle porte della coscienza dell’avvocato: ebbene, la dottoressa Manuela Lodovici rappresentò la risposta a questo suo bisogno inespresso.
Ma a quale prezzo?
L’aveva conosciuta a causa del suo lavoro, essendo lei dottore commercialista, curatrice fallimentare di molte procedure concorsuali di cui si era occupato. Lo aveva notato da tempo, ben prima del dilagare pandemico. Gli aveva messo gli occhi addosso proprio come sanno fare le donne quando vogliono qualcuno, o meglio, nel caso di specie, quando intendono ottenere qualcosa da qualcuno. Iniziò con fare discreto a contattarlo dietro giustificazioni lavorative, sempre con modi eleganti ed estremamente gentili. Cominciò così una vivace frequentazione costituita da messaggi in chat e brevi appuntamenti per un drink presso il bar del tribunale in un clima che si andava facendo sempre più disteso e appagante. Per ogni dubbio giuridico più disparato, Manuela si rivolgeva a lui, chiedendogli lumi, conferme, spiegazioni. L’avvocato Maestrelli – immancabilmente   non disattendeva mai a ogni richiesta della giovane contabile, lieto di venirle in soccorso. 
Sì, perché il punto debole di Gabriele era sempre stato la percezione di non essere apprezzato abbastanza, lei lo aveva capito e stava iniziando a tessere la sua tela donandogli apparentemente proprio tutta quell'attenzione e stima di cui lui sembrava essere orfano da tempo. 
E così entrarono in confidenza. 
Il loro rapporto si sviluppò attraverso una stimolante amicizia, contraddistinta da un numero sempre più crescente di messaggi istantanei con le applicazioni più diffuse, la quale non fece che accrescere in maniera esponenziale la necessità per l’avvocato di avere un confronto quotidiano con Manuela. Poi lei iniziò a cercarlo anche al di fuori dell’orario di lavoro, magari dopo cena, attraverso una sequela indefinita di vocali o comunicazioni in chat sui temi più vari, ai quali Gabriele rispondeva sempre con entusiastica sollecitudine. 
Gli era capitato di avere rotto con diversi amici perché aveva il brutto vizio di dire in faccia alla gente ciò che pensava e perché non amava piegarsi mai al compromesso della falsità, così la frequentazione con la giovane commercialista gli sembrò uno spiraglio verso l’opportunità di una nuova conoscenza e magari anche verso l’instaurazione di una sincera amicizia.
Finalmente una persona onesta e leale, con cui posso aprirmi e parlare di tutto. Era sempre più convinto di questo, l’avvocato Maestrelli. E di conseguenza si fidò. Furono molti i fattori che determinarono il gioco, primo fra tutti il desiderio di essere compreso nella propria solitudine emozionale, e in questo Manuela pareva una maestra di sensibilità ed empatico ascolto. Solo dopo gli venne il dubbio che la giovane avesse studiato delle tecniche di programmazione neuro linguistica, ma al momento le parve spontanea e trasparente nelle sue dimostrazioni d'interesse.
Tempo un mese e poi un sabato pomeriggio col suo fare apparentemente candido, ma in realtà assai poco limpido, gli propose in modo indiretto: Ciao, sono qui al mare, mi raggiungi?
Roberta era impegnata nella correzione degli elaborati dei suoi studenti e ne avrebbe avuto per l’intera giornata; così Gabriele, che non aveva atti in scadenza da preparare, acconsentì all’invito e si mise a bordo del suo fuoristrada in direzione della litoranea. Durante quel primo incontro al di fuori del contesto lavorativo, parlarono a lungo e soprattutto Manuela gli affidò diverse confidenze sul suo passato rivelandogli diversi particolari inerenti traumi psicologici ed emotivi che aveva subito in giovane età, nonché lo mise a parte anche dei diversi problemi di salute che si trovava a fronteggiare da alcuni anni. Lo impietosì e lo fece sentire unico e importante avendolo, appunto, scelto tra tanti estranei per quelle esternazioni così intime e riservate. La vanità di lui ne uscì trionfante.
Decise di non parlare se non per lo stretto indispensabile di quella giovane donna a sua moglie, almeno per il momento, perché desiderava che quella amicizia che lo faceva sentire così tanto utile rimanesse una cosa sua, e pertanto pensò di proseguire la sua vita in questo modo. 
Manuela gli aveva raccontato di essere single e di vivere da sola poco lontano dai genitori che la tormentavano sempre con mille angustie e problemi. Gli aveva detto che si era fatta carico di grandi responsabilità familiari fin dalla più giovane età e di essere sempre lei a dover risolvere le questioni più spinose della famiglia. Lui le aveva creduto. Era convincente, suadente, seduttiva nella capacità di persuadere l’interlocutore, chiunque esso fosse. E Gabriele ravvisò nelle asperità della vita di lei una forte rassomiglianza con le difficoltà che aveva incontrato lui stesso nel suo passato, così pensò sempre più seriamente di impegnarsi ad aiutarla.
 
«Mi scusi, avvocato, se interrompo il suo racconto, ma in tutto questo che ruolo ha assunto sua moglie?»
«Gliel’ho detto, l’ho lasciata fuori, perché non avrebbe capito. Non è come me, ha un carattere razionale, pragmatico, a lei non sarebbe mai capitata una cosa del genere. Io sono un emotivo, se sento che una persona ha bisogno di aiuto corro senza pormi troppe domande.»
«Vada avanti.»
 
 
 II
 

I contatti in chat tra Manuela e Gabriele si fecero sempre più fitti e frequenti, arrivarono a sentirsi in ogni fascia oraria del giorno e, contestualmente, l’avvocato Maestrelli iniziò ad avvertire un forte senso d’ansia se per qualche ragione lei non si faceva sentire o ritardava nel rispondere ai messaggi. Praticamente una sorte di apprensione crescente e un senso di smarrimento se la donna non si palesava rassicurandolo sul proprio stato di salute o sul suo umore sempre un po’ precario.
Ma cosa mi sta accadendo?
Capitò, ad esempio, in più di un’occasione, che lui si trovasse magari a cena fuori in compagnia della moglie o di altre amicizie e che lei, al corrente di ciò, lo cercasse rivelandogli che si sentiva poco bene; e alle domande pressanti di Gabriele, che in apprensione le chiedeva se si trovasse da sola, lei omettesse per un po’ di rispondere, accrescendogli il timore che potesse stare male senza che nessuno le fosse accanto per aiutarla, salvo poi, dopo un’abbondante sequela di messaggi di tenore sempre più apprensivo, sciogliergli la tensione dicendogli: Tranquillo, ci sono i miei qui da me… 
Capitò anche che la ragazza cominciasse a dargli appuntamento, sempre in modo indiretto, in località abbastanza distanti dal suo luogo di lavoro. Oggi mi trovo qui, avrei bisogno di parlare, se ti va di raggiungermi… 
E così Gabriele iniziò a recarsi da lei quando Manuela lo chiamava, magari incastrandola tra un appuntamento e l’altro della giornata per darle ascolto, non venendo mai meno alle sue richieste di aiuto. Gli raccontò, infatti, di essere coinvolta in qualità di persona offesa in una questione che era sfociata in un procedimento penale il quale le procurava appunto un gran tormento e di essere seguita da un legale poco attento e scrupoloso di cui iniziava a dubitare. Cominciò a sfogarsi con lui anche di questo e a cercare dall’avvocato Maestrelli un costante sostegno pure dal punto di vista professionale, oltre che umano. Lui non si sottrasse e le dedicò tutto il tempo di cui la giovane dimostrava avere bisogno. La tranquillizzava, l’ammoniva, quando Manuela manifestava qualche intemperanza e la seguiva costantemente in tutte le situazioni di cui la ragazza lo metteva a parte chiedendogli una mano. Si vedevano spesso nel pomeriggio sul presto, sempre a comodo della donna e quando lui dimostrava qualche perplessità in ordine all’orario dell’incontro, riusciva sempre a spuntarla, strappandogli un sì. Decideva lei, insomma.

«Ma perché faceva tutto ciò, scusi? Se lo è mai chiesto in quel periodo?»
«Volevo aiutarla perché mi faceva sentire importante.»
«Ancora la vanità, quindi.»
«Penso di sì.»
«Immaginavo. Le emozioni che ci spingono ad agire in un certo modo non sono molte, sa, anche se amiamo tutti nasconderci dietro nobili ideali. Il sesso, l’invidia, la vanità, la brama di potere o di denaro, l’odio o… l’amore. Prosegua pure.»

Giunse la primavera e con essa Gabriele pensò di dare una svolta a quel legame di strana amicizia che si era creato con Manuela, proponendole lui qualche occasione di incontro. Gli parlava sempre del suo amore per la pittura e così, visto che l’avvocato aveva l’hobby di dipingere, decise di invitarla ad alcuni eventi dove esponeva dei suoi quadri. Tutte le volte lei si mostrò fortemente interessata, ma poi riuscì più o meno disinvoltamente a declinare l’invito e a non andare. 
Dopo qualche settimana di questo atteggiamento ambivalente, glielo fece notare e Manuela, allora, lo trattò con freddezza pungendolo con queste parole: sai, ora frequento altre persone, ho molti amici e poco tempo a disposizione. 
Si sentì ferito e deluso da questa risposta. Dopo tutta la disponibilità dimostratale e le ore che le aveva dedicato, lo liquidava come un estraneo qualsiasi che la stesse solo infastidendo.
Perché allora non sei andata da tutti questi amici a chiedere sostegno? pensò Gabriele, e gli montò una gran voglia di spedirla affanculo. Ma non ribatté, perché nonostante tutto gli faceva pena. Per circa un mese non la sentì più. Avrebbe dovuto capire e troncare lì. 
E invece no. 
Si approssimava una delle udienze che la vedevano coinvolta e così si rifece viva. Lo contattò angosciata e tremendamente in ansia per chiedergli consigli, suggerimenti. Un aiuto per l’ennesima volta. Lui l’ascoltò ancora. E la loro frequentazione in chat e nella vita reale a esclusivo comodo di Manuela ricominciò daccapo.
In quella tarda estate post pandemica l’avvocato Maestrelli ebbe modo di conoscere, poi, anche i genitori di lei e di entrare sempre più in confidenza con le questioni giuridiche di quel nucleo familiare. Si sentiva appagato dall’interesse che quella ragazza e i suoi familiari gli dimostravano a seguito dei pareri che offrì loro sulle problematiche sottoposte.
Tuttavia, la giovane commercialista iniziò a manifestare un contegno sempre più strano, che all’epoca lui non volle vedere. Capitava che gli desse appuntamento come al solito a suo esclusivo tornaconto, che lui magari si liberasse per incontrarla e lei, all’ultimo momento, lo chiamasse per disdire l’incontro, vuoi perché era sopraggiunto un altro impegno, vuoi perché le era capitato un imprevisto, vuoi perché si era fatto scuro e temeva che piovesse. E lui accettava sempre, di buon grado, rispettoso delle fragilità che affliggevano la ragazza e delle quali lo aveva messo al corrente da tempo.

«Mi scusi, avvocato, una domanda: le è mai passato per la mente che Manuela si fosse innamorata di lei e volesse metterla alla prova?»
«No, all’epoca dei fatti pensavo fosse solo una donna con dei problemi di salute, ma in buona fede. Tutto cambiò quando iniziai a sentirla nella mente.»
«Si spieghi meglio, per favore.»

Gli aveva parlato del Narciso come del fiore che amava di più e così, quasi per magia, lui iniziò a vedere questa pianta un po’ ovunque. Apriva casualmente un social e vi trovava la foto di questo virgulto, girava lo sguardo su un muro cittadino e vi scorgeva un cartellone pubblicitario su cui era impresso questo dannato fiore. Insomma, Gabriele entrò pian piano in un loop in cui riteneva che lei, anche a distanza, gli facesse avvertire la sua presenza e lo controllasse.
È  una cosa folle, non è possibile.
Le coincidenze però aumentarono a dismisura e con esse si strutturò in lui, da sempre interessato al paranormale, il convincimento che Manuela si dedicasse all’esoterismo. I suoi sospetti ebbero conferma quando, in occasione di un incontro tra i due, lei gli confessò di essere capace di avvertire le presenze dei defunti e in un crescendo di esaltazione gli confidò pure di aver ricevuto un messaggio psichico da parte della madre di Gabriele, deceduta appunto oltre quarant’anni prima. Lui rimase sorpreso e alquanto sconvolto da questa rivelazione.
Puoi metterti in contatto con gli spiriti, è questo che mi vuoi dire?
Certo, anche per te c’è stato un contatto: tua madre. 
Poi gli offrì alcuni particolari che solo lui conosceva e ciò lo turbò molto. Per due notti non dormì e non ne parlò con nessuno. Poi, a mente fredda, decise di iniziare a prendere lievemente le distanze da lei.

«Perché, avvocato Maestrelli, maturò l’idea di distanziarsi da questa persona?»
«Perché compresi che mi stavo incamminando su un terreno imperscrutabile e pericoloso. Si moltiplicarono gli eventi strani e cominciai a sentirmi sempre più inquieto. Sembrava che lei stesse assumendo il controllo della mia mente.»

Giunse l’inverno e con esso il Natale. Gabriele decise di incontrarla per lo scambio degli auguri e le propose un appuntamento. Manuela declinò optando per un altro giorno a lei maggiormente conveniente. Lui, sempre più infastidito dall’opportunismo della ragazza, glielo fece notare; nonostante ciò, si videro quando faceva comodo alla donna. Le portò in dono un oggetto che aveva ricercato con cura secondo il gusto dell’amica; lei, invece, gli rifilò un’anonima cravatta, quasi che in quanto uomo dovesse piacergli per forza quell’accessorio. La sua insensibilità lo irritò ancora di più. 
Fu l’ultima volta che si videro. 
Poi l’avvocato Maestrelli le scrisse una lunga mail in cui le esponeva il suo pensiero, non avendo compreso il motivo del comportamento ambivalente e bizzarro tenuto da Manuela nei suoi riguardi. Non ebbe alcuna risposta e non la rivide né sentì più. Almeno in chiaro.
Con l’amaro in bocca per non essere riuscito a capire il comportamento di quella persona che per circa due anni aveva creduto essere un’amica e invece si era rivelata solo un’egoista, decise di riprendere in mano la sua vita dimenticandosi di tutto. In fondo era stata solo l’ennesima riprova dell’utilitarismo sociale di cui molte persone fanno il proprio stile di vita e niente più. 
E invece Gabriele Maestrelli si sbagliava. 
Manuela tornò alla carica in una veste nuova.
Innanzitutto cominciò diffondere in Rete contenuti e post chiaramente riferiti a lui in cui lo invitava in modo piuttosto aggressivo a lasciarla stare, a non molestarla più e a non tormentarla oltre. Gabriele dapprima la ignorò, poi, vedendo che su ogni social in cui era presente la giovane insisteva a rivolgere, sia pur anonimamente, chiari strali accusatori nei suoi confronti, iniziò a infastidirsi e soprattutto a chiedersi che cosa avesse fatto per meritarsi quelle irose invettive.

«Voleva attirare la sua attenzione e lei avvocato ci è caduto, vero?»
«Io non le avevo fatto assolutamente niente di male. L’avevo solo aiutata. Dovevo reagire in qualche modo.»
«Assolutamente no. Avrebbe dovuto continuare a ignorarla.  Si trattava di un chiaro tentativo di manipolazione. La signorina temeva di perdere il controllo sulla sua preda e ha giocato la carta del discredito e della violenza verbale utilizzandola come un amo al quale lei ha abboccato. Vada avanti, la prego.»

Gabriele si sentiva sempre più inquieto e triste. E così, quasi senza accorgersene, entrò nel circolo vizioso del controllo paranoico degli aggiornamenti della ragazza sui social network più diffusi e contestualmente cominciò a sentirsi suggestionato nella psiche dalla presenza di Manuela.

«La sentivo nella testa, Professore, e sapesse per quanti mesi ho continuato a percepirla ancora nella mia mente.»
«È più che probabile che avesse delle cognizioni, sia pur rudimentali, di programmazione neuro linguistica, insomma sapeva come e dove colpire.»
 
 
 III
 

L’avvocato ne parlò a sua moglie, ai suoi amici, ma tutti tesero a sminuire; tuttavia dentro di sé Gabriele sentiva che i suoi timori erano fondati, che quella donna possedeva delle capacità psichiche che le permettevano di intrufolarsi nella mente delle persone influenzandole a distanza. Decise di confrontarsi con una sua amica fidata che, come lui, aveva una discreta sensibilità verso questo tipo di fenomeni. La donna gli diede conferma della pericolosità di questa giovane e del disagio psicologico che evidentemente l’affliggeva, tanto da indurla a un comportamento così assurdo e incomprensibile.
Stai attento Gabriele, questa tipa non mi piace: non ha buone intenzioni e non è un’amica, non ti fidare. 
Maestrelli ne prese atto, ma non riuscì a ignorare la situazione benché ci avesse provato con tutte le sue forze.  Il suo carattere emotivo, proclive ad approfondire e soprattutto a capire gli altri, gli resero impossibile trascurare l’atteggiamento della ragazza, le frasi che scriveva, i pensieri che esternava di volta in volta. Non rispose mai alle provocazioni di Manuela, così si accorse che tale suo atteggiamento innescava nella donna un mutamento repentino del suo contegno virtuale nei propri confronti. La ragazza, infatti, constatando l’assenza di reazione da parte di Gabriele e non trovando evidentemente soddisfazione, cominciò a provocarlo attraverso la pubblicazione e condivisione in Rete di contenuti amorosi connotati da una evidente esaltazione psicoemotiva. Il messaggio subliminale praticamente era: “Ti voglio. Tanto lo so che mi vuoi anche tu”. A tamburo battente. Finse di ignorarla ancora. Ma tutto ciò diventava sempre più intollerabile.
Che vuole da me?
L’aveva aiutata umanamente e legalmente, assistendola e consigliandola sulle problematiche giuridiche e personali che gli aveva esposto; quando non le era più stato utile, aveva rifiutato la sua amicizia, e allora che cosa voleva ancora da lui? Scorgeva richiami che rimandavano a lei nelle canzoni passate alla radio, nei brandelli delle conversazioni captate sull’autobus cittadino, sui volantini pubblicitari lasciati nella cassetta della posta, ovunque. 
Era terribile.

«Mi perdoni, avvocato, solo una domanda: perché non l’ha bloccata sui social e cancellata dalla rubrica del suo telefono?»
«Perché volevo vedere dove intendeva arrivare. Dovevo capire chi era e che cosa voleva da me.»
«Da cosa si accorgeva che queste pubblicazioni erano riferite a lei?»
«Perché condivideva e scriveva di aspetti di cui avevamo parlato insieme a lungo o in relazione a ciò che magari pubblicavo io sulla mia pagina web dello studio professionale.»

Dopo la fase di infatuazione amorosa seguì quella di odio viscerale colorata da chiari riferimenti esoterici. Iniziò a rivolgergli contro accuse di pratiche occultiste e a dichiarare di rifuggire come la peste questo presunto molestatore satanista che a dire della giovane non le dava tregua. In quel preciso momento Gabriele realizzò che non aveva più a che fare con una persona equilibrata, ma con un soggetto affetto da un gravissimo disagio psichico e gli tornò alla mente in tutta evidenza il monito della sua cara amica sulla pericolosità di Manuela.

«La stava provocando, avvocato, con altra strategia.»
«Ma perché?»
«Me lo dica lei il perché.»
«Professore, sono venuto qui nel suo studio proprio in quanto avevo bisogno che qualcuno mi aiutasse a capire perché è avvenuto questo e che cosa voleva Manuela da me, e lei mi rigira la domanda?»
«Certo. Perché ognuno di noi possiede la risposta ai propri interrogativi. Gli altri possono solo metterci sulla strada per scoprirla, ma è già presente dentro la nostra coscienza. Non l’aiuterei affatto se gliela suggerissi. Vada avanti.»

Gabriele ripensò a tutte le conversazioni e ai confronti che aveva avuto con la dottoressa Lodovici, anche sulle tematiche spirituali, e si convinse che stava usando tutto ciò che le aveva raccontato riguardo alle sue letture, come grimaldello per tentare di scardinare la sua indifferenza e trascinarlo giù nel vortice della follia assieme a lei. Magari per il gusto di dominare la sua mente, manipolarla e poi annientarla.
Ma perché? E perché ha scelto proprio me?
Ciò che lo feriva di più in questa situazione, al di là della necessità sempre più forte di riuscire a liberare la mente da quella presenza psichica così ingombrante, era il fatto che a prescindere dall’ingratitudine dimostrata dalla ragazza nei suoi confronti riguardo al sostegno offerto, gli si era addirittura ritorta contro in un’escalation delirante di odio e pazzia, senza che lui, anche a livello ipotetico, le avesse rivolto alcun genere di azione scorretta, bensì aiutandola in ogni occasione.
Iniziò poi a disprezzare la sua immagine, era sufficiente che Gabriele pubblicasse sui social una foto di sé stesso in studio, o magari mentre dipingeva seduto dinanzi al suo beneamato cavalletto, che lei immancabilmente gli rispondeva con un contenuto mortificante e svalutante inerente alla sua persona, attaccandolo sul lato estetico con sadico compiacimento. 
In rapida sequenza, quindi, si susseguiva sempre lo stesso iter: il tempo di aprire la pagina web, guardare, uscire e rimettersi il cellulare in tasca e poi cercare di archiviare tutto. Si era ripromesso più volte di non osservare più niente riguardo alle condivisioni di Manuela, ma ogni volta che si avvicinava allo Smartphone l’ansia si impadroniva di lui e non poteva fare a meno di controllare.
Mi tiene in scacco così. Stronza.
Poi un giorno, all’indomani delle festività pasquali, Gabriele Maestrelli decise di fare un atto di coraggio e provare a liberarsi bloccando il contatto della ragazza ovunque e così procedette.

«Qual è stata la molla che le ha permesso di agire in questo modo?»
«La sua rivelazione di aver riferito a miei conoscenti tutte quelle assurdità di cui mi stava accusando. Decisi che era giunto il momento di non darle più corda ed eliminarla completamente.»
«Non è stato facile, vero?»
«No. Rimuovere una persona dalla Rete è questione di un istante; dalla mente è un’operazione assai più complessa.»
«E ci è riuscito?»
«Sì. Grazie a un gruppo di pittori dilettanti come me, che ho iniziato a frequentare; mi hanno aiutato molto e adesso non ricordo quasi più nemmeno il volto di Manuela.»
«E allora perché si trova qui da me?»
«Il motivo gliel’ho esposto all’inizio della seduta, professore, voglio capire perché mi è capitato e soprattutto che cosa voleva questa persona da me.»
«E io gli ho già detto che la risposta è dentro di lei, avvocato.»
«Ma che razza di psichiatra è lei?»

Il professor Burchianti sorrise, poi si aggiustò gli occhiali sul naso e gli rivolse una domanda.
«Dica un po’: cos'ha imparato da questa vicenda?»
«Che le persone vanno messe alla prova dei fatti, non servono a niente le dichiarazioni di intenti, occorre vedere come gli individui agiscono nella realtà e verificare se si comportano in modo coerente con ciò che affermano. Altrimenti è inganno, manipolazione, assoggettamento.»

Proprio in quel momento, dalla finestra un fendente di sole squarciò la penombra ruffiana di quella stanza silenziosa e Gabriele Maestrelli provò una sensazione di sollievo indicibile, quasi che quel masso orribile, che per tutta la sessione col dottore aveva premuto col suo peso volgare sulla sua coscienza, come per incanto fosse rotolato via, donandogli finalmente quiete e serenità.

«Vedo che ha compreso la lezione. Mi compiaccio. Se non l’avesse capita, sarebbe stato destinato a ripetere la stessa esperienza, funziona così, sa?»
«Però non ho ancora capito che cosa volesse da me Manuela.»
«Oh, Manuela… Alice, Claudio, Francesco, Sara o se preferisce Martina… Non hanno significato, sono solo strumenti che servono a farci acquisire consapevolezza, la veda così.»
«Come sarebbe, strumenti? Per me le persone sono fini, non mezzi.»
«Vedo che ha interiorizzato la lezione kantiana. Bene, bravo. Ma ciò a cui mi riferisco io è un altro genere di cose.»
Burchianti si alzò lentamente dalla sedia sulla quale era seduto da quasi un’ora, controllò il segnatempo sulla scrivania, mancavano pochi minuti allo scadere della seduta. Intrecciò le mani dietro la schiena e iniziò a passeggiare per la stanza con aria meditabonda. L’atmosfera era immutata, tuttavia Gabriele provò una punta di rabbia verso lo psichiatra, gli sembrava di non essere preso sul serio dall’esimio professore. Gli succedeva sempre, quando qualcuno non gli dava risposte esaurienti, ma anzi preferiva tergiversare come pareva fare Burchianti in quel frangente; una forte irritazione si impossessava di lui e non riusciva più a contenersi né a vedere in modo oggettivo la realtà. Era un suo limite, ma non poteva farci niente. Si rizzò a sedere sul lettino e rosso in volto per l’eccitazione esclamò: «Quali cose? Mi prende forse in giro?»
«Avvocato Maestrelli, qui non siamo in Tribunale, nessuno deve convincere nessuno. Le sto semplicemente dicendo che non ha importanza il cosa volesse questa ragazza da lei, ma piuttosto il fatto che da tutta questa vicenda ne sia uscito migliorato e più consapevole.»
«Ma cosa c’entra? Io sono stato male per via di questa storia, voglio sapere chi era, cosa pretendeva da me e perché ha agito così.»
«Lei è un impulsivo, avvocato. Non va bene.»
«Sono quello che sono.»
«Cosa si aspetta che le dica? Che Manuela era una persona malata? Certo che sì, da quello che mi ha riferito emerge una personalità molto probabilmente affetta da disturbo borderline con punte psicotico-narcisistiche, quasi sicuramente aggravata da una accentuata bipolarità, ma con ciò? Cosa le cambia? Le persone malate esistono, sono sempre esistite, sovente omettono di curarsi e spesso vanno in giro a produrre danno. Prenda atto di ciò, non poteva aiutarla di più, né poteva aspettarsi gratitudine o altro, si tratta certamente di un soggetto con gravi patologie psichiatriche. Non si ponga ulteriori domande. Mi dia retta.»
«Ho capito.»
«Ah, un’ultima cosa, mi riveli una curiosità...»
«Dica pure.»
«All’inizio mi ha parlato del fatto che all’indomani della fine della pandemia provasse un senso di solitudine e desiderasse calore umano, come sta adesso?»
«Decisamente meglio, professore, grazie. Ho compreso molte cose in questi lunghi mesi, ho chiarito diversi aspetti della mia vita e ho pure riscaldato il mio cuore.»
«Merito di sua moglie oppure di un’altra persona in particolare?»
«Chissà...»

Il lasso temporale della sessione era spirato. L’avvocato Maestrelli si alzò dal lettino e si diresse verso l’attaccapanni in fondo alla stanza, prese la giacca e indossatala si avvicinò nuovamente alla scrivania.

«Grazie di tutto. Per il pagamento?»
«Può procedere tranquillamente con la mia segretaria.»


Un interessante racconto che diventa un'analisi della psiche umana e dei meccanismi contorti della mente, ponendo l'attenzione anche su quanto possano diventare nocivi i social. 
Brava, Giuliana!


Alla prossima
dalla vostra 
Stefania Convalle