Dietro la porta di Stefi
Rivista settimanale on line
n° 3 del 17 Febbraio 2014
In questo numero:
- Vi presento la redazione virtuale;-) di Stefania Convalle
- La vignetta della settimana
- Andy Warhol di Cinzia (in arte Fidanzacinzia)
- L'aforisma del giorno
- "In nome di Dio, dimmi chi sei!" di Francesco Meccariello
- L'angolo di Nonna Papera - Ricetta proposta da Giusi Inzirillo
Cari Lettori:-) Vi presento la redazione virtuale di Dietro la porta di Stefi: qui dentro ci siamo noi che, ogni settimana, diamo corpo a questa neo-rivista on line, solo per il piacere di farlo:-))
Mi piace pensare che in quella simpatica casetta della foto, Le Happy, ci si ritrovi per parlare insieme del numero successivo, proposte ed articoli. Al momento siamo in pochi, ma siamo talmente entusiasti che sembriamo almeno il doppio! Cinzia, poi, vale per tre!;-)
Questa settimana il numero si arricchisce di qualche elemento in più: una vignetta e un aforisma; ne ho scelti due che credo susciteranno una discussione, specialmente l'aforisma di Wilde: è una provocazione?
Fidanzacinzia ci regala un altro servizio fantastico su un artista geniale quale Warhol; un grazie particolare a lei che sta facendo davvero il lavoro della "giornalista", creando articoli per noi fatti di ricerca. Immagino il tempo che dedicherà loro e quindi voglio ringraziarla pubblicamente e farle i complimenti perché sta facendo cose davvero interessanti!
Oggi, poi, per gli amanti della letteratura, vi propongo un simpatico racconto di Francesco Meccariello, autore schivo, ma dalla penna fantastica! Non perdetevelo!
Infine, la ricetta della settimana è stata suggerita da Giusi Inzirillo, simpatica signora palermitana che ci ha voluto proporre un dolcetto davvero veloce e gustosissimo!
Insomma, una rivista che sta prendendo corpo sempre di più e che spero si arricchirà di nuovi collaboratori. Chiunque abbia qualcosa da dire o da raccontare, può partecipare ai prossimi numeri, basta contattarmi all'indirizzo email: steficonvalle@gmail.com.
Nel frattempo, buona lettura a tutti!!
La vignetta della settimana
(Direi... molto in linea coi tempi che stiamo vivendo;-)...)
...
ANDY WARHOL (1928 – 1987)
di
Cinzia
Andrew
Warhola, in arte Andy Warhol, alla fine degli anni Cinquanta scopre una pittura
fredda, ripensata sull’immagine trasmessa dalla pubblicità, ripensando a se
stesso come artista-macchina che non inventa ma riproduce, che non interpreta
ma ripete all’infinito.
Nel
1961, realizza le prime bottiglie di Coca-Cola, poi le scatolette di minestra
Campbell: l’artista vuole emulare il comportamento ripetitivo di una macchina.
Warhol
riproduce quello che ama: i personaggi dei cartoons, i “miti” americani, i
biglietti da un dollaro, tutte cose “molto americane” per usare una sua
ricorrente espressione.
In
seguito, adotta la serigrafia per moltiplicare all’infinito un’immagine di
partenza, disegnata a mano, prevalentemente con colori vivaci e forti, ed il
passo successivo è la foto serigrafia, in cui un’immagine fotografica in bianco
e nero, fortemente contrastata, viene trasferita su di un telaio di seta per
poterla stampare su qualsiasi superficie piana.
La
struttura ripetitiva di Warhol conduce a fissare la tristezza della
ripetitività, la distruzione dell’espressione mediante l’informazione eccessiva
e la distruzione del gusto ad opera del consumo.
Alcuni
ritratti di star come Marilyn, Liz Taylor, Mao Tse-Tung e Che Guevara,
rappresentano le “maschere” proposte dagli stessi personaggi; Warhol le
ripropone rivitalizzandole con un potentissimo technicolor o reiterate
all’infinito all’interno di tele enormi.
In questo
modo, Warhol fa il suo ingresso trionfale nell’ambito della Pop Art e si trova
a gestire la trasformazione del suo studio in una “Factory”, una catena di
montaggio dedicata alla produzione di dipinti.
Dal
1964 sperimenta anche la scultura con materiali diversi, compensato, cartone,
ecc. assemblandoli insieme costruisce scatole e scatoloni in modo da riprodurre
fedelmente confezioni esistenti per prodotti di largo consumo.
Le sue
mostre sono spettacolari, l’allestimento è fondamentale e curato da lui personalmente,
le pareti sono tappezzate da ripetizioni modulari di una sua stessa opera,
agisce per “occupazione” dello spazio espositivo, ma la sensazione visiva non è
di riduzione dello spazio, bensì di ampliamento.
Per
esempio, alla mostra di ritratti di Elvis, in cui il divo, in posa da
pistolero, mette in atto un accerchiamento dello spettatore, che si sente
perduto in una scenografica galleria degli specchi.
Oppure,
ad un’altra mostra, Warhol tappezza una delle stanze con carta da parati che
riproduce all’infinito l’immagine di una mucca.
Quindi,
ecco il senso della Factory, la consistenza quantitativa della sua produzione
necessita di assistenti, una piccola industria, che ben presto diventa punto di
ritrovo culturale delle persone più
diverse: mercanti, critici d’arte, drag queens ed artisti di ogni tipo.
Il 3
giugno 1968 subisce un attentato, a sparargli è Valerie Solanas, una femminista
fondatrice dello S.C.U.M., la “società per fare a pezzi gli uomini”; in Warhol,
Valerie vedeva un abile manipolatore e sfruttatore del lavoro altrui.
Warhol
rimane in coma ed in ospedale per un mese e mezzo, poi si riprende, ma rimane
molto scosso dall’accaduto ed in seguito rifugge qualsiasi tipo di contatto
fisico, prende le distanze dalle persone e dalla vita.
Si
rende anche conto che durante il ricovero, lo staff della Factory ha continuato
a lavorare e conclude che il business dinamico è la migliore forma d’arte.
La
Business Art è il gradino subito dopo l’Arte, dice.
Si
dedica al montaggio di film, ma, volutamente, senza alcuna regia, ad
interviste, sperimentazioni, come quella di gestire un nuovo tipo di discoteca,
cioè, un gruppo di suoni, in un ambiente multimediale con luci stroboscopiche,
coreografie e spezzoni dei film di Warhol.
E
registra, registra continuamente, il microfono viene puntato contro chiunque si
avvicini, trasformando ogni situazione in un pezzo di teatro.
Colleziona
ed accumula fotografie, registrazioni, disegni, che conserva nelle sue TIME
CAPSULES, una serie di scatoloni tutti uguali, ognuno con un’etichetta
riportante mese ed anno, trasformando la sua casa (un lussuoso palazzo in stile
georgiano) in un magazzino debordante, in cui quasi nessuno è ammesso.
Nel
1987, viene operato per dolori addominali che ormai lo tormentavano da molto
tempo, ma muore il mattino seguente all’intervento.
Nel
1989, il MoMA di New York gli dedica una retrospettiva che viaggerà per il
mondo fino ad arrivare in Italia, a Venezia a Palazzo Grassi: Andy Warhol vi
partecipa nelle vesti del sosia da lui stesso assoldato verso la fine degli
anni Sessanta, Alan Midgette.
Warhol,
che voleva che sulla sua lapide comparisse semplicemente la parola “ finzione “, avrebbe indubbiamente
apprezzato.
La sua
più celebre opera d’arte è stato certamente se stesso.
...
In nome di Dio, dimmi chi sei!
di
Francesco Meccariello
Premessa: per incredibile che possa
sembrare, la vicenda narrata è una storia vera e le parole che danno il titolo
al racconto sono state realmente pronunciate. Alla fantasia sono affidati i
nomi e tutta una serie di dettagli che naturalmente non sarebbe più possibile
ricostruire.
Staccandosi
dal fianco occidentale del monte Taburno, il pennuto, volando in picchiata,
vedrebbe distendersi sotto di sé un’ampia valle, spanciata come una macchia
d’olio verso mezzogiorno e frastagliata al contorno dalle sporgenze delle
colline. Infilandosi tra due file di queste colline, si troverà in una gola,
nella quale gli comparirà il paese di L.
Qui,
nell’insenatura tra i rilievi, un folto agglomerato di case va stringendosi a
imbuto fino a scomparire tra i boschi. A metà dell’imbuto, scorgerà la chiesa
principale, al centro di una piazza pavimentata in porfido e in asfalto.
All’epoca
in cui avvennero i fatti che narriamo, avrebbe trovato un numero molto
inferiore di case, concentrate a ridosso delle colline. La chiesa, ora
intonacata e tinteggiata color paglierino, appariva in tufo a faccia vista.
Poche erano le strade, nessuna asfaltata.
Ma
lasciamo ora il volatile al percorso che preferisce, e andiamo a vedere cosa
accadde in quella certa notte di molti decenni fa.
Giuseppe
Tirone aveva la casa in un vicoletto fatto a scale al quale si accedeva proprio
dalla piazza. Là si dirigeva quella sera di fine novembre. Era una serata
piuttosto fredda e si era pure fatto tardi. La moglie, un donnone energumeno la
cui già poca dolcezza si era prosciugata da tempo, non avrebbe approvato il
ritardo. Il buon Giuseppe, però, si era rassegnato ad essere considerato sempre
e comunque in difetto, per cui colpa più, colpa meno…
Il
nostro uomo, al contrario della moglie, era di presenza piuttosto modesta:
oltre che basso, appariva magro e dinoccolato. Non per niente, lo chiamavano
Peppe ‘o tappo. Si era trattenuto più del solito all’osteria e strada facendo
almanaccava la bugia con cui avrebbe opposto una parvenza di giustificazione
all’ira della consorte.
Lo
stretto sentiero che doveva percorrere era in terra battuta, rifinita in
superficie con pietrisco sciolto. Le chiome degli alberi che costeggiavano il
viottolo ne invadevano parzialmente la sede.
All’epoca
non c’era l’illuminazione pubblica, ma la notte era serena e la luna quasi a
palla garantiva luce a sufficienza.
Peppe
osservava le figure degli alberi che affondavano nell’oscurità, i rami nodosi
che emergevano dal nero della notte. Il lettore che sia sempre vissuto in
città, a questo punto, difficilmente può comprendere cosa provava Peppe in quel
momento. Già, perché la notte di città non è come la notte di paese. In città,
di notte, semplicemente fa buio. Le strade si fanno deserte, le automobili vanno
a dormire, e tutto qua.
In
mezzo ai campi, la notte è un’altra cosa.
Alla
luce del sole la campagna obbedisce alla griglia rigida della logica, si
sottomette al dominio degli uomini e alle regole della loro ragione: ogni pezzo
sta al suo posto, è docile, misurabile, privo di volontà.
Di
notte, invece, quando il sole si ritira dietro le montagne, essa si anima e
prende il sopravvento, la natura, forza irrazionale, più antica e con più
futuro della nostra ragione, conquista il campo. Quanta differenza tra il canto
diurno dell’usignolo e il grido lugubre dalla civetta, tra il volo lineare
della rondine e il volteggio inquieto del pipistrello. Chi è stato da solo, di
notte, in campagna, chi ne ha udito la voce, conosce quel brivido che ci coglie
senza un motivo apparente, quell’istinto che ci spinge a scappare non si dove
né perché.
Era
questo il brivido che Peppe avvertiva percorrendo il sentiero. In mezzo alle
piante, tra i fruscii improvvisi delle frasche, temeva di imbattersi in quelle
creature della notte di cui gli raccontavano da bambino: storie di spiriti, che
sortiscono dalle latebre oscure dei boschi, si acquattano negli anfratti…
Peppe
allungò decisamente il passo, finché finalmente si trovò in piazza. Ancora
avvolto dall’inquietudine, osservò sulla sinistra la facciata della chiesa, che
si levava imponente e silenziosa. Il portone in legno giganteggiava solido e
maestoso. Improvvisamente, due colpi sordi risuonarono dall’interno.
Peppe
emise un grido soffocato e cominciò a scappare. Corse verso casa, salì i
gradoni del vicolo e, dimenticando di avere le chiavi, prese a bussare con
violenza alla porta. Dopo poco si affacciò alla finestra del primo piano una
sagoma voluminosa, con l’aria assonnata.
“Chi
è?”
“Carmè,
apri, presto!”
“Ma
che è?”
“Apri,
Carmè!”
Tempo
di scendere e la porta si aprì.
Peppe,
senza neanche entrare,
“Carmè,
ci stanno gli spiriti nella chiesa!”
Carmela,
a denti stretti, afferrando la manica del marito con un moto d’impazienza,
“Ma
trasi, ‘sto ‘mbriacone!”
Mentre
i due litigavano accorse Gennaro Montella, che aveva la camera da letto che
dava proprio sulla piazza:
“Pè,
Carmè, arrivano rumori dalla chiesa, deve essere un demonio!”
Carmela
allentò la presa, sconcertata. Peppe non se l’era inventato.
“Bisogna
chiamà a don Pasquale”, continuò Gennaro.
Peppe
si incaricò di correre ad avvisarlo. Si precipitò lungo la ripida scalinata che
portava all’uscio di don Pasquale. Mentre saliva affannato, fu preso da un
dubbio: “il parroco, si sa, dorme solo. E se invece…”. In effetti, qualche voce
discorde, pronunciata a mezza bocca dai soliti bene informati… ma si sa, nei
paesi il venticello della calunnia trova sempre i suoi varchi. L’esitazione lo
trattenne solo per un attimo, sicché si ritrovò in brevissimo tempo a bussare
con colpi forti al portone del curato.
Don
Pasquale, che effettivamente dormiva solo, continuò per un pezzo a russare con
violenza, coprendo con il ruggito del suo naso i rimbombi delle percosse che il
buon Peppe si accaniva ad abbattere sul portone.
Dopo
aver cambiato fianco un paio di volte, il parroco aprì mezzo occhio. Si rese
conto che qualcuno bussava. Si alzò lentamente, sempre gli occhi socchiusi, e
si avviò alla porta nel pigiama di lana. Don Pasquale, bisogna dirlo, era un
autentico pezzo d’uomo, alto, asciutto, con le spalle larghe, i capelli folti e
un vocione da predicatore che quando diceva la messa si sentiva fino al paese
vicino.
Aprì
il portone e trovò di fronte a sé l’esigua figura di Peppe ‘o tappo, con il
cappello in mano e l’aria angosciata.
“Don
Pasquà, ci stanno gli spiriti nella chiesa!”
Il
curato, senza dire niente, richiuse la porta, lasciando Peppe all’esterno, e si
riavviò a letto con gli occhi aperti il minimo indispensabile, cercando di non
perdere il filo sottile della dormita interrotta.
Come
fu sotto i panni e riassaggiava il teporino dolce del sonno che lo riavvolgeva
senza sforzo, fu di nuovo disturbato, stavolta in maniera irrimediabile, da
altri colpi al portone. Ormai l’incanto del sonno era compromesso, gli occhi si
erano aperti entrambi e per interi.
Si
riavviò sconsolato alla porta, la riaprì.
“Don
Pasquà, veramente, ci stanno gli spiriti nella chiesa!”
“T’ha
sonnato?”
Mentre
Peppe si sforzava di farsi credere, arrivò trafelato Vincenzo Dantoni, detto ‘o
massizzo:
“Don
Pasquale, in chiesa, certi rumori, dei lamenti… forse un’anima purgante…”
Il
parroco rimase un attimo in meditazione. Vincenzo Dantoni era notoriamente
astemio e di comprovata affidabilità. Capì che doveva effettivamente esserci
qualcosa d’insolito.
“Avviatevi
giù, mi vesto e vi raggiungo”.
Detto
questo, chiuse la porta e si avviò perplesso in camera da letto.
Don
Pasquale, come tutti i preti di paese, era uomo razionale, eppure un leggero
turbamento gli increspò una ruga in mezzo alla fronte. Volse lo sguardo al
grande crocifisso appeso alle spalle del letto, poi vestì i paramenti, prese
l’acquasantiera, indossò la collana con la croce di legno e si avviò per i
gradini del vico. All’imbocco della piazza trovò assiepato un folto gruppo di
persone, tutte con lo sguardo rivolto verso di lui. Nessuno parlò. Lo
lasciarono andare avanti e lo seguirono quasi in fila indiana, come se
volessero proteggersi dietro la sua figura imponente. Il serpentone capeggiato
dal parroco si mosse con passo svelto fin sopra il sagrato della chiesa. Giunto
a una decina di metri dal portone d’ingresso, don Pasquale rallentò. In realtà,
non era ben chiaro cosa dovesse fare; la chiesa appariva come sempre, tutto era
al suo posto, non udiva rumori né lamenti.
All’improvviso,
un forte tonfo vibrò dal portone. La folla trasalì, don Pasquale fece un rapido
passo indietro e con lui tutto il serpentone di gente arretrò e si contrasse.
Afferrò
rapido l’acquasantiera e, dominando un lieve tremore delle mani, irrorò con
forza acqua benedetta. Poi, consegnata l’ampolla a Peppe, che trovava ricovero
al disotto della sua spalla, impugnò con due mani il crocifisso di legno che
portava appeso al collo e lo sollevò più in alto che poté.
In
questa posizione trovò forza e coraggio. Più alto di tutti gli altri, compreso
del ruolo che la vicenda gli assegnava, tuonò con una voce così forte come mai
aveva gridato. Sembrava che dovessero tramare i vetri, che qualunque spirito,
anima o demonio non potesse che sottomettersi a quella voce sovrumana, a quel
tono perentorio sigillato da una sacralità soprannaturale: risuonò scandito
lentamente, con una solennità e una potenza che le orecchie locali mai avevano
udito:
“In nome di Dio, Dimmi chi sei!”
Dopo
un istante di silenzio, dall’interno squillò una voce:
“Sono
Annetella ‘a fornara, don Pasquà!”
Don
Pasquale abbassò il crocifisso e corrugò le sopracciglia, mentre un brusio si
sollevava alle sue spalle. Estrasse dalla tasca le chiavi della chiesa e si
affrettò ad aprire il portone.
Già,
era successo che, durante la funzione della sera, Annetella si era
addormentata. Era un fatto abbastanza frequente, complici un po’ la penombra in
cui era avvolto l’uditorio, un po’ la stanchezza dovuta al lavoro dei campi e
non poco il fatto che, all’epoca, il celebrante rivolgeva le spalle ai fedeli.
In verità, per quanto ormai la chiesa sia dotata di un efficiente impianto di
illuminazione, per quanto ormai pochi ancora si macerino nel faticoso lavoro
dei campi e nonostante adesso il prete non dia più le spalle al pubblico,
l’usanza di dormire durante la messa serale dura ancora oggi.
Ora,
però, il parroco, prima di chiudere la chiesa, controlla che tutti siano
usciti. In quell’occasione, invece, don Pasquale aveva chiuso senza accorgersi
di Annetella che dormiva.
La
giovane signora, svegliatasi nel buio, aveva cercato di attirare l’attenzione
picchiando contro la porta.
E
così, senza colpo ferire, alcune ore dopo giunse finalmente l’alba. I raggi del
sole dissiparono i resti della notte, misero a dormire le bestie notturne,
spazzarono tutti i rimasugli dell’irrazionale e restituirono il campo al regno
della ragione.
La
gente prese ad affollare le vie e tutto ricominciò come prima.
Qualcuno,
quella mattina, aveva delle ore di sonno in meno sulle spalle.
Ma
anche qualcosa in più da raccontare.
Per
la cronaca, Annetella, allora piuttosto giovane, è ormai molto anziana e si è
trasferita in Toscana. Don Pasquale, alcuni anni dopo l’episodio del racconto,
abbandonò l’abito talare e prese moglie. Ora riposa in pace.
...
L'angolo di Nonna Papera;-)
L'angolo di Nonna Papera, quest'oggi ospita una ricetta di una nostra amica di Palermo, Giusi Inzirillo, che ci spiega una ricetta molto dolce;-) : LA PIGNOCCATA.
Ogni 100 grammi di farina di grano duro si aggiunge un uovo; si impastano i due ingredienti e quando il composto è pronto si creano dei bastoncini che si tagliano a tocchetti. Si friggono in olio bollente e si fanno raffreddare. Intanto in una padella (senza olio), si scalda il miele e quando si è sciolto si amalgamano i tocchetti raffreddati e le mandorle tostate, si versano su un vassoio a mucchietti e si fanno raffreddare.
Variante: mentre i tocchetti fritti si raffreddano, in una padella senza olio si scalda acqua, cacao q.b. e zucchero; si amalgamano a questo composto i tocchetti raffreddati precedentemente, si mettono in una scodella e si aggiunge lo zucchero.
La pignoccata è servita (e un chiletto in più di ciccia, anche;-)))...)
Alla prossima settimana!
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RispondiEliminaStefy questo blog è perfetto,siete una squadra di artisti impeccabili.Tutti ! Cinzia trova sempre argomenti interessanti,Warhol mi affascinava,lessi il libro che rappresentava il suo diario,pieno di piccole cose ma indimenticabili alcune,come l'amicizia con Basquiat.i film di Warhol erano stranissimi,ne ricordo uno nel quale c'era un signore che dormiva per tutto il tempo.La pop art da molti non è apprezzata,la scambiano per cultura di massa,invece come dice Cinzia era un'arte che voleva proprio mettere in discussione ciò.
RispondiEliminaWow, quanto entusiasmo, che bello!!! Grazie, Michela:-) ce la mettiamo tutta e anche tu puoi fare la tua parte, ricordati, collaborando con qualche argomento che ti piace, o ricetta, o quello che ti pare:-)))
EliminaCinzia sarà felice del tuo entusiasmo, è molto brava a creare questi articoli interessanti ed esposti in modo che chiunque possa entrare nelle opere dell'artista in questione:-) E' una talentuosa!
EliminaCiao Michela!!!
Sono contenta che ti piaccia questa Blog-rivista di Stefi, è un vero piacere parteciparvi, potresti contribuire anche tu in qualche cosa, visto che proponi sempre spunti interessanti; per esempio, mi piacerebbe che tu raccontassi quello che hai letto a proposito del libro-diario su Warhol, non ne sono a conoscenza e mi piace saperne sempre di più.
Soprattutto sull'amicizia con Basquiat, che rappresenta la metà nera della Pop Art americana; di lui Fred Braithwaite, artista cineasta, disse: "Basquiat visse come una fiamma. Bruciò luminosissimo. Poi il fuoco si spense. Ma le braci ardono ancora."
Un abbraccio.
cinzia
Vorrei partire dal racconto di Francesco che ho letto con vero piacere.
RispondiEliminaMi succede sempre quando m'imbatto in penne interessanti e di "mestiere".
Particolareggiate le descrizioni, hai saputo creare la giusta tensione sino allo svelamento dell'arcano mistero, tanto che, francamente, m'aspettavo qualcosa di più paranormale... Pensando poi che trattasi di storia realmente accaduta ed essendo io una scettica, l'epilogo è più che soddisfacente.
Dunque, complimenti davvero.
Saluto Cinzia e la sua passione per l'arte, un secondo articolo interessante e ben condotto. Per questa nuova ricetta, prendo appunti...
Un bacio alla padrona di casa, ciao Stefy...
Grazie Dany, un piacere.
Eliminacinzia
RispondiEliminaStefania, ma tu sei fantastica..."Le Happy" !!!!!!!
Ora, il nostro ritrovo settimanale ha anche un nome ed una forma, direi molto originale e colorata!!!
Direi che m i piace completamente, non potevi trovare sede migliore per le nostre idee!!!
cinzia
***
"LA VIGNETTA DELLA SETTIMANA"
Sicuramente condivisibile!
cinzia
Carissima Cinzia,
RispondiEliminaAndy Warhol mi ha sempre affascinata, il suo genio variopinto incontra pienamente il mio interesse, nessuna critica.
cinzia
- AFORISMA DEL GIORNO -
RispondiEliminaCerto una provocazione, mi piacerebbe conoscere il pensiero profondo di Oscar Wilde in proposito e la molla che lo spinse ad affermare questo.
Io sostengo che il genio non appartenga a nessuna categoria specifica e che sia solo il TEMPO a decidere di esso.
cinzia
Carissimo Francesco,
RispondiEliminail tuo racconto è molto interessante, ha uno stile davvero fluido e sicuro che accompagna lungo tutta la storia mantenendo viva la curiosità.
La descrizione dei personaggi è talmente precisa che ci si fotografa immediatamente la fisionomia ed il carattere, molto particolare.
Mi è piaciuto moltissimo, complimenti.
cinzia
Ciao Giusi,
RispondiEliminami spiace ma la tua ricetta non la conosco, però sono molto curiosa e sicuramente la sperimenterò.
Grazie, un saluto.
cinzia