venerdì 30 dicembre 2016

Numero 263 - Arrivederci al 2017 :-D - 30 Dicembre 2016


E mentre ci prepariamo all'ultima magica notte del 2016, per accogliere il 2017, mi prendo qualche minuto per lasciarvi i miei auguri dal blog.

Questo blog, "Dietro la porta di stefi", nasceva più o meno quattro anni fa, quando la Pagina di Dentro l'amore, su Fb, non c'era ancora.  All'inizio, come tutte le cose, era partito in quarta; poi, chiedeva tanto impegno e forse la risposta che avevo a quei tempi da parte del pubblico non mi spingeva a fare di più, portandolo piano piano a chiudersi in un bozzolo, per dedicare tutto il tempo alla Pagina di Fb che cresceva e dove la risposta era immediata.

Diciamo che per un certo periodo questo Blog è andato in letargo.

Il 2016, però, tra le tante belle cose, mi ha restituito anche la spinta a ridare nuova linfa a questo spazio che è diventato in pochi mesi un bel punto di riferimento, seguito e apprezzato da tantissime persone!

Questo mi ha fatto capire che quando seminiamo, e lo facciamo con impegno e cuore, ecco che i frutti arrivano, anche se apparentemente tardivi, ma arrivano... O forse arrivano, come tante cose nella vita, quando siamo pronti per accoglierli.

Quest'anno che si avvia alla sua conclusione è stato davvero avvincente, un'avventura! 366 giorni senza tirare il fiato! Ma questo mi accade da un po', più gli anni passano e più sembra io voglia vivere intensamente, senza perdere un attimo! Non oso pensare quale ritmo potrò mai tenere a 80 anni, di questo passo ;-)
Come sempre, ci sono state cose belle e meno belle, ma soffermandomi un po' a pensarci su, credo sia stato l'inizio di un raccolto di una semina che ho fatto in tanto tanto tanto tempo da sempre; impegno, costanza, tenacia, perché alla fine, è così la vita. Gli anni, belli o brutti, ce li costruiamo noi, non pensate? Certo, ci sono questioni che vanno al di là del nostro controllo, purtroppo... "Quel" giorno in più dell'anno bisestile è stato nefasto dal punto di vista degli addii a persone che ci hanno lasciato... 
Ma anche questa è la vita, lo sappiamo.

Il 2016 ha visto la concretizzazione di progetti che mi frullavano nella testa da tempo, quali, per esempio, il laboratorio di scrittura. E quante soddisfazioni da questa esperienza che spero sarà in costante  crescita! Sono convinta di avere con me persone che diventeranno sempre più solide e importanti nella loro scrittura, un vivaio di talenti dove si lavora insieme con entusiasmo e grandi sogni!
Qualche porta si è chiusa, per mia scelta e non, ma si va avanti fedeli a se stessi e alla propria filosofia di vita, cercando di "imparare sempre la lezione", anche quando ci ha fatto male, e poi, tutto sommato, a pensarci bene, i veri dolori sono ben altri.

Il 2016 mi ha fatto conoscere persone eccezionali che amo tutte e che so faranno parte di tanti miei progetti perché sono abbastanza folli da accompagnarmi per tutte le avventure che andremo ad intraprendere nel 2017.


Due grandi sfide mi aspettano nei prossimi 365 magici giorni: la nascita della Casa Editrice più folle del pianeta (Edizioni Convalle), una casa editrice che nasce col cuore d'autore e che sa e ben conosce le dinamiche della piccola editoria: proverò a fare qualcosa di diverso, perché so cosa significhi affidare il proprio sogno a un editore. E io voglio  avere rispetto di ogni sogno che mi verrà affidato!

E altra sfida non meno importante, l'uscita del nuovo romanzo che è lì che scalpita, "Dipende da dove vuoi andare". 
Beh, adesso dove voglio andare è ben chiaro;-) e quindi credo sia il caso che veda la luce.
Essere stata scelta dall'agenzia letteraria Thesis e uscire con la casa editrice GoWare, è una gratificazione non da poco per me come scrittrice.

E' un romanzo che mi darà la possibilità di portare in giro tematiche sulle donne e insieme alle donne.

La terza edizione del Premio Letterario "Dentro l'amore" sarà quasi un ponte tra le due cose. Un premio letterario totalmente rinnovato, ambizioso, che vorrà dare spazio come sempre all'arte in tutte le sue forme. La parola, la recitazione, la danza, il canto e chissà cos'altro...


Beh, direi che non c'è un minuto da perdere!
Giusto questo paio di giorni per festeggiare e rilassarsi e poi via come treni!


Auguri a tutti, grazie per esserci sempre, per tutte le cose belle che sempre mi dite e scrivete, per l'incoraggiamento, gli apprezzamenti, sono la mia benzina!
Grazie per la fiducia, per credere in me.

E che non vi venga in mente di abbandonarmi neh!!! :-D

BUON 2017!!!! (è questo qui sotto, mi sembra carino, gli voglio già bene :-)...)



sabato 24 dicembre 2016

Numero 262 - Il mio amico, una storia di Natale - 24 Dicembre 2016

                      

IL NUOVO AMICO
di
Maria Rita Sanna

   Il canto del gallo la svegliò bruscamente, la luce dell'alba iniziava a inondare la cucina facendo apparire ogni cosa come fosse coperta da un morbido telo di seta. Tutto era rimasto come la sera prima, i recipienti ancora sporchi di farina e gli attrezzi ormai incrostati. I teli usati lasciati disordinatamente sul tavolo e sulle sedie.
Rachele si era addormentata, sfinita, dopo l'ultimo lavoro della giornata, l'impasto del pane; lo aveva messo a lievitare in un grosso recipiente di terracotta, sopra il tavolo, coprendolo con una coperta e sedendosi poi a pensare al giorno dopo, ma accasciandosi dolcemente sul ripiano.
Ora il giorno avanzava, la donna si scosse dal torpore e adirata con sé stessa prese a riordinare l'ambiente, spazzò un poco il forno, dove ancora ardevano le braci, e iniziò a lavorare la pasta formando le pagnotte. 
Quella mattina non aveva visto nemmeno le stelle per potersi augurare la buona giornata. Rachele fin da bambina le osservava insieme al padre che le insegnò a riconoscerle e ad usarle come riferimento durante la notte. Lei, alla sera e all'alba, d'inverno e d'estate, conosceva i tempi per i suoi lavori seguendo un ritmo impeccabile. Si era confusa raramente, l'ultima volta risaliva a poco tempo prima e  non se ne dava pace; aveva svegliato il marito perché andasse alla mungitura, come ogni giorno; l'uomo, obbediente e fiducioso, era andato, ma l'alba aveva tardato ad arrivare. Ripensando a quella notte, si era lasciata incantare dalla luna e da una stella luminosa che non ricordava, ma che brillava vivacemente nel cielo.
Scacciò questi pensieri dalla mente, il pane era sfornato e rimanevano ancora tanti lavori da fare, tra qualche giorno sarebbero arrivati ospiti nella casa padronale, e tutto doveva essere pronto.
Quella mattina Isacco, il marito, rientrato dal pascolo, chiese subito alla donna delle bisacce con del cibo, mentre lui avrebbe preparato l'acqua e i cavalli; doveva andare a soccorrere una carovana fermatasi a un giorno di cammino dalla città. Rachele, contrariata e scontenta, ubbidì all'uomo, che la consolò avvolgendola con il suo abbraccio forte e caloroso: “Non temere, donna, sarò presto di ritorno; è una carovana di gente umile e hanno bisogno del nostro aiuto.”  La strinse a sé un po' di più dandole un bacio sulla fronte.
Rachele, rassegnata, lavorò ancora con più lena facendosi aiutare dalla servitù. 


   La carovana era ferma in mezzo al deserto, un carro si era rovesciato su un fianco e le scorte di viveri e acqua erano andate perdute nella terra. I viandanti ormai stremati dal viaggio e dalle avversità si erano accampati in attesa di soccorsi; alcuni uomini avevano proseguito il viaggio fino in città, che non era lontana, per chiedere aiuto.
Soffiava un vento fortissimo con la sabbia che pungeva il viso e accecava gli occhi. Le donne e i bambini stavano a terra accucciati al riparo sotto grandi coperte, mentre gli uomini a turno controllavano tutta la carovana per il timore di attacchi nemici, come era già avvenuto in precedenza.
Un ragazzo molto giovane uscì fuori dal suo rifugio, disobbedendo alla madre, ma rassicurandola con un bacio che non si sarebbe allontanato; si avvolse in un grande telo che toccando terra copriva le sue stesse orme, si fasciò la testa lasciando solo una fessura per gli occhi: era Elia, un ragazzo di circa dodici anni, molto vivace e intelligente; da quando avevano iniziato il viaggio si sentiva in parte responsabile per l'incolumità di quelle persone. Non capiva bene cosa gli succedesse, ma la forza e l'energia che aveva dentro non lo lasciava sereno; si sentiva pervaso di gioia perché presto avrebbe conosciuto un nuovo amico. Con grande coraggio controllava più volte al giorno che nulla impedisse il loro cammino verso la città. Purtroppo si erano fermati per la seconda volta. Elia perlustrò per bene il perimetro della carovana, soffermandosi sul carro rovesciato e notando che una ruota era completamente  rotta, ma ciò che lo incuriosì fu l'affossamento della terra su cui era andata a finire. Si chinò per vedere meglio l'ampia fossa tra i detriti, ma si spaventò alla vista di un grosso serpente che scattò in avanti  con la testa e le fauci spalancate, mancando la presa per un soffio. Elia perse l'equilibrio e cadde all'indietro, seguì con lo sguardo il serpente che scappava veloce, proprio in direzione di due persone che stavano poco più avanti al riparo del vento. Afferrò un legno e rapido inseguì l'animale, ormai vicino alle persone e pronto all'attacco; con tutte le sue forze lo colpì sulla testa, meravigliandosi che il  bastone si fosse improvvisamente infuocato, come una torcia, e con più vigore lo scagliò sul serpente abbattendolo definitivamente. Ancora una volta Elia, sorpreso, aveva salvato la giovane donna che, abbracciandolo, lo fece sentire colmo di gioia e amore.
Il vento cessò e con l'arrivo dei soccorsi la carovana riorganizzò la ripresa del viaggio.
Era notte fonda quando una parte della carovana, guidata da Isacco, arrivò in città; Elia e la sua famiglia furono condotti nella casa padronale dove Rachele li aspettava con ansia, con un tuffo al cuore notò il ragazzo che decise di dormire nella grande cucina vicino al camino.


   La mattina seguente Rachele non si lasciò sorprendere dal sonno pesante, andò a guardare le stelle come di consueto, ma si meravigliò alla vista di quella stella che da qualche tempo brillava più di ogni altra in cielo, eppure non la ricordava e non era presente nelle carte lasciatele dal padre; sembrava, anzi, che si muovesse proprio in direzione della città.
Un rumore proveniente dalla stalla la richiamò alla realtà, la mucca chiedeva di essere munta, dato che Isacco, rientrato solo poche ore prima, dormiva ancora. Il grosso animale, docilmente, donò il suo prezioso latte alla donna; subito lo preparò per gli ospiti, portandone prima una tazza ad Elia, il ragazzino che tanto somigliava al suo adorato figlio. Non trovandolo nel suo giaciglio vicino al camino, preoccupata, lo cercò nel cortile, ma poi lo vide nel capanno degli attrezzi intento a lavorare illuminato da una piccola candela. Porse al ragazzo il latte caldo e accarezzandogli i capelli lunghi e folti, chiese spiegazioni sul suo lavoro. Elia stava unendo delle assi di legno con delle corde di canapa e, confortato dalle premure della donna, si confidò: “Viene a trovarmi in sogno tutte le notti, da quando abbiamo iniziato il cammino verso la città. Lui mi parla, mi rassicura e mi infonde coraggio; mi ha detto che tra qualche giorno sarà con me e potrò vederlo e io resterò con lui per sempre. Due giorni dopo la nostra partenza dal paese, per venire qui in città, fummo assaliti dai banditi, ma  non ebbi paura. La notte prima, il mio amico, era venuto in sogno per avvisarmi; preparai alcuni sassi e quando arrivarono li scagliai verso i malfattori, che già ci avevano accerchiato. Ogni sasso, cadendo, si incendiava, e la fiamma diventava sempre più grande, finché non fummo circondati da un cerchio di fuoco che ci protesse e scacciò via i banditi. La carovana era in salvo. Tutti mi acclamarono, ne fui felice, ma in cuor mio ringraziai il mio nuovo amico. Venne da me anche una giovane donna, affaticata dal proprio grembo, mi accarezzò come un figlio, nonostante pensai che avesse la mia età.”
Rachele, dubbiosa di quel racconto, propose al ragazzo di aiutarla nei suoi lavori, ma egli, sicuro e determinato, rispose: “Non posso, devo finire il giaciglio per lui, sarà qui molto presto, e io lo seguirò. Insieme avremo molti nemici da combattere.”


   La giornata passò velocemente e con la comparsa delle prime stelle, Rachele era sempre più in ansia: uno strano tremore la scuoteva, ma non era il freddo, era più la tensione dovuta agli avvenimenti precedenti e alla presenza del ragazzo, Elia, col suo carattere determinato e ribelle, con i suoi racconti fantasiosi. E quella stella, ora molto più brillante e luminosa, sopra la loro casa, sembrava pronta all'esplosione.
Elia uscì eccitato dal capanno dove era rimasto tutto il giorno per finire il suo lavoro e trovando Rachele nel cortile la esortò a  stare pronta, tenendo tutti i lumi accesi, perché era in arrivo il suo amico. Il ragazzo entrò anche in casa avvisando i suoi familiari e tutta la servitù; era pervaso da una gioia incontenibile e incomprensibile a se stesso e per chi lo circondava, tuttavia fu poco compreso e addirittura rimproverato per il suo strano comportamento.
Ormai in forte trepidazione, andò nella strada, sperando di trovare qualcuno che potesse dargli le risposte che cercava, ma nessuno passava da lì e il buio sembrava inghiottirlo; confortato dalla grande stella luminosa e da una piccola torcia che aveva con sé, ripensò alla voce del sogno: "Rimani in veglia, Elia, perché oggi stesso sarò con te". Nella tensione del momento urtò contro qualcosa, sobbalzando per la sorpresa, illuminò l'ostacolo e si trovò davanti due occhi grandi con orecchie lunghe e dritte, un muso peloso in continuo movimento che cercava acqua. Il somaro precedeva un uomo che teneva in braccio sua moglie, sfinita dalle doglie del parto: "Ragazzo" disse l'uomo "per favore, aiutaci a trovare un rifugio, mia moglie sta per partorire, temo il peggio per lei e il bambino. Purtroppo nessuno ci ha potuto ospitare qui in città". Elia, riconoscendo l'uomo e la giovane donna, che facevano parte della carovana, placò la sua agitazione e condusse i coniugi e l'animale presso la casa, dove lui stesso era ospite.
Rachele non si aspettava certo altri ospiti, soprattutto non a notte inoltrata, ma mossa da compassione per la donna incinta che le sembrava una bambina, sistemò la stalla ammucchiando tutto il fieno, tale da ottenere un letto soffice.  La mucca e l'asino, coi loro grossi corpi, emanavano calore, creando nell'ambiente un'atmosfera di pace e quiete. In quegli istanti avvenne il parto, quasi in silenzio. Rachele senza smettere un attimo di aiutare la ragazza, prese il bimbo avvolgendolo nei teli e porgendolo alla mamma. Profondamente commossa dal piccolino, ricordò quando anche lei partorì il suo unico figlio, chiedendosi dove mai fosse.
Alla sua silenziosa domanda rispose la ragazza con voce flebile, che tutto si sarebbe sistemato mantenendo viva la speranza.   
Entrò nella stalla Elia, parlando vivacemente e portando di peso il giaciglio che aveva preparato per l'amico, ma quando incontrò gli occhietti del bimbo appena nato, tacque improvvisamente e cadde sulle ginocchia; in quegli occhi vide le fiamme che lanciò nel deserto e il bastone infuocato che scacciò il serpente:  riconobbe il suo nuovo amico. 
"Eccomi, mio Signore, sono il tuo servo" disse Elia, con profonda devozione.



Era quella, la notte infinita, in cui tutto si era compiuto, la notte di cui parlavano i profeti; era nato il Messia, il Re dei Re, il Signore di tutte le terre e di tutti i tempi, colui che avrebbe salvato ogni uomo dalla morte, dandogli la vita eterna. 
Per Elia fu l'inizio di una nuova amicizia, trasformatasi in alleanza col solo sguardo, consolidatasi col tocco delle manine calde e morbide del piccolo. Ancora inginocchiato davanti al neonato, col fiato corto e la voce tremante, ottenne il permesso di prenderlo in braccio; si sentì subito bruciare il petto da una forte emozione, il cuore sembrava esplodergli, lacrime salate gli bagnavano il viso.  Aveva sentito parlare di questo grande evento dai suoi familiari, ma essendo ancora ragazzo non si era mai interessato dei loro discorsi; la voce che sentiva in sogno, durante il viaggio per venire in città, l'aveva considerata come una sua fantasia, e l'idea di avere un nuovo amico, per lui, era una gioia immensa da tenere nascosta, considerato che non aveva tanti amici per via del suo carattere ribelle e  singolare; le sue imprese coraggiose nel deserto lo avevano reso più forte e sicuro di sé. Ora tutto diventò chiaro, lui era stato scelto per essere il primo servo del grande Re, per aiutarlo e difenderlo nelle tante battaglie che, ancor prima che nascesse, erano iniziate; quelle manine che allegramente si annodavano nei suoi capelli lunghi e folti gli davano conferma di tutto.
Rachele, invece, non aveva né conferme né pace in cuore; era certamente commossa dall'evento del parto e dalla tenerezza del bimbo, ma ricordi dolorosi la assalirono, le venne un nodo in gola e con moto di rabbia iniziò a raccogliere i panni usati e sporchi. Tutta quella bellezza non le apparteneva più, era dimenticata, la sua felicità di madre era svanita nel nulla, come suo figlio; quella era solo una ragazza come tante altre che partorivano ancora giovani e i lavori non potevano fermarsi solo per lei. Ancora una volta arrivò la risposta ai suoi pensieri: la voce, stavolta, era più ferma e determinata: “Rachele, fermati un momento, raccontami ciò che ti tormenta”. Rachele incredula di trovare conforto e comprensione, si sedette accanto alla ragazza: “Non puoi capire, Maria, il dolore che porto dentro. Mio figlio è andato via di casa quando aveva appena vent'anni, inseguendo l'illusione di una vita migliore. Aveva sentito parlare dei soldati che vivono nella grande città al servizio del Re Erode, circondati da ricchezze e ogni bene. Stanco di aiutare il padre nei pascoli, andò via voltandoci le spalle, senza nemmeno abbracciarci; non ho mai più avuto sue notizie. Si chiamava Davide”.


Era ormai notte fonda e finalmente regnava il silenzio, sia nella casa che nella stalla. Rachele, pur essendosi confidata con Maria poco prima, era sempre più in ansia perché ancora una volta aveva trascurato i suoi lavori. Non riuscendo a prendere sonno tornò fuori nel cortile, il cielo brillava e pulsava più viva che mai la nuova stella. La donna, fermatasi sulla soglia della stalla, guardava quelle persone dormire serene, l'uomo abbracciava la moglie e lei teneva la manina del bimbo; l'altra manina era tenuta, dall'altra parte, da Elia, anch'esso sprofondato nel sonno. Sembrava che quel bambino tenesse saldo il legame tra il passato da cui proveniva, i suoi genitori, e il futuro verso cui era proteso. 
Rachele ripensò alle parole della ragazza: “Non darti pena per tuo figlio”, le aveva detto, “vedrai che un giorno lo riabbraccerai. Abbi fede e Dio ti aiuterà, anche per i tuoi lavori”. Le sembrava che quella ragazza proprio non capisse, che venisse da chissà quale paese, dove tutto era sereno e senza preoccupazioni.
Sobbalzò sentendo dei rumori provenire dall'esterno, uscì incuriosita, trovandosi davanti alcuni pastori che portavano in mano, oltre ai lumi, ceste piene di focacce e formaggi, anfore colme di latte; alcune donne avevano coperte e abitini nuovi per il bambino. “Abbiamo portato doni per il Re di tutti gli uomini”, disse colui che guidava la piccola comitiva. Rachele, sorpresa, fece entrare le persone invitandole al silenzio, accorgendosi che a quel piccolo gruppo ne seguiva un altro, e dopo un altro ancora.
Venivano dalle case vicine, ma anche da fuori città; non solo pastori, ma anche commercianti e tutti avevano un piccolo dono per il bambino e la sua famiglia. Il brusio destò i dormienti e Maria, per mostrarlo ai presenti, prese in braccio il bambino che agitava le mani come se volesse accarezzare la testa di ogni persona, la quale si sentiva colma di gioia e amore.
Elia, anch'egli sveglio, guardava con sospetto tutti, riconoscendo tra gli adoranti anche i suoi genitori che andò ad abbracciare. “Madre!” disse eccitato, “ecco il mio nuovo amico”.
Anche Rachele fu abbracciata dal marito, due braccia forti che le circondavano le spalle dandole sicurezza e conforto; in quell'abbraccio la sua tensione si sciolse in pianto.
Era una nuova alba, ma la stella in cielo brillava quasi a richiamare altri forestieri.



Entrarono in città alcuni soldati a cavallo che il Re Erode, governatore di quelle terre, aveva inviato per riferirgli dove fosse il tanto nominato rivale. Parlavano con derisione, criticando anche la piccola carovana che guidavano:  erano i Re Magi, tre Signori di terre molto lontane, avvolti in mantelli dal tessuto broccato e dai colori vivaci, sul capo avevano ampi turbanti e, sopra, la corona; erano studiosi delle stelle e, sapendo dell'arrivo del Messia, avevano iniziato il viaggio tanto tempo prima e seguendo la nuova stella erano giunti  fin lì, per rendere omaggio al Re di tutti i Re.
All'imponente passaggio dei soldati, la gente si scansava con timore, la loro domanda con voce tuonante, non ammetteva incertezze; facilmente trovarono la casa.
Elia, con buona volontà, aiutava come poteva nei lavori in casa, ma non perdeva mai l'occasione per stare col bambino, al quale avevano dato il nome Gesù, dopo il rito della circoncisione.
Il ragazzo stava in cortile godendosi il sole del mattino, col piccolo in braccio, facendosi stringere le dita da quelle manine vivaci. Si alzò improvviso un vortice di vento sollevandogli i capelli e mandandogli polvere negli occhi. Si irrigidì presagendo quanto gli era stato detto in sogno la notte prima.
All'ingresso del cortile stavano i soldati, scesi da cavallo per accertarsi cosa avrebbero trovato in quella casa; alla vista del ragazzo col bimbo sorrisero sprezzanti per la facilità con la quale avevano portato a termine la loro missione. Andarono via, lasciando entrare i tre uomini dai mantelli colorati.
Rachele, sentendo lo scalpiccio degli animali e voci di scherno provenire da fuori, uscì di corsa nel cortile vedendo i tre pacifici personaggi entrare, ma accorgendosi dei soldati, di uno in particolare che, proprio mentre lei lo raggiungeva con lo sguardo e col cuore,  saliva a cavallo voltando le spalle.
Al cospetto del bimbo tra le braccia della mamma, i tre Magi lasciarono i loro doni, oro, incenso e mirra, raccontando il loro viaggio e l'incontro con i soldati di Erode; al tramonto ripresero la via del ritorno. La grande stella iniziò a perdere il suo splendore.
Elia attento a ogni dettaglio di quei racconti, capì che non c'era più tempo da perdere; Gesù, con i genitori, doveva andar via e lui con loro.  L'impeto di rabbia fu presto placato da suo padre, ricordandogli vigorosamente che era solo un ragazzo; a questa esortazione si aggiunse quella più pacata di Giuseppe, il padre del bimbo, incoraggiandolo a rimanere per difendere la via di fuga da eventuali ostacoli.
Rachele abbracciò Maria con nuovi sentimenti di amore e ammirazione verso quella ragazza tanto coraggiosa; aveva lasciato loro le sue carte delle stelle per orientarsi nella notte, verso la quale la piccola famiglia si avviò. Elia ebbe il permesso di accompagnarli fino alle porte della città, insieme a Isacco, spinti dal vento che dalla mattina si era fatto insistente.



La quiete in cui era tornata la casa fu presto lacerata da grida  e voci concitate; i soldati, entrati prepotentemente nel cortile, annunciavano la presenza del Re Erode in persona giunto per eliminare colui che avrebbe dovuto spodestarlo. Trovandosi davanti Rachele impietrita da quelle figure minacciose la scansarono con disprezzo, entrando in casa e interrogando i genitori di Elia, anch'essi spaventati da tale invadenza. Non avendo risposta, i soldati frugarono la casa, mettendo tutto sottosopra, ma non trovando tracce del bimbo.
Erode iroso e impietoso, diede l'ordine di ammazzare tutti i neonati. Era l'inizio di un'altra notte infinita.
Dalle case perquisite le persone scappavano in ogni direzione, come impazzite; le madri stringevano a sé i loro bambini, cercando rifugio nelle strade o presso altre case, ma fu tutto inutile davanti alla forza assoluta e violenta dei soldati che affondavano le spade in quei corpicini. 
Le urla strazianti delle donne arrivarono fino all'altro lato della città, dove Elia e Isacco avevano appena lasciato i fuggitivi. Una serie di lampi improvvisi illuminarono i soldati sopraggiunti a cavallo con le spade ancora insanguinate ed Erode, con labbra strette e pieno di odio, chiedeva del bambino.
Elia, senza paura, spinto da orgoglio e coraggio,  nella mente gli occhi del suo amico, alzò le braccia al cielo gridando con vigore: “Io sono Elia, amico di Gesù, niente e nessuno ci separerà. Lui è il nuovo Re di tutte le terre e di tutte le genti. E tu, Erode, non sei nessuno!”. Il vento soffiò più forte e un boato scese dal cielo con la pioggia sferzante, i cavalli spaventati disarcionarono gli uomini che, riprendendosi, inseguirono Elia scappato via, scaltro, in direzione opposta alla fuga della famiglia amica.
Il ragazzo, nuovamente circondato dai soldati, alzò ancora le braccia al cielo, invocando il nome di Gesù, per poi abbassarle verso i soldati, i quali furono colpiti da fulmini e saette.
Erode, nel frattempo, rimasto sorpreso dall'impeto del ragazzo, cercò protezione dietro un soldato che, con un bambino tra le mani, stava per compiere un altro delitto con la spada alzata. L'urlo straziante della madre del bambino fu sovrastata da un altro grido di donna: “Davide, no!”. Era Rachele che, corsa in strada a cercare Isacco, aveva riconosciuto in tutta quella confusione di sangue e tempesta, il figlio soldato.

Davide, sbalordito, riconobbe anch'esso la madre, e mosso da pentimento e dall'amore mai sopito per lei, lasciò cadere l'arma, saettando invece il braccio verso Erode alle sue spalle che lo incitava a uccidere tutti; consegnando il bimbo a sua madre, corse verso Rachele abbracciandola con lacrime di gioia e pentimento. La donna non poteva credere a quanto accadeva, ma purtroppo non c'era tempo per parlare; Davide carezzò il volto della madre, si tolse le vesti da soldato e preso un cavallo si avviò veloce verso l'uscita della città. 







lunedì 19 dicembre 2016

Numero 261 - Chi salverà il mondo? - 19 Dicembre 2016




Non so di chi sia la colpa. 
Non voglio cercare responsabilità in una parte o l'altra di qualsivoglia parte politica.
Non voglio scatenare un dibattito politico.
Non credo  ci sia un mondo diviso tra buoni e cattivi.
Non penso che la verità sia da una parte sola.

Ma questo mondo va a rotoli. 
Forse lo è da sempre.
Da quando l'essere umano è comparso sul pianeta.
Perché, ammettiamolo, non siamo nemmeno capaci di partecipare ad una semplice riunione di condominio senza odiare qualcuno.

Però quando ci sono bambini che muoiono e che soffrono, e questo accade sia da una parte che dall'altra, e chissà da quante parti accade senza che ci sia qualcuno che ci mostri una foto di un dramma che tocchi degli innocenti,

quando i bambini sono le prime vittime
della follia umana,
è il segno che tutto, e sottolineo tutto, è sbagliato.

Il senso d'impotenza è quanto di più terribile ci possa essere,
non servono le raccolte di firme
né le manifestazioni.

Parole vuote e piene di retorica
ma questo non può essere un "buon natale".

E forse, solo le madri, solo le madri hanno in mano il potere
di invertire la rotta.

Si dice che se tutte le madri del mondo
si mettessero d'accordo
per insegnare ai propri figli il valore dell'amore
e non dell'odio
in due generazioni non esisterebbero più le guerre.

Tutte le madri del mondo.

Simultaneamente.

Ma forse è l'unica speranza
per salvarci.

Ho cercato di accontentare Rebecca,
sette anni e mezzo, 
voleva un orso bianco col vestito rosa.
L'ho cercato perché voglio accontentarla.

Voglio preservare il suo mondo di bambina. 
E sono sola la sua tata.

Non credo che la salvezza sia nell'insegnamento occasionale di un regalo di natale negato, 
ma nel farle capire che è fortunata 
ad essere nata dalla parte "giusta" del mondo.

Sensibilizzare la sua giovane età, 
senza toglierle i sogni
o i desideri legittimi di  bambina.

Perché così dovrebbe essere
in ogni fottuto angolo del pianeta.

Stefania Convalle










sabato 17 dicembre 2016

Numero 260 - Garetta di riscaldamento ;-) - 17 Dicembre 2016



Siccome il 17 dicembre è una data che mi porta fortuna, lanciamo una piccola gara di riscaldamento in attesa della terza edizione del Premio Letterario Dentro L'amore che, quest'anno, sarà a cura della Edizioni Convalle :-D con un sacco di novità.

Vediamo un po', l'ultima gara di cui ho parlato è stata quella intitolata "I racconti del treno".

Cambiamo mezzo di trasporto, ma restiamo sulle rotaie che hanno un loro fascino e romanticismo.



Amo i tram.
Li ho sempre amati.
Rappresentano la mia infanzia e giovinezza.
E mi ricordano la mia Milano.

Ricordo ancora i tram con le sedute in legno: va beh, si tratta ancora del '900 neh, non fate conti strambi sulla mia età.


Quindi:
si può partecipare scrivendo un breve racconto di max 500 parole (sento già le proteste, ma vi assicuro che 500 parole bastano e avanzano per scrivere delle chicche!) che abbia protagonista il tram e i suoi passeggeri.

Inviate i vostri testi in allegato a:
steficonvalle@gmail.com

Come si vota?
Come sempre, le gare sul blog sono votate dal pubblico che esprimerà una o più preferenze sui testi pubblicati.

Scadenza per l'invio dei testi: 25 gennaio 2017.

Premiazione durante la serata del Poetry Slam, il 28 Gennaio.

Cosa si vince?

Surprise!

(In realtà ho lanciato questa garetta per distogliervi dalle abbuffatone natalizie;-), sono buona o no??? :-D )

La vostra 
Stefania Convalle



Parto io?? 




IL TRAM DEI RICORDI
di
Stefania Convalle
Colonna sonora
https://youtu.be/AZNwIxHiA1M

I tram di Milano sono cresciuti con me. Periferia, fermata del 15 sotto casa. 
In mezzo, una vita.

I tram dei primi anni settanta, di quando ero bambina e la nonna veniva a prendermi per portarmi da lei, una nonna dei cinquant'anni di una volta, quando si tingevano i capelli di grigio azzurro e sembravano tutte delle fatine ai nostri occhi sognanti.
Piazza Abbiategrasso, piazza Piemonte. E poi a piedi fino a Piazzale Giulio Cesare, dove c’era la vecchia fiera campionaria di Milano,  dove la regina era la grande fontana che c’è ancora, mentre al posto della fiera ci sono grattacieli che non riconosco più.

E poi ragazzina, il tram lo prendevo da sola, la nonna mi aspettava a casa. Ormai ero grande e potevo fare quel tragitto senza paura di perdermi; senza paura, questa è la parola chiave, altri tempi, altre realtà, il mondo non era ancora così cattivo nella mia Milano e una ragazzina poteva affrontare quel viaggio tranquilla, c’era il bigliettaio sul tram a verificare  che tutto andasse bene. E altri nonni e nonne a vegliare sui nipoti degli altri.

Ma gli anni passavano, il 15 era diventato un Jumbo, e io lo prendevo per andare all’appuntamento col mio ragazzo, coi libri di scuola nello zaino di cuoio per studiare durante il tragitto. Niente telefonino, era ancora il tempo della cornetta dal filo arrotolato e delle telefonate ricevute a casa, quelle delle chiacchierate con le amiche, sedute per terra; e dei silenzi carichi d’amore e sospiri quando a telefonare era lui.

E il 15 mi portava fino al Duomo e da lì prendevo il 19 per andare non ricordo dove, ma ricordo bene che era un tram nonno pure lui,  ancora con le panche di legno e l’anima dei nonni che nel frattempo non c’erano più.
Erano i tram che mi portavano fino al Bar Magenta, mitico bar milanese, meta di studenti che condividevano sogni, panini dal nome pieno di aspettative – per me uno Speciale! – e quanto era buono con una piccola birra che profumava di trasgressione.
Erano i tram dei sentimenti arrivati e perduti, quelli presi al volo correndo quando c’era ancora il fiato, quelli dei saluti prolungati dal vetro del finestrino, quelli dei baci dati con la mano, ma anche quelli di quando si guardavano le spalle di un amore finito allontanarsi, quelli di una lacrima asciugata con la manica del cappotto.
I tram della mia giovinezza.

Ora vado in macchina, sono grande e preferisco la comodità. In quella via dove abitavo tutto è cambiato, il tram è quasi un’astronave ed è arrivata la metropolitana. E non si è più così sicuri andando in giro.
Però, quando ho voglia di farmi un giro tra i ricordi, lascio la macchina in qualche posteggio e prendo il tram più vecchio di Milano, dove ritrovo i sorrisi dei miei nonni, le mani dei miei genitori, le tenerezze dei miei vecchi amori, delle amiche di scuola, i tempi dell’avventura, del domani dai mille sogni.

E sogno ancora.
...


IL TRAM DI BABBO NATALE
di
Daniela Perego

La neve candida copre il grigiore della città imbiancando tetti, marciapiedi, e ovunque si posi. 
Pochi giorni a Natale, le strade illuminate, le vetrine addobbate mostrano al meglio abiti,  scarpe, prodotti di ogni genere e soprattutto golose specialità e leccornie tipiche del periodo. 
La neve cadrà copiosa per tutta la notte e domani, come da previsione, la magica atmosfera della festa più bella dell’anno sarà completa.

Mi dirigo alla fermata camminando a piccoli passi per la paura di scivolare; qualche minuto dopo uno scampanellìo mi avvisa dell’arrivo del tram. Ogni giorno lo stesso percorso fino a casa,  quasi sempre con le stesse persone; man mano che il tram si allontana dal centro i passeggeri scendono fino a lasciarmi sola  per l’ultimo tratto. Capolinea, casa e, di fronte, il deposito dei tram.
Mi piace viaggiare sulle vecchie carrozze, da sempre ne sono affascinata: i sedili in legno, le lampadine sul soffitto racchiuse in plafoniere di vetro, le porte che si aprono e chiudono a scatto; la sensazione di sbandamento da seduti, dovuta al legno, lucidissimo, sul quale a ogni frenata si scivola verso il passeggero vicino, pur cercando stabilità puntando i piedi sul pavimento.

La neve cade fitta e si è alzato il vento. Bloccati nel traffico siamo come isolati dal mondo esterno, non si riesce a vedere niente dai finestrini. Qualcuno bussa forte per salire. Anche se il regolamento lo vieta, il conducente apre la porta per far salire un signore  travestito da Babbo Natale.
Porta un piccolo sacco sulle spalle, stivali neri, cappello con pon pon e la classica barba bianca. Penso che, essendo fuori servizio, avrebbe potuto cambiarsi, togliersi la barba e anche quei ridicoli occhialini vecchio stile. Tutti lo guardiamo con curiosità mista a sospetto. Mi avvicino per osservarlo meglio.
Se fosse veramente Babbo Natale? La barba non è finta e il vestito è di stoffa buona, non è uno di quei costumi noleggiati; viso sereno e gioviale, si guarda attorno con occhi curiosi. Il sacco sulle spalle è pieno, chissà cosa contiene? Si parla del più e del meno ingannando l’attesa; prendo coraggio e sparo la fatidica domanda: "Lei è Babbo Natale?"
Silenzio. Tutto gli occhi puntati prima su di me e poi, verso il simpatico personaggio spuntato dal nulla.
Immediatamente le luci tornano a brillare e il tram si muove quasi spontaneamente, la bufera di neve cessa e tutti si girano per guardare all’esterno sollevati, ansiosi di raggiungere ognuno la propria destinazione.
Come un sogno svanito anche Babbo Natale non è più sul tram.
Gli altri sembrano non averlo mai visto, sono tornati chi a leggere, chi a chiacchierare, mentre qualcuno già si è preparato per scendere. Come se nulla fosse accaduto. Chiedo alla signora accanto: "Scusi, lei ha visto scendere quel signore travestito da Babbo Natale?"
"Chi? Cosa dice, un signore travestito da Babbo Natale? No, cara ragazza, Babbo Natale non esiste!"

Adesso lo so. Era proprio lui.


...


VIETATO SPUTARE
di
Riccardo Simoncini

«Sputare»
«Marco, ma che dici?!»
«Sputare»
«Eh, ho sentito, ma non dire queste cose!»
«Ma l’ho letto lì!»
«Ma che dici?!»
«Sputare»
PAF!
Il suono dello schiaffo risuona per la cabina semivuota del tram, facendo voltare i pochi presenti. La mamma, rossa in viso, ammonisce con fare definitivo il figlio: «A casa facciamo i conti!».
Lui ha circa sei anni, e lo sguardo interdetto di chi subisce una punizione ingiustificata. L’espressione cambia subito. Il labbro inferiore sporge, gli occhioni blu si riempiono di lacrime trattenute a stento da un orgoglio giovane ma ben definito.

Sento scorrere il tram sul metallo che disegna l’asfalto della città. Come il tratto della matita di un disegnatore sul foglio dello schizzo preparatorio, i binari si accavallano, si intrecciano o scorrono paralleli in cerca della loro destinazione.
Per quanto alto sia il volume della musica in cuffia, lo sferragliare ti arriva comunque, perché lo senti dentro, inviato dalle rotaie sghembe alle ruote d’acciaio, che lo trasmettono alle dure panche di legno che lo portano fino a te.
A me piace.
Riconosco la mia città nelle curve e negli avvallamenti sempre uguali di questi solchi.

Incrocio lo sguardo della donna. Le sorrido. Cerco di farle capire che è tutto a posto, che il figlio non le ha fatto fare una brutta figura, che il suo ruolo di educatrice non è messo in discussione.
Cercando il mio consenso e sempre più intenzionata a mettere in chiaro la rigidità che il suo ruolo impone, si rivolge di nuovo al piccolo e aggiunge: «Ti mando a scuola per imparare a leggere, non per ripetere le stupidaggini che dicono i tuoi compagni».
Qualche risolino riempie l’atmosfera della vettura. La donna sta aggravando la sua posizione e decido di darle una mano. Non appena incrocia di nuovo il mio sguardo, con un cenno del capo e un rapido movimento degli occhi le indico l’ultima eccellente prova di lettura del figlio. Lei si volta, osserva e la vede.
La targhetta di metallo è proprio sopra il finestrino, piccola ma ben lucida. Un contorno blu racchiude la scritta ‘Vietato sputare’ e le due piccole viti arrugginite, che la fissano al legno.
Si guarda attorno e focalizza l’attenzione sui particolari che la circondano. La vedo fissare lo sguardo sulle panche di legno, sui listelli del pavimento, sui sostegni consunti, sui finestrini con le guide in metallo e sulle porte a soffietto.
Il 23 è uno dei tram prodotti alla fine degli anni venti, che ancora girano per Milano e contribuiscono a raccontarne la storia.
Se ne rende conto. Il viso è in fiamme.
Afferra la mano del bambino ancora imbronciato e si fionda verso l’uscita che, come è ben chiaro a tutti, non è la sua, parlando a voce sostenuta: «A casa, dicevo, ti devo raccontare dei tempi in cui i nonni masticavano tabacco…»


...


Verso la città
di
Michele Fierro

Attraversare la strada, si sa, è già difficile sotto il peso degli anni.
Per Giacomino, tuttavia, il peso sommava nove decenni di vita e di salute sempre più debole e incerta.
Guardò il traffico scorrere, davanti al suo bastone, valutandone velocità e rischio in attesa di sfidare, per una volta ancora, la sorte sulle strisce nel breve tempo che il via gli avrebbe concesso.
Il tempo di una corsa, non di rapidità ma di tragitto, un tratto certo, da un capo all'altro, in cui il suo convoglio di ossa e raucedine, avrebbe raggiunto il capolinea.
Il verde apparve e Giacomino si fece coraggio, serrò saldo il bastone e iniziò la traversata ampia e impervia per le sue poche forze.
Scorse, in un lucido barlume di intelletto, il capo opposto della strada, la lanterna del semaforo che illuminava l'uomo in movimento che l'attendeva.
Quel timido mattino d'inverno, graziato dal sole e, tuttavia, rigido di freddo, gli regalò il riflesso di un raggio abbagliante sul vecchio semaforo del tram, sopravvissuto al tempo.
"Sopravvissuto come me." - pensò Giacomino che, quel semaforo, lo aveva atteso migliaia di volte, negli anni trascorsi a condurre il tram utile a raggiungere la città.
Milano - Monza, Monza - Milano, una teoria di sogni accompagnati verso le gioie di un lavoro, di un amore e di libertà.
Vecchi sapori andati, come lui quasi, e finiti nel vaso senza fondo della memoria persa.
Quel profumo di legno e sudore che sapeva di vita e che ebbe la gioia di portare cucito addosso, fino al suo ultimo giorno di vita.
La sua corsa, adesso, era molto più modesta e pure così, per lui, rappresentava un evento di cui essere orgoglioso, proprio come allora.
Raggiunse il lato opposto della strada, vinto dalla fatica ma felice, senza aver mai staccato lo sguardo da quel semaforo.
Una linea dritta e orizzontale che, per lasciare il passo a lui, impediva la marcia a un tram che non c'era più, ormai.
Vide, trasecolando, la luce lampeggiare come esausta e senza energie e, di colpo poi, spegnersi del tutto.
Definitivamente.
La lampada aveva esaurito le sue forze e, compiuta la sua missione, aveva smesso di illuminarsi.
Giacomino ne aveva visto l'ultimo bagliore, felice per la concessione ricevuta, e fece perciò un sorriso.
E su quel sorriso restarono impietriti i passanti, accorsi a lui, mentre non potevano fare altro che guardarlo sognare.
Per sempre.





UNA MATTINA DISASTROSA
di
Agnese Stagnoli

Il tram numero 27 sarebbe passato dalla sua fermata dieci minuti dopo: lui era in ritardo, non ce l'avrebbe mai fatta a prenderlo.
"Speriamo sia in ritardo anche il tram, stamattina." Pensò, mentre si allacciava la camicia e la metteva alla meglio dentro i pantaloni.Uno sbaffo di schiuma da barba ancora sull'angolo della bocca e il ciuffo ribelle che non voleva stare al suo posto.
"Domani mi raperò a zero, così avrò un fastidio di meno!" Si ripromise. Infilò le sneakers, le allacciò in fretta, senza curarsi di come lo  faceva. Prese dall'attaccapanni il giubbotto in pelle scamosciata, aprì la porta richiudendola alle spalle. Si precipitò lungo le scale -  ascensore fuori uso -  Oggi è proprio un giorno no, accidentaccio! Imprecò tra sé.
Per accorciare la strada attraversò di corsa il piccolo parco adiacente al condominio. Non era davvero la sua giornata... Il bel regalo del mattino di un cane era lì, fresco e profumato ad aspettare la sua scarpa. Gli scappò una mezza bestemmia, mentre cercava di ripulire la scarpa tra l'erba.
Arrivò trafelato al tram che  stava quasi chiudendo le porte, nel salire  inciampò nei lacci della scarpa, altra piccola imprecazione trai denti, ma era arrivato in tempo: un vero miracolo.
Le panchine erano già tutte occupate: "Era già scritto in cielo che un posto a sedere per me oggi non era dato!"
Si appoggiò alla sbarra di ferro, ansimando leggermente, si guardò intorno, la solita gente di ogni giorno. No, seduta di fronte a lui, con un sorriso divertito, una ragazza lo guardava.
"Chi è questa? Mi ricorda qualcuna ma non riesco a focalizzare chi!"
La ragazza gli sorrise, si alzò, era veramente carina con quel caschetto castano, nasino all'insù, non molto alta, ma con tutte le curve al posto giusto. Indossava jeans attillati, una camicia con pizzo in fondo e un corto giubbino in eco-pelle.
La ragazza gli  si avvicinò, si chinò ai suoi piedi e gli allacciò la scarpa: "Ma Mirko, ancora non hai imparato ad allacciare le scarpe da solo? Non sei più all'asilo!"
Una risata argentina attirò l'attenzione di tutti i passeggeri del tram. Mirko divenne paonazzo, ma poi si mise a ridere a più non posso anche lui.
"Rosanna! La mia piccola Rosanna, la mia compagna di avventura dell'asilo!"
No, dopotutto il brutto inizio di giornata si era riscattato... 
E, forse avrebbe avuto anche un futuro.


... 


L’ULTIMA CORSA
di
Barbara Gallo

E così oggi sarebbe stata la sua ultima corsa; la giornata sarebbe volata, già lo sapeva, tra il lento viaggiare da una fermata all’altra, il via vai dei passeggeri e l’autista con la sua divisa blu.
Già sapeva dove sarebbe andato alla fine di questa ultima giornata sulle rotaie, in tanti gli avevano parlato di quel posto; una volta, anni prima, durante la convalescenza da una brutta ferita, gli avevano anche prospettato di andare a finire là. Ma ai tempi era giovane, spavaldo, in forze, nulla lo spaventava. Adesso, invece... No, non era paura, forse un pochino di rassegnazione, o era maliconia? In fondo, del Deposito aveva solo sentito parlare dalla vecchia Jenny 21 e dall’amico Ralph 90; ma lui, davvero, con i suoi occhi, con i suoi fanali gialli, non lo aveva ancora visto.
Comunque sarebbe stato un cambiamento e lui non era tipo che amasse particolarmente queste cose: come la volta in cui gli avevano cambiato il suo outfit, sostituendo le panchette in legno con diverse sedute più moderne (beh, lo ammetteva, quella volta era stato quasi come andare alla spa, o almeno così immaginava che ci si sentisse quando dei professionisti ti mettono le mani addosso e ti danno un look totalmente diverso). Però, mamma! Quando si era specchiato la prima volta nelle vetrine del centro, quasi non si riconosceva; e comunque aveva avuto un po’ di fastidi inizialmente, ecco, il cambiamento era sempre un piccolo trauma! O come l’altra volta, ora sì, gli venne in mente, in cui gli avevano addirittura cambiato percorso di viaggio! Così, dall’oggi al domani, aveva cambiato i suoi soci (Johnny 53 e Marcus 71, non li aveva più neanche incrociati) e anche i passeggeri (il che, davvero, era spesso uno shock!). Per non parlare dell’autista, quelli, ahi ahi, erano i più delicati. Con Roberto ad esempio, aveva avuto un rapporto speciale; era davvero unico, fin quando anche lui era stato mandato in pensione.

Paul 73 tirò un bel sospiro, stiracchiò i freni, sgranò i fanali e via, si mise al lavoro in quella splendida giornata di settembre, con un cielo che  a Milano  raramente si era visto e un profumo di fiori nell’aria che, sarà stata la sua immaginazione, sembravano di buon auspicio per il suo domani.

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IN TRAM A PORTA PALAZZO
di
Marilena Mascarello


Quel giorno il tram era particolarmente affollato. Mamma mi portava in braccio come sempre, io guardavo con occhi spalancati tutto ciò che accadeva intorno. 
Avevo occhi scuri e capelli  biondi, indossavo una gonnellina a fiori rosa e una camicetta ricamata a punto smog, come usava all'epoca. Ero proprio bellina. La mamma era un po' affaticata; un signore distinto di mezza età si alzò e gentilmente ci offrì il posto a sedere. Io ero incuriosita, ma anche infastidita dalla folla intorno a me, però osservavo tutto con molta serietà. Il signore che ci aveva ceduto il posto mi sorrise e con tono di complimento disse: "Ma che bella bionda con gli occhi neri!" Io per tutta risposta, con aria imbronciata, mi rivolsi con un no  secco e distolsi lo sguardo. Tutti risero divertiti. La mamma per anni continuò a ricordare e a raccontare quell'episodio. Già allora stavo dimostrando il caratterino che mi avrebbe caratterizzato negli anni a venire. 
Nel nostro consueto tragitto sul “16” ci accompagnava la zia; io, la mamma e lei andavamo, una volta la settimana, al mercato di Porta Palazzo. Per comprare cosa? Ora sorriderete: un etto di pesce, sgombro sott'olio per l'esattezza, perché era il meno costoso; i soldi erano pochi. Era anche un pretesto  per fare un giretto in città, in quella Torino in crescita, ma con poche auto e tante linee tramviarie. Per molti anni mamma andò avanti a raccontare un altro episodio del quale anch'io conservo un vago ricordo. Avevo circa quattro anni. Salimmo sul tram e io, senza curarmi delle persone intorno a me, mi interessavo di tutto ciò che accadeva oltre il finestrno. Non mi perdevo un particolare, ma a un tratto la mia attenzione fu attratta da una persona che appena salita venne a mettersi accanto a noi. La guardai, era lei, Virginia dei cani, così veniva soprannominata. L'avevo vista alcune volte passare sotto casa mia con quattro o cinque cani al seguito, tenuti al guinzaglio. Viveva sotto un ponte del Po, poco lomtano da casa nostra. Una specie di barbona. Quel giorno, senza i suoi cagnolini, era sul tram. Indossava abiti sgualciti, un vecchio cappotto consunto e incolore l'avvolgeva. I capelli brizzolati, folti e arruffati le incornicivano il volto scarno. La guardai negli occhi azzurri, mi osservava con un mezzo sorriso, le sorrisi anch'io. Molte persone stavano lontano da lei disturbate da quella presenza. Io che ero seduta, dissi sottovoce: “Mamma, facciamola sedere”. Ci alzammo e con un cenno le indicai il posto. Sentii un flebile “Grazie, sei carina e brava”.  Il mio cuore di bambina batteva. Il tram arrivò al capolinea, anche Virginia scese, la seguii continuando a salutarla col cenno della mano. Si appostò in un angolo della via, sedette a terra e posò davanti a sé una scatolina. I passanti lanciavano un'occhiata e posavano una monetina. Io e la mamma la guardammo ancora una volta prima di inoltrarci  tra le bancarelle. Il mio cuore di bambina non sorrideva.


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FRAULEIN HILDE
di
Tania Mignani

Il giovane autista del tram salutò gentilmente la signorina Hilde e la seguì con la coda dell'occhio mentre percorreva lentamente il corridoio per prendere posto nel solito seggiolino vicino al finestrino. Lei si sedette compostamente lisciandosi il soprabito di taglio elegante ma ormai consunto dagli anni. Mentre il tram ripartiva osservò la città che si stava abbandonando alle luci della sera, sentiva ancora di più la stanchezza e il peso degli anni, chiuse gli occhi appoggiando la testa al freddo vetro cullata dal lento procedere del mezzo su rotaie. Passarono solo pochi secondi e, sentendosi osservata, riaprì gli occhi. Di fronte a lei sedeva una ragazza, strano, il tram non aveva fatto altre fermate e lei era sicura di essere salita da sola. La ragazza la guardava sorridendo e lei rispose al suo sorriso, aveva bellissimi occhi verdi e indossava un capellino fuori moda, si ricordò di averne avuto uno simile da giovane. In un attimo ricordi lontanissimi affiorarono alla mente. La città era molto diversa quando lei, giovanissima, frequentava il conservatorio percorrendo la distanza che la separava da casa su un tram simile a quello su cui sedeva in quel freddo pomeriggio invernale. Jakob sedeva sul seggiolino di fronte, lo stesso su cui era seduta la ragazza. Rimanevano in silenzio per tutto il tragitto, mentre lei rivolgeva lo sguardo alla strada percepiva i bellissimi occhi neri di Jakob che la fissavano per poi ritrarsi non appena lei si volgeva verso di lui sorridendo. Scendevano insieme alla fermata più vicina alla casa di Hilde, lui la lasciava a pochi metri dal cancello della grande villa, poi tornava quasi correndo verso la sua abitazione in un quartiere distante dal suo. Una sera Jakob insistette per scendere alla fermata precedente. Avevano già percorso in silenzio un tratto di strada quando lui trattenendola per un braccio la guidò dolcemente verso un vicolo che attraversava il viale principale, in silenzio si fermò e guardandola negli occhi appoggiò la bocca alla sua. Hilde, dapprima sorpresa, si abbandonò a quel bacio come fosse la cosa che più aveva desiderato al mondo. Jakob riaprì gli occhi, la fissò per un lungo momento e correndo si allontanò da lei. Nei giorni successivi Hilde lo aspettò invano all'uscita del conservatorio, ma di Jakob non vi era traccia, quindi si fece coraggio e si recò nell'ufficio del Direttore il quale, sapendo che il padre di Hilde era un importante ufficiale della Wehrmacht, consegnò alla ragazza l'indirizzo di Jakob. Hilde non aveva mai visto quel quartiere dove i bambini sporchi giocavano nella strada, i cani randagi scorazzavano liberi. Uomini e donne la osservavano sospettosi mentre lei camminava lentamente guardandosi attorno. Alcune case che si affacciavano sulla via avevano porte e finestre sbarrate, con la vernice bianca ben visibile qualcuno vi aveva impresso la scritta: JUDEN.
Una di queste era all'indirizzo che il Direttore le aveva scritto sul foglio. Rimase immobile davanti a quella porta chiusa non sapendo che fare, si accorse di una donna affacciata alla porta vicina. Si fece coraggio e le chiese della famiglia Weissmann. “Li hanno portati via tutti” rispose bruscamente e ritraendosi chiuse velocemente la porta.
Anni più tardi, quando ormai viveva sola avendo rinnegato il padre e gli orrori di cui era stato complice, con i risparmi delle lezioni di piano che le consentivano di mantenersi pagò una persona specializzata in quel tipo di ricerche, ma tutto ciò che scoprì fu che della famiglia di Jakob non c'erano stati sopravvissuti. Hilde rimase fedele per tutti gli anni della sua vita al ricordo di quel bacio e degli occhi neri di Jakob che la osservavano sul tram, come gli occhi di quella sconosciuta seduta di fronte.

Quando il giovane conducente del tram entrò nel deposito quella sera notò con la coda dell'occhio qualcosa di scuro su un seggiolino. Avvicinandosi riconobbe il soprabito della Signorina Hilde, vide il suo capo leggermente reclinato e con la fronte appoggiata al finestino, gli occhi chiusi e la bocca distesa in un lieve sorriso.

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L’ULTIMO TRAM
di
Daniela Quadri

Polvere e sudore: questa è la mia vita. La polvere che si alza dalla strada sterrata, e il sudore che fa luccicare i muscoli tesi, mentre scalpito con gli zoccoli ferrati nell’aria frizzante del mattino.

Il trombettiere sta chiamando a raccolta i cocchieri che si spintonano sul piazzale per scegliere la pariglia migliore. Eccolo, lo vedo avvicinarsi; mi prende per le redini come se stesse cogliendo un fiore per la sua bella, e mi attacca al tiro con un giovane cavallo storno.

Coraggio, Margherita! Sussurra fissandomi dritto negli occhi. Strano! Non lo fa mai; sa che mi innervosisco, ma oggi è un giorno speciale. Mi lascio imbrigliare docilmente e rispondo obbediente a ogni suo comando. Anch’io so cosa gli fa piacere, e mi diverto un mondo a vedere i suoi bei baffi a manubrio fremere d’orgoglio.

È davvero elegante con la divisa stirata di fresco e l’orologio a cipolla appeso alla catena del panciotto; lo controlla di continuo, non vuole che ci siano ritardi, specialmente oggi.

Mi lascio guidare dalle sue mani esperte e il mio trotto si fa fluido come i  miei pensieri; neanche io voglio che proprio oggi qualche signora in crinolina si lamenti per gli scossoni o - peggio ancora! – che il tramway esca dai binari, costringendo conducente e passeggeri a spingerlo per rimetterlo in carreggiata.

Mi mancherai, Margherita! Bisbiglia chinandosi verso il mio orecchio, mentre accosta per far salire un giovanotto col monocolo e la fidanzata che civetta nascosta dal parasole. Anche tu mi mancherai! Vorrei tanto rispondergli e, invece, lancio un sonoro nitrito, ma non importa, lui mi ha capita e mi regala una manciata di carrube.

Mamma, guarda che bel cavallo! E la bambina è già in mezzo alla strada con la manina alzata che si agita verso di me. Una donna urla disperata strappandosi via il cappello e un’altra sviene dallo spavento, ma a me basta sentire il suo tocco deciso sulle redini perché  il morso mi blocchi all’istante.

Vieni piccola, avvicinati non aver paura! Dice, mentre scende da cassetta e la solleva a mezz’aria: la sua voce è così dolce che mi fa pensare a un commiato tra innamorati. Quanto vorrei non arrivasse mai domani e che questa corsa non avesse fine! La bambina mi accarezza e ride felice; scuoto la criniera e scaccio via mosche e pensieri.

Il capolinea è arrivato troppo in fretta; mi riposo un po’ e lo osservo girare svelto i sedili, mentre aspetto di essere riattaccata all’altro capo del tramway per il ritorno.

Forza bella, ancora un ultimo sforzo! Mi incoraggia, ma ormai ho imparato a riconoscere tutte le sfumature della sua voce, anche quel suono cupo che gli stringe la gola. Alzo il capo verso il cielo così azzurro, così lontano. Ancora pochi chilometri, gli ultimi, sotto un sole che ha già asciugato il mio manto lucido.


Non ci saranno più né polvere né sudore: domani. 

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IL TRAM NELLA NEBBIA
di
Teresa Pancallo
   
Giulia prendeva quel tram tutte le mattine: partenza capolinea nord ore sei, arrivo capolinea sud ore sette. Un’ora, durante la quale era solita osservare i compagni di viaggio, soffermandosi sui tic e le piccole manie di ciascuno.
Era un mezzo ultramoderno, controllava automaticamente il regolare possesso del titolo di viaggio non appena un passeggero poneva il piede dentro. E, per chi non era in regola, erano guai seri: alla fermata successiva veniva prelevato dagli addetti, portato al posto di vigilanza, sottoposto a minuziose verifiche sull’identità. Nel migliore dei casi, l’operazione si concludeva con una sanzione salatissima.
Quella mattina di dicembre, oltre al buio, una fitta nebbia impediva di vedere a un passo, e faceva un freddo cane. Giulia si sistemò al solito posto, felice di non essere più in strada.
Alcuni passeggeri erano già su, altri arrivavano trafelati. Per ultimo arrivò il giovane uomo elegante, con lo smartphone sempre in mano e gli auricolari nelle orecchie. Apparteneva alla categoria di lavoratori sempre connessi, quelli che non possono staccare mai, i nuovi schiavi.
Il tram iniziò il suo viaggio, procedendo silenzioso, regolare. Tagliava la nebbia con i suoi potenti fanali, sembrava muoversi tra le nuvole. O attraverso la palude del nulla, quella de “La storia infinita”, che tutto inghiotte. Ma, a parte Giulia, nessuno guardava fuori per cogliere sensazioni dei questo genere.
Improvvisamente, le luci interne, i display indicanti il tragitto e le fermate, i cellulari e gli altri dispositivi elettronici si spensero. I passeggeri, sorpresi, cominciarono a guardarsi intorno e ad agitarsi sui loro sedili. Cosa stava succedendo? Adesso come facevano a sapere quando era il momento di scendere? Non si poteva neppure prenotare la fermata. Oltretutto, si trovavano su un mezzo manovrato dalla centrale operativa, non c’era un macchinista “umano” a cui chiedere informazioni. E intanto il tram seguitava ad andare, come prima.
Pian piano le persone iniziarono a parlare tra loro, dapprima per commentare quanto stava loro capitando, poi allargando la conversazione con argomenti più personali.
Il vecchio professore, bibliotecario volontario nel liceo dove aveva insegnato per mezzo secolo, parlò di libri con la signora di mezza età, unica lettrice su quel convoglio; il giovane uomo sempre connesso, si ritrovò a lamentarsi di quanto era pesante il suo lavoro, con la giovane top model seduta al suo fianco…
Con il passare del tempo, il tram si trasformò in un simpatico salotto, vennero scambiati sorrisi e complimenti, si scoprì come, in fondo, bastava poco per rendere il viaggio più piacevole e per iniziare la giornata con un po’ di buonumore.
Sul più bello, le luci si riaccesero, i cellulari ripresero a funzionare e sui display apparve scritto: “Abbiamo condotto un esperimento sulla comunicazione. Ringraziamo tutti per aver partecipato - anche se inconsapevolmente – contribuendo all’ottima riuscita della prova. Ci scusiamo per l’eventuale disagio e vi auguriamo una buona giornata”.
Il buio della notte si stava diradando insieme alla nebbia, i viaggiatori accennarono un sorriso scuotendo la testa, e tornarono a chiudersi in sé stessi, come prima.


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FERRAGOSTO
di
Maria Rita Sanna

Le due vecchiette parlottavano serenamente sul tram vuoto nella mattina di ferragosto, producendo un leggero fischio per ogni “esse” pronunciata, aggiungendosi allo sferragliare delle ruote sui binari: “Eh sì, siamo state fortunate a sistemarci da nostra sorella per ferragosto, con questo eccessivo caldo...ss...ss...s...s..”.
Sul tram salirono alcune persone, ma l'aspetto e la postura lasciarono a bocca aperta le nonnine: due maschi e due femmine, giovani fotomodelli, e con loro i fotografi. Uno di questi, avvicinandosi alle signore, sussurrò: “Non preoccupatevi, stiamo facendo un servizio fotografico per il famoso stilista Gregorio Alani, godetevi lo spettacolo”, sorrise cordiale, facendo l'occhiolino.
Il tram ripartì lento, uno dei fotografi sollecitò i ragazzi: “Dai Marco, stai vicino al finestrino con lo sguardo malinconico; tu, Sara, mettiti al fianco del conducente e guardalo intensamente”.
Il povero conducente, confuso da tale bellezza marmorea, faticava a guardare la strada, madido di sudore; la ragazza, durante gli scatti, cambiava continuamente posizione, senza mai staccare gli occhi  dal conducente. La sua maglietta era troppo piccola e corta lasciando scoperto l'ombelico.
Uno dei ragazzi si bagnò i capelli, spettinandoli e lasciandoli cadere negli occhi, con l'espressione da ribelle, prese alcuni cubetti di ghiaccio e cominciò a strofinarseli in viso.
Scatti e flash si susseguivano senza sosta per tutto il corridoio del tram, tra i tubi di sostegno e i seggiolini. I palazzi e i viali alberati della città deserta scorrevano lenti attraverso i finestrini.
Il modello tutto bagnato si sedette vicino alle due vecchiette e, togliendosi la canottiera, sorridendo disse: “Abbiamo finito”.
La donna al suo fianco prese un fazzoletto dalla borsa e con mano tremante ma determinata, rispondendo “Scusi, posso?”, iniziò ad asciugargli il volto, partendo dalla fronte alta, scendendo sugli occhi grandi e nocciola, spostandosi agli zigomi pronunciati, verso le guance scavate e il mento con la fossetta. “Eh sì, sei tutto bagnato”, la donna parlava sottovoce con la “esse” che comunque sibilava, meravigliata da tale bellezza; continuò la sua segreta perlustrazione, sulle fasce muscolari dalla spalla fino ai pettorali, fermandosi all'ombelico.

Il ragazzo, tuttavia, approfittò di queste premure, ricordando sua madre lontana che non vedeva da tanto tempo. “Mi dica signora, le ricordo suo figlio?”, le disse il giovane. 
“Oh no, io sono single!” rispose lei.


...


HO SMESSO DI ASPETTARE IL TRAM
di
Carmen Gulino

Ho smesso di aspettare il tram, non lo aspetto più. E perché mai dovrei aspettarlo, se “il tram” sono io?
Sono un tram vecchio stile e le mie carrozze sono un po’ obsolete.  Anni di onorato servizio, sempre esposto  a qualsiasi tipo di agente atmosferico: sole, pioggia, caldo, freddo, ghiaccio, neve; è normale che la mia carrozzeria sia rovinata  e in qualche punto anche  arrugginita; è normale che dopo tutto questo frenetico movimento, correndo sempre avanti e indietro, il mio motore si sia consumato, soprattutto nelle giunture, là dove il movimento si fa più insistente e ripetitivo.
La mia vita l’ho trascorsa sempre su questi binari. Binari disegnati da qualcun altro su un percorso predefinito. Binari che si intersecano con altri, che si affiancano, si superano, ma senza mai uscire dal tracciato. Ecco, lo ammetto, sono un tram molto noioso… Non so cosa voglia dire “uscire dagli schemi”. Mai una volta che abbia preso una sbandata, che sia passato col rosso, o che sia uscito fuori dai binari. Sempre ligio al compito che mi era stato affidato.
Fin da quando uscii fuori dal deposito per la prima volta, ho sempre rispettato le regole che mi avevano detto essere quelle giuste. Le regole le fanno sempre gli altri per te, e poi te le raccontano in modo che tu ti convinca che quella sia la verità assoluta.
Sono stato un tram molto diligente e le regole le ho sempre applicate senza ribellarmi, non perché sia un debole, ma  perché ho sempre pensato che fosse giusto farlo. Ho sempre messo passione nelle cose che facevo, scarrozzando ogni giorno decine e decine di passeggeri distratti.  Li ho sempre accolti con un sorriso quando salivano alle fermate disseminate lungo il percorso.  Ho sempre sorriso,  anche quando c’era un passeggero che non pagava il biglietto: non mi sono mai rifiutato di trasportarlo, anzi gli ho lasciato credere di essere più furbo degli altri e di me, ma di lui non ho mai avuto molta fiducia.
Mi hanno sempre detto che se avessi avuto pazienza, un giorno avrei incontrato il tram della mia vita. Per anni ho atteso che quel tram arrivasse, e una volta ho persino avuto la sensazione che il tram che avevo di fianco fosse quello giusto, salvo poi accorgermi che non eravamo fatti per viaggiare sugli stessi binari, correvamo a velocità diverse  e avevamo mete troppo lontane tra loro.
E così, dopo aver preso qualche “tranvata”, oggi sono qui a riflettere su come cambiare il mio percorso; ho deciso che non  voglio più viaggiare sui binari disegnati da altri, voglio essere io il protagonista dei miei viaggi e decidere quali strade solcare. Non voglio più aspettare che “un tram” passi, bensì essere  io “il tram” che gli altri stanno aspettando.
E se incontrerò alla fermata qualche passeggero che vuol raggiungere la stessa mia meta, sarò felice di condividere il mio viaggio con lui. Potrà salire sulle mie carrozze e io lo accoglierò... “a porte aperte”.




IL TRAM E LA SCIGHERA ( nebbia)
una storia di qualche anno fa  ma anche di oggi
di
Sergio Bertinelli

Non mi fai paura, non ti ho mai temuto, non so neppure perché piaci tanto ai miei concittadini.
Celi tutto, senza distinguere ciò che va mostrato da ciò che va nascosto, senza operare scelte.
Come si può vivere senza decidere, quando la vita stessa è una continua inevitabile scelta. Scendi e copri tutto e tutti, indistintamente.

So bene che non mi temi, perché dovresti? Hai la tua strada, sempre uguale, segnata ormai da tanti anni, sempre identica; non invidi i bus che possono cambiare rotta, evitare scontri, iniziare nuovi percorsi?
Sempre la stessa strada!

C’è una bellezza anche in questo, sai? Ripercorrere la stessa strada ogni giorno, diventando sempre una cosa diversa, pur con le stesse persone, stesse abitudini, stesse certezze.
Oggi è salito un ragazzo nuovo, non l’avevo mai visto, pareva anche non avere fretta, non come i soliti pendolari che ospito.

Non l’avevo visto neppure io, ma sai, non si vede sempre tutto con me.
Da quale pulpito mi dici di non scegliere!
Scegli forse la tue strada? Non lo fai mai! Qualcuno l’ha già fissata, con due rotaie che non possono cambiare e ti portano verso sempre identici percorsi.
Il ragazzo ha lasciato la borsa, te ne sei accorto?

Non è proprio una borsa, è uno zainetto, si vede che non hai a che fare con i ragazzi, sempre sbattuti ovunque questi zaini, a volte me li lasciano, sperando di trovarli il giorno seguente; ma non so se domani troverà qualcosa, con tutta questa gente, qualcuno se ne approfitterà di certo.
È bello vederli ridere, scherzare, con tutto quel tempo a loro disposizione, neppure se ne rendono conto! Tutta quell’energia che si intravede dai loro occhi, dai loro discorsi, sempre a chiedere conferme per sconfiggere la paura di non essere accettati, di non essere sicuri di cosa vuol dire vivere.

Ne ho incontrati tanti anch’io di ragazzi, non credere, ragazzi che vagano, immersi nella mia coltre, sopiti come solo io so sopire, quando creo quel paesaggio magico nel quale si possono percepire le cose che, senza di me, non si possono vedere, dando modo di sentire, di sognare, cercare senza vedere ma immaginando tutto quello che c’è da immaginare.
È questa la mia virtù, non quella di coprire, sciocco tram, ma di far immaginare, di far percepire spazi e luoghi mai visti anche se conosciuti da sempre, tu non riusciresti mai!
Sei sicuro che abbia dimenticato lo zaino? continua a guardare l’orologio, senza preoccuparsi di recuperarlo, strano ragazzo.

Certo, immaginare è l’unica cosa che rimane a uno che non vede neppure cosa abbia sotto il proprio naso, grazie alla tua coltre, ma è la stessa cosa di quando, stanchi, i pendolari guardano fuori dal mio finestrino il mondo che scorre loro intorno.
Da spettatori, solo ora passivi, possono guardare quello che succede e  immaginare  la cosa che più  gli piace: che quella ragazza che hanno intravisto stia proprio guardando nei loro occhi pregandoli di scendere per portarsela via, o che la donna gravida abbia il loro bimbo nel grembo, o che quell’uomo stia cercando proprio un ballerino come il manager che lo sta guardando, seduto al caldo della mia carrozza.
Noooo! E' salito il solito tossico, ora darà fastidio a tutti!
Sta prendendo proprio lo zaino del ragazzo, non ci voleva, proprio sul mio tram.

Doveva stare più attento, guarda che scaltro il tuo tossico, è sceso subito così da poter controllare, al sicuro, il contenuto del bottino appena trovato, peccato per il ragazzo, pensa che sta sempre guardando l’orologio!

Io sono arrivato al capolinea, piazza Fontana, proprio oggi, 12 dicembre, sono quarantasette anni da quella bomba nella banca dell’agricoltura.
Pensa quanti sogni, quanta sofferenza, come sono strani gli  uomini: sempre intenti a farsi del male, ignorando che l’amore potrebbe renderli tutti più felici e più nobili.

Scusa sto guardando cosa sta facendo il tossico, si è infrattato in un sottoscala lasciato aperto, con lo zaino in spalla, che malandrino.
Ricordo bene quell’episodio, è stato tutto, molto molto, triste.

Ma cos’è stato quel botto? L’ho sentito persino nelle rotaie!
Sto vedendo un ragazzo che sorride, convinto di aver mietuto delle vittime con la sua bomba, ignaro, invece di aver divelto un sottoscala e ucciso un tossico che, suo malgrado, ha protetto i cittadini di questa Milano, che non se ne sono neppure accorti.