IL NUOVO AMICO
di
Maria Rita Sanna
Il canto del gallo la svegliò bruscamente, la luce dell'alba iniziava a
inondare la cucina facendo apparire ogni cosa come fosse coperta da un morbido
telo di seta. Tutto era rimasto come la sera prima, i recipienti ancora sporchi
di farina e gli attrezzi ormai incrostati. I teli usati lasciati
disordinatamente sul tavolo e sulle sedie.
Rachele si era addormentata,
sfinita, dopo l'ultimo lavoro della giornata, l'impasto del pane; lo aveva
messo a lievitare in un grosso recipiente di terracotta, sopra il tavolo,
coprendolo con una coperta e sedendosi poi a pensare al giorno dopo, ma
accasciandosi dolcemente sul ripiano.
Ora il giorno avanzava, la donna si
scosse dal torpore e adirata con sé stessa prese a riordinare l'ambiente,
spazzò un poco il forno, dove ancora ardevano le braci, e iniziò a lavorare la
pasta formando le pagnotte.
Quella mattina non aveva visto nemmeno le stelle per
potersi augurare la buona giornata. Rachele fin da bambina le osservava insieme al padre che le insegnò a riconoscerle e ad usarle come riferimento
durante la notte. Lei, alla sera e all'alba, d'inverno e d'estate, conosceva i
tempi per i suoi lavori seguendo un ritmo impeccabile. Si era confusa
raramente, l'ultima volta risaliva a poco tempo prima e non se ne dava pace; aveva svegliato il
marito perché andasse alla mungitura, come ogni giorno; l'uomo, obbediente e
fiducioso, era andato, ma l'alba aveva tardato ad arrivare. Ripensando a quella notte, si era
lasciata incantare dalla luna e da una stella luminosa che non ricordava, ma
che brillava vivacemente nel cielo.
Scacciò questi pensieri dalla
mente, il pane era sfornato e rimanevano ancora tanti lavori da fare, tra
qualche giorno sarebbero arrivati ospiti nella casa padronale, e tutto doveva
essere pronto.
Quella mattina Isacco, il marito,
rientrato dal pascolo, chiese subito alla donna delle bisacce con del cibo,
mentre lui avrebbe preparato l'acqua e i cavalli; doveva andare a soccorrere
una carovana fermatasi a un giorno di cammino dalla città. Rachele,
contrariata e scontenta, ubbidì all'uomo, che la consolò avvolgendola con il
suo abbraccio forte e caloroso: “Non temere, donna, sarò presto di ritorno; è
una carovana di gente umile e hanno bisogno del nostro aiuto.” La strinse a sé un po' di più dandole un
bacio sulla fronte.
Rachele, rassegnata, lavorò ancora
con più lena facendosi aiutare dalla servitù.
La carovana era ferma in mezzo al deserto, un carro si era rovesciato su
un fianco e le scorte di viveri e acqua erano andate perdute nella terra. I
viandanti ormai stremati dal viaggio e dalle avversità si erano accampati in
attesa di soccorsi; alcuni uomini avevano proseguito il viaggio fino in città,
che non era lontana, per chiedere aiuto.
Soffiava un vento fortissimo con la
sabbia che pungeva il viso e accecava gli occhi. Le donne e i bambini stavano a
terra accucciati al riparo sotto grandi coperte, mentre gli uomini a turno
controllavano tutta la carovana per il timore di attacchi nemici, come era già
avvenuto in precedenza.
Un ragazzo molto giovane uscì fuori
dal suo rifugio, disobbedendo alla madre, ma rassicurandola con un bacio che
non si sarebbe allontanato; si avvolse in un grande telo che toccando terra copriva le sue stesse orme, si fasciò la testa lasciando solo una
fessura per gli occhi: era Elia, un ragazzo di circa dodici anni, molto vivace
e intelligente; da quando avevano iniziato il viaggio si sentiva in parte
responsabile per l'incolumità di quelle persone. Non capiva bene cosa gli
succedesse, ma la forza e l'energia che aveva dentro non lo lasciava sereno; si
sentiva pervaso di gioia perché presto avrebbe conosciuto un nuovo amico. Con
grande coraggio controllava più volte al giorno che nulla impedisse il loro
cammino verso la città. Purtroppo si erano fermati per la seconda volta. Elia
perlustrò per bene il perimetro della carovana, soffermandosi sul carro
rovesciato e notando che una ruota era completamente rotta, ma ciò che lo incuriosì fu
l'affossamento della terra su cui era andata a finire. Si chinò per vedere
meglio l'ampia fossa tra i detriti, ma si spaventò alla vista di un grosso serpente
che scattò in avanti con la testa e le
fauci spalancate, mancando la presa per un soffio. Elia perse l'equilibrio e
cadde all'indietro, seguì con lo sguardo il serpente che scappava veloce,
proprio in direzione di due persone che stavano poco più avanti al riparo del
vento. Afferrò un legno e rapido inseguì l'animale, ormai vicino alle persone e
pronto all'attacco; con tutte le sue forze lo colpì sulla testa,
meravigliandosi che il bastone si fosse improvvisamente infuocato, come una
torcia, e con più vigore lo scagliò sul serpente abbattendolo definitivamente.
Ancora una volta Elia, sorpreso, aveva salvato la giovane donna che, abbracciandolo, lo fece sentire colmo di gioia e amore.
Il vento cessò e con l'arrivo dei soccorsi la carovana riorganizzò la
ripresa del viaggio.
Era notte fonda quando una parte della carovana, guidata da Isacco,
arrivò in città; Elia e la sua famiglia furono condotti nella casa padronale
dove Rachele li aspettava con ansia, con un tuffo al cuore notò il ragazzo che decise di dormire nella grande cucina vicino al camino.
La mattina seguente Rachele non si lasciò sorprendere dal sonno pesante,
andò a guardare le stelle come di consueto, ma si meravigliò alla vista di
quella stella che da qualche tempo brillava più di ogni altra in cielo, eppure
non la ricordava e non era presente nelle carte lasciatele dal padre; sembrava, anzi, che si muovesse proprio in direzione della città.
Un rumore proveniente dalla stalla
la richiamò alla realtà, la mucca chiedeva di essere munta, dato che Isacco,
rientrato solo poche ore prima, dormiva ancora. Il grosso animale, docilmente,
donò il suo prezioso latte alla donna; subito lo preparò per gli ospiti,
portandone prima una tazza ad Elia, il ragazzino che tanto somigliava al suo
adorato figlio. Non trovandolo nel suo giaciglio vicino al camino, preoccupata, lo cercò nel cortile, ma poi lo vide nel capanno degli attrezzi intento a
lavorare illuminato da una piccola candela. Porse al ragazzo il latte caldo e
accarezzandogli i capelli lunghi e folti, chiese spiegazioni sul suo lavoro.
Elia stava unendo delle assi di legno con delle corde di canapa e, confortato
dalle premure della donna, si confidò: “Viene a trovarmi in sogno tutte le
notti, da quando abbiamo iniziato il cammino verso la città. Lui mi parla, mi
rassicura e mi infonde coraggio; mi ha detto che tra qualche giorno sarà con me
e potrò vederlo e io resterò con lui per sempre. Due giorni dopo la nostra
partenza dal paese, per venire qui in città, fummo assaliti dai banditi, ma non ebbi paura. La notte prima, il mio amico, era venuto in sogno per
avvisarmi; preparai alcuni sassi e quando arrivarono li scagliai verso i
malfattori, che già ci avevano accerchiato. Ogni sasso, cadendo, si incendiava,
e la fiamma diventava sempre più grande, finché non fummo circondati da un
cerchio di fuoco che ci protesse e scacciò via i banditi. La carovana era in
salvo. Tutti mi acclamarono, ne fui felice, ma in cuor mio ringraziai il mio
nuovo amico. Venne da me anche una giovane donna, affaticata dal proprio
grembo, mi accarezzò come un figlio, nonostante pensai che avesse la mia età.”
Rachele, dubbiosa di quel racconto,
propose al ragazzo di aiutarla nei suoi lavori, ma egli, sicuro e determinato,
rispose: “Non posso, devo finire il giaciglio per lui, sarà qui molto presto,
e io lo seguirò. Insieme avremo molti nemici da combattere.”
La giornata passò velocemente e con la comparsa delle prime stelle,
Rachele era sempre più in ansia: uno strano tremore la scuoteva, ma non era il
freddo, era più la tensione dovuta agli avvenimenti precedenti e alla presenza
del ragazzo, Elia, col suo carattere determinato e ribelle, con i suoi
racconti fantasiosi. E quella stella, ora molto più brillante e luminosa, sopra
la loro casa, sembrava pronta all'esplosione.
Elia uscì eccitato dal capanno dove era rimasto tutto il giorno per finire il suo lavoro e trovando Rachele nel
cortile la esortò a stare pronta,
tenendo tutti i lumi accesi, perché era in arrivo il suo amico. Il ragazzo
entrò anche in casa avvisando i suoi familiari e tutta la servitù; era pervaso
da una gioia incontenibile e incomprensibile a se stesso e per chi lo
circondava, tuttavia fu poco compreso e addirittura rimproverato per il suo
strano comportamento.
Ormai in forte trepidazione, andò
nella strada, sperando di trovare qualcuno che potesse dargli le risposte che
cercava, ma nessuno passava da lì e il buio sembrava inghiottirlo; confortato
dalla grande stella luminosa e da una piccola torcia che aveva con sé, ripensò
alla voce del sogno: "Rimani in veglia, Elia, perché oggi stesso sarò con
te". Nella tensione del momento urtò contro qualcosa, sobbalzando per la
sorpresa, illuminò l'ostacolo e si trovò davanti due occhi grandi con orecchie
lunghe e dritte, un muso peloso in continuo movimento che cercava acqua. Il
somaro precedeva un uomo che teneva in braccio sua moglie, sfinita dalle doglie
del parto: "Ragazzo" disse l'uomo "per favore, aiutaci a trovare un
rifugio, mia moglie sta per partorire, temo il peggio per lei e il bambino.
Purtroppo nessuno ci ha potuto ospitare qui in città". Elia, riconoscendo
l'uomo e la giovane donna, che facevano parte della carovana, placò la sua
agitazione e condusse i coniugi e l'animale presso la casa, dove lui stesso era
ospite.
Rachele non si aspettava certo altri ospiti, soprattutto non a notte
inoltrata, ma mossa da compassione per la donna incinta che le sembrava una bambina, sistemò la stalla ammucchiando tutto il fieno, tale da ottenere un
letto soffice. La mucca e l'asino, coi
loro grossi corpi, emanavano calore, creando nell'ambiente un'atmosfera di pace
e quiete. In quegli istanti avvenne il parto, quasi in silenzio. Rachele senza
smettere un attimo di aiutare la ragazza, prese il bimbo avvolgendolo nei teli
e porgendolo alla mamma. Profondamente commossa dal piccolino, ricordò quando
anche lei partorì il suo unico figlio, chiedendosi dove mai fosse.
Alla sua silenziosa domanda rispose
la ragazza con voce flebile, che tutto si sarebbe sistemato mantenendo viva la
speranza.
Entrò nella stalla Elia, parlando vivacemente e portando di peso il
giaciglio che aveva preparato per l'amico, ma quando incontrò gli occhietti del bimbo appena nato,
tacque improvvisamente e cadde sulle ginocchia; in quegli occhi vide le fiamme
che lanciò nel deserto e il bastone infuocato che scacciò il serpente: riconobbe il suo nuovo amico.
"Eccomi, mio
Signore, sono il tuo servo" disse Elia, con profonda devozione.
Era quella, la notte infinita, in cui tutto si era compiuto, la notte di
cui parlavano i profeti; era nato il Messia, il Re dei Re, il Signore di tutte
le terre e di tutti i tempi, colui che avrebbe salvato ogni uomo dalla morte,
dandogli la vita eterna.
Per Elia fu l'inizio di una nuova amicizia, trasformatasi in alleanza
col solo sguardo, consolidatasi col tocco delle manine calde e morbide del
piccolo. Ancora inginocchiato davanti al neonato, col fiato corto e la voce
tremante, ottenne il permesso di prenderlo in braccio; si sentì subito bruciare
il petto da una forte emozione, il cuore sembrava esplodergli, lacrime salate
gli bagnavano il viso. Aveva sentito
parlare di questo grande evento dai suoi familiari, ma essendo ancora ragazzo
non si era mai interessato dei loro discorsi; la voce che sentiva in sogno,
durante il viaggio per venire in città, l'aveva considerata come una sua
fantasia, e l'idea di avere un nuovo amico, per lui, era una gioia immensa da
tenere nascosta, considerato che non aveva tanti amici per via del suo
carattere ribelle e singolare; le sue imprese coraggiose nel
deserto lo avevano reso più forte e sicuro di sé. Ora tutto diventò chiaro, lui
era stato scelto per essere il primo servo del grande Re, per aiutarlo e
difenderlo nelle tante battaglie che, ancor prima che nascesse, erano iniziate;
quelle manine che allegramente si annodavano nei suoi capelli lunghi e folti
gli davano conferma di tutto.
Rachele, invece, non aveva né conferme né pace in cuore; era certamente
commossa dall'evento del parto e dalla tenerezza del bimbo, ma ricordi dolorosi
la assalirono, le venne un nodo in gola e con moto di rabbia iniziò a
raccogliere i panni usati e sporchi. Tutta quella bellezza non le apparteneva
più, era dimenticata, la sua felicità di madre era svanita nel nulla, come suo
figlio; quella era solo una ragazza come tante altre che partorivano ancora
giovani e i lavori non potevano fermarsi solo per lei. Ancora una volta arrivò
la risposta ai suoi pensieri: la voce, stavolta, era più ferma e determinata:
“Rachele, fermati un momento, raccontami ciò che ti tormenta”. Rachele
incredula di trovare conforto e comprensione, si sedette accanto alla ragazza:
“Non puoi capire, Maria, il dolore che porto dentro. Mio figlio è andato via di
casa quando aveva appena vent'anni, inseguendo l'illusione di una vita
migliore. Aveva sentito parlare dei soldati che vivono nella grande città al
servizio del Re Erode, circondati da ricchezze e ogni bene. Stanco di aiutare
il padre nei pascoli, andò via voltandoci le spalle, senza nemmeno
abbracciarci; non ho mai più avuto sue notizie. Si chiamava Davide”.
Era ormai notte fonda e finalmente regnava il silenzio, sia nella casa
che nella stalla. Rachele, pur essendosi confidata con Maria poco prima, era
sempre più in ansia perché ancora una volta aveva trascurato i suoi lavori. Non
riuscendo a prendere sonno tornò fuori nel cortile, il cielo brillava e pulsava più viva che mai la nuova
stella. La donna, fermatasi sulla soglia della stalla, guardava quelle persone
dormire serene, l'uomo abbracciava la moglie e lei teneva la manina del bimbo;
l'altra manina era tenuta, dall'altra parte, da Elia, anch'esso sprofondato nel
sonno. Sembrava che quel bambino tenesse saldo il legame tra il passato da cui
proveniva, i suoi genitori, e il futuro verso cui era proteso.
Rachele ripensò alle parole della
ragazza: “Non darti pena per tuo figlio”, le aveva detto, “vedrai che un giorno
lo riabbraccerai. Abbi fede e Dio ti aiuterà, anche per i tuoi lavori”. Le
sembrava che quella ragazza proprio non capisse, che venisse da chissà quale
paese, dove tutto era sereno e senza preoccupazioni.
Sobbalzò sentendo dei rumori provenire dall'esterno, uscì incuriosita,
trovandosi davanti alcuni pastori che portavano in mano, oltre ai lumi, ceste
piene di focacce e formaggi, anfore colme di latte; alcune donne avevano coperte
e abitini nuovi per il bambino. “Abbiamo portato doni per il Re di tutti gli
uomini”, disse colui che guidava la piccola comitiva. Rachele, sorpresa, fece
entrare le persone invitandole al silenzio, accorgendosi che a quel piccolo gruppo
ne seguiva un altro, e dopo un altro ancora.
Venivano dalle case vicine, ma
anche da fuori città; non solo pastori, ma anche commercianti e tutti avevano
un piccolo dono per il bambino e la sua famiglia. Il brusio destò i dormienti e
Maria, per mostrarlo ai presenti, prese in braccio il bambino che agitava le
mani come se volesse accarezzare la testa di ogni persona, la quale si sentiva
colma di gioia e amore.
Elia, anch'egli sveglio, guardava
con sospetto tutti, riconoscendo tra gli adoranti anche i suoi genitori che andò ad abbracciare. “Madre!” disse eccitato, “ecco il mio nuovo amico”.
Anche Rachele fu abbracciata dal
marito, due braccia forti che le circondavano le spalle dandole sicurezza e
conforto; in quell'abbraccio la sua tensione si sciolse in pianto.
Era una nuova alba, ma la stella in cielo brillava quasi a richiamare
altri forestieri.
Entrarono in città alcuni soldati a cavallo che il Re Erode,
governatore di quelle terre, aveva inviato per riferirgli dove fosse il tanto
nominato rivale. Parlavano con derisione, criticando anche la piccola carovana
che guidavano: erano i Re Magi, tre
Signori di terre molto lontane, avvolti in mantelli dal tessuto broccato e dai
colori vivaci, sul capo avevano ampi turbanti e, sopra, la corona; erano
studiosi delle stelle e, sapendo dell'arrivo del Messia, avevano iniziato il
viaggio tanto tempo prima e seguendo la nuova stella erano giunti fin lì, per rendere omaggio al Re di tutti i
Re.
All'imponente passaggio dei
soldati, la gente si scansava con timore, la loro domanda con voce tuonante,
non ammetteva incertezze; facilmente trovarono la casa.
Elia, con buona volontà, aiutava come poteva nei lavori in casa, ma non
perdeva mai l'occasione per stare col bambino, al quale avevano dato il nome
Gesù, dopo il rito della circoncisione.
Il ragazzo stava in cortile
godendosi il sole del mattino, col piccolo in braccio, facendosi stringere le
dita da quelle manine vivaci. Si alzò improvviso un vortice di vento
sollevandogli i capelli e mandandogli polvere negli occhi. Si irrigidì presagendo
quanto gli era stato detto in sogno la notte prima.
All'ingresso del cortile stavano i soldati, scesi da cavallo per
accertarsi cosa avrebbero trovato in quella casa; alla vista del ragazzo col
bimbo sorrisero sprezzanti per la facilità con la quale avevano portato a
termine la loro missione. Andarono via, lasciando entrare i tre uomini dai
mantelli colorati.
Rachele, sentendo lo scalpiccio
degli animali e voci di scherno provenire da fuori, uscì di corsa nel cortile
vedendo i tre pacifici personaggi entrare, ma accorgendosi dei soldati, di uno
in particolare che, proprio mentre lei lo raggiungeva con lo sguardo e col
cuore, saliva a cavallo voltando le spalle.
Al cospetto del bimbo tra le braccia della mamma, i tre Magi lasciarono
i loro doni, oro, incenso e mirra, raccontando il loro viaggio e l'incontro con
i soldati di Erode; al tramonto ripresero la via del ritorno. La grande stella
iniziò a perdere il suo splendore.
Elia attento a ogni dettaglio di quei racconti, capì che non c'era più
tempo da perdere; Gesù, con i genitori, doveva andar via e lui con loro. L'impeto di rabbia fu presto placato da suo
padre, ricordandogli vigorosamente che era solo un ragazzo; a questa
esortazione si aggiunse quella più pacata di Giuseppe, il padre del bimbo,
incoraggiandolo a rimanere per difendere la via di fuga da eventuali ostacoli.
Rachele abbracciò Maria con nuovi
sentimenti di amore e ammirazione verso quella ragazza tanto coraggiosa; aveva
lasciato loro le sue carte delle stelle per orientarsi nella notte, verso la
quale la piccola famiglia si avviò. Elia ebbe il permesso di accompagnarli fino
alle porte della città, insieme a Isacco, spinti dal vento che dalla mattina si
era fatto insistente.
La quiete in cui era tornata la casa fu presto lacerata da grida e voci concitate; i soldati, entrati
prepotentemente nel cortile, annunciavano la presenza del Re Erode in persona
giunto per eliminare colui che avrebbe dovuto spodestarlo. Trovandosi davanti
Rachele impietrita da quelle figure minacciose la scansarono con disprezzo,
entrando in casa e interrogando i genitori di Elia, anch'essi spaventati da
tale invadenza. Non avendo risposta, i soldati frugarono la casa, mettendo
tutto sottosopra, ma non trovando tracce del bimbo.
Erode iroso e impietoso, diede
l'ordine di ammazzare tutti i neonati. Era l'inizio di un'altra notte infinita.
Dalle case perquisite le persone scappavano in ogni direzione, come
impazzite; le madri stringevano a sé i loro bambini, cercando rifugio nelle
strade o presso altre case, ma fu tutto inutile davanti alla forza assoluta e
violenta dei soldati che affondavano le spade in quei corpicini.
Le urla strazianti delle donne arrivarono fino all'altro lato della
città, dove Elia e Isacco avevano appena lasciato i fuggitivi. Una serie di
lampi improvvisi illuminarono i soldati sopraggiunti a cavallo con le spade
ancora insanguinate ed Erode, con labbra strette e pieno di odio, chiedeva
del bambino.
Elia, senza paura, spinto da
orgoglio e coraggio, nella mente gli occhi del suo amico, alzò le braccia al
cielo gridando con vigore: “Io sono Elia, amico di Gesù, niente e nessuno ci
separerà. Lui è il nuovo Re di tutte le terre e di tutte le genti. E tu, Erode, non sei nessuno!”. Il vento soffiò più forte e un boato scese dal cielo con la
pioggia sferzante, i cavalli spaventati disarcionarono gli uomini che, riprendendosi, inseguirono Elia scappato via, scaltro, in direzione opposta
alla fuga della famiglia amica.
Il ragazzo, nuovamente circondato
dai soldati, alzò ancora le braccia al cielo, invocando il nome di Gesù, per
poi abbassarle verso i soldati, i quali furono colpiti da fulmini e saette.
Erode, nel frattempo, rimasto sorpreso dall'impeto del ragazzo, cercò
protezione dietro un soldato che, con un bambino tra le mani, stava per
compiere un altro delitto con la spada alzata. L'urlo straziante della madre
del bambino fu sovrastata da un altro grido di donna: “Davide, no!”. Era
Rachele che, corsa in strada a cercare Isacco, aveva riconosciuto in tutta
quella confusione di sangue e tempesta, il figlio soldato.
Davide, sbalordito, riconobbe
anch'esso la madre, e mosso da pentimento e dall'amore mai sopito per lei,
lasciò cadere l'arma, saettando invece il braccio verso Erode alle sue spalle che lo incitava a uccidere tutti; consegnando il bimbo a sua madre, corse
verso Rachele abbracciandola con lacrime di gioia e pentimento. La donna non
poteva credere a quanto accadeva, ma purtroppo non c'era tempo per parlare;
Davide carezzò il volto della madre, si tolse le vesti da soldato e preso un
cavallo si avviò veloce verso l'uscita della città.