sabato 22 agosto 2020

Numero 345 - John Fante, A ovest di Roma - 22 Agosto 2020


Per John Fante ho, da quando l'ho scoperto tanti anni fa, un debole.
Dapprima mi sono appassionata al suo alter ego Arturo Bandini, lo scrittore, protagonista del romanzo "Aspetta Primavera, Bandini" e poi nel più famoso "Chiedi alla polvere". Ma non solo.
In questo romanzo "A ovest di Roma" ho conosciuto invece il nuovo alter ego da uomo maturo: Henry Molise, scrittore in crisi nel lavoro, padre di famiglia che vive con moglie e figli in una casa a forma di ypsilon.
Si aggiunge anche un cane che trova loro, e non il contrario, prendendo possesso del divano e di una casa dove pare che in diversi lo osteggino, ma Stupido - così viene chiamato il cagnone - viene adottato da uno dei figli.
Il romanzo inizia con Stupido e finisce con Stupido, in una scena piena di amarezza per Henry. E girando la pagina, dopo quel momento crepuscolare dell'animo del protagonista, ci si aspetta di leggere un seguito, qualcosa che ci faccia capire come va a finire la storia... Ma invece si trova l'inizio di un racconto, quello che poi dà il titolo all'opera: "A ovest di Roma", che nulla pare c'entrare col romanzo. Ma di questo parleremo dopo.
Dicevo di quella delusione voltando la pagina... O per meglio dire, più che delusione, un senso di sospensione che mi ha ricordato lo stile di Carver, con i suoi finali che non sono né definiti, né aperti, ma... sospesi, appunto. Come in questo caso.
Certo è che i due stili divergono: Fante è un sanguigno, per questo mi piace. Carver è un chirurgo che seziona freddamente l'animo dell'essere umano. Spietato nelle sue analisi, ma che senza dubbio ti cattura.
Ma ora non stiamo parlando di Carver, era solo un piccolo excursus.
Torniamo al nostro Henry Molise, al suo rapporto con Harriet, la moglie. Che dire... Sembrano sempre sul punto di lasciarsi, ma si evince la forza del rapporto coniugale forte di tanti anni insieme...
Le dissi arrivederci e mi avviai verso il garage. Jamie giocava  a basket e Stupido dormiva sul prato. Sembrava già uno di noi, in perfetta armonia con l'erba e gli alberi, faceva parte del caldo pomeriggio di gennaio. Uscendo dal garage in retromarcia con la mia Porsche sentii la piatta vuotezza della mia guancia, quel posto dove Harriet  non mi aveva dato il bacio d'addio. Per un quarto di secolo l'abitudine del bacio d'addio era stata parte delle nostre vite. Ora mi mancava nello stesso modo in cui a un monaco manca un grano del rosario.

E poi il conflitto con la sua scrittura e dell'influenza del cane su di essa.
Lui mi faceva bene. Dopo un mese dal suo arrivo iniziai un romanzo. Niente di strano. Cominciavo romanzi tutti i momenti, riempiendo il tempo fra le sceneggiature che dovevo scrivere. Ma si esaurivano per mancanza di fiducia e di disciplina, e li abbandonavo con un senso di sollievo. 
Scrivere sceneggiature era più facile ed era più remunerativo, una maniera di scribacchiare unidimensionale, che richiede all'autore solo di tenere in movimento i personaggi. [...] 
Ma quando cominciavi un romanzo la responsabilità era spaventosa. Là non eri più solo lo scrittore, ma la star e tutti i personaggi, il regista, il produttore e il cameraman. Se la tua sceneggiatura non andava c'erano moltissime persone cui dare la colpa, dal regista in giù. Ma se il tuo romanzo era un fiasco, soffrivi da solo.
Avevo scritto quindicimila parole del mio romanzo, non c'erano sintomi di collasso, quando mi tornò l'antica smania di abbandonare la famiglia. Le pagine volavano, e io avevo voglia di stare da solo.

E infine il suo rapporto con i figli espressi in due passaggi, a mio giudizio, memorabili.

La faccia con un occhio solo tentò un sorriso fratturato. 
-Addio, papà. Grazie di tutto.
Così. Grazie di tutto. Grazie per avergli dato la vita senza il suo permesso. Grazie per averlo messo forzatamente in un mondo di guerre, odio e bigotteria. Grazie per averlo spedito in scuole dove gli avevano insegnato a ingannare, a dire bugie, i pregiudizi e la crudeltà. Grazie per avergli imposto il fardello di un dio in cui non aveva mai creduto, e dell'unica vera Chiesa, che tutte le altre siano dannate. Grazie per avergli inculcato una passione per le macchine che un giorno avrebbero potuto distruggerlo. Grazie per un padre che scriveva sceneggiature superficiali dove il ragazzo incontra la ragazza e i buoni trionfano sempre sui cattivi. Grazie di tutto.
- Addio, ragazzo. Non perdiamoci di vista.


E ancora... 

Ascoltavo e mi stupivo di quanto poco l'avessi capito e che mistero fosse improvvisamente diventato. Così avevamo un altro martire in famiglia. Dominic che s'immolava sull'altare di Katy Dann, e ora Jamie che si dedicava ai bambini storpi. Com'erano diversi dal loro padre, che scriveva stupide sceneggiature per millecinquecento dollari la settimana (quando aveva lavoro)! Non c'era da meravigliarsi che non riuscissi più a finire un romanzo. Per scrivere bisogna amare, e per amare bisogna capire. Non avrei più scritto fino a quando non avessi capito Jamie e Dominic e Denny e Tina e, quando li avessi compresi e amati, avrei amato tutto il genere umano, e la mia dura visione del mondo sarebbe stata ammorbidita dalla bellezza intorno a me e sarebbe fluita liscia come elettricità attraverso le mie dita sulla pagina.


Voglio concludere qui, con questi meravigliosi passaggi. 
Per scrivere bisogna amare, e per amare bisogna capire. 
Straordinariamente vero.

Del rapporto padre-figlio del racconto A ovest di Roma, beh... quello lo leggerete personalmente se lo acquisterete. Altro racconto dal finale carveriano.

Alla prossima
dalla vostra 
Stefania Convalle


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