Scrivo questa recensione col cuore in mano, la
mente rivolta a Franzisca. Il primo personaggio che si ama, di questo splendido
romanzo. Giovane donna che desidera solo realizzare il suo
sogno d’amore, dall’animo forte e delicato che sorride davanti al pane.
Quando era pronto, il pane “cantava” per quanto
era croccante; produceva note come facevano tutti in paese, gente di suoni più
che di parole. Allora, con la carta ’e musica riposta in cesti di asfodelo, anche
Franzisca si sentiva felice di creare la vita nelle fattezze di un cerchio
bianco che sfama, che nutre, che consola.
Accusata ingiustamente da Mallena di essere un’assassina, scappa tra le montagne della sua Sardegna e diventa una bandita, insieme
al suo amato Istivani.
Io ti perdono, bambinetta. Neppure tu sai quello
che hai visto, quel giorno maledetto. Sai solo quello che ti hanno detto di
vedere. Io lo so, invece, quello che ho visto. Troppo bene lo so. La verità ho
detto e della verità la Giustizia non sa che farsene. Mi sembra di sentire i campanacci e le grida, in
lontananza. E io sono la pecora bianca, quella nata per soccombere, quella
contro cui hai puntato il dito, proferendo la frase: «Lei è stata.» Da quell’istante io non sono più stata donna, ma
bandita. Ti perdono, Mallena, perché a tredici anni sei vittima pure tu, agnellino
mio.
Inizia così “Le spose della Luna” di Emma Fenu.
Inizia così un romanzo dove Emma diventa la voce
della Luna, sotto la quale si svolgono le tristi e dannate vite dei
protagonisti. Una Luna che si colora di giallo zafferano, piena e luminosa; di
rosso sangue e diventa falce, mentre silente assiste all’amore dei due giovani.
E la Luna, con indosso il lionzu color
zafferano, le baciava tutte sulla bocca quelle spose bianche, senza un marito,
stendendo su di esse un velo d’argento e perle.
Una Luna, femmina come le donne di questo
romanzo: forti…
È un nuraghe, mia madre: non si sa se prega o
combatte, se è ventre di litanie o di inni di guerra, se brucia incenso alla
Madonna o impasta bacche per far abortire. Non lo sa nessuno. Lo sanno solo lei
e Dio, e sono pure in troppi.
Così
Franzisca descrive sua madre, Tzia Michela.
E quante
donne, portano dentro l’anima il bene e il male, come Tzia Jolza...
Sconto le pene che ho inflitto. Ma credetemi,
spiriti e vivi: non avevo scelta. Il male mi cercava fin da fanciulla
innocente, mi blandiva con promesse, mi seduceva mentre mi specchiavo, mi teneva
sveglia la notte. Quando sollevavo lo sguardo, voi, donne del
paese, mi avevate già condannata; ero la bambina dai grandi occhi di ossidiana,
nata nel giorno nefasto indicato dalle antiche profezie. Solo “Mannai” scorgeva
in me la purezza e il candore, ma non mancava di ammonirmi: «Hai il dono, fanne
buon uso.»
Mannai… La bisnonna, la vecchia saggia, che
benedice la cecità della vecchiaia per non vedere il male. La bisnonna che
narra storie e lo fa perdendosi in atmosfere di magiche leggende e tradizioni.
Mannai… che lascia un buon ricordo alla nipote Jolza,
un ricordo che fa intravedere nella strega predestinata uno spiraglio di buoni
sentimenti.
Si sedette accanto alle gambe della morta che erano
spostate da un lato, come a far posto a qualcuno, e sentì affiorare il ricordo
di una susina di luglio che Mannai, ancora giovane, le offriva, dopo averla
pulita sul grembiule. Ne assaporò la polpa dolce e succosa. Questo le aveva
lasciato sua nonna in eredità: un buon sapore.
Quanti sapori, Emma Fenu, ci regala in questo
romanzo. Quelli dei cibi poveri, quelli delle erbe magiche che combattono il
malocchio o curano i malanni, quelli del sangue delle ferite del corpo e dell’anima,
quelli dell’amore spezzato ma non piegato.
Risero appena, ricordando il giorno in cui si
erano fidanzati e un candido uccello era stato unico testimone della loro
promessa. E piansero, perché alla colomba non era spettato un velo da sposa, ma
una camicia insanguinata da un rivolo che la tosse aveva fatto zampillare dalla
bocca, per poi riposare all’altezza del cuore come un sinistro monile.
«Chiamala Annedda la tua primogenita.»
«La nostra» la corresse Istevani. Ma Franzisca
già dormiva.
Una commovente storia d’amore. Ma il nodo in gola
è lì, anche per le altre donne, giovani e vecchie, che con loro storie, il loro
essere le spose della Luna, portano ognuna il proprio dolore, condito da
rabbia e sete di vendetta in una terra di Sardegna dura e Madre allo stesso tempo.
Eppure Emma riuscirà a lasciare, sul
futuro di queste donne – di alcune – una luce di speranza. La luce della Luna?
Un romanzo che dà voce alle donne, ma anche agli
uomini capaci di amare, come Istevani.
Oggi ci lasci, 1911. Sei l’anno che mi doveva
vedere sposa, a casa mia, padrona di ubbidire a mio marito facendogli credere
di comandare. Istevani lo sa che sono intelligente e saggia, ma i pantaloni li
vuole portare lui. A noi donne basta la gonna; le mille pieghe scure, che dalla
vita scendono fino ad accarezzare le caviglie, serbano memorie, nascondono banditi
ed eroi. Sono il rifugio dei maschi. Siamo come la montagna di notte, noi
donne. Abbiamo sempre posto per un altro segreto, dentro: serriamo lo scialle
sul cuore e nessuno saprà mai.
Leggendo questo romanzo ho sottolineato decine e
decine di frasi. Non è stato facile scegliere quelle da proporvi e tante
rimangono qui, tra i miei appunti. La
scrittura di Emma Fenu mi ha incantata: poetica, ricercata, raffinata. Potente.
Mi ha catturata e ipnotizzata, in una storia
ispirata a una storia vera, quella di Paska Devaddis.
Lo ammetto: mi sono commossa.
E voglio aggiungere che un romanzo di questo
spessore merita l’Olimpo.
Da scrittrice dico: vorrei averlo scritto io.
Da editrice dico: vorrei averlo pubblicato io.
Da blogger dico: leggetelo. Punto.
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle