Il 14 settembre 2023 si è svolta – in diretta Facebook – la finale della GARA
LAMPO lanciata da Edizioni Convalle.
I partecipanti avevano una manciata di giorni per scrivere un breve
racconto dal carattere URBANO, cioè ambientato in una città (meglio se una
metropoli). Si doveva “sentire” l’anima, il ritmo, la vita della città che
offre sempre grandi spunti.
Durante la diretta ho letto tutti i racconti in gara – 31 – e alla fine della
lettura, avendo valutato diversi elementi per ogni elaborato, ho stabilito la
classifica dei primi tre. Ho assegnato anche due Menzioni.
Faccio i complimenti a tutti coloro che hanno partecipato perché mettersi
in gioco è sempre un atto di coraggio, ma anche una bella occasione per chi ama
scrivere.
A seguire i racconti premiati. Partiamo dal 1° classificato e poi a scendere
fino alle menzioni.
Buona lettura!
PRIMO CLASSIFICATO
STEFANO BUZZI
DIVERSO
Immobile.
Resto immobile.
In mezzo a tutti questi grattacieli non posso che restare fermo e
respirare. Vedo la gente che corre frenetica, che sale e scende dalle scale
della metropolitana, che si infila negli uffici e che ordina ciambelle agli
angoli delle strade.
Sento il rumore dei taxi che attendono impazienti il verde al semaforo,
il concerto dei clacson dei veicoli che provano a farsi spazio e il brusio dei
tabelloni pubblicitari che cantano canzoni nella piazza più famosa del mondo.
E poi ancora, annuso. L’odore dei sandwich che cuociono nei baracchini
vicino ai marciapiedi, il vapore acqueo dei getti che fumano su dai tombini per
via del teleriscaldamento e, prestando molta attenzione, quasi chiudendo gli
occhi, il sale del mare che avvolge la Grande Mela.
E resto immobile.
Inerme davanti a tutta questa cartolina che rende New York una città
riconoscibile anche solo dai piccoli dettagli.
Poi, di colpo, mi domando cosa ci faccio qui?
Così diverso da tutta questa frenesia, così musica classica in questo
oceano di rumore. Me lo chiedo con l’orgoglio di chi sa di trovarsi comunque nel
posto giusto. Nel suo agognato angolo di mondo.
E allora abbraccio idealmente tutto ciò che mi circonda e lo avvolgo con
il mio respiro che spingo giù fino a raggiungere la statua che sorregge la
torcia. Fino alla libertà.
Libertà che qui, come in nessun altro posto sul pianeta, ti permette di
essere diverso. Qui dove diverso diventa normalità. Dove quando si accendono le
luci alle finestre dei palazzi che puntano al cielo, posso anche permettermi di
dormire, a dispetto di una Manhattan che per definizione non dorme mai.
E allora, anche per questo, vivo un grande amore e sposo ogni giorno la
metropoli, perché anch’io sono New York.
Io che sono Central Park.
SECONDO CLASSIFICATO
BARBARA ROMANO
SEDICI MINUTI
BARBARA ROMANO
In quella grigia mattina di ottobre la pioggia cadeva incessante sulla
città che si risvegliava.
Nel caos del traffico milanese, amplificato dal disagio dell’acquazzone, tutti avevano fretta di raggiungere la loro destinazione.
Le automobili scivolavano sull’asfalto luccicante, sollevando ondate di acqua sporca.
Sara correva in direzione della stazione della metropolitana M1 di Piazzale Loreto.
Quel giorno avrebbe dovuto sostenere l’ultimo esame universitario per poter quindi discutere la tesi, ma era rimasta intrappolata nel vecchio ascensore per un lasso di tempo che le era parso interminabile, prima che il portiere riuscisse a liberarla.
Dovevo scendere le scale a piedi, pensò mentre oltrepassava i tornelli e sfrecciava in direzione dei binari.
Il cartello luminoso che pendeva dal soffitto annunciò che il convoglio successivo, a causa di un problema tecnico, sarebbe arrivato dopo sedici minuti.
Ci mancava anche questa… Sospirò tra sé.
Nel caos del traffico milanese, amplificato dal disagio dell’acquazzone, tutti avevano fretta di raggiungere la loro destinazione.
Le automobili scivolavano sull’asfalto luccicante, sollevando ondate di acqua sporca.
Sara correva in direzione della stazione della metropolitana M1 di Piazzale Loreto.
Quel giorno avrebbe dovuto sostenere l’ultimo esame universitario per poter quindi discutere la tesi, ma era rimasta intrappolata nel vecchio ascensore per un lasso di tempo che le era parso interminabile, prima che il portiere riuscisse a liberarla.
Dovevo scendere le scale a piedi, pensò mentre oltrepassava i tornelli e sfrecciava in direzione dei binari.
Il cartello luminoso che pendeva dal soffitto annunciò che il convoglio successivo, a causa di un problema tecnico, sarebbe arrivato dopo sedici minuti.
Ci mancava anche questa… Sospirò tra sé.
Hina camminava lentamente, fissando l’asfalto, incurante delle raffiche
di vento e pioggia. Ripensava all’ennesima discussione avuta la sera precedente
con i suoi genitori. Non voleva sposare un uomo che non conosceva, tanto più
vecchio di lei, solo perché ricco e di origine pakistana, come la sua famiglia.
Con una calma glaciale imboccò l’entrata della linea rossa da Corso Buenos Aires, arrivando alla banchina del treno. Notò il cartello luminoso che indicava un ritardo di sedici minuti.
Con una calma glaciale imboccò l’entrata della linea rossa da Corso Buenos Aires, arrivando alla banchina del treno. Notò il cartello luminoso che indicava un ritardo di sedici minuti.
Mancano ancora sedici minuti, pensò Sara.
Mancano solo sedici minuti, pensò Hina.
Mancano solo sedici minuti, pensò Hina.
Poi, nel buio del tunnel apparvero due fari luminosi e si udì lo
sferragliare lungo le rotaie.
Hina si avvicinò al bordo del marciapiede, sfiorando con lo guardo assente Sara, che si trovava accanto a lei.
Fu questione di un attimo.
Sara che afferrava Hina un istante prima che si lanciasse nel vuoto. Sara che abbracciava stretta Hina, come se non volesse più lasciarla andare. Hina che piangeva sulla spalla di Sara.
Mentre il vagone chiudeva le porte, riprendendo indifferente il suo viaggio.
Hina si avvicinò al bordo del marciapiede, sfiorando con lo guardo assente Sara, che si trovava accanto a lei.
Fu questione di un attimo.
Sara che afferrava Hina un istante prima che si lanciasse nel vuoto. Sara che abbracciava stretta Hina, come se non volesse più lasciarla andare. Hina che piangeva sulla spalla di Sara.
Mentre il vagone chiudeva le porte, riprendendo indifferente il suo viaggio.
TERZO CLASSIFICATO
ANTONIO VALLOGINI
OSSESSIONE
Cristallizzato dietro ai vetri, dal primo piano del suo ufficio, li
cercava disperatamente, tra la gente.
Cercava quegli occhi celesti che il giorno prima lo avevano fulminato, nell'andirivieni all'uscita del metrò, prima che la folla lo trasportasse sull'onda della frenesia, fra semafori dai tempi impossibili, auto insofferenti nei confronti dei pedoni, rumori di smog e grigie isterie.
Cercava quella pelle di porcellana, quei capelli neri sparsi sulle spalle alla fermata dell'autobus, in mezzo a volti inchiodati sui cellulari, sguardi persi su riviste sfogliate meccanicamente e nelle corse a perdifiato di chi quel mezzo lo avrebbe perso, per un soffio.
Come perso era lui, in quella follia nella follia, nel ricercare l'ago in un pagliaio che si disfa a velocità assurde, senza concedere ossigeno a batticuori che vadano oltre un attraversamento pedonale con l'arancione.
Poi, proprio mentre si stava voltando per tornare alla scrivania, la scorse: vestita di verde speranza, immobile innanzi al bar delle volatili colazioni.
A rotta di collo fece la rampa di scale che lo separava dall'uscita e in un battibaleno si trovò sepolto dall'indifferente moltitudine cittadina, che tutto fagocita; giunto all'uscio del locale un profumo di vaniglia, rapido quanto un addio clandestino, aveva preso il posto della graziosa fanciulla, sfuggita per la seconda volta, risucchiata dal caos di quella città che ora lui ferocemente odiava, dal più profondo del suo Essere.
Cercava quegli occhi celesti che il giorno prima lo avevano fulminato, nell'andirivieni all'uscita del metrò, prima che la folla lo trasportasse sull'onda della frenesia, fra semafori dai tempi impossibili, auto insofferenti nei confronti dei pedoni, rumori di smog e grigie isterie.
Cercava quella pelle di porcellana, quei capelli neri sparsi sulle spalle alla fermata dell'autobus, in mezzo a volti inchiodati sui cellulari, sguardi persi su riviste sfogliate meccanicamente e nelle corse a perdifiato di chi quel mezzo lo avrebbe perso, per un soffio.
Come perso era lui, in quella follia nella follia, nel ricercare l'ago in un pagliaio che si disfa a velocità assurde, senza concedere ossigeno a batticuori che vadano oltre un attraversamento pedonale con l'arancione.
Poi, proprio mentre si stava voltando per tornare alla scrivania, la scorse: vestita di verde speranza, immobile innanzi al bar delle volatili colazioni.
A rotta di collo fece la rampa di scale che lo separava dall'uscita e in un battibaleno si trovò sepolto dall'indifferente moltitudine cittadina, che tutto fagocita; giunto all'uscio del locale un profumo di vaniglia, rapido quanto un addio clandestino, aveva preso il posto della graziosa fanciulla, sfuggita per la seconda volta, risucchiata dal caos di quella città che ora lui ferocemente odiava, dal più profondo del suo Essere.
MENZIONI SPECIALI
Stefania P. Nosnan
Fredda Saint Louis
Fredda Saint Louis
Con un sospiro di rassegnazione Victor Caruso si appoggiò al muro di un palazzo in mattoni ed estrasse un fazzoletto bianco, che arrotolò come meglio poté e lo avvolse attorno alla ferita. Cercò di fare un nodo stretto che gli bloccasse la circolazione, ma i movimenti erano goffi e impacciati.
Nella sua misera vita era sempre stato lui a trovarsi dalla parte del vincente o dell’arma fumante; invece, questa volta aveva visto in faccia la bocca di fuoco della pistola.
Il mondo si è capovolto, pensò con un sorriso beffardo. Alzò lo sguardo per ammirare quelle insegne luminose che donavano un sinistro colore alla viuzza nella quale si era rifugiato. Il ritmato e fastidioso lampeggiare del neon rendevano l’atmosfera retrò.
Sicuramente ho i minuti contati, meditò mentre scivolava sulla fredda e sporca pavimentazione. Non avrebbe mai pensato di morire in quel modo disonorevole, proprio lui che aveva servito il suo capo da quando aveva quattordici anni. Invece, nell’ultimo anno tutto era cambiato e da essere il braccio destro di Alfredo Miles si era visto appellare come una maledetta spia della polizia. Qualcuno lo aveva incastrato e lui, come un novellino, era caduto dentro la trappola.
Dei passi smorzati dalle suole di gomma si fecero più vicini. Victor alzò la testa e guardò il suo antagonista e assassino.
«Hai avuto quello che volevi?» domandò.
«Sì, dopo che ti avrò ucciso» replicò l’uomo e senza attendere oltre puntò la pistola alla testa di Victor e fece fuoco.
Elisabetta Motta
Innamorarsi di Venezia
Il vaporetto si ferma. Scendo sulla banchina trascinando il mio trolley.
Non mi pare vero di essere a Venezia. Ho sempre letto di questa straordinaria
città sui libri e ho ammirato i suoi scorci in foto e cartoline. Ma adesso le
sue bellezze sono attorno a me.
Una densa caligine avvolge i tetti e rende ovattati i rumori di sottofondo. Gli antichi palazzi si rispecchiano nella laguna, con le loro bifore e la facciate che sembrano dei merletti riccamente lavorati.
E le calli sono così strette da impedire quasi il passaggio di chi le attraversa. Le vetrine dei negozi espongono maschere e abiti d’epoca in un tripudio di colori, broccati e passamanerie, brillantini e piume. Non è il periodo in cui si celebra il famoso Carnevale, eppure la città sembra in festa.
Seguo la mappa stampata sul voucher dell’hotel, stretto nella mia mano. Le indicazioni mi dicono che devo superare solo due ponti per giungere a destinazione. Sono quasi arrivata.
Mi soffermo in cima a una rampa ad ammirare il canale. Le acque piatte sono smosse da una gondola che arriva silenziosa. I due giovani innamorati che trasporta forse sono due sposi in viaggio di nozze. Chissà…
Mi appresto a scendere la successiva rampa e supero il secondo ponte. Qui i negozi sono radi, ma ci sono tipiche trattorie e abitazioni dalle cui finestre illuminate s’intravedono stucchi, ricchi tendaggi, suggestivi soffitti a cassettoni e preziosi lampadari di Murano.
Una densa caligine avvolge i tetti e rende ovattati i rumori di sottofondo. Gli antichi palazzi si rispecchiano nella laguna, con le loro bifore e la facciate che sembrano dei merletti riccamente lavorati.
E le calli sono così strette da impedire quasi il passaggio di chi le attraversa. Le vetrine dei negozi espongono maschere e abiti d’epoca in un tripudio di colori, broccati e passamanerie, brillantini e piume. Non è il periodo in cui si celebra il famoso Carnevale, eppure la città sembra in festa.
Seguo la mappa stampata sul voucher dell’hotel, stretto nella mia mano. Le indicazioni mi dicono che devo superare solo due ponti per giungere a destinazione. Sono quasi arrivata.
Mi soffermo in cima a una rampa ad ammirare il canale. Le acque piatte sono smosse da una gondola che arriva silenziosa. I due giovani innamorati che trasporta forse sono due sposi in viaggio di nozze. Chissà…
Mi appresto a scendere la successiva rampa e supero il secondo ponte. Qui i negozi sono radi, ma ci sono tipiche trattorie e abitazioni dalle cui finestre illuminate s’intravedono stucchi, ricchi tendaggi, suggestivi soffitti a cassettoni e preziosi lampadari di Murano.
Ecco il civico 41. Mi fermo davanti al massiccio portone dell’antico
palazzo e suono il campanello di lucido ottone. La porta si spalanca e varco la
soglia, lasciandomi alle spalle gli ultimi bagliori di quella giornata grigia e
umida per essere accolta dalla calda atmosfera di quell’interno veneziano
Per ascoltare tutti i testi in gara letti da me e le motivazioni relative primi classificati, cliccate qui:
https://www.facebook.com/solobelleopere/videos/1341555840048142
Si ringrazia Agorà letterario – rivista sfogliabile on line – per aver
omaggiato il primo classificato di un’intervista.
dalla vostra
Stefania Convalle
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