mercoledì 7 dicembre 2022

Numero 419 - Finale di Masterbook! Votate gli incipit - 7 Dicembre 2022


Ormai ci siamo.

Il momento della finale del Masterbook è arrivato.

Quattro finalisti si giocano il titolo. Dovevano scrivere un racconto di 5000 parole, suddiviso in tre capitoli, che comprendesse anche dei dialoghi diretti.

Giovedì 15 dicembre, nella diretta su Facebook dalla Pagina di Edizioni Convalle, alle ore 21, sapremo chi avrà vinto!

La giuria tecnica è già al lavoro.

Ma ora tocca anche a voi, cara giuria popolare, votare per eleggere il concorrente che vi avrà colpito di più col suo racconto.

Per ragioni di lunghezza, posterò in questo numero del Blog solo il primo capitolo di ognuno.

Dovrete votare i vostri TRE incipit preferiti scrivendo una mail a steficonvalle@gmail.com per comunicarmi la vostra votazione, aggiungendo anche una breve motivazione per ognuno dei tre voti.

NON SARANNO PRESI IN CONSIDERAZIONI VOTI ESPRESSI NEL BLOG.

Il voto è segreto, anche per mantenere una certa attesa ;-), e ogni concorrente dovrà mantenere la riservatezza assoluta sul proprio testo, pena l'esclusione dalla gara

In sintesi: i concorrenti non possono dire ad amici e parenti di votarli ;-) sarebbe altamente scorretto.

Durante la diretta di giovedì 15 sapremo anche quale sarà stato il concorrente più votato in base all'incipit postato qui.

Posterò gli incipit in ordine di arrivo a me ed esattamente come mi sono giunti. Nessuna correzione da parte mia.

E quindi, si parte!

Leggete attentamente, e poi votate votate votate.

Le mail con i voti dovranno arrivare ENTRO giovedì 15 alle ore 12.

Vinca il migliore!


CONCORRENTE UNO


I MAZA PREVAT
 
CAPITOLO 1
 
Anno Domini 1706
 
Non so cosa mi abbia spinta a tornare, a lasciare il mio rifugio e le altre donne, per essere qui, oggi, al paese. Sono consapevole che non è sicuro, eppure ne ho sentita la voglia, la chiamata, come se fosse necessaria la mia presenza.
Un anno di esilio forzato, in cattività, di continue fughe tra una cascina malandata e un alpeggio vuoto, tra una grotta fredda e una stalla di fortuna, oppure un prezioso pavimento davanti al camino di chi, coraggioso, per una notte ti apre le porte. Questi eventi hanno cambiato e offuscato me, ma i ricordi sono netti e chiari.
Le strade, fatte di ciottoli, sono quelle di prima, forse più sporche, con la neve che si scioglie e rende tutto bagnato. Le case, strette le une alle altre, a sostegno, per contenere il calore dei magri fuochi all'interno, hanno gli usci sbarrati. Sembra un paese fantasma. No, mi sbaglio, è un abitato in attesa. Di cosa?
Le campane della chiesa risuonano, spezzano il silenzio e mi indicano la via. L'edificio del culto è un po' discosto dal paese, non al suo interno, ma defilato a margine. È una caratteristica dei luoghi di qui: da una parte la vita umana, unita e stretta intorno alle botteghe; più in là il divino, raggiungibile solo camminando per una strada precisa, separato eppure sempre visibile. O siamo noi a essere sempre sotto i suoi occhi? È rispetto, questo mettere le chiese da sole, metafora del viaggio da compiere per arrivare alla perfezione di chi rappresentano, o timore e diffidenza? Prima dei fatti di cui sono stata testimone e vittima, vi avrei risposto che era un modo per onorare Dio: scegliere il luogo più bello, in alto, con la vista migliore, o più tranquillo, sereno. Raggiungere la chiesa era un lasciarsi alle spalle le preoccupazioni, per riunirsi con gioia e cantare al Signore, ma ora tutto questo non c'è più.
Le campane continuano a scandire i loro rintocchi. Mi avvio, non direttamente, no, i miei zoccoli sui ciottoli farebbero rumore, amplificato dalle mura delle case. Passo tra le piante, gli arbusti, i piccoli campi a margine, memore della mia condizione, avvezza al pericolo, dimentica della pace.
Nel prato antistante la chiesa, dove in un'altra vita si faceva festa insieme, la neve è bucata da spazi vuoti, neri, di legni bruciati.
Ho i brividi. Non per il freddo, a quello sono abituata, lo accolgo con gratitudine, perché l'alternativa non sarebbe meglio, ma per la consapevolezza di quel che rappresentano quegli sfregi nel manto immacolato.
Più vicina, trovo riparo dietro un'edicola, al suo interno una scena della Passione. Faccio una smorfia, mi sembra quanto mai indicata. Lo so bene quanto stiamo soffrendo e da quando.
Non riesco a credere alle mie orecchie. Sotto lo scampanio disperato che proviene dal campanile, sento chiare le voci di un canto femminile, di tante donne, accompagnate dalle note profonde degli uomini e, non mi sbaglio, le note dell'organo.
Sgrano gli occhi, mi pizzico incredula. I canti sono stati tra le prime cose vietate, negate. La musica dell'organo zittita subito dopo. Non più modi di ringraziare, ma simboli di superbia, di orgoglio. Solo fedeli penitenti, consapevoli della loro fallibilità, supplici, questo dovevamo essere: certi del castigo, immeritevoli del premio, ubbidienti per tentare un'ammenda.
Le note dello strumento sono sgraziate, lo percepisco anche attraverso il muro di pietra e suono che le accompagna. Incerte, graffiano più che accarezzare. La polvere depositata nelle canne, la mancanza di cure nel tempo del non utilizzo, fanno boccheggiare l'organo, come qualcuno ormai annegato che spezzi il pelo dell'acqua e azzanni l'aria. È una musica violenta, come il canto che è rabbioso, urlato. Non c'è armonia, non c'è felicità, solo rancore.
Immagino le teste non più chine, ma sollevate, orgogliose. Le bocche aperte a testimoniare il diritto di essere. Uomini che avevano ancora un po' di libertà, insieme a donne oppresse e guardate con sospetto. Cosa sta succedendo in questa chiesa, cosa ha scatenato quest'inno alla ribellione?
D'improvviso il portone si spalanca e il suono si riversa fuori, irruente. Mi aspetto di vedere la gente correre, folle, ma rimango delusa.
Il canto si spegne, come se fosse volato via, mentre le code della melodia si abbassano e scompaiono. Anche le campane si sono zittite, me ne rendo conto solo ora. Questo silenzio è peggio. Prima, nel suono, avvertivo una scelta, una posizione ancora da prendere. Ora è qualcosa di terribile. Non una minaccia, ma una decisione. Ferma. Ineluttabile.
Un mormorio. Raggiunge l'ingresso con le prime persone. Vestite di nero, rigorose, le donne avanzano e recitano la prima parte del rosario:
«Ave, Maria, grátia plena...»
Dietro vengono gli uomini, abiti scuri senza scampo, recitando la seconda strofa: «Sancta Maria, Mater Dei...»
Guardano avanti e camminano. Mi chiedo dove vadano, quando lo sguardo viene richiamato al portone, dal quale esce la portantina della Madonna, quella usata per le processioni, quando potevamo farle. Sostenuta da otto uomini, divisi in quattro gruppi di due a reggere le barre, giunge nella grigia giornata di marzo. Non c'è la statua delle Vergine sopra, ma una figura distesa, bloccata da corde che l'avvolgono e girano sotto la portantina.
Mi sporgo, incurante, per cercare di capire chi sia. Non temo di essere vista, sono tutti così concentrati e tesi al misterioso obiettivo, che la mia presenza non riveste importanza.
Sono i capelli biondi, così chiari da essere prossimi al bianco, a dirmi chi è il prigioniero: è l'inquisitore, l'angelo freddo e insensibile, impossibile da imitare e accontentare, che ha gelato le anime bruciando i nostri corpi.
Gira il volto verso di me, i suoi occhi castani, di un colore così caldo, ma capaci di tanto sorprendente disprezzo, sembrano fissarsi nei miei.
Mi accusa quello sguardo, lo fa dal primo giorno e io, di nuovo, senza motivo e senza comprendere, mi ritraggo facendo un passo indietro.
Il corteo si allontana, come una freccia scoccata dall'arco che può solo raggiungere la sua meta, portando via l'inquisitore domato.
Non so dove vogliano andare, che cosa abbiano intenzione di fare.
Li seguo. Devo sapere e, mentre cammino, il pensiero va indietro negli anni, riavvolge le immagini veloce, per rallentare in quel preciso giorno, quando tutto è cambiato. Una morte aveva chiuso un capitolo e un arrivo ne aveva iniziato un altro, del tutto diverso.
(Continua)

CONCORRENTE DUE

VIAGGIO NELLA MENTE

 CAPITOLO I

La sala di attesa era avvolta da una gradevole penombra che sembrava avesse il precipuo scopo di distendere i nervi e predisporre l’umore al dialogo. Sedeva sul divanetto in velluto verde con la testa sostenuta dalle mani, mentre i gomiti poggiavano in modo sempre più pressante sulle sue ginocchia, vagando meditabondo ormai da una decina di minuti nell’oceano dei propri pensieri.
- Avvocato Maestrelli? Si può accomodare, il professore si è liberato. -
La voce squillante della segretaria del preclaro psichiatra lo raggiunse nell’istante in cui si trovava assorto nella contemplazione di un grande stampa, posta sulla parete dinanzi a lui: si trattava della riproduzione del quadro di Van Gogh intitolato Barche da pesca sulla spiaggia di Saintes. Si riscosse bruscamente.
- Oh grazie…, arrivo. -
La stanza dell’anziano terapeuta era arredata con cura, seguendo uno stile tradizionale ma non austero, probabilmente volto a indulgere i pazienti a una equilibrata ambientazione. L’immancabile lettino in pelle scura campeggiava di fianco alla scrivania dell’esimio docente e a Gabriele Maestrelli sembrò che quel sedile lo stesse aspettando da tempo e che lui fosse giunto a quarantasette compiuti lottando con tutte le sue forze per evitare di adagiarcisi. Chissà.
Dopo qualche breve convenevolo, il Professor Burchianti lo fece finalmente distendere e proruppe con voce pacata ma risoluta:
- Avanti Avvocato, tragga un bel respiro e poi inizi col raccontarmi ciò che la turba, cominci pure da dove desidera, l’ordine temporale non conta, contano solo i fatti. Proceda pure l’ascolto. –
L’Avvocato Maestrelli, allora, vinto l’imbarazzo cominciò.
- Innanzitutto, Professore, tengo a precisare che è la prima volta in tutta la mia vita che mi rivolgo a uno psichiatra. –
- Tutti abbiamo bisogno di aiuto presto o tardi, non lo sa? –
- Sì ma non necessariamente questo genere di aiuto. O almeno io pensavo di non averne bisogno. Sono un civilista e mi occupo di fallimenti e procedure concorsuali. Ho all’attivo numerosi successi professionali, sono sempre stato un uomo che si è conquistato tutto con le sue sole forze sa, non provengo insomma da una dinastia di legali come tanti miei colleghi. Fin da giovane, avendo perso presto i genitori, mi sono assunto grandi responsabilità, non mi fa paura niente e ce l’ho sempre fatta, cavandomela a testa alta. Ma questa donna mi ha messo davvero kappao e sono qui, ora che è finito tutto, per capire cosa mi è accaduto.  –
- Da quel che mi dice forse ha preteso troppo da se stesso. Non siamo invincibili. Ognuno di noi ha diritto ad accettarsi nelle proprie fragilità. Comunque, prosegua in tutta tranquillità. –
 
Iniziò tutto per caso. Gabriele Maestrelli viveva da quattordici anni assieme alla moglie in un quartiere periferico della città, praticamente sin da quando si era sposato. Un matrimonio d’amore, il loro, dal quale non erano nati figli ma che si era tuttavia strutturato all’ insegna del rispetto e della condivisione costante di ogni esperienza di vita. Roberta era una donna mite e tranquilla, anche se decisamente fredda e spesso assente emotivamente rispetto all’approccio vivace ed entusiasta che aveva lui nel modo di condurre l’esistenza. Comunque, tra alti e bassi erano sempre riusciti a non cadere, mantenendosi in equilibrio sul filo della quotidianità composta di compiti da correggere, essendo lei insegnante di lettere e atti da redigere e consegnare agli ufficiali giudiziari lui, dirigendo appunto da solo lo studio legale di cui era titolare.
Giunse il 2020, lo spartiacque dell’esistenza mondiale, ma anche il grande punto di svolta nelle vite di ogni singolo individuo. La pandemia infatti, con i suoi tentacoli sinuosi strinse nella morsa della paura dell’isolamento forzato chiunque, generando solitudine e obbligando ciascuno alla prova più dura: l’esame della propria dimensione introspettiva. Ebbene, Gabriele Maestrelli ne uscì sconfitto. Si era sempre ritenuto un uomo forte, amava definirsi un resiliente, invece il distanziamento sociale, la clausura e il timore diffuso, lo costrinsero a fermarsi e a ripensare alla sua vita. E si scoprì solo, vulnerabile e bisognoso di attenzioni. Roberta era sempre lì con lui, ma dava per scontate troppe cose e tutto quello che fino ad allora anche a Gabriele era sembrato naturale o che in ogni caso aveva accettato rimettendosi senza fiatare, adesso iniziava a pesargli come un macigno provocandogli un sempre più pressante desiderio di calore umano, intriso di vivo interesse, di accesa attenzione, di ardente apprezzamento. In poche parole, la vanità personale batteva cassa alle porte della coscienza dell’avvocato: ebbene, la dottoressa Manuela Lodovici rappresentò la risposta a questo suo bisogno inespresso.
Ma a quale prezzo?
L’aveva conosciuta a causa del suo lavoro, essendo lei dottore commercialista, curatrice fallimentare di molte procedure concorsuali di cui si era occupato. Lo aveva notato da tempo, ben prima del dilagare pandemico. Gli aveva messo gli occhi addosso proprio come sanno fare le donne quando vogliono qualcuno, o meglio nel caso di specie, quando intendono ottenere qualcosa da qualcuno. Iniziò con fare discreto a contattarlo dietro giustificazioni lavorative, sempre con modi eleganti ed estremamente gentili. Cominciò così una vivace frequentazione costituita da messaggi in chat e brevi appuntamenti per un drink presso il bar del tribunale in un clima che si andava facendo sempre più disteso e appagante. Per ogni dubbio giuridico più disparato, Manuela si rivolgeva a lui, chiedendogli lumi, conferme, spiegazioni e l’avvocato Maestrelli – immancabilmente - non disattendeva mai ad ogni richiesta della giovane contabile, lieto di venirle in soccorso. Sì, perché il punto debole di Gabriele era sempre stato la percezione di non essere apprezzato abbastanza, lei lo aveva capito e stava iniziando a tessere la sua tela donandogli apparentemente proprio tutta quella attenzione e stima di cui lui sembrava essere orfano da tempo. E così entrarono in confidenza. Il loro rapporto si sviluppò attraverso una stimolante amicizia, contraddistinta da un numero sempre più crescente di messaggi istantanei con le applicazioni più diffuse la quale non fece che accrescere in maniera esponenziale la necessità per l’avvocato di avere un confronto quotidiano con Manuela. Poi lei iniziò a cercarlo anche al di fuori dell’orario di lavoro, magari dopo cena, attraverso una sequela indefinita di vocali o comunicazioni in chat sui temi più vari, ai quali Gabriele rispondeva sempre con vivo interesse e con entusiastica sollecitudine. Gli era capitato di avere rotto con diversi amici recentemente perché aveva il brutto vizio di dire in faccia alla gente ciò che pensava e perché non amava piegarsi mai al compromesso della falsità, così la frequentazione con la giovane commercialista gli sembrò uno spiraglio verso l’opportunità di una nuova conoscenza e magari anche verso l’instaurazione di una sincera amicizia.

Finalmente una persona onesta e leale, con cui posso aprirmi e parlare di tutto.

Era sempre più convinto di questo, l’avvocato Maestrelli. E di conseguenza si fidò. Furono molti i fattori che determinarono il gioco, primo fra tutti il desiderio di essere compreso nella propria solitudine emozionale e in questo Manuela pareva una maestra di sensibilità ed empatico ascolto. Solo successivamente gli venne il dubbio che la giovane avesse studiato delle tecniche di programmazione neuro linguistica ma al momento le parve assolutamente spontanea e trasparente nelle sue dimostrazioni di interesse.
Tempo un mese e poi un sabato pomeriggio col suo fare apparentemente candido ma in realtà assai poco limpido gli propose in modo indiretto:
- Ciao, sono qui al mare, mi raggiungi? –
Roberta era impegnata nella correzione degli elaborati dei suoi studenti e ce ne avrebbe avuto per l’intera giornata, così Gabriele - che non aveva atti in scadenza da preparare - acconsentì all’invito e si mise a bordo del suo fuoristrada in direzione della litoranea. Durante quel primo incontro al di fuori del contesto lavorativo parlarono a lungo e soprattutto Manuela gli affidò diverse confidenze sul suo passato rivelandogli diversi particolari inerenti traumi psicologici ed emotivi che aveva subito in giovane età nonché lo mise a parte anche dei diversi problemi di salute che si trovava a fronteggiare da alcuni anni. Lo impietosì e lo fece sentire unico e importante avendolo, appunto, scelto tra tanti estranei per quelle esternazioni così intime e riservate. La vanità di lui ne uscì trionfante.
Decise di non parlare se non per lo stretto indispensabile di quella giovane donna a sua moglie almeno per il momento perché desiderava che quella amicizia che lo faceva sentire così tanto utile rimanesse una cosa sua e pertanto pensò di proseguire la sua vita in questo modo. Manuela gli aveva raccontato di essere single e di vivere da sola poco lontano dai genitori che la tormentavano sempre con mille angustie e problemi. Gli aveva detto che si era fatta carico di grandi responsabilità familiari fin dalla più giovane età e di essere sempre lei a dover risolvere le questioni più spinose della famiglia. Lui le aveva creduto. Era convincente, suadente, estremamente seduttiva nella capacità di persuadere l’interlocutore, chiunque esso fosse. E Gabriele ravvisò nelle asperità della vita di lei una forte rassomiglianza con le difficoltà che aveva incontrato lui stesso nel suo passato e così pensò sempre più seriamente di impegnarsi ad aiutarla.
 
- Mi scusi avvocato, se interrompo il suo racconto, ma in tutto questo che ruolo ha assunto sua moglie? –
- Gliel’ho detto l’ho lasciata fuori, perché non avrebbe capito. Non è come me, ha un carattere razionale, pragmatico, a lei non sarebbe mai capitata una cosa del genere. Io sono un emotivo, se sento che una persona ha bisogno di aiuto corro senza pormi troppe domande. -
- Vada avanti. –
(Continua)

CONCORRENTE TRE

PICCOLO INCANTO DI CITTA’

 I – La Locanda Centrale

Torino è una città speciale. Tutti conoscono i suoi simboli: la Mole Antonelliana, il caval ‘d brons nella sua Piazza San Carlo, la basilica di Superga che domina dalla collina, il castello fiabesco del Valentino. Appare a prima vista solenne, austera, schiva. Ma chi riesce ad avvicinarla davvero, andando a viverla e a conoscerla intimamente, superando la barriera della sua innata ritrosìa, scopre che la fitta trama che la compone è un ricamo prezioso e delicato di storia, segreti, emozioni. Sogno e realtà si stringono insieme, abbracciati nelle sue solide maglie. Alcuni angoli nascosti, sconosciuti e irraggiungibili ai più, emanano un’aura d’incanto che esalta il suo fascino storico. Questi sono il vero cuore della città.
Chi, per caso o necessità, si trovi a passare da Corso Moncalieri, lungo il Po, può osservare il doppio viale alberato che in ogni stagione ha un colore differente e i bovindi liberty dei palazzi nobiliari dai maestosi portoni. Se ha tempo, può fermarsi a godere della vista sul fiume da una delle numerose panchine al riparo del traffico. Chi invece prende l’autobus, alla fermata del 37, vede distintamente l’insegna della Banca Nazionale e, al tramonto, le luci invitanti del Ristorante dei Tre Re.  Ma c’è anche un piccolo albergo, poco distante dal Ponte Isabella, che si affaccia tra gli imponenti edifici ottocenteschi che caratterizzano il quartiere. Lo fa così timidamente da mimetizzarcisi. Alla Locanda Centrale, nessuno fa caso. Ha il nome di migliaia d’altri hotel, è qui, è dovunque e da nessuna parte. Questo, ci si creda o no, è un luogo magico.
La nebbia dicembrina scende insieme alla sera sul viale infreddolito, esattamente come il giorno in cui molti anni fa Mario è arrivato qui, cliente dalle tasche vuote e dall’anima in pena. Ora, affacciandosi dietro ai vetri appannati, sente che è una di quelle serate in cui deve accendere l’insegna luminosa. Un ospite speciale è in arrivo. Forse, addirittura più di uno.
Fa scattare l’interruttore e, mentre il neon prende coraggio iniziando a lampeggiare, accende il fuoco nel caminetto che domina l’accogliente salottino a fianco della reception e inizia a preparare il thè.
Anche Mario, come l’hotel che ora gestisce, è un uomo che si nasconde pur senza volerlo. Né alto né basso, né biondo né bruno, giovane e vecchio, si perde nella folla. Potrebbe essere il vicino di casa silenzioso, dalle persiane socchiuse, vestito di nero, forse grigio. Del quale non si rammenta il nome, che è un nome qualunque, come lui. Se anche ha una voce, dev’esser bassa, da sentirsi appena, in modo da non disturbare.
Quando lo si incrocia per strada, gli si passa accanto sfiorandolo, senza accorgersene. Chi è particolarmente sensibile può sentire un fruscìo discreto, ma è questione di un attimo, e già è dimenticato.
 
Giulietta, la ragazza che si occupa delle pulizie, ha terminato il turno. Mario la sente fischiettare allegra mentre scende le scale a passi veloci. Piomba nell’ingresso sorridente e spettinata come al solito. “Turbinosa”, è l’aggettivo che secondo Mario la inquadra meglio. 
- Capo, se non c’è altro, io vado.
Mentre raccoglie la borsa che lascia sempre sotto il bancone presidiato da Mario, si blocca un istante, alla vista del vassoio con le tazzine e la zuccheriera. L’espressione si fa interrogativa.
- Uhm…nuovi ospiti?
Mario sorride con un cenno d’assenso.
- Esatto, stasera, arrivi speciali.
- Devo fermarmi, Capo?
- No, vai a casa, Nathalie t’aspetta. Ci vediamo domani.
Visibilmente sollevata, Giulietta torna alla modalità turbine e vola verso la porta, lanciandogli un bacio con la mano.
- Grazie Capo, sei un grande. Poi mi racconti.
Un soffio d’aria gelida l’accompagna all’esterno.
Mario ha conosciuto Giulietta una sera d’agosto, nella calura della città oppressa dall’afa. Non era stato necessario accendere l’insegna. Aveva sentito delle voci concitate all’esterno, ed era uscito giusto in tempo per vedere un’auto rombante sgommare via verso le colline e una ragazza singhiozzare riversa sul marciapiede. Quella volta, era stata la locanda a recarsi dall’ospite.
Quando era guarita dalle pene di quell’amore malsano, le aveva offerto il lavoro. Mario aveva sempre avuto la tendenza ad affezionarsi ai clienti che per varie ragioni si trattenevano per una “vacanza lunga” e con lei, che avrebbe potuto essere anagraficamente sua figlia, non era riuscito a sopportare l’idea del distacco. Giulietta, dal canto suo, si rendeva conto che con tutta probabilità senza un impiego stabile sarebbe tornata presto a navigare in un mare di guai, e con lei anche la sua figlioletta. Così erano iniziati un sodalizio lavorativo e una preziosa amicizia.
Il bollitore inizia a sibilare e Mario si perde nei ricordi.
Sono diverse, le strade che portano alla Locanda e nessuna è segnata sulle mappe. Ognuno degli ospiti trova la sua, da sé. Ciò che accomuna tutti i percorsi è la tenue luce della speranza che dà il coraggio di procedere verso la destinazione, ignota fino all’ultimo.
Per lui, le indicazioni erano sbucate dal cappotto grigio che indossava quel giorno, una dozzina d’anni prima. In piedi, solo, davanti al parapetto proprio al centro del ponte, avvolto dalla nebbia fitta che la luce dei lampioni non riusciva a penetrare, scrutava le acque scure, tranquille e inesorabili del Po scorrere sotto di lui. Parevano chiamarlo, con il loro gorgoglìo sommesso, un canto dolce, come di sirena. Sembrava così facile: farsi abbracciare dai vortici del fiume, smettere di pensare, lasciarsi andare. Nessuno l’avrebbe visto, il traffico scorreva ignaro e ovattato al centro della carreggiata, nessuno l’avrebbe cercato. Forse così avrebbe potuto ritrovare Lilia, se fosse esistito un luogo lontano, oltre, per rimanere per sempre con lei.
Chiuse gli occhi, per concentrarsi sulla musica dell’acqua. Respirò profondamente l’aria umida e gelida senza sentire minimamente il freddo. Poi prese dalla tasca il cellulare e lo gettò oltre la balaustra. L’apparecchio scomparve in silenzio, regalandogli la piacevole sensazione d’essersi liberato di un peso. Ripetè la stessa azione con il portafoglio. Volando oltre le ringhiere, questo si aprì lasciando libere le poche banconote contenute e un minuscolo foglietto che, volteggiando, tornò verso di lui fermandosi ai suoi piedi. Inizialmente lo ignorò e si tolse il cappotto, appoggiandolo davanti a sé, sul parapetto. In maniche di camicia, il gelo gli mordeva la pelle. La nebbia gelava tra la sua folta barba, incrostandola in un fine merletto perlato.
Il desiderio di non lasciare alcuna traccia lo fece chinare a riprendere il pezzetto di carta sfuggito al proprio destino. Lisciandolo tra le dita intorpidite, vide che si trattava di un cartiglio, di quelli contenuti nei cioccolatini preferiti da Lilia. Erano bigliettini che recavano scritta una breve frase d’amore. A volte succedeva che lei, pur adorando il cioccolato, si dimenticasse persino di mangiarlo, quando scopriva un aforisma o un messaggio particolarmente toccante. Rimaneva sognante con il biglietto tra le mani, dimentica del mondo circostante. In quelle occasioni, Mario la prendeva in giro, fingendo di gustarsi il dolcetto ignorato. Poi, ridevano insieme. Magari facevano l’amore. Ora, non capiva come potesse trovarsi nel suo portafoglio. Il cuore prese a battergli furiosamente, mentre si portava sotto al lampione più vicino per illuminare le minuscole parole stampate.
Tremante, una volta letto il biglietto, chiuse gli occhi e pianse, travolto dall’ondata dei sentimenti. Quando li riaprì, dopo un tempo indefinito, vide nella nebbia una luce calda lampeggiante farsi largo tra le fronde degli alberi spogli, poco oltre il ponte. Gli pareva chiamarlo a sè. Ancora scosso dai singhiozzi, recuperò il cappotto infilandoselo a fatica, i gesti rallentati dal freddo, e si avviò verso il chiarore. Avvicinandosi, la luce diventò più nitida, trasformandosi nell’insegna di una locanda. Con un gesto della mano si asciugò le lacrime che gli tracciavano sentieri ghiacciati sul viso, preparandosi a entrare nella sua nuova, seconda vita.
Il thè è ormai pronto e il suono del cicalino dell’ingresso annuncia l’arrivo di una ragazzina pallida e minuta, una donna sulla trentina e un distinto anziano signore claudicante che varcano insieme, spaesati, la soglia dell’hotel.
Mario interrompe bruscamente il filo dei ricordi e, conoscendo l’importanza del delicato momento dell’accoglienza, va loro incontro. 
(Continua)

CONCORRENTE QUATTRO

LA SOLITUDINE NON È PER GLI ESSERI UMANI

 Uno. Cazzate

Anche oggi la sveglia suona alle cinque.
Anche oggi non serve per svegliarmi ma solo per farmi capire che è ora di alzarsi e mettersi in moto per andare al lavoro.
Da un po’ di tempo a questa parte non dormo, passo la notte a girarmi e rigirarmi nel letto avvolta nell’abbraccio dei fantasmi che occupano la mia mente. Proprio così: il lavoro che vorrei cambiare a tutti i costi, la biopsia di mio padre, la ribellione adolescenziale di Martina e, dulcis in fundo, Carlo.
Allungo il braccio e interrompo la suoneria pensando che è davvero assurda come situazione: nemmeno un pensiero per me, per la mia vita. Mi preoccupo per gli altri e offro ore di sonno come se fossi un distributore di energia.
Prego attaccatevi, ricaricatevi, succhiatemi quanto volete. Cazzate, sono stufa.
Mi volto verso Carlo che dorme beato, gli scorgo un mezzo sorriso sulle labbra che mi fa innervosire. Per lui è tutto tranquillo, per lui non ci sono problemi. A volte mi piacerebbe riuscire a prendere la vita come lui, ma poi penso che ridere come un matto davanti a un vecchio film di Stanlio e Olio non può essere la soluzione. Dice che la vita è una sola e che non ci si può fare schiacciare da quello che succede. Io lo schiaccerei sotto un treno quando fa il paladino del benessere mentale e quando si erge a filosofo da quattro soldi.
Resto qualche secondo a osservarlo, ci vedo almeno mezza vita trascorsa al suo fianco. Siamo sposati da venticinque anni e stiamo insieme da trenta. Una relazione normale, serena, di quelle che si potrebbero leggere nel manuale della coppia perfetta, anche se di perfetto alla fine non hanno niente. Come può essere giusta una vita senza intoppi? Mai un litigio serio e mai una crepa nel nostro rapporto. Cazzate anche queste, io dentro ho una voragine.
Ecco perché mi manda in bestia il suo sorriso stampato nel sonno: possibile che non si renda conto che non sono per niente felice di noi? Possibile non sentire il peso dei trent’anni insieme gravare sulle spalle e, peggio ancora, sull’anima?
Vorrei lasciarlo, ma per lasciarlo serve il coraggio e io non sono in grado neanche di voltare le spalle a un lavoro che non mi piace e che mi costringe a fare il bilancio della mia esistenza ogni volta che il sole inizia a far intuire il suo arrivo. Ogni mattina, come oggi, come ieri e come domani.
Decido che il momento dell’autoanalisi è finito, mi alzo.
Passo dalla camera di Martina e mi assicuro che dorma: la osservo macchiando tutto l’amore che sento per lei con due gocce di risentimento, dopotutto è anche lei a tenermi inchiodata in questa casa. Cazzate, e siamo a tre nel giro di venti minuti.
Vado in bagno e lo specchio, anche oggi, mi restituisce il volto di una donna che si sente la regina degli alibi, oltre che una pessima madre per i pensieri appena fatti davanti alla figlia avvolta nelle coperte. Passiamo la vita a cercare scuse per la nostra insoddisfazione quando basterebbe guardarci in faccia con lealtà e avere le palle di puntarci il dito contro.
Alle cinque e mezza esco.
Scendo al bar che c’è in fondo alla via e prendo il caffè. La mattina presto è la cartina tornasole delle persone: è raro vederle cantare felici di essere già fuori dal letto. Il dovere che vince sul volere.
Eppure a me piace, specie d’inverno, quando le strade sono ancora sommerse dal buio della notte che resta aggrappata al giorno che avanza. Mi piacciono le luci delle macchine che si incrociano e che vanno trasportando ognuna una storia. Adoro il silenzio del parcheggio quando arrivo al lavoro, quando ancora nessuna macchina si è imbucata alla festa. Arrivare così presto, ed essere la prima, mi fa sentire importante. Mi fa credere che la banca sia mia.
Ma sono solo cazzate. Vorrei con tutta me stessa restare a letto e, per Dio, dormire. Vorrei essere lontano duemila chilometri da questo edificio in cui tutte le mattine faccio le pulizie prima dell’apertura, vorrei non dover rendere conto alla famiglia, a me stessa, e poi vorrei che le mie giornate crogiolassero sotto il sole. Vorrei una vita senza il condizionale.
Pochi minuti dopo arriva Sergio, il mio collega. È lui il vero motivo di tanta fretta per arrivare qui, è lui l’unica cosa che mi piace davvero della mia giornata. Ogni mattina ci diamo appuntamento almeno venti minuti prima di iniziare il turno. Salgo sulla sua macchina e ci appartiamo nel parcheggio per i pullman che c’è appena girato l’angolo. È un ragazzo straordinario che vive in un mondo tutto suo, un mondo nel quale adoro immergermi ogni giorno per fuggire dai miei demoni. Ci entro lasciandomi andare tra le sue braccia e restando ad ascoltarlo incantata. Non abbiamo una relazione, tra noi non è mai successo niente in quel senso. Una volta soltanto ci siamo dati un mezzo bacio ed entrambi abbiamo convenuto che è stata una cazzata. Un apostrofo superfluo per il nostro rapporto. Stiamo bene quando siamo insieme. È la persona che meglio mi conosce al mondo – dopo mio padre – e quella che più mi comprende e mi capisce. Inoltre, soprattutto, è l’unico individuo a cui non posso raccontare storie. Posso mentire a me stessa e riuscire a cavarmela, ma non posso farlo con lui: deve essere l’incarnazione della mia coscienza. Vivrei volentieri con Sergio, da amica, o comunque da persone che stanno bene insieme senza per forza dover mettere un’etichetta al loro rapporto. Ogni tanto tra le sue fantasie con le quali mi rapisce, propone di rubare un po’ di soldi in banca e poi scappare. Dice che potremmo fare come in quella serie TV spagnola, e allora si nomina professore e mi chiede col nome di quale città vorrei essere chiamata. Puntualmente non so rispondere, non mi sento legata a nessun luogo in particolare. Lui ride e io penso che è meglio ridere per La casa di carta che per Stanlio e Ollio. Sergio batte Carlo anche nelle sciocchezze.
Quando mancano cinque minuti all’inizio del turno mi suona il telefono. Emergo dalle braccia del collega e frugo nella borsa: mio padre. Cazzo mio padre. Mi chiede se allora questo pomeriggio lo accompagno io al consulto col medico, gli dico di sì. Poi guardo Sergio negli occhi e non mi serve parlare. 
(Continua)

E ora tocca a voi! VOTATE!


Ci vediamo giovedì 15 dicembre
alle 21
in diretta dalla Pagina Facebook di Edizioni Convalle



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