Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

lunedì 13 giugno 2016

Numero 236 - ROSAMAREA (Romanzo a puntate) - 13 Giugno 2016

Voglio giocare. E voglio farlo con i miei colleghi scrittori che più stimo, ma anche con persone che si dilettano di scrittura (i miei allievi, per esempio).

Oggi, 13 Giugno 2016, alle ore 21.14, io sottoscritta Stefania Convalle do il via ad un romanzo a puntate scritto a più mani. Parto io col primo capitolo. Nominerò poi un'altra persona che dovrà scrivere il secondo capitolo, proseguendo la storia da dove io sarò arrivata. E così via. 

Ogni nominato dovrà scrivere il nuovo capitolo collegandosi a tutto ciò che sarà stato scritto prima, MA avrà carta bianca per scegliere la strada che vorrà (l'importante è che il tutto abbia un senso e sia armonioso).

Sono ammessi tutti i colpi di scena che volete, qualsiasi idea, ogni sviluppo possibile coerente con la storia che andremo a raccontare.

Regole: accettare in toto ciò che verrà scritto nei vari capitoli in successione.

Avviso a tutti i naviganti: idea brevettata!! ;-) Giù le mani, dunque:-)

Il "nominato", di capitolo in capitolo, dovrà scrivere il suo pezzo e inviarlo a me all'indirizzo: steficonvalle@gmail.com in modo che io possa postarlo nel Blog.
I nominati potranno esserlo più volte, così ci divertiamo di più :-D

I lettori potranno dare impressioni, indicazioni o dire quello che vogliono scrivendolo nei commenti qui sotto, man mano che la storia si svilupperà!

Siete tutti coinvolti!

Quindi, via col primo capitolo firmato da me, Stefania Convalle. 
Nomino per il secondo capitolo Daniela Quadri.
Nomino per il terzo capitolo Michele Fierro.
Nomino per il quarto capitolo Carlo Baroni.
Nomino per il quinto capitolo, me stessa;-) Stefania Convalle
Nomino per il sesto capitolo Tania Mignani.
Nomino per il settimo capitolo Daniela Quadri.
Nomino per l'ottavo capitolo Daniela Perego.
Nomino per il nono capitolo Michele Fierro.
Nomino per il decimo capitolo Carlo Baroni.
Nomino per l'undicesimo capitolo Maria Rita Sanna.
Nomino per il dodicesimo capitolo Tania Mignani.
Nomino per il tredicesimo capitolo Carmen Gulino.
Nomino per il quattordicesimo capitolo, moi;-) Stefania Convalle.
Nomino per il quindicesimo capitolo Michele Fierro.
Nomino per il sedicesimo capitolo Daniela Quadri.
Nomino per il capitolo diciassette Daniela Perego.
Nomino per il capitolo diciotto Maria Rita Sanna.
Nomino per il capitolo diciannove Tania Mignani.
Nomino per il capitolo venti Daniela Quadri.



ROSAMAREA
Romanzo

CAPITOLO UNO
(scritto da Stefania Convalle)

"Come ti chiami?"
"Rosamarea." 
Siediti, Rosamarea. Non avere paura. Hai un bel nome, particolare, non l’avevo mai sentito prima."
Si sedette a quel tavolo sorprendendosi con se stessa per ciò che stava facendo.
    
Era entrata in quel locale per rifugiarsi dal temporale improvviso. Infradiciata e molto contrariata, aveva ordinato un tè caldo rassegnandosi di fronte all’imprevisto che le stava facendo perdere parecchio tempo. Con un’occhiata nervosa all’orologio e una all’agenda piena di appuntamenti, pensò con disappunto a quanto lavoro non sarebbe riuscita a terminare.
Si abbandonò sulla sedia cominciando a guardarsi intorno. Subito si sentì avvolgere da un calore inaspettato. C’era una gradevole intimità in quella piccola sala da tè; pochi tavoli di legno consunto, luci basse e colori caldi; la tazza fumante lì davanti faceva il resto.
Guardò fuori e vide che il tempo non accennava a migliorare, ma non le importava più come prima, stava bene.
Assaggiò il suo tè bollente mentre osservava le altre persone in quel luogo così diverso da quelli che era solita frequentare. Intorno a sé  nessuno aveva fretta, al contrario ognuno sembrava assaporare quella tranquillità.
Si chiese come quelle persone potessero essere tanto padrone del loro tempo mentre lei riusciva a fare a malapena ciò che aveva minuziosamente programmato.
In un angolo vide una coppia parlare fitto fitto, stavano guardando delle fotografie, sorridevano, sembravano felici, innamorati.
Sentì un nodo in gola, le venne in mente il suo ultimo amore. Era ancora innamorata di lui, sebbene fossero passati ormai mesi dall’ultima volta che l’aveva visto, ma non riusciva a dimenticare. Si erano lasciati perché volevano cose troppo diverse: lei una famiglia, lui soltanto trascorrere qualche bel momento, senza nessun impegno. Da allora si era buttata nel lavoro, cercando di occupare qualsiasi angolino della mente con altri pensieri che non fossero “lui”.
Distolse lo sguardo da quei due, troppo dolore ancora pronto a riaffiorare.
Sorseggiava il tè, curiosando  in giro con lo sguardo finché vide in un angolo in penombra una donna seduta a un tavolo.
Sembrava molto vecchia, quasi eterea. Davanti a sé una tazza e una teiera, pareva  fosse lì da sempre.   
Una candela accesa da una parte, un tappetino rosso   adagiato sul  tavolo e un mazzo di carte appoggiate sopra.
Non vedeva bene i suoi occhi, restavano in ombra.
La colpì la calma che sembrava appartenerle, un senso di       pace che emanava da ogni parte del suo corpo.
Fu subito attratta da quella figura; lei, così inquieta invece, così infelice,  cominciò a fissarla quasi incantata.
Quando passò il cameriere, ordinò un altro tè e gli chiese: "Chi è quella donna? Sembra faccia parte del locale!"
Lui,  mentre toglieva la tazza ormai vuota per posarla sul vassoio, guardò in direzione dell’anziana donna: "Chi, Bianca? è una vecchia signora che viene qui da tanti anni, potrebbe essere anche una centenaria a giudicare dal tempo che frequenta questo posto! Se ne sta lì, ore e ore con le sue carte, aspettando che qualcuno si sieda davanti a lei."
"Appunto" disse Rosamarea "mi chiedevo che ci facesse con quel mazzo di carte, cerca qualcuno che faccia qualche partita con lei?"
Il ragazzo sorrise. "Partita a carte? Ma no! Lei le legge, le carte, e non immagina quante persone vengano a trovarla regolarmente! Non si fa pagare, pare sia ricca di famiglia. C’è un certo alone di mistero sulla sua vita, nessuno ne sa molto."
Rosamarea parve sorpresa. Non aveva mai avuto a che fare con cartomanti, seppure  ne fosse sempre stata attratta. Nella sua famiglia aleggiavano questi poteri divinatori: sua nonna leggeva i tarocchi e sua madre era sempre stata una sensitiva, nel senso che faceva sogni premonitori, aveva avuto qualche visione da bambina, aveva sicuramente un potenziale paranormale che però non aveva mai coltivato.
Il ragazzo si allontanò per poi ricomparire con la nuova tazza di tè, aveva aggiunto un piccolo piatto con  dei biscotti, forse aveva capito che la donna non aveva intenzione di andarsene in fretta.
"Ma scusa, spiegami come funziona, ci si avvicina e poi?"
"…Ci si avvicina e basta, poi ci pensa lei."
Rosamarea rimase a guardarla, voleva provare ad andare da lei, ma non ne aveva il coraggio.
Entrò una donna nella sala, il volto triste, sembrava avesse pianto fino a pochi minuti prima. Dopo una rapida occhiata, si diresse con passo svelto in quell’angolo misterioso. Scambiò due parole con la cartomante e si sedette davanti a lei.
L’attenzione di Rosamarea cadde sulle mani dell’anziana donna, riusciva a vederle benissimo, erano mani vecchie, nodose, ma mescolavano quei tarocchi con una grazia tale da sembrare una danza. Restò affascinata da quel rituale.
La osservò stendere le carte sul tavolo, studiarle e poi parlare con la donna davanti a lei;  notò come la sensazione di tristezza profonda che aveva visto nei suoi occhi quando era entrata stesse lasciando lentamente il posto a uno sguardo più sereno, forse  Bianca le aveva dato qualche speranza riguardo a ciò che evidentemente la tormentava.Una parte di lei era scettica, ma un’altra parte sembrava che sentisse il richiamo di quel tavolo, quasi fosse una calamita. La donna si alzò, ringraziò  e lasciò un pacchettino sul tavolo, sembrava un regalo.
Ora il posto era nuovamente libero. Rosamarea sentiva quasi la nausea di fronte a quella sensazione fortissima di voler andare, senza averne il coraggio. E poi, si chiese, cosa avrebbe voluto sapere, quale domanda avrebbe posto. Forse gli avrebbe chiesto di “lui”?
Ma voleva veramente avere informazioni, notizie, non sapeva come definirle, su quell’uomo che amava ancora, ma che non poteva avere? A cosa sarebbe servito? A farla stare meglio oppure a farle perdere quel minimo equilibrio che aveva raggiunto faticosamente in quei mesi, un equilibrio sudato, per poter continuare a vivere senza di lui? L’anziana donna, all’improvviso, si voltò verso di lei, il suo  viso emerse dalla penombra, gli sguardi s’incrociarono. Fu allora che Rosamarea si alzò, s’incamminò verso di lei e le si fermò di fronte.
"Come ti chiami?"
"Rosamarea"
"Siediti, Rosamarea."



CAPITOLO DUE
(Scritto da Daniela Quadri)

Rosamarea… Già, quel nome era stato il suo cruccio durante l’infanzia, e anche per buona parte dell’adolescenza. Compagni di scuola e amici le domandavano il perché di quel nome così strano, insolito. E lei un giorno aveva preso il coraggio a due mani e l’aveva chiesto a sua madre. Si aspettava una risposta brusca, com’era nel suo carattere di donna nata e cresciuta in quella piccola isola abbandonata nell’azzurro abbacinante di un mare più antico della terra che gli aveva strappato quel minuscolo granello di pietre e sabbia.
E invece la madre l’aveva guardata, con una tristezza infinita in fondo a due occhi neri come le notti senza luna, e le aveva detto di pregare il suo angelo custode e di addormentarsi. Che domani mattina presto sarebbero andate alla scogliera.  La scogliera di pietra grigia, denudata da greggi di pecore e capre selvatiche che per millenni vi avevano pascolato, digradava fino ad una caletta di ciottoli levigati dalla risacca del mare. Bisognava scendere una lunghissima scalinata scavata nella roccia dalla gente del posto, ma quando si arrivava alla spiaggetta il respiro del mare si faceva così forte, che a lei sembrava quasi volesse strapparla dalla mano di sua madre.
Ci andavano tutte le prime domeniche del mese, vestite di tutto punto; lei con l’abitino a fiori della festa e la madre con uno scialle dalle lunghe frange nere avvolto intorno alle spalle ancora giovani e belle, ed una rosa rossa tra i capelli corvini. Quando arrivavano alla caletta, sua madre la spingeva davanti a sé fin dentro un anfratto della roccia scura, una specie di grotta riparata dallo sferzare del vento, dove il rumore delle onde diventava una musica senza tempo, e dove la marea della Luna Nuova saliva fin quasi ad allagarla tutta. E lì, in quel recesso della terra e dell’anima, sua madre si sfilava la rosa dai capelli e la gettava al mare, che ingordo la inghiottiva come un dio assetato di sangue sacrificale.
Quel rito l’avevano sempre ripetuto, finché la malattia aveva inchiodato sua madre su una sedia a rotelle e lei  aveva deciso che era venuto il momento di attraversare quel mare ignoto, pronta ad iniziare una nuova vita tra la gente della terraferma.

Ed ora questa donna, Bianca aveva detto che si chiamava il cameriere, aveva pronunciato il suo nome con la stessa triste dolcezza di sua madre quando, dopo aver donato al mare la rosa rossa, le accarezzava la guancia morbida dicendole semplicemente “Tu sei la mia Rosamarea”.
“Dammi la tua mano. Quella del cuore” le stava chiedendo fissandola con occhi che un tempo erano stati di ametista, ed ora erano velati dalla nebbia degli anni. Senza aspettare risposta, l’anziana le prese la sinistra e la posò sul mazzo di carte che aveva appena finito di mescolare. Quel tocco, sorprendentemente morbido e leggero, le ricordò il profumo del pane fragrante appena sfornato che riempiva la cucina di sua madre. “Il pane è il cibo dell’anima e va preparato con rispetto e amore, perché dia nutrimento al cuore e allo stomaco”, le ripeteva ridendo, quando, non riuscendo a resistere a quella calda tentazione, la sorprendeva con la bocca piena e le briciole ancora appiccicate alle mani.

Rosamarea si sentiva strana davanti a quella donna che sembrava risvegliare in lei ricordi così vividi del suo passato. Non avrebbe saputo dire se più imbarazzata o intimorita. Sapeva solo che avrebbe voluto essere altrove. Scappare, sì, si sarebbe alzata, imbastendo una qualche scusa plausibile, e sarebbe corsa via a gambe levate. Non le erano mai piaciute le sorprese, era una pianificatrice nata, e non avrebbe permesso a quella donna di guardare troppo da vicino la sua vita. Un conto era leggere le carte per gioco, un altro scavare nel suo passato, o sbirciare nel suo futuro. Quelle poche volte che le era capitato di avere dei sogni premonitori, si era spaventata, e si era anche sentita in colpa per aver ficcato il naso, inconsciamente, nella vita di altri esseri umani. Figurarsi se avrebbe permesso che lo facesse una perfetta sconosciuta con la sua, di vita! Senza ascoltare i suoi pensieri la donna continuò a disporre le carte sul tappetino rosso davanti a lei.
La candela emanava una luce calda tutt’intorno, e il barattolo di vetro che la conteneva lanciava coriandoli dorati sul tavolo, dove le carte avevano formato una sorta di croce.
“Vuoi farmi una domanda? O preferisci che sia io a leggere i tarocchi per te?”
“Non so, io… Penso che forse…”
“Non aver paura, Rosamarea! Lascia che sia il destino a decidere per te. I tarocchi non sono infallibili, ma possono aiutarci a capire meglio chi siamo e cosa stiamo cercando nella vita”
E con gesti lenti, carichi di una serena complicità, Bianca girò il primo tarocco allineato alla sua sinistra.
Un uomo e una donna nudi nel giardino dell’Eden, e un angelo dalle ali spiegate sopra di loro.
“Gli Amanti! Di fronte al vero amore dobbiamo sempre farci trovare nudi, cioè sinceri e pronti a donarci totalmente. Tu sei pronta a farlo, Rosamarea?”
Con le guance in fiamme Rosamarea non rispose. Lui, ancora lui. Possibile che continuasse, così ostinatamente, a voler tornare nella sua vita. Anche le carte adesso sembravano giocare a suo favore! Nuda di fronte all’amore lo era stata, anche troppo a lungo. E i segni che adesso portava indelebili nel cuore l’avrebbero segnata per sempre. Cicatrici che cercava di nascondere riempiendo di impegni una vita, altrimenti vuota. L’apparente sicurezza di una carriera in ascesa crollava miseramente, ogni volta che si trovava a fare i conti con quella ferita ancora aperta, purulenta. Lui era la sua piaga sanguinante, le stigmate che il destino aveva impresso nella sua anima. Il segno di un fato beffardo, che godeva del suo dolore non richiesto. O forse fin troppo desiderato, da trasformarlo nella sua unica ragione di vita, e per questo condannata ad espiarne in eterno la colpa.

Bianca intanto faceva scorrere le lunghe dita nodose sulle carte rimaste sul tappeto. Quasi cercasse di coglierne l’essenza, avanti e indietro, finché si arrestarono sull’ultima carta a destra.
Uno scheletro con un'armatura nera, sopra un cavallo bianco. Davanti a lui un sacerdote a mani giunte e due bambini, e a terra il corpo privo di vita di un re. Sullo sfondo una barca e due torri.
“La Morte! Devi lasciare andare tutto ciò che è inutile, superfluo. Devi accettare un’inevitabile trasformazione, Rosamarea, ma prima dovrai liberarti del passato e confidare nella tua rinascita!”
I coriandoli dorati sul tavolo erano diventati macchie di sangue scuro, ormai seccato.
Il locale si era fatto silenzioso, l’aria più rarefatta come in alta montagna e i suoi polmoni faticavano a trovare ossigeno.
Rosamarea si guardò intorno; tutti gli avventori se ne erano andati, ed anche il cameriere era sparito nel retrobottega.
Le tempie presero a martellare all’impazzata, e la stanza a girarle intorno sempre più veloce. Persino la barca sulla carta aveva preso a muoversi, puntando dritta verso le due torri.
Rosamarea si strinse la testa fra le mani. Dove aveva già visto quella scena?
Poi, con uno scatto di cui lei stessa si sorprese, si alzò e per poco non fece ribaltare il tavolo della cartomante.
“Devo andare! Mi scusi, ma io… Non ho niente da darle, a meno che lei accetti del denaro… Quanto le devo?”
“Adesso non hai niente per me, ma tornerai Rosamarea! Un giorno tornerai qui, e quel giorno non sarai a mani vuote. Avrai con te il tuo passato e il tuo futuro!
Bianca la stava fissando e i suoi occhi lanciavano bagliori di ametista.
No, questo era troppo!
Rosamarea lasciò un paio di monete accanto alla sua tazza di tè vuota e uscì dal locale, infilandosi  l’impermeabile ancora inzuppato.
Aveva smesso di piovere e gocce di indaco danzavano nelle pozzanghere grigie.
Un vento freddo di maestrale la costrinse ad alzare il bavero dell’impermeabile, e Rosamarea gli passò accanto senza notarlo.
L’uomo dal completo blu, appoggiato al lampione davanti al locale, tirò una boccata profonda dalla sigaretta e un fumo azzurrognolo si levò nell’aria attorcigliandosi in spire leggere come seta.
Lasciò che lo superasse di qualche passo, e poi, lentamente, la seguì.  


CAPITOLO TRE
(Scritto da Michele Fierro)

Il velo di luce che attraversava la tenda stava disegnando, proprio in quella particolare ora del tramonto, un fascio colorato contro la parete a lato della sua scrivania e Federico, con le “polveri umide” alla fine di una giornata di lavoro, se ne stava lì, assorto, a guardarne le sfumature rossastre che cambiavano i riflessi della finestra del suo ufficio al quinto piano di un anonimo edificio di periferia, in attesa di trovare il coraggio per mettere fine alla lente agonia che era stato quell’insignificante lunedì.
Dall’altro lato della porta, comunque aperta, i brusii familiari dell’ufficio densi di tastiere pigiate, fogli stropicciati e voci al telefono riempivano l’aria abbastanza da impedirgli di pensare ad altro che non fosse la luce davanti a sé, vuoto nel vuoto stampato nella delebile evanescenza di quel momento che lo aveva catturato, povera mosca, come un ragno nella sua tela.
Non era stata una gran giornata: alle solite incombenze che tempestavano la stolida avarizia dei numeri, freddi e sordi, che costellavano le giornate tipiche di un revisore di conti esperto come lui, si era aggiunto un fastidioso imprevisto con un cliente che non aveva condiviso, così tanto di buon grado come aveva immaginato quando le aveva congegnate, certe sue iniziative a proposito di alcuni ritocchi alle voci di bilancio della sua azienda.
Non seppe fare altro che restare, inerme, ad ascoltare le lamentele telefoniche dell’inviperito imprenditore che, trattandolo come uno scolaretto alle prime armi, si dichiarava persuaso di poter insegnare a lui come dovesse fare il suo mestiere. Proprio niente male come inizio della settimana.
Così, dopo che la giornata era iniziata così malamente, di primo mattino, ciò che ne restò mano a mano che le ore trascorrevano servì solo a segnare la cronaca del tempo che scorre e, seppure ci provasse, non seppe mettere insieme proprio niente altro di buono.
E ora c’era quel bagliore a ipnotizzarlo e con esso la voglia che giungesse l’ora di rincasare.

Si toccò il tallone che gli doleva e non poco, un sordo segnale di malessere che si trascinava ormai da giorni e di cui non sapeva nemmeno spiegarsene la ragione. Ricordava soltanto che, d’un tratto giorni prima, aveva cominciato a zoppicare senza rendersene conto e solo dopo aver percorso un bel po’ di strada si capacitò che c’era qualcosa che non andava sebbene, di primo acchito, non avesse dato peso alla cosa.
-  Non sarà niente. - pensò in quel momento - senz’altro mi passerà! 
E invece non passava per niente, il tallone faceva male e basta. Niente passava del tutto e Federico lo sapeva bene quanto fosse così, in fin dei conti.
Proprio quando le “cose della vita” succedevano, limpide e spontanee, quando quello che non si può governare decideva di andare per un certo verso che non era quello che ci si aspettava e che si sarebbe voluto, ecco, quello era il momento in cui di solito Federico decideva di fare finta di niente nella speranza che passasse tutto come non fosse mai accaduto.
Ma non passava, appunto, e nemmeno Rosamarea era “passata”, proprio per nulla e in quel momento, in quel buffo momento, massaggiandosi il tallone con lo sguardo verso il rosso del tramonto dipinto sullo sfondo di un muro, lei gli tornò in mente con il vigore del rintocco di una campana a festa proprio dentro la sua testa e ne restò decisamente colpito.

Qualche mese prima si era detto deciso e risoluto nelle sue scelte, aveva inteso chiaramente, di sé e delle sue sorti, che il suo futuro non avrebbe “fatto rima” con quella donna che pure era importante per lui.
Si erano appartenuti e si erano rincorsi, lungo la ripida discesa dell’amore, come non gli era mai capitato e mentre aveva vissuto la loro storia aveva respirato il suo odore facendone per sé la stessa scorta che faceva dell’aria da respirare, assaporandone ogni  momento, anche quelli meno belli, abbeverando la sua curiosità a quella fonte dissetante di gioia che era la “sua” Rosamarea, solare e serena come le giornate di primavera, impenetrabile e incostante come la bruma autunnale, il coacervo più meravigliosamente vero dello scibile femmineo, si diceva spesso, che avesse mai incontrato.

Ad un certo punto, però, le cose sembrarono cambiate: la sua donna, quella donna che credeva di aver conosciuto, nell’ingenuo impeto dell’idillio che nasconde agli occhi e alla mente anche la sola probabilità che qualcosa possa filare per il verso sbagliato e che trasforma in meraviglia ogni cosa che sta intorno agli occhi ciechi dell’amore, non sembrava più la stessa.
Comprese di colpo, anzi per la verità gli fu piuttosto chiaro solo dopo che la donna glielo fece capire con la lucida trasparenza che sanno avere soltanto certe parole dettate dalla sincerità, di non essere più abbastanza per lei.
Comprese che la loro vita, che a lui andava più che bene, fatta di serate insieme a coppie di amici, di gite fuori porta e di lunghe passeggiate, di momenti romantici e passioni consumate, non era più sufficiente per Rosamarea che diventò all’improvviso una spina nel fianco esposto della sua libertà di uomo adulto e indipendente, saltuariamente dedito a goderecce zingarate con gli amici e piacevolmente comodo nella sua vita di tutti i giorni.

Eppure amava quella donna e amava ogni cosa di lei: amava il suo profumo e il suo modo di camminare, il suo agitare le mani, gesticolando, quando gli parlava, amava i suoi capelli e i pensieri che ci poteva leggere dentro quando li vedeva posati sul cuscino, al mattino presto mentre lei ancora dormiva. Amava la sua voce e le parole che sapeva dire, e come gliele diceva  tanto da fargli credere che non ci fosse nessun altro ad ascoltarla, amava il tinto dei suoi occhi che si accendevano dentro di lui come stelle di agosto, amava il colore della sua pelle abbronzata e disegnata di sale mentre dava un senso alla monotona distesa di sabbia di una spiaggia.
La amava, eccome se la amava, ma da un certo momento in poi gli fece paura, così tanta paura da costringerlo a rifuggire da lei e, ancora una volta nella sua vita, Federico lo aveva fatto ritenendo che la cosa non lo avrebbe condizionato.

Tutto passa, insomma, prima o poi.
E di ciò ne era talmente convinto che, ne era certo, doveva aver dato l’impressione di non curarsi molto di cosa avrebbe significato per sé e per la sua vita. Figurarsi se, nella foga di scappare via, poteva aver dato l’impressione di essersi preoccupato per lei!
E invece non passava e, anche davanti a quel bagliore rossastro, Rosamarea sapeva trovare lo spazio sufficiente a scalzare via ogni pensiero e a ricomparire vivida e presente nella sua mente.

Aveva pensato più volte, nei mesi trascorsi, di riprovare ad avvicinarsi a lei ma, ogni volta, si era frenato davanti al timore di volerlo fare sperando che fosse cambiata e avesse desistito dai suoi propositi di “fare sul serio” o, al contrario, fosse cambiato lui e la voglia di “fare sul serio”, tragica nemesi della sua indipendenza e pegno concreto da pagare per il vero amore, fosse venuta anche a lui una volta per tutte.
Non sapeva decidersi e finì, così, per rimettere giù la cornetta del telefono ogni volta che era arrivato a sollevarla pronto per fare il numero della donna.

Dopo che il sole si fu abbassato e la luce da rossa divenne tenue fino a scomparire, calzò la giacca e infilò le porte dell’ufficio ad una ad una, fino all’ascensore, e di lì nel parcheggio per montare in macchina. Guidò senza pensieri per diversi chilometri lungo il perimetro delle periferie, attraverso il traffico tra semafori e autobus del rientro serale, lasciandosi accompagnare e lasciando accompagnare i suoi pensieri dalle note ruvide di Jamiroquai che gracchiavano dall’impianto stereo dell’auto, concedendosi un po’ di quell’aria fresca della sera attraverso il finestrino leggermente aperto che fu costretto a richiudere, in fretta e furia, quando improvvisamente il cielo si annuvolò e lampi e tuoni di un temporale inaspettato si unirono a gocce di pioggia sferzante che inondarono il parabrezza dell’auto.
Divagando a casaccio, senza una meta precisa, ebbe per un attimo la prosaica illuminazione, tra le riflessioni quasi profonde sui suoi destini, di avere bisogno di prelevare un po’ di contante di cui era rimasto quasi a secco dopo aver fatto il pieno di carburante quella mattina stessa e così, scorto uno sportello automatico in quella zona così fuori mano per lui della città, infilò l’auto in un parcheggio nei pressi e uscì dall’abitacolo per dirigersi verso la banca quando ormai aveva smesso di piovere.
Attraversò la strada in linea retta alla fine dell’isolato e intravide, mentre svoltava l’angolo allontanandosi nella direzione opposta da quella che avrebbe seguito lui, un tizio distinto con un elegante abito blu. L’uomo stava fumando e Federico, per un attimo, pensò a quanto sarebbe piaciuto anche a lui fumare una sigaretta, una di quelle sigarette che Rosamarea era riuscita a fargli abbandonare.
Seguì la strada verso la sua meta, accarezzando per un attimo il pensiero di fermarsi al tabaccaio che segnava la sua presenza in fondo alla strada, raggiungendo le vetrine di una caffetteria, o almeno era quello che gli sembrava vista da fuori, dicendosi che un buon caffè sarebbe stato il miglior rimedio per cancellare tute le sue “voglie”: niente più sigarette, niente più Rosamarea.

Tutto passa, prima o poi.

All’interno gli sembrava che non ci fosse nessun cliente e, forse o così pareva, non c’era nemmeno il barista dietro il bancone. Guardando meglio, però, vide un’anziana donna seduta ad un tavolino con davanti un mazzo di carte.
Sembrava fare tutto parte di una scena curiosa, un allestimento teatrale piuttosto intrigante che andasse osservato da vicino e fosse anche più allettante della prospettiva dello stesso caffè, così si decise ad entrare e varcò la soglia della caffetteria proprio quando la donna  sollevò il capo e lo guardò, accennando un lieve sorriso, un sorriso quasi come di chi già lo conoscesse, forse.
O forse no.



CAPITOLO QUATTRO
(Scritto da Carlo Baroni)


Dario osservava i contorni della città deformarsi dietro il parabrezza picchiettato dalla pioggia; era una specie di intellettualoide opera pittorica astratta e a lui non piaceva per niente. Abbassò il finestrino del suo vecchio Toyota Land Cruiser per gettare fuori il mozzicone di sigaretta che aveva bruciato con rabbia fino al filtro. Soffiò fumo rovente dal naso e scosse la testa quasi calva, con i pochi capelli superstiti tenuti cortissimi. Si passò una mano sulla barba incolta e ispida delle guance, si diede un rapido massaggio al collo massiccio e fece una smorfia nel sentirlo così tremendamente contratto, poi colpì con un pugno il volante e si tastò la tasca della giacca sportiva grigia per avere la nevrotica conferma che il pacchetto quasi finito di Lucky Strike fosse al suo posto. Un’intera stecca nuova, in ogni caso, lo attendeva con le sue fascinazioni cancerogene sul sedile posteriore.

Era lunedì, un pessimo lunedì piovoso. Aveva parcheggiato la sua auto sull’ampio marciapiede antistante un banale e annerito condominio. Apprezzava i SUV proprio per questo motivo: potevi sbatterli ovunque, purchè un vigile affetto dalla tremenda malattia dell’eccesso di zelo non si trovasse nelle vicinanze.
L’uomo che sedeva accanto a lui era piuttosto avanti negli anni, però i suoi capelli c’erano tutti, anche se di un biancastro tendente al giallo; lunghi, sottili capelli che gli vorticavano attorno al cranio come quelli di un artista fuori moda. Si trovava sul punto di dire qualcosa, ma non sapeva decidersi. Vestiva un soprabito color beige e, particolare che chiunque avrebbe notato subito con raccapriccio, al polso portava uno Swatch arancione davvero inadatto alla sua età. In generale, un soggetto assurdo.
“Secondo me, - disse con la prudenza di chi sposta una teca piena di minuscole statuine di vetro – ti sei troppo focalizzato sulla prima reazione del pubblico. Dario, hai cinquant’anni e questo è il tuo romanzo d’esordio. Cosa pretendi, Dario? È un mondo che vuole i giovani, i talenti in erba. Tu, fino ad un anno fa, non avevi pubblicato nemmeno un raccontino di cinque pagine su un'antologia a pagamento. Dario, cerca di capirmi: non sto dicendo che il tuo romanzo non sia valido. Certo, perdonami… Magari non è Bulgakov, - allargò le braccia per giustificare ciò che si permetteva sostenere  – magari non è Svevo, magari non è…” 
Dario fece un gesto brusco con la mano. “Sì, sì, sì. – tagliò corto – Magari non è Stephen King, magari non è Baricco, magari non è Susanna Tamaro, e magari, e magari, e magari. Ho capito, non sono scemo. E magari lo trovi una schifezza e non sai come dirmelo. È così? Secondo me, invece, non è una schifezza per niente! – puntò due occhi furenti sull’anziano signore che si fece piccolo piccolo - E se tu non la pensi allo stesso modo, allora perché l’hai fatto pubblicare!? Ma porca… Ma ti rendi conto che in tre mesi ha venduto meno di un manuale sugli scacchi? Che cavolo vuole la gente, eh? Adesso dimmi cosa vuole la gente! Se vanno al cinema a vedere i film splatter satanisti di quello psicotico di Rob Zombie, allora perché non leggono anche il mio romanzo! Dimmelo tu, Tiziano, visto che sei un genio, un luminare dell’editoria!” Prese il pacchetto di sigarette dal taschino, ne sfilò una e la addentò.
“Dario, - riprese l’anziano agente letterario dopo aver deglutito a fatica – come ti stavo spiegando, una cosa sono due ore di film, un’altra è la lettura di un romanzo. Il tuo stile è… sperimentale, un po’… pionieristico. Soprattutto è ardito in un paese che non ama e non ha mai amato il genere in cui ti cimenti. Le cose troppo forti, le scene disturbanti, le storie malate, con o senza la violenza estrema che ci metti tu, non vanno, Dario, non vanno! – congiunse le mani al petto, in atto di supplica, poi tentò il classico discorso – O forse, per ipotesi, forse non è ancora il loro momento! Non dipende da te, non sei un cattivo scrittore, ma prova a considerare il problema da un altro punto di vista: Melville scrisse la tragica caccia di un folle ad una balena bianca che simboleggiava il destino e, alla sua epoca, in pochissimi gli diedero credito, mentre oggi Moby Dick è in tutti gli zaini di ogni serio studente universitario che voglia specializzarsi in letteratura straniera.” 
Dario si strappò la sigaretta dalle labbra. “Non me ne frega un cazzo di quello che succederà dopo la mia morte, io voglio che la gente compri il mio libro adesso!” 
“E lo comprerà! – disse con vocetta flebile Tiziano – Ma ci vuole calma. Devono conoscerti, devono superare la diffidenza verso un nuovo autore, che per di più non è un ragazzo.” 
Dario si accese la sigaretta e chiuse lo zippo con un agile gesto del polso. “Un ragazzo… Vaffanculo ai giovani! Perché devono essere per forza dei liceali!? Non siamo calciatori o piloti di formula uno, si può scrivere a diciotto come a ottant’anni! Sai cosa simboleggia questo? – si puntò il dito sul collo, dove, dal colletto della camicia nera sbottonata fino alla terza asola, spuntava il tatuaggio neanche troppo ben fatto di un serpente che si mordeva la coda formando un cerchio – Simboleggia il caos. È un’icona antichissima, blasfema, nascosta in molte chiese cristiane da architetti eretici, usata in ere lontane, remote, perse nei meandri dell’oblio, venerata e temuta, osteggiata e gelosamente protetta. Rintraccia le proprie origini negli albori della nostra storia ma, in pratica, vuole dire una cosa semplice, e cioè che tutto, prima o poi, va-a-puttane! Hai capito? Vogliono gli scrittori giovani? Bene. Gli fanno pubblicare un romanzo, al massimo due, e poi il terzo non lo legge nessuno. Perché fa schifo. E allora trovano un altro scrittore giovane, e ripetono la stessa solfa. E vanno avanti all’infinito. E sono libri tutti uguali! Questo è il vero concetto di caos! Ma mi stai seguendo o no? Io voglio dare al pubblico qualcosa di diverso! Qualcosa che sia crudo, reale, fatto di carne, sangue, pazzia, perché così è la vita! Di queste cose è fatta la nostra vita, altro che balle!” Tiziano si accorse di cominciare a sudare. Quel tipo gli metteva una paura tremenda. E pensare che non voleva neanche leggerlo, il romanzo di Dario Travi, gli era sembrata fin da subito una pessima idea! Ma poi… Ma poi, in una notte resa evocativa da una luna nascente e dal quarto bicchiere di Gin Tonic, eccolo! Ci era cascato come un pollo. Si era fatto entusiasmare, alla sua età! Sì, un romanzo lungo, inutilmente lungo, con molti difetti, uno stile poco agile e anche qualche passaggio davvero infelice, anzi molto infelice, tuttavia… Tuttavia ci aveva visto del buono…
Ma no, di più. Non solo del buono sotto il profilo letterario. Osiamo, tentiamo, buttiamoci, per la miseria! Ci aveva visto l’occasione della vita, e non era ubriaco. Non del tutto. E che occasione, ci aveva visto! Unica, da prendere al volo! E allora si era detto, incredulo dei suoi stessi pensieri, perché non trasgredire? Almeno una volta. Una sola, singola volta, in più di quarant’anni di onorata, impeccabile carriera. Poteva pur permettersi, dopo quarant’anni passati a misurare le sillabe, di provare una strada nuova che, doveva ammetterlo, l’aveva divertito. C’era forza, energia nelle pagine di Dario Travi. C’era un racconto che lo aveva preso, addirittura entusiasmato, nonostante le sue (enormi) imprecisioni. C’era un che di violentemente persuasivo, nelle parole di Dario Travi.  E non erano tutte quelle scene di sesso. No, da escludere, non si trattava di una senile reminiscenza di scoperte da adolescente. Tiziano era una vecchia volpe, non si lasciava abbindolare con facilità. Sapeva riconoscere, lui, un romanzo d’impatto da una storiaccia che strizzasse l’occhio alla pornografia. Gliene erano capitate, per le mani, di porcherie del genere, eh, se gliene erano capitate! E le aveva sempre scartate a priori, con assoluta convinzione e determinata compiacenza della propria ferma moralità. Roba sporca, niente da aggiungere, spazzatura e basta. Travi no, Travi era diverso. Travi non rientrava nella detestabile categoria dei mistificatori.

Dario espirò una tossica nube di inebriante nicotina. “Vado a bere un caffè.” Disse torvo. Tiziano alzò le sopracciglia e si mise composto. “Ti aspetto.” 
Il cinquantenne esordiente richiuse lo sportello con tanta forza, alle sue spalle, che quasi lo staccò dai cardini. Aveva smesso di piovere, l’aria era frizzantina e piacevole, il cielo ancora buio ma alcuni raggi dell’ultimo sole filtravano, traverso le nubi, come strisce sottili di rame. Si guardò attorno e vide un solo locale, nella zona. A cinquanta metri da dove aveva parcheggiato in modo abusivo. Per lui un caffè valeva l’altro, bastava ci fosse una bella dose di caffeina e zucchero. Si appese la sigaretta all’angolo della bocca, si aggiustò i jeans sulla pancetta che, nelle grandi occasioni, velleitariamente riduceva trattenendo il fiato e si incamminò, di umore nero.

Il posto non gli parve un granché. Più sala da tè che bar. Non sarebbe stato male un bicchiere di whiskey, ma, in quella specifica circostanza, chissà per quale motivo, aveva più voglia di caffè. Avanzò nelle luci soffuse del locale come un pistolero in un saloon. Dietro il bancone non c’era nessuno. Attese alcuni secondi, si diede una vigorosa grattata alla testa, battè le mani e sbuffò, rammaricandosi di aver buttato la sigaretta quando era appena oltre la metà. Tutto molto insolito: non solo mancava il barista, mancavano pure i clienti. Fece trecentosessanta gradi sui tacchi. Nessuno. Tetra sensazione surreale. Andò dritto al bancone per chiamare a gran voce chiunque fosse in grado di preparargli un caffè, quando i suoi occhi vennero catturati da un appena percettibile movimento alla sua destra. Strizzò le palpebre e poi le spalancò, la faccia che ne uscì avrebbe meritato un selfie. C’era una vecchietta, vestita di chiaro, seduta da sola ad un tavolo. Aveva davanti a sé delle carte, forse faceva un solitario o roba simile. Al momento, nonostante la sorpresa, non volle farci caso, tanto lei il caffè non glielo serviva di sicuro. Un caffè, porca miseria, si poteva almeno avere un caffè in quella giornata di…

“C’è una vecchietta, seduta ad un tavolo. Anzi, no, iniziamo bene la storia: allora, c’era una vecchietta, seduta ad un tavolo, e le sue mani si muovevano così lentamente, erano così scarne, rugose e pallide e sottili che sembravano fatte di aria…”
“Io quella l’ho già vista.”

Dario Travi dimenticò il suo agognato caffè. Per pura abitudine, prese dalla tasca della giacca lo zippo e iniziò a rigirarselo fra le dita. L’anziana signora stava sorridendo, sì, sorrideva. Chissà cosa aveva da sorridere, comunque sorrideva. Lentamente, alzò lo sguardo. Lentamente, si rivolse a Dario. Erano occhi chiari, acquosi, vecchi, naturalmente, gli occhi che guardavano Dario Travi, ma dolci, sereni, leggeri. Dario apriva e chiudeva lo zippo, lo apriva e lo chiudeva. Ad un tratto, si sentì accapponare la pelle. La vecchina riunì le sue carte e prese a mescolarle, senza smettere di guardarlo, con grazia vellutata, quasi il gesto fosse solo immaginario. Chiuse per un attimo gli occhi e poi li riaprì, come una gattina… Una piccola, vecchia, tranquilla, affettuosa gattina.
Dario strinse i denti e fece un passo indietro. Non aveva più così voglia di un caffè. La signora mescolava e mescolava le sue strane carte e, all’improvviso, alzò le sopracciglia e assunse un’aria simpaticamente interrogativa.
Dario si accorse di avere la gola secca. Strinse l’accendino nel pugno, si chiuse la giacca ed uscì di filato dal bar. Appena fuori accese in fretta e furia una Lucky Strike. Si alzò il bavero guardandosi attorno, si abbottonò la camicia. Inspirò ed espirò fumo. Scosse la testa, prese altro fumo.
“Io l’ho già vista…”
 Aveva i brividi e non sapeva il perché. 



CAPITOLO CINQUE
(Scritto da Stefania Convalle)
 
Mi chiamo Bianca, ma non è il mio vero nome, è quello d’arte, se la lettura dei Tarocchi si potesse considerare tale.
Ormai sono prossima a conoscere personalmente l’Arcano 13, quello senza nome, perché la parola “morte” fa paura a tutti. So bene che ho poco tempo da vivere, ma come dico sempre a coloro che trovano questa carta sul tavolo, la morte è solo un passaggio. Non ho paura, so già cosa troverò dall’altra parte, in fondo è da lì che provengo e il mio tempo sulla Terra aveva un preciso scopo che ho scoperto da poco e al quale mi sto avvicinando ora.

Trascorro i miei pomeriggi e le mie serate in questo piccolo locale, l’ho scelto qualche anno fa, quando ero stufa di vedere solo le quattro mura della mia casa. Per gli altri ero solo una ricca donna viziata che poteva permettersi di non lavorare, nata e cresciuta nella bambagia del lusso, ma in fondo che ne poteva sapere la gente, veramente, di quale fosse il mio universo? Potrebbe assomigliare alla favola della bella addormentata del bosco, colpita da un maleficio ancora nella culla, condannata a vivere una vita di solitudine, anche se in una torre d’avorio.

Della mia vita passata, in realtà, ho ben poco da raccontare, se non quell’immenso vuoto che ho sempre sentito fuori e dentro da me. Mi cambiò l’incontro con uno psichiatra francese fuori dagli schemi, Pierre, che voleva aiutarmi ad uscire dal mio mutismo e per farlo usò proprio il linguaggio dei Tarocchi di Marsiglia. Quella danza di figure davanti ai miei occhi, quegli archetipi che si presentavano uno ad uno, mi fecero entrare in un altro mondo dove precipitai volentieri, con tutte le scarpe.

Ero bella, da giovane, bella e triste, bella e infelice, bella e sola,  bella e inquieta, bella e in cerca di una piccola luce che illuminasse una strada buia e piena di buche: quella della mia mente.
Ricordo che quel medico, infrangendo tutte le regole dell’etica professionale, s’innamorò di me e fece di tutto per riportarmi ad una vita normale; ma io non sapevo cosa fosse “una vita normale” e non fui mai capace di restituirgli l’attenzione, la dedizione, l’amore che cercò di darmi, incondizionatamente. Chissà che fine ha fatto… Ogni tanto me lo chiedo, sono anni che non so più niente di lui; se ne andò, forse per salvare se stesso da una follia che invadeva le mie cellule e  che lo stava trascinando giù con me, in un pozzo nero.
Eppure io non mi sentivo una pazza.

Un giorno, durante la passeggiata quotidiana, giusto per ossigenarmi un po’, vidi quella caffetteria. Mi sedetti ad un tavolo e vi posai il mio mazzo di Tarocchi dal quale non mi separavo mai. Il barista mi portò da bere,  si limitò a lanciarmi un’occhiata incuriosita mentre mi buttava lì: “Leggi le carte? Poi mi fai un giro?”.

Ma sì! Certo, Perché no.

E cominciò così. Prima lui, poi la ragazza che se ne stava in cucina a preparare tramezzini, ma anche la signora che puliva il locale e persino il garzone del pasticciere che consegnava giornalmente cornetti alla crema. Si sedevano davanti a me, curiosi, mi offrivano da bere e da mangiare in cambio di uno sguardo sul futuro.  
Quanti dubbi, quante paure, quanta aspettativa leggevo nei loro occhi, come se io potessi fornirgli la chiave per aprire tutte le porte! Proprio io, figuriamoci, che stavo ancora cercando quella giusta del mazzo che aprisse la mia, di porta.
Erano in cerca di illusioni e pensai che non mi costasse niente dargliene. Se ne andavano tutti con un sorriso, “vedrai che l’amore arriverà presto”, “non temere, troverai un lavoro!”, “no, non ti tradisce, anzi, ti ama…”.
Menzogne? No, forse una nota di speranza in una vita che ci offre tante di quelle delusioni che se le infilassimo tutte in una collana, come fossero perline, sarebbe lunga da qui al Polo Nord!

Però, poi, accadde qualcosa che mi confuse. Le persone tornavano da me e volevano altri giri di carte perché dicevano che le mie previsioni si erano avverate. “Ah sì?”, rispondevo sorpresa, senza capacitarmi da dove venisse questo mio talento divinatorio. E così sono passati gli ultimi anni della mia vita, creando un  mondo parallelo qui, tra questi tavolini e i profumi dei caffè che ho visto servire a tante di quelle persone che ho smesso di contarle. 
Ancora oggi, alla chiusura, saluto tutti gli addetti ai lavori che sospendono le loro attività di pulizia e riordino per venire a darmi un bacio, probabilmente mi vedono come una nonnina, la qual cosa mi fa piacere a metà, perché non mi sento così vecchia, anche se lo sono decisamente all’anagrafe; ma amo il loro affetto,  e di sicuro, non potrei più farne a meno.

Ora, però, c’è stato un cambiamento.

Ora ho una missione che mi è stata assegnata da una strana signora che è venuta da me. Ora, che io definisca “strano” un altro essere umano rasenta il ridicolo, considerato che le mie rotelle devono essere oliate ogni giorno da quando sono nata! Comunque, a parte questo dettaglio, una chic-issima donna si è seduta al mio tavolo non più tardi di qualche settimana fa e mi ha consegnato una busta con dei nomi. 
“Cosa ne devo fare?” le ho chiesto sorpresa e alquanto smarrita. 
“Lo capirai strada facendo, hai già la risposta.”

Questa qui deve essere più pazza di me, ammetto di averlo pensato, ma non ho voluto contraddirla: i matti è meglio assecondarli!
Quando se n’è andata ho letto i nomi che non mi dicevano assolutamente niente. Rosamarea (che strano nome), Federico, Dario, Anna, Emma, Pierre… Un sobbalzo mi ha sollevata dalla sedia: Pierre, ma Pierre chi? Il mio Pierre? E poi, cosa voleva significare tutto questo? Una serie di nomi, il primo, strano su tutti, e gli altri, comuni, e poi il suo.

Ma Rosamarea è arrivata davvero, si è seduta qui dopo vari indugi, le ho parlato, ma poi è scappata via.
E poi quei due uomini che sono entrati, mi hanno guardata, anzi, direi studiata, ma poi non hanno superato la barriera della paura nel mettersi in gioco con uno strumento così irrazionale come la lettura delle carte. Chissà se i loro nomi erano nella lista? Beh, in quel caso torneranno. Ma ancora mi chiedo, cosa devo fare io per loro? Sono legati da qualche filo che li unisce?
E Pierre? Quel Pierre… Cosa farei se lo vedessi davvero entrare e se si sedesse qui davanti a me, dopo quanto, vent’anni?


Morirei.



CAPITOLO SEI
(Scritto da Tania Mignani)

Il cielo si fece scuro all'improvviso, le nubi zelanti e minacciose coprirono il sole in pochi istanti. Sentiva i capelli vorticarle intorno al viso, nel frattempo una piccola macchia appena un po' più scura della sabbia su cui era posata, attrasse la sua attenzione. A fatica raggiunse quel punto, i piedi nudi parevano incollati al suolo mentre il vento, con raffiche violente e intense, ostacolava i suoi passi. Riconobbe in quel piccolo oggetto posato a terra una carta rovesciata, ora la sabbia sollevata dal vento le pungeva con forza il viso impedendole di tenere gli occhi aperti. 
I fulmini all'orizzonte squarciavano il cielo seguiti dal fragore dei tuoni, le onde immense si schiantavano sugli scogli. La pioggia fredda e violenta cominciò a cadere con forza. Con enorme difficoltà cercò di afferrare la carta, ma in quell'istante un movimento la distrasse. A fatica si volse verso il mare in burrasca, sulla cui superficie un'imbarcazione con le vele ammainate veniva percossa brutalmente dalle onde del mare nero e minaccioso. All'improvviso l'albero della barca si spezzò ricadendo su se stesso. Lei continuava ad osservare la scena ammutolita da tanta brutalità degli elementi, mentre il vento e la pioggia la rendevano immobile e impotente. Si accorse con terrore dell'enorme onda che stava inghiottendo l'imbarcazione, la vide inabissarsi e subito riemergere per poi schiantarsi contro lo scoglio che delimitava l'ingresso della grotta. Cercò di urlare, di chiamare aiuto, ma non riusciva ad articolare alcun suono, una raffica di vento sollevò la carta ai suoi piedi e la rigirò: l'immagine che scorse la trafisse con maggior violenza della pioggia, raffigurava "la Morte".


Rosamarea si ritrovò seduta sul letto, madida di sudore, con il palmo della mano sul petto ansimante. Un incubo, pensò, mentre gli occhi mettevano a fuoco l’ordine rassicurante della sua camera da letto, appena rischiarata dalle prime luci dell’alba.
Si alzò lentamente e raggiunse la cucina per versarsi un bicchiere d’acqua. Osservò dalla finestra la strada sottostante sulla quale si scorgevano ancora i segni del temporale da poco terminato. 
Le immagini del sogno si riaffacciarono riportandole alla mente il senso di angoscia e inquietudine provato. E quella carta... La stessa carta che l’aveva fatta fuggire la sera prima dalla sala da tè e da quella strana cartomante.
“Come mi è venuto in mente di farmi leggere le carte, non ho mai creduto a queste sciocchezze e mi sono fatta suggestionare da una cartomante come l’ultima delle stupide!”
Irritata, posò sul tavolo il bicchiere vuoto e si accorse del cellulare, una piccola luce intermittente l’avvisava di un messaggio. Il primo pensiero fu per Federico, poi con delusione si rese conto che era solo un invito da parte di una collega all’ennesima e noiosa cena aziendale. Lo ignorò, mentre le sue dita, quasi meccanicamente, cominciarono a scorrere le fotografie scattate insieme a lui. Erano passati solo pochi mesi dalla sera in cui era uscito dal suo appartamento e dalla sua vita, chiudendosi lentamente la porta alle spalle. Ora, sfogliando quelle immagini, le pareva di “spiare” le vite di due sconosciuti: una donna innamorata che sorrideva all’obiettivo e a chi vi stava dietro,  una coppia abbracciata che ostentava sfacciatamente la propria felicità.
Si accorse di avere il viso rigato dalle lacrime e in quel preciso istante le parole di Bianca le tornarono alla mente: “Dovrai liberarti del passato e confidare nella tua rinascita”.
Si diresse nuovamente alla finestra, il sole era appena sorto e il cielo era limpido, la strada sottostante cominciava a riempirsi del rumore delle auto. Entro pochi minuti si sarebbe trovata immersa nel traffico, inghiottita dalla fretta e dalla frenesia, proprio come la barca nel sogno…. La percezione dell’angoscia provata nel momento in cui vide l’imbarcazione infrangersi contri gli scogli, l’assalì nuovamente. Ripensò alla spiaggia, alla grotta, ai luoghi familiari della sua infanzia e ai molti interrogativi che reclamavano una risposta.
Il cellulare lampeggiò ancora una volta, di nuovo la collega.
Senza pensarci sfiorò il tasto rispondi: “Ho bisogno di alcuni giorno di ferie, ti chiamerò in mattinata”.
Meno di un’ora più tardi Rosamarea salì sul taxi che la stava aspettando sotto casa.
“Alla stazione, grazie” rispose alla domanda del tassista.
Mentre l’auto si immetteva lentamente nel traffico, con la coda dell’occhio Rosamarea scorse un uomo vestito di blu che fumava vicino all’entrata del suo palazzo. Aveva la sensazione di  averlo già visto, pur non ricordando dove o in quale occasione.
Incuriosita rivolse nuovamente lo sguardo verso quell’uomo il quale,  in quell’istante, svoltò velocemente l’angolo della casa scomparendo dalla sua vista.
“Viaggio di lavoro o di piacere?” le chiese l’autista osservandola dalla specchietto retrovisore.
“Piacere…” rispose Rosamarea sorridendo,  con il viso rivolto verso la strada mormorò, quasi tra sé e sé: “Torno a casa.”


CAPITOLO SETTE
(scritto da Daniela Quadri)

Casa. Erano dieci anni che non ci tornava e aveva paura di quello che avrebbe provato. A girare per stanze dove risuonava l’eco delle voci che più aveva amato, e a fissare pareti – quelle della sua camera erano di un verde pallido con grandi girasoli nella parte inferiore – dove erano impresse le immagini più belle della sua infanzia.

Scese nella piccola stazione di un giallo ormai sbiadito, e s’incamminò lungo la stradina in discesa che portava al centro del paese. Finalmente, dopo tanta pioggia, il sole splendeva in un cielo terso e di un azzurro senza uguali.

Gironzolò per le strade di quel piccolo borgo di pescatori. Strade strette, ripide e aspre come quel mare che si spingeva fin quasi dentro la piazza principale. L’unico spiazzo dove i pescatori potevano tirare in secca le barche, e bere un bicchiere di vino rosso delle colline nell’osteria del paese.

Aveva bisogno di un po’ di tempo per pensare. A come avrebbe affrontato sua madre, a come lei avrebbe reagito. Respirò a pieni polmoni il profumo del basilico, che cresceva rigoglioso in grandi vasi di coccio accanto a tutte le porte delle case. Case dalle geometrie irregolari, e dai colori vivaci e tutti diversi. Perché gli uomini di ritorno dalle fatiche sul mare riuscissero a scorgerle da lontano e, ognuno, a riconoscere la propria.

Senza accorgersene arrivò davanti ad una porta scrostata dalla salsedine. L’unica senza basilico, o meglio, una piantina c’era, ma era così rinsecchita che Rosamarea, con un moto di rabbia, la strappò e la gettò in un giardino lì vicino.

L’abbraccio caloroso con cui l’accolse Maria, la badante peruviana, le fece sembrare ancora più fredda l’accoglienza della madre.

«Sei tornata, Rosamarea. Cosa stai cercando?»
 «La verità. La verità su quella notte, mamma. E questa volta non me ne andrò prima di averla sentita dalla tua bocca»

Maria posò sul tavolo della cucina un piatto di focaccia all’origano ancora fumante, una brocca di acqua e due bicchieri, e le lasciò sole.

«Quella notte l’ho cancellata dalla mia mente, e anche tu dovresti farlo. Ci sono porte che bisogna chiudere per sempre, e peccati che non possono trovare assoluzione. Perché ti ostini a voler sapere? Perché adesso?»

La sua voce era dura e determinata, ma in quell’ultima domanda Rosamarea percepì un cedimento. La stanchezza degli anni, il peso di un silenzio che era durato troppo a lungo.

DOVRAI LIBERARTI DEL PASSATO E CONFIDARE NELLA TUA RINASCITA.

Maledizione! La profezia di Bianca, quella strana cartomante, avrebbe continuato a  perseguitarla, doveva darle retta. Non sapeva spiegarselo, ma era così. Non era più il tempo di rimandare.

«Quella notte mi impedisce di vivere. E finché non saprò, non riuscirò più ad essere me stessa. Ad amare. Lo capisci cosa significa non poter più amare, mamma?»

La donna chiuse gli occhi.  Come per ripararli da una lama sottile di luce che entrava dalle tapparelle socchiuse, o per trattenere una lacrima ormai rinsecchita come il basilico alla sua porta. Prese un sorso d’acqua e continuò.

«Non chiedermi cosa significa non poter più amare! L’ho imparato a mie spese e tu… Ora devi sapere! Quella notte Pietro si era svegliato alle due e si stava preparando per uscire in mare. Conosceva un buon posto, diceva, al di là delle secche, dove i pesci si radunavano in acque profonde, ma riparate dai venti. Avrebbe gettato le reti ed atteso che i pesci le riempissero non appena svegli. Ma quella notte… »

«Continua ti prego!»

«Quella notte avevo deciso che glielo avrei detto. Non ce la facevo più a nascondere quel segreto che si gonfiava dentro di me, come il mio ventre già al quinto mese»

«Tu eri incinta di me, e papà lo sapeva, vero mamma?»

E questa volta fu Rosamarea a versarsi un bicchier d’acqua, cercando di nascondere il tremore della voce e delle mani.

«Glielo dissi, mentre si infilava gli stivali di gomma, prima il destro e poi il sinistro, per scaramanzia. Gli dissi che quel figlio che portavo in grembo non era suo. Che era stato l’errore di una notte. Una passione fatta di sguardi furtivi tra le panche della chiesa. Un’attrazione nata dalla solitudine, dalla paura di perderlo tra le onde di quel mare che me lo portava via ogni giorno, senza la certezza di poterlo riabbracciare. Glielo dissi piangendo, pregandolo di rinnegarmi se lo desiderava, ma di non abbandonare te. Pietro non rispose. Non si voltò nemmeno quando uscì dalla stanza. Ed io non lo vidi più. Se non dentro quella bara, su cui non riuscii neppure a piangere»

Quando Maria ritornò, la brocca era vuota e la donna sulla carrozzina era girata verso la finestra. Sembrava osservare un punto lontano sul mare. Così lontano che solo i suoi occhi riuscivano a vederlo.

Rosamarea corse fuori in strada. Le pareva di soffocare, doveva respirare dell’aria. Aria pulita, solo quella avrebbe cancellato anni di menzogne. Ma non l’amore, che aveva nutrito dentro di sé per un uomo mai conosciuto, ma che aveva sempre considerato suo padre. E adesso… anche questa era solo un’illusione!
Quando aveva chiesto a sua madre chi fosse il suo vero padre, le sue labbra si erano chiuse. Mai, da lei non l’avrebbe mai saputo. E comunque, cosa sarebbe cambiato? Aveva amato il ricordo di un uomo che non l’aveva generata, che senso avrebbe avuto cercare uno sconosciuto dal cui seme era nata, ma che non sapeva nemmeno di averla messa al mondo?

Voleva solo andarsene al più presto. Lasciare per sempre quel paese che l’aveva ingannata, quel mare che le aveva rubato un’infanzia felice. E quella donna, che l’aveva cresciuta con un amore muto ed ostinato, e che lei, nonostante tutto, non riusciva ad odiare.

Si incamminò verso la stazione. Avrebbe preso l’ultimo treno in partenza per la città. Tra tre ore sarebbe stato tutto finito. Sarebbe tornata alla sua vita di sempre. Già, la sua vita di sempre, senza Federico.

Diede un’occhiata all’orologio. Mancava ancora una mezz’ora abbondante alla partenza. Si sedette su  una panchina nel giardino antistante la stazione. Un giardino piccolo, ma insolitamente ben tenuto. Aiuole, un paio di lecci ed ulivi piegati dal vento ad offrire riparo e un po’ di ombra.

Allungò le gambe per lasciar andare la tensione e lo vide. Anzi, lo rivide. L’uomo col completo blu e l’inseparabile sigaretta che gli pendeva dalle labbra.
Era appoggiato al tronco di un albero, assorto nei suoi pensieri.

«Ehi! Signore! Dico a lei. Si può sapere cosa vuole da me?» Gli domandò, correndogli incontro con il dito puntato.

Quando fu a pochi passi, si bloccò.
 I suoi occhi erano lucidi come specchi.

E Rosamarea, per una frazione di secondo, in quegli occhi vide riflesso il proprio futuro.



CAPITOLO  OTTO
(Scritto da Daniela Perego)

Seduta al solito tavolo in questo bar, diventato la mia seconda casa, trascorro tranquillamente molte ore delle mie lunghe giornate osservando gli avventori e talvolta leggendo loro le carte; ci sono giorni in cui nessuno si avvicina,  altri in cui qualcuno, timidamente, si siede di fronte a me chiedendo di sapere cosa riservi loro il futuro sull’amore, il lavoro o la salute.

Da qualche giorno fa bella mostra davanti a me, allineata sul tappeto di velluto vicino ai Tarocchi, anche la busta di un colore rosso cupo della misteriosa giovane donna apparsa unicamente per questo scopo; nessuno l’ha mai vista prima, ma dagli abiti eleganti e dallo stile raffinato della sua persona si intuisce chiaramente l’appartenenza ai quartieri alti della città. 
Ho letto più volte i nomi riportati in bella calligrafia su un foglio di carta pergamena, pensando e ripensando a persone conosciute nella mia ormai lunga vita, però non c’è nessuno che ricordi con questi nomi, a parte ovviamente Pierre… Ma sarà lo stesso Pierre?

Come posso avere la risposta, se questi nomi non mi dicono nulla? 

Ieri ho consultato le carte, ma  anche loro pare tacciano, mostrando solo scenari confusi e poco chiari, di sicuro niente di positivo; una spiacevole sensazione si è fatta strada in me, come se  queste persone fossero legate tra loro da un destino che le porterà ad affrontare una situazione difficile, di sofferenza.  Quando stavo per scoprire l’ultima carta che avrebbe potuto portare  alla soluzione dell’enigma,  un uomo ha fatto letteralmente  irruzione nel bar.

Sembrava portato dal vento che fino a qualche minuto prima sferzava una pioggia gelida, un temporale fulmineo quanto fragoroso che ha poi lasciato spazio a un timido sole e a una brezza che mi faceva increspare la pelle. Nervosamente,  l’uomo si è appoggiato  al bancone guardandosi intorno, cercava il barista che si trovava nel retro per una “pausa sigaretta”, vista l’assenza momentanea di clienti. 
L'ho osservato, mi dava le spalle,  ma ho potuto notare la corporatura snella, l’altezza e i pochi capelli tenuti cortissimi.

D’un tratto si è girato  nella mia direzione, fissandomi con occhi spalancati, come se avesse visto un fantasma! Ho avuto un passato glorioso riguardo la bellezza, ma  ormai è solo un ricordo: ho capelli sale e pepe, la faccia smagrita e pallida, le mani nodose e scarne dalle lunghe dita  che continuano lentamente a mischiare le carte. 
Lo sconosciuto si è  avvicinato di qualche passo, per poi uscire di corsa come se fosse stato risucchiato da una forza aliena: in quell’istante il mio cuore ha avuto un sussulto! Era lui!
“Non può essere” mi sono detta “era più grande di me di qualche anno, quindi non può essere lui, ma il viso, la corporatura e soprattutto quegli occhi… sono i suoi. Può essersi mantenuto tanto bene?! Forse è fuggito perché mi ha riconosciuta? No, la devo smettere di pensare che si tratti di Pierre.”

Ma un pensiero improvviso si è fatto strada. “Potrebbe essere suo figlio! Sì, sì! Ho trovato la soluzione! È  sicuramente suo figlio.”

Pierre, ti ho rivisto solo per un attimo e già i pensieri si affollano ricordando i nostri pomeriggi a studiare i tarocchi, la tua pazienza nell’aiutarmi a trovare la forza di affrontare con fiducia e serenità la vita, i tuoi occhi innamorati che indugiavano sul mio viso e le dolci parole d’amore sussurrate e mai ricambiate. Ho scoperto solo dopo la tua partenza quanto bene ti volessi; la mia vita non è più stata la stessa. 

Colmavi il vuoto dentro e intorno a me, dopo di te ho passato settimane chiusa nella stanza al buio, aspettando invano che tornassi, sicura che altrimenti non sarei riuscita ad affrontare il mondo.

Una vita di solitudine, la mia, in quell’enorme casa che mi parlava dei fasti del passato, tende di broccato, quadri di pittori famosi, argenteria, cristallerie e porcellane pregiate, ricevimenti ai quali assistevo di nascosto, perché troppo piccola, in cui le signore indossavano abiti lunghi e gioielli preziosi; uomini in smoking con scarpe lucidissime che danzavano elegantemente valzer viennesi, scivolando su pavimenti di marmo policromo lucidato a specchio. 
Anni felici della mia prima infanzia in cui ridevo, giocando nel grande parco attorno alla villa, un breve periodo di sole, oscurato da lunghi anni di silenzio, tristezza e vuoto d’animo; non una specifica malattia, ma un disagio emotivo a causa del quale niente aveva senso, la mia vita era vuota, il mio cuore era vuoto, la mia anima non provava nessun sentimento.

Ti ho rivisto nelle sembianze di quel giovane uomo a te molto somigliante, quasi un gemello, e anche lui mi è parso sofferente e in guerra con il mondo intero; mostrava spavalderia, con una piccola dose di rabbia e malcontento, e non solo per la mancanza del barista...


Quanto mi piacerebbe che lui fosse uno dei nomi contenuti nella busta...




CAPITOLO NOVE 
(Scritto da Michele Fierro)

Il giovane custode del porticciolo privato sollevò lo sguardo dal quotidiano che stava sfogliando proprio mentre l’uomo si avvicinava alla sbarra di ingresso già sollevata, come di abitudine ogni domenica quando il movimento aumentava in modo cospicuo rispetto ai giorni feriali.
<<Ehilà, Napoleone, come andiamo?>>
<<Buongiorno, Monsieur Luigi>> rispose il nuovo arrivato, un tizio attempato con la pelle consumata dal sale e i bicipiti da marinaio, vestito con jeans, canotta e scarpe da tennis.
<<Oggi è di bonaccia, ha visto? Il maestrale è durato una settimana, proprio come dicono quelli di una volta: o tre giorni, o una settimana. Fa bene, lei, a non fidarsi delle vele. >>
<<Caro Luigi, dovresti saperlo>>  ribatté Napoleone  <<il vero problema non è restare senza vento e non poter gonfiare le vele, ma restare senza forza e non poter agitare i remi; non sta nell’opportunità che si presenta, la chiave per riuscire in un’impresa, ma nella volontà di affrontare le difficoltà per riuscire a realizzarla. Lo ha detto qualcun altro prima di me, anche se con parole diverse, proprio a voi italiani tanti anni fa, sebbene ci sia da precisare che il seguito non fu particolarmente felice. Probabilmente sei troppo giovane per ricordartelo, ma sei sufficientemente vecchio per tenerlo sempre a mente.>>
<<Buona questa! Cosa vorrebbe dire, che si riescono a far andare le barche a vela anche senza vento?>>
<<Certo che no. Tu sai forse far andare un’automobile senza pneumatici?>>
<<Nossignore, è proprio quello che dicevo io!>> rispose stranito il giovane.
<<Però riesci a camminare anche senza scarpe, giusto?>>
<<Beh, che c’entra? Si parlava di andare per mare o in automobile, mica di andare a piedi>> disse, sempre più sulla difensiva, il guardiano.
<<E invece c’entra, eccome! Tutto sta in quello che vuoi fare. Se il tuo scopo è quello di andare, non sarà un’automobile senza pneumatici o il fatto di non avere le scarpe a impedirti di muoverti e partire. Se il tuo obiettivo è quello di viaggiare, ecco che puoi farlo anche senza strumenti e ti possono bastare soltanto le tue gambe, persino i piedi nudi.  Allo stesso modo, se il tuo scopo è andare per mare, non sarà l’assenza di vento per una barca a vela o l’assenza di carburante per una barca a motore a impedirti di salpare, ma il fatto che non vuoi davvero andare per mare. In effetti, se rinunci è perché quello che vuoi davvero è soltanto andare in barca.>>
<<E che ci sarebbe di strano, non è già abbastanza?>> domandò, Luigi, sempre più confuso.
<<Può esserlo, certo, ma non è tutto. È  soltanto una parte di tutto l’insieme, un’incauta sineddoche. Sarebbe come se andassi al ristorante e non ordinassi niente da mangiare. Ti sembra una cosa intelligente da fare?>>
<<No, però… non ci sto capendo più niente. Stavamo parlando di barche e di mare, mica di mangiare!>>
<<E invece no, parliamo di mangiare, o meglio, di nutrire l’anima. Il mare è questo: nutrimento dell’anima o dello spirito che altro non è che il nostro umore. La differenza tra andare per mare o andare in barca sta nel fatto che per mare ci puoi andare anche restando sul molo a respirare iodio, lasciandoti asciugare la salsedine sulla pelle. Provaci ogni tanto, funziona!>> chiosò il marinaio filosofo.
<<Non lo so, Napoleone, tu parli troppo difficile per me e non mi ci sto raccapezzando più… >>
<<Non temere, Monsieur Luigi, qualche volta non mi capisco nemmeno io, ma non la ritengo una cosa grave.>> 
Così dicendo, Napoleone, fece un cenno di saluto con la mano in direzione del custode e si avviò alla volta delle banchine di rimessaggio dove avrebbe trovato il suo vecchio cabinato ad attenderlo.
La “Pourquoi pas”, con i suoi 9 metri di scafo, lo aspettava per la solita manutenzione settimanale che, per abitudine, si teneva da fare nei giorni di festa, quando il mare era troppo affollato di diportisti occasionali che facevano diventare le creste delle onde uguali a tanti bastoni di armadio con appesi i capi che non si usano mai: tristi e incolore.
L’Evinrude entrobordo da 250 cavalli faceva spesso i capricci, un po’ vecchiotto, ma tutto sommato ancora in forma, proprio come lui, per cui avrebbe dovuto riservargli le opportune attenzioni del caso e ripulire scrupolosamente ogni singolo pezzo finché non ne avesse rivista la lucentezza originale. Poi c’erano la chiglia da sciacquare, il ponte da lavare e i secchi delle esche da rimettere in ordine.
Il profumo del mare penetrava nei suoi polmoni fino a entrargli in testa e già, soltanto così, la giornata prendeva una piega migliore.
Passò davanti allo scivolo dell’alaggio, proprio di fianco al carro ponte per il varo, e proseguì fino a raggiungere il posto barca dove era ormeggiata la sua, osservando gli altri natanti stretti tra i parabordi e in attesa di riprendere vita, in quell’ora mattiniera di domenica.
Andare in barca o andare per mare, c’è differenza eccome! – pensò tra sé.

Un tempo, quando era più giovane, dopo aver lasciato per sempre Le Croisic, era molto più tollerante nei confronti della razza umana anzi, per così dire, preoccuparsi della felicità e del benessere delle persone era la sua missione. Con l’età, però, si sa,  la pazienza viene meno e diventa molto più difficile “lasciar passare”; Napoleone ne era consapevole ed era per questo, forse, che ormai da anni, pensionato e solo, trascorreva le giornate tra la piccola casa di periferia e il porticciolo dove era ormeggiata la sua barca, quando non era per mare, si intende, mantenendo i suoi contatti umani a poche occasionali conversazioni come quella avuta quella mattina con Luigi.
<<Ah… quante parole dette, e quante non dette… >>  disse con un filo di voce, parlando con l’aria ferma.
Quando era approdato in città, più di trent’anni prima, fuggiva proprio dalle “parole non dette”.

Viveva in provincia, a una manciata di chilometri da lì, in un piccolo paesino che l’immancabile mare sembrava avvolgere completamente, regalando al profumo delle strade la stessa poesia delle scogliere battute dai marosi. Gli oleandri e le piante selvatiche di fico coloravano, nella bella stagione, i muri a secco in pietra persino con la sola ombra, e in inverno, quando i colori invece si facevano più spenti, gli umori delle viti pigiate e delle olive pressate tenevano caldo al solo sentirli.
Lui, francese emigrato in Italia di cui si era innamorato da turista in gioventù, mentre cercava una strada da percorrere con il suo lavoro e con la sua vita, inciampò in uno di quegli incerti che sembrano tali soltanto quando si è giovani, e il più classico degli amori impossibili, per quanto ricambiato, lo costrinse a fuggire via lasciandosi dietro una serie di “se” a cui non avrebbe dato più voce, se non con il rimpianto mai sopito.
Così andò a stare in città e, lentamente, ricominciò da capo a ricostruirsi una vita con la sua professione, che non era certo quella del marinaio; strano per lui,  partito dalla Loira Atlantica, che  le città le aveva sempre odiate.

Per la verità, in effetti, adesso stava bene.
La passione del mare, che lo aveva accompagnato sin da piccolo quando suo padre lo portava tenendolo per mano a guardare la schiuma delle onde dell’oceano che gorgogliava tra gli scogli d’inverno facendolo sentire il bambino più felice del mondo, gli era tornata alla soglia della pensione, nel momento della sua vita in cui era alla ricerca di una “nuova direzione” da prendere, solo e senza figli o nipoti di cui occuparsi.
Così, un giorno, mentre passeggiava preso da mille pensieri, capitò nei pressi di quel porticciolo e gli venne la curiosità di chiedere informazioni, probabilmente dando con chiarezza l’impressione di intendersi di nautica tanto quanto un eschimese se ne intenda di creme abbronzanti.
Il custode di allora, che non era il giovane Luigi, ma un tizio decisamente in là con gli anni e piuttosto scaltro, gli rispose punto a punto con la massima disponibilità possibile, ma con un lieve sorriso sicuramente divertito dal curioso rotacismo transalpino dell’avventore.
Il vecchio guardiano, un certo Salvo, trasformò rapidamente il suo approccio, all’inizio segnatamente professionale, in qualcosa che si avvicinava sempre più rapidamente a una conversazione gioviale, alla maniera “spiccia” della gente di mare, facendo diventare quell’incontro quasi un ritrovo tra amici di vecchia data.
Fu la rivelazione che stava cercando nell’incertezza della sua nuova vita da pensionato e la sensazione, grazie all’affabilità del custode, che gli fece sentire quel posto immediatamente “casa sua”. Fu Salvo che per primo cominciò a chiamarlo Napoleone, certamente il nome dell’unico francese di cui avesse mai avuto la certezza dell’esistenza! 
Proprio mentre si immaginava a trascorrere il suo troppo tempo futuro in quel posto, vide un gruppo di giovani uomini, poco più che ragazzi, che attraversavano il piazzale in direzione dello scivolo del bacino controllato,  intenti a trasportare le loro canoe e con i remi in braccio; si rivide tra questi, giovane laureando tra i laureandi al circolo sportivo universitario, in un tempo che sembrava  non appartenergli più. 
Passarono i giorni e non sapeva decidersi se tornare o meno in quel posto e dare libero sfogo alle sue velleità di marinaio attempato, non riuscendo a decidere se fosse la passione per il mare o il drammatico bisogno di impegnare il suo tempo a spingerlo verso il porticciolo.
Infine, come era ovvio, decise per il sì e, diventato il fortunato proprietario del cabinato che ora aveva di fronte, cominciò a trascorrere lì ogni santo giorno  e per tutti diventò, appunto, solo Napoleone il pescatore.
I colleghi soci, assegnatari dei posti barca, impararono a conoscerlo e a conoscere i suoi lunghi silenzi in solitudine, religiosamente rispettati, e le sue garbate ma concise risposte di saluto raramente accompagnate da un accenno di conversazione. Connotazioni proverbiali che riusciva a disattendere soltanto con Federico, uno dei ragazzi, scoprì soltanto dopo,  che aveva visto sfilare anni prima con canoa e remo insieme ai suoi compagni di bordo, ma riuscirci fu un percorso molto lungo e sofferto per un uomo solitario e taciturno come lui.
Fu Federico a prendere confidenza con lui, le prime volte con un cenno della mano e poi a voce sempre più squillante e convinta, con quel tono gioviale che la gioventù spensierata sa donare.
Successivamente passarono a brevi conversazioni nelle quali finivano a parlare, come capita di solito, del tempo o, più facilmente, delle condizioni del mare. A volte il giovane chiedeva al “vecchio marinaio” consigli sulla navigazione o, molto più semplicemente, dimostrava curiosità e interesse a riguardo dei “trucchetti” da pescatore, e allora Napoleone, con una pazienza che non sapeva nemmeno di avere mai avuto, si soffermava a fornirgli tutte le spiegazioni richieste con dovizia di particolari e senza lesinare ogni possibile ragguaglio ulteriore gli venisse richiesto.
Fu così che, volta dopo volta, diventarono quasi amici e il giovane Federico si abituò a passare da Napoleone ogni volta che era nei paraggi per raccontargli un po’ di tutto della sua vita, delle sue scorribande con gli amici e dei problemi con la sua donna.
Spesso Federico capitava lì nel fine settimana quando probabilmente era libero dal lavoro, un lavoro che riguardava conteggi e numeri, pare, e altrettanto spesso era accompagnato da quella bella ragazza, certamente la stessa di cui gli aveva parlato, una ragazza che non passava di certo inosservata. Quando Napoleone l'aveva vista per la prima volta, era distante, a braccetto con il suo uomo che, per ragioni sconosciute, non passò a salutare il suo “vecchio” amico, ma lui si fece l’idea, osservandoli,  che ci fosse qualcosa che non andava tra loro.
La seconda volta, però, Federico accompagnò la donna da lui per fargliela conoscere e quando Rosamarea fu a un passo da Napoleone, l’uomo ebbe un sussulto dentro che giurò si fosse visto anche dal di fuori, sebbene la ragazza non fece cenno di essersene accorta.
Il suo sorriso, straordinariamente raggiante, sembrò riemergere da un cumulo di macerie sotto cui erano sepolti certi giorni amari del suo passato e quel suo modo di stringere gli occhi, per ripararsi dal sole, gli fece l’effetto di un uppercut ben assestato alla bocca dello stomaco.

Troppo assurdo per essere vero, troppo reale per essere un sogno.

“Quei giorni” erano lì, davanti a sé, sembravano essere tornati a cercarlo per farlo piombare in piena confusione e, di colpo, quei pochi cenni che il giovane aveva fatto sulla sua donna furono come grandine che ritorna nuvole, in un assurdo percorso  inverso.
Gli restò soltanto di incassare, dolore e dubbi, domande e preoccupazioni, e  riuscì solo a strizzare gli occhi a sua volta, per metterli al riparo dal sole, proprio nello stesso identico modo.
Seppe scoprire di lei troppo poco, per potersi dire fondati o no i suoi dubbi e concrete le sue sensazioni; parlare con Federico della sua donna gli risultava sempre troppo difficile, per pudore, sebbene il giovane non dimostrasse alcuna gelosia per lei, troppo preso dal suo mondo spensierato.
Gli riuscì, tuttavia, ancora più difficile da quando Federico gli rivelò di aver troncato con lei. Da quel giorno e per i mesi a seguire, Napoleone cominciò a cercare i pretesti più improbabili per condurre la conversazione nella direzione voluta e sperare di saperne di più su Rosamarea.

Capitava, in genere, che venissero insieme di domenica mattina, deviando lungo il percorso che li portava a consumare la colazione in qualche locale del vicino centro della città e, in fondo, Napoleone sperava che la donna potesse ricomparire da un giorno all’altro, segno che tutto fosse stato ripianato.

Anche quella stessa domenica avrebbe potuto accadere.

Probabilmente, si disse, era per quello che la domenica non prendeva mai il largo in barca.


 CAPITOLO DIECI
( Scritto da Carlo Baroni)


Dario Travi spalancò lo sportello della sua auto e Tiziano, che non l’aveva visto arrivare, saltò sul sedile come un grottesco giocattolo a molla. L’esordiente cinquantenne di speranze assai dubbie si chiuse dentro il pesante veicolo e si passò le mani su quel monolite roccioso, con vaghi tratti somatici, che aveva come faccia. 
"Una perdita di tempo." Disse, ma non sembrava stare bene. Tiziano controllò il suo ridicolo Swatch arancione. 
"Se hai preso il caffè dovremmo andare." Suggerì. "È l’ultima persona che vuole intervistarti, non ne ho altre sulla lista. Dovrebbero essercene, me ne rendo conto, ma ho trovato solo lei. Cosa vuoi che ti dica? Magari…" 
"Non ho preso nessun cazzo di caffè." Disse Dario, che pareva in stato di furibonda trance. 
Tiziano non capiva. "Hai trovato chiuso?" 
Dario digrignò i denti, scrutando con occhi oscuri il parabrezza bagnato da grandi e immobili goccioloni d’acqua. "È aperto. Per essere aperto è aperto. Solo che non c’era nessun barista, e non c’erano clienti. C’era soltanto una persona, là dentro, ed era una vecchia che mescolava un mazzo di carte." 
"Una vecchia che mescolava un mazzo di carte?" 
Dario fece no con il dito, e un sogghigno mise in evidenza rughe che sembravano cicatrici agli angoli della bocca. 
"Ma non mi frega, sai? No, quella non mi frega. Non era un’anziana signora intenta a fare un solitario per tirare l’ora di cena. Non stava aspettando le sei per una pastina in brodo prima di andare a letto alle nove, magari dopo aver visto il Tg1 ed essersi rammaricata per i molti mali che affliggono il mondo. Proprio per niente, quella aveva dei tarocchi in mano!" 
"Una vecchia con dei tarocchi?" 
Dario fece sì con la testa. 
"Tarocchi, esatto. Quelle carte che servono a leggere il futuro e altre stronzate del genere, tipo il tuo grande amore o… che ne so? Un fratello suicida che ti parla dall’aldilà. Le ho solo intraviste, ma erano tarocchi, ci scommetto il mio libro, la mia macchina e la mia casa." 
Tiziano abbassò lo sguardo, continuava a non capire. 
"Va bene, ma sei stato via pochissimo, non credo che tu ti sia fatto leggere le carte." 
Dario sbuffò. "E ci mancherebbe altro. Sono tutte fesserie, non ho mai creduto a nulla del genere. Il futuro non c’è, l’amore non esiste e i morti sono morti, punto e basta. Non parlano, non pensano, non respirano, non sognano. Sono morti, e i morti fanno i morti, ovvero non esistono più. E tutto quello che si dice sul loro riguardo sono soltanto cazzate." 
Tiziano continuava a consultare l’orologio. 
"Sì, ma allora che c’è?" Chiese prudente. 
"C’è che quelle cose mi fanno venire la pelle d’oca! – sbraitò Dario – Quando ho visto quella donna, con i suoi tarocchi in mano, per poco non mi pigliava un infarto. E sai che ha fatto? A un certo punto, ha smesso di mescolare i tarocchi e mi ha guardato. E non solo. Mi ha sorriso e mi ha…" S'interruppe, cercando le parole. "Non so, mi ha fatto un cenno con le sopracciglia. Sembrava quasi che volesse parlarmi." 
"Magari, ipotizzo, voleva invitarti al suo tavolo. È normale, se fa la cartomante." 
Dario non sembrava convinto, un senso di fastidio lo pervadeva. 
"Non so… forse non ci crederai, ma la sua faccia non mi era nuova. Da qualche parte l’ho già vista, ma non ricordo né quando, né dove." 
L’agente letterario sospirò. 
"Dario, abbiamo mezza città da attraversare, ed è tardi…" 
"Sì, sì." Rispose Dario, distratto. "Ma sai qual è la cosa strana?" 
"Quale?" Domandò Tiziano, esasperato dall’inutile attesa. "Quel fulminato di mio padre. Leggeva le carte anche lui. Era presissimo con quelle figure assurde, con quei significati astrusi che vogliono dire tutto e niente." Rimase un attimo in silenzio. "Ed è ovvio che vogliano dire tutto e niente, dato che predicono tutto e niente. Però quel vecchio rimbambito stava un sacco di tempo con i suoi tarocchi in mano. E siccome non gli piacevo per nulla, una volta me li lesse. E sai cosa saltò fuori?" 
"Cosa?" 
"Che non avrei mai combinato niente nella vita. Ci girò attorno ma, alla fine, il concetto era quello! Fu la cosa più gentile che mi disse mio padre. E poi ti stupisci se me ne sono andato di casa a quindici anni con una bionda non male di ventinove. Se ci penso, ancora adesso gli metterei le mani addosso. Non farai mai un cazzo, diceva, non combinerai mai un…" 
"Dario…" Tiziano era al limite, come se gli scappasse da morire. 
"Va bene, va bene, va bene!" Cantilenò lo scrittore in divenire. "Andiamo da questa sfigata che si prende il disturbo di intervistarmi. E se va male anche stavolta, lo so io che si fa." 
"Cioè, sarebbe?" Chiese Tiziano, non senza un po’ di timore. Dario gli scoprì un sorriso che, in un telefilm comico degli anni ottanta, avrebbe emanato un fulgente bagliore. 
"Lo so io." E non aggiunse altro.
Accese il modesto quattro cilindri, sganciò il freno a mano, ingranò la prima e si accinse a scendere dal marciapiede, il tutto seguendo un vigoroso automatismo che ben si addiceva alla natura grezza di quel veicolo. Non aveva fatto nemmeno un metro che pigiò bruscamente il freno. "Ma…"
Un uomo vestito con un elegante soprabito blu passò a pochi centimetri dal parafango della Toyota. Senza curarsi del rischio, non si scostò nemmeno. Proseguì per la sua strada. Dario abbassò il finestrino. "Ma cazzo, non fa caldo! Dove sei con la testa, eh?!" 
L’uomo vestito di blu si voltò un attimo, gli rivolse un sorriso freddo e poi riprese a camminare. Dario sfilò l’ultima sigaretta del suo pacchetto e se la accese. "Cosa bisogna fare per trovare un essere umano normale, da queste parti?"
"Dario…" Tiziano picchiettò sul suo Swatch. 
"Sì, sì!" E il massiccio, datato SUV scese ondeggiando dal marciapiede come un vecchio pachiderma con le ossa un po’ arrugginite.  


CAPITOLO UNDICI
(Scritto da Maria Rita Sanna)

Rosamarea, in quegli occhi lucidi come specchi, vide un angelo con le ali spiegate che le trasmise un senso di pace, ma quell'uomo proprio non lo conosceva: “Chi è lei? Cosa vuole da me? Perché mi segue?”.
Lo sconosciuto, anch'egli emozionato, farfugliò una risposta, tese le mani per avere un contatto con la ragazza, ma questa lo spinse e scappò. Presa dalla paura e dalle forti emozioni avute con sua madre poco prima, corse via senza una direzione precisa, con i nervi a fior di pelle, ricordando la carta dei tarocchi della cartomante incontrata qualche giorno prima: l'angelo sopra i due amanti nel giardino dell'Eden.
“Ma quali amanti, se io non ho fidanzato! E non ho neppure un padre! Chi è il mio vero padre? Chi è l'uomo che ho imparato ad amare come padre?” disse tra sé e sé.
Nessuna risposta, solo il lento movimento dell'acqua dentro la grotta in cui si ritrovò mentalmente e dove riprese fiato da tutte quelle emozioni sconvolgenti. I ricordi di lei con la madre in quel luogo magico le diedero un po' di ristoro insieme a lacrime di malinconia. Riprese il controllo di sé, imponendosi un contegno e ricordandosi dell'arrivo del treno. Doveva tornare alla sua vita in città, e di nuovo si ritrovò a pensare che per la seconda volta stava scappando via da quel posto. Ma possibile che per lei, così esperta nelle comunicazioni, fosse così difficile parlare con sua madre? Perché non riusciva ad avere un dialogo proprio con lei che l'aveva generata?
“Sì, certo”, pensò, “questo pomeriggio era l'occasione giusta per pacificare la mia mancanza di tanti anni... ma lei mi svela questa verità scioccante! No, non voglio più vederla, voglio tornare a casa mia”.
Nella sala d'attesa della stazione pensava a tutte queste contraddizioni e intanto fissava un grande arazzo sulla parete. Poco per volta notò i colori molto tenui, ma poi i suoi pensieri si fermarono all'istante; il disegno raffigurava una barca in mezzo al mare con la prua in direzione di due torri altissime.
Ancora una volta questa immagine tornava, come la seconda figura della cartomante e come il sogno avuto la notte precedente! Basta, non ne poteva più!
Il treno fu la sua salvezza, lo prese al volo e partì.
“Col sole si ragiona meglio”, pensò Rosamarea, “un giorno di disavventura non mi fermerà dal mio progetto di promozione nel lavoro”. Quel giorno lo aveva libero e come una calcolatrice programmò quella sua giornata; una passeggiata nel parco a vedere bambini giocare felici mentre riordinava la sua agenda di appuntamenti, rivedere la sua amica del cuore con cui fare scorpacciate di cioccolata,  dimenticare le ultime ventiquattro ore.
Ferma al semaforo la radio trasmetteva Ghost, la “loro” canzone preferita. Di nuovo il vortice di pensieri, Federico che non c'era più, non lo voleva più, e invece lo amava ancora... Stizzita sterzò il volante nella direzione sbagliata, ma poco prima di imboccare la traversa che l'avrebbe riportata indietro vide un cartello stradale che non ricordava, indicava la strada verso il mare e il porticciolo turistico. In quel posto c'era andata alcune volte con lui, sì, lui e ancora lui, però quel mare era meno angosciante di quello del suo paese natale.
Arrivata lì respirò   l’odore del mare che, a dire il vero sapeva un po' di carburante delle barche, ma tutto il bianco dei natanti e il tintinnare delle corde sugli alberi, insieme ai riflessi del sole, la rilassarono e fu contenta di essere lì, anche se sola.
Notò, poco lontano, il lungo cabinato. Il suo proprietario, un uomo molto riservato  che aveva avuto un rapporto d'amicizia con Federico, le suscitava simpatia. Lo aveva visto solo poche volte senza neanche parlarci, aveva accento francese e il suo nome, Napoleone, era tutto un programma (per lei). Arrivò vicino alla barca, la osservò per bene; non ne capiva tanto, ma sembrava avere molti anni, sembrava confortevole e i divani che vedeva all'interno erano invitanti. La passerella era abbassata e sentì l'irresistibile tentazione di salire a bordo. Non vide nessuno né fuori né dentro. Salì. Un buon profumo le pervase l'anima e si sentì rilassata come non mai, era come se fosse qualcosa che già conoscesse, senza mai averlo vissuta. Si accomodò sulla poltrona di pilotaggio ed ebbe il desiderio di partire alla volta di quelle due torri che proprio in quel momento le tornarono in mente, ma stavolta senza angoscia. Era tutto lucidato a puntino, accarezzò il timone e tutte quelle attrezzature. Si girò per tornare sul divano e lo ebbe davanti: Napoleone la fissava incuriosito e con gli occhi velati di dolcezza: “Buongiorno, Rosamarea”.

Stavolta il suo stomaco resse al pugno.


CAPITOLO DODICI
(Scritto da Tania Mignani)
"Buongiorno, mi scusi se sono salita a bordo così, senza annunciarmi, ma la passerella era abbassata e ho pensato..." balbettò Rosamarea, imbarazzata.
"Tranquilla, cherie, qui sei sempre la benvenuta." Le parole dell’uomo pronunciate con quel lieve accento francese le trasmisero un immediato senso di calma come fossero una delicata carezza per la sua anima. Per la prima volta dopo molte ore sentì le sue labbra aprirsi in un sorriso, poi, quasi rispondessero a un comando indipendente dalla sua volontà, lacrime copiose e liberatorie le riempirono gli occhi.
"Io… Mi scusi, è solo che sono molto stanca e turbata, sono appena tornata da casa di mia mamma, lei non sta molto bene, purtroppo, e mi sento in colpa per averla lasciata ancora una volta… In realtà non sto attraversando un buon periodo. - continuò Rosamarea sorpresa dal suo improvviso desiderio di confidarsi con quell’uomo, quasi uno sconosciuto per lei Lei forse sa che io e Federico abbiamo smesso di frequentarci e..." 
L’uomo annuì silenziosamente, poi si alzò e le offrì un bicchiere d’acqua fresca.  
"Mi spiace, non ho altro qui a bordo, ma ti prego, diamoci del tu – sorridendole, le porse la mano destra – io sono Pierre, anche se qui in Italia mi hanno ribattezzato Napoleone."
"Grazie, Napol… Oh scusa, Pierre!" Scoppiò in un’allegra risata, la prima dopo tanto tempo, dopo mesi.
"Oh cherie, chiamami come vuoi…"
"Stavo dicendo – proseguì Rosamarea – che in questo periodo mi sento molto stanca, stressata, direi. Forse per riempire il vuoto che Federico ha lasciato nella mia vita mi sono riversata nel mio lavoro, per sentirmi meno sola, credo."
Mentre pronunciava quelle parole si stupì di quanto fosse naturale confidarsi con quell’uomo, di quanta pace trovasse nell’osservare i suoi occhi che la guardavano attenti a cogliere ogni frase da lei pronunciata. "Ma pur rientrando a casa sempre più tardi, la sera, pur cercando di riempire tutti gli spazi della mia giornata, arriva sempre il momento in cui devo fare i conti con i ricordi, con la nostalgia e con i rimpianti.”
Si interruppe un attimo, bevve un sorso di acqua fresca
"Inoltre, sono accaduti degli strani episodi; qualche giorno fa, ad esempio, sono entrata in una sala da tè per rifugiarmi da un improvviso temporale. C’era una donna, un’anziana signora che..."
Il racconto di Rosamarea fu interrotto dalla suoneria insistente e irritante del suo cellulare, si trattava di Anna, la sua capo-redattrice, e, come al solito il senso del dovere le impose di rispondere, rimproverandosi mentalmente per non aver spento il telefono in precedenza.
"Rosy, tesoro, ho bisogno di te. Sara è dovuta scappare a casa a causa di  un indefinito problema con suo figlio e  avevamo già fissata l’intervista con quel tizio, te ne ho parlato l’altro giorno, mi pare, l’avevo promesso al suo agente, un mio vecchio amico."
Le parole di Anna la investirono come una scarica di mitragliatrice, e, nonostante fosse ormai abituata alla valanga di frasi con cui la sua capo-redattrice infarciva concetti e richieste seppur semplici e diretti, ogni volta doveva prestare molta attenzione per seguire le frasi veloci e sconclusionate della donna.
"Quindi mi chiedevo se potevi occupartene tu. Naturalmente l’avrei fatto io personalmente se mio marito non avesse avuto la magnifica idea di organizzare per questa sera una cena con cinque-dico cinque- giapponesi, che poi, cosa preparo io  a 'sti giapponesi?!"
"Ma, Anna – tentò di obiettare Rosamarea – io non so niente né dell’autore, né del romanzo, non credo che…"
"Non ti preoccupare, tesoro. Il tizio è uno sconosciuto che ha pubblicato questo unico romanzo che nemmeno io ho letto, figuriamoci se ho questo tempo! Dovrebbe già esserci grato perché rubiamo un po’ di spazio per pubblicare una sua intervista sulla nostra rivista. Ho preparato una lista di domande che ho lasciato sulla tua scrivania. Non ti prenderà più di mezz’ora. Grazie, Rosy, sapevo che potevo contare su di te! La prossima settimana, aperitivo in centro io, te e Sara. Ciao ciao, devo scappare, a domani.”
Anna riattaccò il telefono senza lasciarle il minimo diritto di replica.

"Mi dispiace, come al solito il dovere mi chiama." 
Si alzò afferrando la borsa. "Grazie, Napoleone, per avere sopportato il mio sfogo." Allungò la mano per stringere quella dell’uomo, ma poi ci ripensò e, allargando le braccia, lo abbracciò. L’uomo, dapprima intimidito, ricambiò l’abbraccio e posò un lieve bacio sui suoi capelli.
"Non ti preoccupare, Rosamarea, torna quando ne sentirai il bisogno, mi troverai qui."
"Lo farò Napoleone, lo farò."

Mezz’ora più tardi varcò trafelata la porta del suo ufficio, nell’istante in cui l’uomo più anziano fissava nervosamente lo Swatch arancione che aveva al polso.
"Scusate il ritardo, ma ho trovato traffico. Il signor Travi?" chiese, rivolgendosi ai due uomini.
"Sono io." Rispose Dario, portandosi la sigaretta alla bocca.
"Signor Travi, come può notare in questo ufficio è vietato fumare – lo apostrofò Rosamarea con voce stizzita mostrandogli il cartello di divieto sulla parte – potrebbe farmi la gentilezza di spegnere la sigaretta?"
Dario, lanciandole un’occhiata torva, spense nervosamente la sigaretta nel posacenere.
Tiziano, consapevole della reciproca antipatia che si stava instaurando tra i due, decise che era giunto il momento di togliere il disturbo e, inventando un impegno improvviso, si allontanò velocemente dall’ufficio.

"Ho preparato alcune domande che seguiremo come traccia." Rosamarea decise di adottare un comportamento professionale cercando di nascondere il disagio e i sentimenti negativi che l’uomo le ispirava, cominciò quindi a scorrere velocemente il foglio lasciato sulla scrivania da Anna.
Dario rispondeva svogliatamente alle domande, mentre Rosamarea prendeva velocemente appunti. Più tardi li avrebbe sistemati trascrivendoli al computer; porse all’uomo l’ultima domanda sperando in una risposta rapida per concludere quella sorta di farsa. Invece di rispondere, l’uomo rimase in silenzio, e dopo alcuni secondi che parvero interminabili Rosamarea sollevò lentamente lo sguardo. Gli occhi di Dario la fissavano cupi:
"Lei non ha letto nemmeno una parola della sinossi del mio romanzo, vero, Signorina ValliNelle mie risposte ho fatto vari riferimenti a episodi e a personaggi totalmente inventati, se avesse letto solo qualche pagina si sarebbe accorta che non stavo descrivendo il mio romanzo. Ma lei è sicuramente una persona troppo impegnata per perdere tempo con uno sconosciuto. Probabilmente non vede l’ora di terminare questa noiosissima intervista per raggiungere al più presto gli amici in uno dei locali in della città, dove incontrerà persone molto più divertenti e interessanti del sottoscritto. E' stata tutto il tempo seduta alla sua ordinatissima scrivania, nel suo perfetto e luminoso ufficio, con quell’aria da efficiente maestrina, pronta a giudicare chi le sta di fronte, soprattutto se non risponde ai suoi parametri di uomo di successo. Bene, scriva ciò che le pare in questa intervista, dubito che, considerato l’impegno che ci ha messo, qualcuno la leggerà."

Dario stava per raggiungere la porta, non si era mai sentito tanto umiliato in vita sua come quel pomeriggio, quella donna in carriera, con il suo comportamento freddo e distaccato, lo aveva fatto sentire una nullità. Non che si aspettasse maggiore empatia da parte sua, ma un po’ più di professionalità nei confronti di quella stupida intervista ne avrebbe favorito sicuramente la buona riuscita. Ma d’altra parte, qualunque fosse il risultato a chi sarebbe interessato un articolo su di lui, sul suo romanzo? Sicuramente a nessuno, era solo tempo perso e doveva andarsene al più presto.
"Travi!" – la voce della donna lo bloccò, ne notò il tono fermo e autoritario. Si voltò lentamente e incontrò il suo sguardo deciso, non c’era più traccia dell’atteggiamento professionale e distaccato di qualche minuto prima. - Ammetto che ha ragione, non ho letto nulla del suo romanzo e mi scuso, lei ha tutto il diritto di lamentarsi di questo, ma non ha per nessun motivo il diritto di puntare il dito e di giudicare la mia vita e il mio lavoro!" 
La voce di Rosamarea era alterata dalla rabbia e per dare più enfasi alle sue parole, si era alzata e sosteneva lo sguardo di Dario fissandolo negli occhi.
"Se me ne fosse stata data la possibilità, avrei preparato questa intervista con lo stesso impegno con cui avrei condotto un’intervista allo stesso Marquez, ma sono stata avvertita solo mezz’ora prima di arrivare in ufficio che avrei dovuto sostituire una collega. Io amo il mio lavoro, Signor Travi, ho sacrificato persone e soffocato sentimenti per esso e per questi motivi non tollero che lei, con il suo atteggiamento saccente e irritante, si prenda la libertà di valutare il mio comportamento professionale e privato!"
Rosamarea si accorse che stava quasi urlando, le tremavano le mani dalla rabbia, rare volte si era sentita giudicata come quel giorno, e da quell’uomo poi…
I loro occhi si fissarono per alcuni istanti, a poco a poco la collera presente nei loro sguardi si stemperò e, quasi all’unisono, scoppiarono in una sonora risata.
Il primo a parlare fu Dario porgendole la mano lievemente imbarazzato: "Ok, propongo di ricominciare tutto dall’inizio. Piacere, sono Dario."
"Rosamarea – rispose lei, stringendogli la mano – Dario, che ne dici di riprendere con l’intervista davanti a una pizza e a un boccale di birra?”
"Perché no?" rispose, regalandole uno dei sorrisi più rassicuranti di cui aveva memoria.



CAPITOLO TREDICI
(scritto da Carmen Gulino)

"Certo che la vita è proprio strana!" Pensò Rosamarea, mentre stava uscendo dall’ufficio, precedendo Dario nel lungo corridoio. "Mezz’ora fa non conoscevo neanche quest’uomo e ora sto uscendo a cena con lui, dopo aver avuto uno scontro verbale acceso! Mi sembra un po’ fuori di testa, ma in fondo, e non so perché, mi ispira simpatia. Certo, non abbiamo avuto proprio un inizio lineare, ma le cose complicate mi piacciono, e ancora di più le sfide."

"Dario - ormai ci diamo del tu, vero? - e se andassimo a mangiare la pizza in un locale fuori città? Che ne dici? Non ho voglia di rimanere qui, in questo grigio di città; oggi è stata una giornata intensa e ho bisogno di evadere".
"Per me va bene, sia la pizza, che il fuori città. Non amo il casino e anch’io preferisco il verde al grigio." Rispose Dario, con un sorriso appena accennato e con un tono di voce ormai del tutto rasserenato rispetto a pochi minuti prima.

In meno di mezz’ora si ritrovarono in un agriturismo, totalmente immersi nella natura, a respirare l’aria a pieni polmoni.   I tavoli erano apparecchiati in stile campagnolo, con la tipica tovaglia a quadrettoni e con vasetti di fiori di campo al centro.
"Beh, diciamo che non è proprio una pizzeria," esordì Rosamarea "ma qui la cucina è ottima. La cuoca, che è anche la titolare, cucina meravigliosamente bene e utilizza esclusivamente prodotti biologici. Quando vengo a mangiare qui mi sento come a casa."
Rosamarea sperava che quel luogo così familiare potesse contribuire a placare definitivamente gli animi di entrambi, dopo quell’inizio di fuoco.
"Allora, Dario, cosa ne dici se ricominciassimo da capo la nostra intervista? Questa volta sarà un’intervista seria, lo prometto!"

Dario non aveva certo un carattere facile. La sua diffidenza verso il genere umano lo portava a essere spesso molto scorbutico: era il suo modo di tenere lontani i rompiscatole, e tutti quelli che volevano interferire con la sua vita, disturbandolo. Non aveva più voglia di perdere  tempo con gente falsa e opportunista.
La vita, con lui, era stata avara di affetti e sentimenti. La madre era morta quando era piccolissimo e di lei non aveva nessun ricordo,  solo una foto in bianco e nero, ormai sbiadita, che conservava gelosamente nel portafoglio. Nessuno  gli raccontava mai nulla di lei, come se non fosse mai esistita, come se fosse una verità da nascondere. Queste sono cose che segnano il carattere di un bambino e, poi,  di un uomo.
Dario era cresciuto da solo col padre, ma il loro rapporto era stato conflittuale, da sempre. Sembrava non avessero proprio nulla in comune. Anzi erano l'uno l’opposto dell’altro.

"Allora, Dario, raccontami qualcosa del tuo libro! Come hai già capito, non avendolo ancora letto, non sono in grado di farti delle domande mirate, perciò ti do carta bianca; raccontami quello che vuoi, ciò che pensi  possa essermi utile per scrivere l’articolo. Ah, a proposito, volevo dirti che sei stato davvero bravo prima, quando mi hai teso il tranello per capire se avessi letto o meno il tuo romanzo! Chiunque, al tuo posto, si sarebbe sentito appagato per il semplice fatto di avere una recensione pubblicata sulla nostra rivista, anche a costo di avere a che fare con una giornalista distratta e disinteressata come me. E invece, tu no! Tu non ti accontenti dell’apparenza, tu ricerchi l’essenza! Vero?"
Dario fece una smorfia di approvazione, accompagnandola con un sorrisetto sarcastico. Quella donna, che a prima vista le era sembra una giornalista superficiale, si stava ora rivelando sagace nel cogliere la sua interiorità.
"Questo è il tuo primo libro, vero?" Domandò Rosamarea.
"Sì, è il primo, e vorrei proprio che non fosse anche l’ultimo! Sto già lavorando al sequel, anche se finora, a dire il vero, non ho avuto grandi riscontri. Il pubblico non sembra aver esultato in massa di fronte alla mia prima proposta." Osservò, sconsolato.
"Secondo te, quali sono i motivi di questo scarso interesse?"
"Probabilmente non è stato sufficientemente pubblicizzato, e poi temo che la mia proposta sia troppo cruda."
"Perché dici così?"
"Perché quando racconti la vita vera, con fatti di carne, sangue e pazzia, la gente si spaventa. La verità fa sempre paura, soprattutto quando ti tocca nel profondo e va a smuovere quei tabù che ti sono stati inculcati da questa società perbenista."
"Dario, da come parli mi sembra di capire che questo libro sia un po’ anche autobiografico, o sbaglio?"
Dario non rispose subito; per un attimo sembrò assorto in un ragionamento, come se stesse cercando di ricordare quali fossero stati i traumi nella sua vita travagliata che lo avevano portato a diventare quello che era, e a scrivere quello scriveva.
Lo sguardo era fisso su un punto lontano e il respiro sospeso.
Alla fine rispose, ma si sentiva strano; quella donna, più che una giornalista, gli sembrava una psicologa. Sentiva di poter parlare con lei in tutta franchezza. Sentiva di potersi fidare di lei. Per una frazione di secondo pensò che se avesse avuto una sorella, avrebbe voluto che fosse stata esattamente come lei. Ma la vita purtroppo non gli aveva dato la possibilità di averne una.
"Autobiografico? Forse…" E poi, riflettendoci ancora, aggiunse "Anzi sì, direi proprio di sì! Forse è proprio la trasposizione della mia vita. Una vita difficile, segnata dalla mancanza dell’affetto di una mamma che non ho mai conosciuto e dalla presenza di un padre pazzo. Beh, non proprio pazzo, ma strano, questo sì. Con lui non ho mai avuto grandi relazioni; per quanto si sforzasse di dialogare con me, non c’è mai riuscito, non perché io lo rifiutassi a priori, ma perché viviamo in due mondi diversi e paralleli, come due binari che non si incontreranno mai."
"Parlami del protagonista del tuo libro; questo tuo passato come si riflette nella storia che racconti?"
"In effetti il protagonista non mi assomiglia per niente. E’ esattamente il mio contrario:  un ragazzo che cerca la sua verità attraverso esperienze di vita estreme. Si butta a capofitto in storie assurde, talvolta crude e spietate, nel tentativo di risvegliare in se stesso la voglia di vivere."
"Sai, sto pensando una cosa" lo interruppe Rosamarea "tu e il tuo libro state suscitando in me tanta curiosità. Vorrei scrivere un articolo che vi rappresenti in maniera significativa. Ti propongo di sospendere questa intervista e di riprenderla dopo avermi dato il tempo di leggerlo, così avrò la possibilità di scrivere qualcosa di sentito e non di improvvisato. Mi piacerebbe far emergere la tua vera essenza, che ne dici?"

Dario si rese conto che quella donna era proprio unica, lo stava sorprendendo ancora una volta.
"Direi che va bene, in fondo che fretta c’è? Il mio libro è in libreria da tre mesi e nessuno se lo sta filando, giorno più, giorno meno, cosa vuoi che cambi?" Gli era uscita questa frase, così stupida, che subito dopo averla pronunciata avrebbe voluto rimangiarsela, perciò nel tentativo di essere un po’ più professionale, aggiunse "E' un onore che tu sia interessata seriamente al mio romanzo e che tu abbia voglia di leggerlo. Mi fa molto piacere!"
E in fondo era anche una buona scusa per poter rivedere quella donna. Una donna che riusciva a stupirlo in continuazione, diversa da tutte le altre.

Ritornarono in città e si salutarono amichevolmente nel parcheggio di fronte all’ufficio di Rosamarea. Si diedero appuntamento alla settimana successiva, per riprendere l’intervista da dove era stata interrotta.
Lei riprese la sua auto e si avviò verso casa.
Era ormai notte, e le strade erano semideserte. Finalmente era da sola con i propri pensieri, aveva bisogno di riordinare le idee. Troppe cose le erano successe in quella giornata, troppe emozioni forti. Aveva bisogno di ritrovare se stessa. 

Accese la radio nel breve tragitto verso casa, la musica di solito l’aiutava a rilassarsi. Le note di quella canzone attirarono immediatamente la sua attenzione. Era una canzone che  adorava, tutte le volte che l'ascoltava le faceva venire la pelle d’oca.
Le parole - quelle parole - sembrava  le fossero state cucite addosso, le arrivavano dritto al cuore e al cervello.
"Sally cammina per la strada senza nemmeno guardare per terra, Sally è una donna che non ha più voglia di fare la guerra. Sally ha patito troppo, Sally ha già visto che cosa ti può crollare addosso, Sally è già stata punita per ogni sua distrazione o debolezza, per ogni candida carezza, data per non sentire l’amarezza… senti che fuori piove, senti che bel rumore…"

Azionò i tergicristalli della sua auto con un gesto semi-automatico, senza quasi rendersene conto. 
Stava cominciando a piovere.



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CAPITOLO QUATTORDICI
(Scritto da Stefania Convalle) 

Fatemi fumare una sigaretta, mi serve una pausa. 
Mi sembra di essere in mezzo a dei matti! Sono tutti impazziti in questo set, è scoppiata la febbre di Rosamarea, nessuno si aspettava tutto questo successo, ma il pubblico sembra  non possa vivere senza conoscere il seguito di questa Fiction.
Sinceramente non ne capisco il motivo, a me sembra il solito polpettone dove gli intrecci sfiorano l’incesto, boh, chissà cosa ci troverà la gente in queste storie! Forse hanno bisogno di distrarsi in questo mondo che non offre certo delle belle notizie.

Ma scusate, non mi sono presentato, sono Mario, il tuttofare del set. Non è il lavoro che volevo, diciamo che è un ripiego in questo periodo di crisi; d’altronde, chi li vuole più i cinquantenni lasciati a casa da qualche lavoro di una vita? 

Non sono mai stato attratto da questi ambienti, facevo il portiere in un palazzo signorile di Milano, ma improvvisamente hanno deciso di fare a meno di me, dicevano che avevo avuto atteggiamenti sconvenienti con una signora – signora, per dire… – mi hanno invitato a dare le dimissioni. Una batosta non da poco. Sono passato dall’avere un lavoro e una casa, al dover cercare qualcosa da fare e un posto dove dormire.
Per fortuna in quel palazzo c’era un uomo, un regista,  che mi ha creduto e non si è fatto abbindolare dalle chiacchiere, ha voluto aiutarmi dandomi un’occasione di lavoro. E grazie a lui sono qui, praticamente al servizio di tutti, ma non importa, è un lavoro e mi dà da vivere, almeno finché durerà questa produzione: la produzione di Rosamarea.

Mi aggiro per il set cercando di accontentarli tutti quando mi chiedono qualcosa, a partire dal  cappuccino alla mattina fino al cercare l’oggetto più strano per qualche scena da girare.

La mattina si inizia presto, arrivano gli attori che passano per tutto l’ambaradan che precede il primo ciak. I protagonisti di questa fiction sono attori famosi, li ho visti qualche volta in tv, sono sempre gentili e mi dicono per favore e grazie; lo sono meno alcuni figuranti, ce ne sono un paio che si credono Paul Newman, ma sono solo dei poveracci come me.
I tecnici mi rispettano, forse perché sanno che sono raccomandato dal regista, non so, ma dimostrano molta solidarietà e mi sorridono.

Tutto sommato non mi dispiace lavorare qui, un po’ all’aperto, quando si gira in esterna, un po’ negli studi, la giornata è sempre varia e non come quando stavo ore e ore nella guardiola della portineria. Molto meglio adesso, anche se vivo alla giornata. Ma in fondo, quelli che hanno un lavoro fisso, possono considerarsi al sicuro? Non credo, al giorno d’oggi, nessuno più lo è.

Categoria a parte sono gli autori della fiction. Passo delle ore a osservarli. Arrivano a metà mattina, qualcuno più tardi. Si siedono intorno a un tavolo e cominciano a tirare fuori pile di fogli, matite, penne, computer portatili, sembra che stiano scrivendo la Stele di Rosetta, mah, mi lasciano un po’ perplesso…
Quando gli porto  cappuccini e brioche, sento che parlottano tra loro – che ne facciamo di Federico, lo facciamo tornare da Rosamarea oppure no? E Dario? No dai, Dario è troppo strong, rendiamolo più amabile e creiamo una storia d’amore con la giornalista… Ma no! Forse è meglio che si scopra che sono fratelli? Ma figli di chi? Di Pierre e Bianca? Oppure di Pierre e la mamma di Rosamarea? Va beh, ma ‘sto Pierre mica può aver inseminato il pianeta, cribbio, siamo un po’ realisti!
Mentre mi avvicino col vassoio, coprono i fogli, come se la trama fosse un segreto di stato, ma che me ne frega  di come andrà a finire! Va beh, non è così vero, la storia ha preso un po’ anche il sottoscritto anche se non sono certo un sentimentale e qui, il miele, scorre a fiumi… 
Non credo all’amore, io non l’ho mai trovato, e quindi mi sembra tutto abbastanza inverosimile. Però, parteggio per quel Federico, se fossi in lui andrei da Rosamarea e me la riprenderei, altro che Dario!
A volte, qualcuno di loro viene a fumare con me e mi chiede un parere, ma che posso dire io? Però  vogliono sapere qualche piccola cosa da poter inserire nella trama, qualche idea. Figuriamoci quali illuminazioni potrei mai avere in proposito! 
Ma li capisco, sono sotto pressione, non si aspettavano tutto questo incalzarsi di consensi e devono andare avanti in fretta, la produzione gli sta con il fiato sul collo, non è facile pensare in quelle condizioni. Se ne vanno tardi, alla sera, vanno a mangiare insieme in quel locale all’angolo, in fondo sembrano una bella compagnia, anche se tutti così diversi.
Anche loro hanno dei bei  problemi, prima ho visto arrivare di corsa la segretaria di produzione, ha urlato qualcosa in maniera scomposta, poi si è avvicinata all’autore che segue il personaggio di Federico e gli ha quasi intimato di consegnare il nuovo capitolo perché il regista ha deciso che vuole proseguire da lì, pare abbia fatto una specie di sondaggio tra gli spettatori che sembrano impazienti di capire se ‘sto poverino si darà una mossa per riconquistare Rosamarea, prima che Dario gliela soffi sotto il naso! Il malcapitato autore è corso al pc, si è acceso più o meno venti sigarette una dietro l'altra e con aria a metà tra lo smarrimento e la voglia di stupire, ha cominciato a scrivere come posseduto dal demonio! Vediamo che ne verrà fuori. 

Pausa sigaretta finita, mi dispiace, devo tornare al lavoro, mi stanno chiamando.

“Ehi, uomo in blu, portami un caffè”.



CAPITOLO QUINDICI
(Scritto da Michele Fierro)


A quel punto aveva perso il conto e non sapeva nemmeno se, 
quello che aveva preso, era il quarto o il quinto semaforo rosso.
Stava guidando senza alcun criterio, divincolandosi tra le auto ammassate nel traffico così inusuale per quella zona della città, con in testa un solo obiettivo: arrivare il prima possibile in ospedale.
Non sapeva nemmeno, Federico, il perché di tanta accoratezza. Certo, ormai si era molto più che affezionato a quel simpatico vecchietto con cui aveva preso l’abitudine di fare lunghe e piacevoli conversazioni, tuttavia non poteva nemmeno dire di avere quell’intimità sufficiente a giustificare la frenesia con la quale stava affrontando quell’assurda corsa contro il tempo per raggiungerlo, prima che fosse troppo tardi.
"No" - si disse - "non dirlo nemmeno per scherzo".
Di sicuro continuavano a riecheggiare nella sua testa le parole di Luigi, il custode del porticciolo, così fredde e impersonali:
"Se arrivava mezz’ora prima, signor Federico, avrebbe visto andare via l’ambulanza a sirene spiegate. Ha fatto un gran baccano, sa? Napoleone ha avuto un infarto, mi sa che non ci arriva a sera."
E ancora di più, con quelle parole in mente, riviveva lucida la stessa improvvisa e inaspettata sensazione di sgomento, quella che lo aveva spinto a ritornare di corsa alla sua auto e che ora, in uno sprazzo di via libera, lo obbligava a spingere ancora di più il piede sull’acceleratore.

Giunse, dopo quasi quaranta minuti, davanti all’ospedale dove Luigi gli aveva detto che avevano portato Pierre, parcheggiò l’auto in qualche modo, incastrata tra un marciapiede e un segnale stradale che lo obbligò a uscire dal lato del passeggero, e si avviò di corsa verso l’ingresso del Pronto Soccorso.

"Lo hanno portato in Chirurgia Generale." Riuscì a farsi dire dall’impiegata dell’accoglienza e, senza nemmeno considerare la possibilità di prendere l’ascensore, affrontò l’enorme scalone che avrebbe dovuto salire per tutti gli stramaledettissimi otto piani degli altri reparti che stavano sotto quello che doveva raggiungere.

Arrivò, infine, all’ottavo piano dalle cui finestre si poteva ammirare l’orizzonte del mare, calmo e maestoso come non mai, e pensò: "Resisti, Napoleone, resisti che il mare ti guarda."

Si intrufolò nel corridoio che cominciava subito dopo la porta con l’insegna del reparto e, immediatamente a destra, scorse la prima stanza sul cui uscio campeggiava la targhetta con scritto Caposala, quindi sommessamente bussò.

"Scusi, posso disturbarla?" Disse, aprendo la porta.
"Mi dica, prego." Rispose, con un gran sorriso, la donna seduta alla scrivania.
"Sto cercando un amico che hanno appena ricoverato qui da voi." Rivelò timidamente Federico.
"E, mi dica, il suo amico ha anche un nome?" Ribatté, con un sorriso ancora più ampio, la caposala.
"Ah, già, mi scusi, Emma" civettò Federico, sbirciando il nome della donna dalla targhetta appuntata sul camice bianco "si chiama Pierre, ecco, solo Pierre; in verità non ne conosco il cognome."
"Strano, per un amico, non trova?" Sottolineò Emma. "Sicuro di conoscerlo davvero?"
"Ha ragione, non so come spiegarglielo." Sorrise a sua volta Federico, provando a giocarsi la carta del fascino che, a giudicare dalle espressioni di Emma, sembrava funzionare. "Il fatto è che non siamo particolarmente intimi, ma lo conosco da molto tempo e, le dirò, Pierre non ha parenti in città; come avrà visto, non è nemmeno italiano di nascita e sono certo che non ci sarà nessuno che si preoccuperà per lui, a parte me."
"Sarà... Non dovrei, ma per lei farò uno strappo alla regola." Si arrese, infine, la donna. "Posso dirle che il suo amico sta benone o, almeno, sta molto meglio di quello che si poteva pensare. I sintomi che accusava, tra cui un fortissimo dolore al petto, facevano pensare in tutto e per tutto a un infarto; invece, in realtà, si è trattato soltanto di fortissimo stress, una sindrome chiamata…" Si interruppe per cercare a tastoni sulla scrivania un foglio da cui leggere "…sindrome del cuore infranto, detta anche Tako Tsubo; insomma, il suo amico, a quanto pare, ha provato delle grandi emozioni ultimamente, cosa che naturalmente la sua età non può permettergli. Per il resto sta bene, come le ho detto."
"Ottimo, questa sì che è una buona notizia!" Esplose di gioia Federico. "Posso entrare a salutarlo?"
"Lei non è tipo che si accontenti facilmente, vero? Sa che non potrei nelle sue condizioni?" Rispose sulle sue la donna, simulando una severità che non  sapeva avere di fronte a quel sorriso. "Farò uno strappo alla regola, ma mi raccomando: non lo faccia stancare, non è nelle condizioni di farlo."

E, così dicendo, la donna si avviò nel lungo corridoio che sapeva di pulito, fermandosi davanti a una porta chiusa e, dopo aver appoggiato la mano sulla maniglia, si voltò verso l’uomo.
"Solo cinque minuti, ci vediamo dopo." Disse, come se entrambe fossero per metà una promessa e per metà una richiesta.
"D’accordo." Rispose Federico con sguardo ammiccante, e con cautela entrò nella stanza.

All’interno, l’uomo che aveva conosciuto con il nome di Napoleone, era sdraiato sul letto, collegato a un paio di macchinari che emettevano dei bip confortanti e a un’asta con le flebo,  sembrava che dormisse.
Federico chiuse con delicatezza la porta e fece un passo nella direzione dell’amico, proprio nel momento in cui Pierre aprì lentamente gli occhi e, appena lo riconobbe, lo salutò.
"Ciao, monsieur Federico, cosa ci fai al capezzale di questo povero vecchio?"
"Ciao, Pierre, mi hai fatto prendere un bello spavento; come ti senti? Mi hanno detto che non hai niente di grave, lo sai?"
"Sì, lo hanno detto anche a me. Mi hanno fatto una coronarographie e non è risultato niente, a parte il fatto che non sono più un ragazzino e non ho il diritto di emozionarmi, ma quello lo sapevo già." Rispose, con un sorriso accennato, il vecchio marinaio.
"Già... I ragazzini si possono permettere molte altre cose, per la verità. Ma, dimmi, è successo qualcosa di recente che ti possa spiegare tutto questo?"
"Chissà, c’est la vie." Cominciò a rispondere Pierre che fu, però, interrotto da un improvviso trambusto nel corridoio.
"Non mi interessa se c’è qualcun altro, io DEVO entrare!" Si sentì urlare con voce di donna.
"Le ripeto che non può, DEVE ASPETTARE!" Altra voce di donna.

Nel mentre, si sentirono rumori di porte aperte e subito chiuse, finché arrivò il turno della camera di Pierre e così i due uomini scoprirono di chi era quella voce tanto concitata.
Rosamarea si affacciò nella stanza e, con lo sguardo smarrito, osservò il suo anziano amico e il suo ex fidanzato in quel curioso quadretto che li faceva assomigliare a due amici seduti al bar, intenti a sorseggiare una limonata, non fosse stato per i macchinari e per le flebo.

"Tu, qui?!" Esordì Rosamarea.
"…non ci sarà nessuno che si preoccuperà per lui, a parte me..." Commentò Emma, stizzita e acida, lasciandoli soli.

Dopo un primo attimo di esitazione, fu Federico a rompere il silenzio imbarazzante: "Scusate, non avrei potuto immaginare, forse è meglio che io vada."
"No, s'il te plaît, resta. Ti posso spiegare," disse Pierre per bloccarlo "è colpa mia, sono stato io a dire a Luigi, qualche giorno fa, di telefonare alla signorina se mi fosse successo qualcosa e si capisce che il nostro comune amico ha trovato il modo di avvisarla anche se, per fortuna, questa volta non è servito affatto."
"Non capisco" disse Federico "Luigi non mi ha detto nulla di tutto ciò." Mentre, in effetti, ricordava di non avergli neanche dato il tempo per farlo.

"Non c’è niente da capire, amico mio" rispose calmo, Pierre "sono solo al mondo, di sicuro lo sono qui in Italia, e questo povero vecchio ha solo il desiderio di dire addio alla vita avendo accanto qualcuno di familiare, nulla di più."

Rosamarea, che fino a quel punto si era limitata ad ascoltare immobile, attonita e incredula, alternando lo sguardo a destra e a sinistra verso i due uomini, e limitandosi a chiudere la porta alle sue spalle per tenere alla larga l’arpia con il camice, si decise a parlare: "Scusate, sono qui e mi fa immensamente piacere, ma qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?"
"Si è trattato di un falso allarme." Rispose Federico e continuò raccontandogli, per filo e per segno, tutto ciò che aveva scoperto grazie a Emma.
"Accidenti, che bella notizia!" Disse Rosamarea, finalmente sollevata dall’ansia che la telefonata ricevuta da Luigi le aveva messo addosso e libera, a questo punto, di soddisfare la sua curiosità. "Scusami, Pierre, se te lo chiedo. Ero a casa che leggevo un libro e mi arriva la telefonata di Luigi che mi dice di te, ma perché proprio io?"
"Conosci i Tarocchi?" Le chiese Pierre, dopo ben più di un attimo di esitazione e quasi di malavoglia.
"Non proprio…" Rispose Rosamarea. "Cosa c’entrano i Tarocchi, adesso?"
"I Tarocchi c’entrano sempre." ribatté Pierre. "C’è stato un momento della mia vita nel quale i Tarocchi erano tutto: il sole e la luna, la terra e il cielo, il bianco e il nero. Improvvisamente, o forse per causa del destino, sono stati soltanto il buio e nulla più. Poi ho conosciuto te, che sei il Chiarimento delle Sibille del Destino." Concluse il vecchio, con tono incomprensibile alle orecchie di Rosamarea.

"Continuo a non capire." Sbottò confusa, la donna, mentre era il turno di Federico, quello di restare ad ascoltare in silenzio. "C’è qualcosa che vuoi dirmi?"

Il vecchio francese, risollevandosi lentamente dal capezzale, girò lo sguardo verso Federico che sembrò, per un attimo, lasciargli intendere con lo sguardo di capirci ancora meno della donna, poi tornò a fissare con occhi stanchi Rosamarea, che pendeva letteralmente dalle sue labbra, e cominciò a parlare: "Tu vieni da un piccolo paesino sul mare, n'est ce pas?"
La donna fece di sì con la testa.
"E sei cresciuta da sola con tua madre?" Proseguì Pierre.
Rosamarea continuò ad annuire come una scolaretta all’interrogazione.
"Non hai mai conosciuto il tuo vero padre. Anche questo è vero?"
Ancora la testa che beccheggiava.
Ecco, tu sei la carta del Chiarimento, quello che prima o poi deve esserci, è come se la portassi con te da sempre.
"Ma…" Fece per dire la donna, ma non le venivano le parole.

"I tarocchi possono tutto, ma non possono niente se non c’è nessuno che li legga. Io credo di poter leggere la tua carta, se così si può dire." Concluse il vecchio marinaio, riappoggiando il capo al cuscino, ormai stanco.

"Ora dovete lasciarlo riposare!" Proruppe nella stanza la Caposala, senza l’ombra dei sorrisi che aveva riservato a Federico poco prima.
"Ha ragione lei." Soggiunse Pierre, ormai a occhi chiusi e con un filo di voce. "Tornate presto a trovarmi, ve ne prego."

I due uscirono dalla stanza piuttosto smarriti e  increduli delle parole dell’amico che, per un attimo, credettero stesse delirando.
Fu Rosamarea a rompere il ghiaccio e, guardando Federico negli occhi, gli disse: "Senti, magari è l’ultima cosa che vorresti fare adesso, ma io devo chiedertelo. Le parole di Pierre mi hanno messa nel panico e non ce la faccio a restare da sola, avresti voglia di accompagnarmi a bere un caffè?"

L’uomo, in cuor suo, sapeva di volerlo fortemente ma, per un attimo, fu tentato di inventare una scusa. La solita paura di... Ma sì, di niente!

"Certo, se fa piacere a te, fa piacere anche a me." Rispose con poco interesse, Federico, e si sentì subito un cretino per aver detto una cosa così banale. "C’è un posto che preferisci? A me va bene qualsiasi cosa!" Aggiunse in fretta nel tentativo di apparire più entusiasta.
"Non saprei, ma…" Rispose Rosamarea, per nulla avveduta dell’impaccio di Federico "…Tutte quelle storie sui Tarocchi... Ci sono! So dove voglio andare!"

E trascinò Federico giù per le scale.


CAPITOLO SEDICI
(Scritto da Daniela Quadri)

Non vedeva l’ora di arrivare a casa. Le emozioni di quella giornata le formicolavano ancora sotto pelle. «È solo adrenalina» si disse, cercando di calmarsi un po’, mentre guidava sotto una pioggia battente. Non era facile. Prima la telefonata di Luigi e la corsa in ospedale da Pierre, poi il caffè preso con Federico - come diavolo le era venuto in mente di invitarlo? Tanto più che le era sembrato freddo, quasi infastidito dalla sua proposta - e, infine, quel locale, dove aveva sperato di incontrare di nuovo quella strana donna, Bianca, ma lei non c’era.

E, soprattutto, non riusciva a togliersi dalla mente le parole di Pierre… Perché le aveva parlato di tarocchi e l’aveva chiamata Il Chiarimento delle Sibille? Cosa voleva farle capire?

La pioggia, intanto, scrosciava così forte, che i tergicristalli facevano fatica a pulire il parabrezza.

Rosamarea lanciò un’occhiata all’orologio; se si fosse sbrigata ce l’avrebbe fatta. Ancora mezz’ora alla fine dell’orario di visita, e lei doveva parlare da sola con Pierre. A tutti i costi.

Sterzò con decisione, invertendo il senso di marcia, e premette sull’acceleratore; tanto da quelle parti, di traffico, ce n’era ben poco, e nemmeno pattuglie della stradale.

Per un attimo marosi scuri come muraglie si agitarono nella sua mente, poi l’auto sbandò sull’asfalto bagnato, e uno schianto risuonò nel cielo di lavagna.

«Stooop! Buona la prima! Mezz’ora di pausa per il pranzo, poi gli attori della scena 587 si preparino a girare» Grida l’aiuto regista, da dietro una delle macchine da presa che affollano il set.

Rimango a guardare la folla di divi e comparse che sciamano vocianti verso il locale mensa, e sorrido. Già, sorrido di quel piccolo mondo di invidia, superbia, incapacità e declino che mi passa accanto. Così lontano, eppure così tremendamente simile alla vita reale.


«Se lei oggi è qua, è perché abbiamo un problema. Anzi no, due. Il primo è che Veronica Belloni - lei sa chi è Veronica Belloni, vero? Ma è l’interprete di Rosamarea! - ha deciso di abbandonare il set. Questioni di cachet, ma certi ricatti non piacciono alla produzione, e quindi la signora Belloni dovrà uscire di scena. A lei inventarsi qualcosa di plausibile, e che non pregiudichi il proseguimento della fiction con una nuova protagonista, s’intende. E il secondo è che la produzione vuole, letteralmente, veder schizzare alle stelle gli indici d’ascolto. Rosamarea piace, non c’è dubbio, ma… Ma i sondaggi ci dicono che dobbiamo allargare il nostro audience. Non solo casalinghe e pensionati, ma anche giovani. Sì, proprio così, i giovani, e con questo intendo gli spettatori tra i 20 e i 35 anni. Quindi il personaggio di Rosamarea andrà modificato. Ci serve qualcosa di più adatto alla nuova protagonista, Marina Mezzanotte, un astro nascente dei botteghini! E, naturalmente, di più moderno, solare, aperto… Nessun problema, vero?».

La mano del vice assistente alla produzione era sgusciata tra le mie come un’anguilla, prima che riuscissi a trovare una risposta brillante, se non intelligente.

Un bel casino, cazzo! Possibile che non me ne andasse mai bene una? È vero, quel lavoro mi era capitato per puro culo, solo perché l’autrice del personaggio di Rosamarea, una tipa che se la tirava come una fisarmonica, era stata chiamata a Hollywood per la sceneggiatura di una soap ambientata, guarda un po’, tra le corsie di un ospedale. Aveva mollato tutto, e la produzione in panico mi aveva trovato. Credo sulle Pagine Gialle, alla voce autrici - sceneggiatrici di belle speranze, a prezzi modici. Ma, dopotutto, mi avevano ingaggiata, dopo aver scorso, distrattamente, qualche riga di un paio di lavori che avevo portato, come faccio sempre, nel mio book di presentazione.

Rosamarea… Solo il nome mi fa venire la pelle d’oca! Pensare che, fin da ragazzina, il mio sogno era diventare una scrittrice di thriller, ma una di quelle di successo! Una star come Patricia Cornwell tanto per intenderci, e, invece… Invece di Kay Scarpetta a me era toccata Rosamarea! Ma dove cavolo erano andati a pescare un nome così… così inverosimile! E poi si lamentavano che solo casalinghe e pensionati seguivano la fiction… Eccicredo!
Vabbè, a parte il nome da Piccolo Mondo Antico, almeno lo stipendio arriva regolarmente, e, diciamocelo, è l’unica cosa di cui m’importa qualcosa.

Dormire in alberghetti, dove anche le cimici si vergognano a mettere su casa, e dover saltare il pranzo, un giorno sì e un altro ancora, con la scusa di una dieta, peraltro senza nessun effetto visibile, mi avevano convinta ad abbandonare i miei sogni di gloria.

Rosamarea va benissimo, anche se… Anche se, a dirla tutta, un po’ mi sta sulle palle. Macché un po’, alla grande! Allora, tanto per cominciare, Rosamarea, anche se nessuno si è preso la briga di farne una descrizione dettagliata, è una gran gnocca. Ma sì, una di quelle donne che basta che arriccino il nasino e facciano tremolare un po’ la boccuccia a culo di gallina e, trac!, giù tutti gli uomini ai suoi piedi. E perché pensavate che quei due fessacchiotti di Federico e Dario se la contendessero come un tappeto in un suk? Mica - Ahia, così scopro le mie origini brianzole! - per i capelli biondi come il grano, o gli occhioni blu come i laghi di montagna! Ma và, dai, siamo seri! Solo perché, e sui teleschermi questo si vede benissimo, porta una taglia 42 e una quinta, ben rifatta, di tette!

Invidia? Ovvio che sì! Se mi conosceste non vi sarebbe, mai e poi mai, venuto in mente di chiedermelo! Io che lotto sempre con la bilancia tra i 70 e gli 80 chili, e che ho un lato B che sembra la pista di atterraggio di una portaerei a propulsione nucleare!

Ma stendiamo un velo pietoso sulla faccenda del fisico, e parliamo un po’ di questo bocciolo di rosa, di questa viola mammola, di questa acqua cheta, di… Okay può bastare così, tanto ci siamo capiti, vero? Ma a voi sembra normale che, a una così, anche la peggiore delle disgrazie scivoli via, senza lasciarle nemmeno un capello fuori posto? Ma dico, figlia di padre ignoto, con madre invalida, abbandonata dal fidanzato, eppure… toh, cosa le succede? Trova subito un altro spasimante, manco a dirlo figo e pure intellettuale e - perché mica è finita qui! – tra un po’ scopre che il suo padre biologico è un riccone che va a comprare il giornale con lo yacht!

Manco un problemino alla bella e dolce Rosamarea! Tipo: ho fatto un’intervista del cazzo, e mi sono pure portata fuori a cena un possibile cliente e la mia datrice di lavoro mi ha messa alla porta. Oddio, ho scoperto di essere incinta e mo’ chi lo dice a Federico, o forse a Dario?

No, troppo perfetta, non esiste! Non ci sto e, adesso che ho carta bianca dalla produzione, ve lo farò vedere io chi è la vera Rosamarea!

La vogliono moderna, solare, aperta? In altre parole, una tipa facile? Basta chiedere e voilà! A breve sui vostri schermi incontrerete la nuova versione della vostra eroina. Tanto più che l’attrice, quella tal Marina Mezzanotte, mi sa che non avrà nessun problema a interpretarla, che molto aperta e solare lo è anche lei, da quel che si racconta…

Ma adesso basta con Rosamarea. Mi metto in fila anch’io per la mensa. Oggi che c’è? Ah ecco, la solita sbobba, ma mi tappo, metaforicamente, il naso e mangio. Non si sputa nel piatto in cui si mangia, mai!

Alzo gli occhi e incontro uno sguardo noto.

Mario, è così che lo chiamano tutti qui. L’uomo tuttofare, il galoppino di divi e divette. Ma in fondo un brav’uomo. Sempre gentile, anche con me, che non sono il massimo della socievolezza! Quando ci incontriamo, di sfuggita, in ascensore o nei corridoi, mi domanda come sto e mi augura buona giornata.
Roba d’altri tempi! Però… però lui non sa che l’ho fatto comparire, nei panni dell’uomo in blu, in alcune scene di Rosamarea. Proprio come Hitchcock faceva nei suoi film.

«Buongiorno, Mario! Tutto bene?» E mentre glielo chiedo, non aspetto neppure la risposta.

Sarai tu, uomo in blu, a cambiare il destino di Rosamarea.



CAPITOLO  DICIASSETTE

(scritto da Daniela Perego)

La tisana bollente alla melissa  con un cucchiaio di miele mi farà bene, oggi ho una strana inquietudine addosso, nonostante la giornata di sole; sposto continuamente il mazzo dei Tarocchi sul velluto rosso, mischiandoli meccanicamente e immaginando  di sovrapporli in ordine perfetto perché possano rivelare solo buoni auspici.
Osservo i clienti al bancone: una coppia anziana con un nipotino che strilla chiedendo il gelato promesso, un giovane con una ventiquattrore in pelle, elegantemente vestito, con un telefono sempre incollato all’orecchio, anche quando beve il caffè; sul marciapiede la folla dell’ora di punta passa velocemente davanti alle vetrate del bar. 
All’improvviso la noto, si ferma, indecisa se entrare o proseguire nel suo cammino, poi con passo svelto varca la soglia e punta dritto nella mia direzione.
“Buongiorno Bianca, si ricorda di me?”
“Ciao, Rosamarea. Ti stavo aspettando”
Si siede sul bordo della sedia mantenendo la schiena dritta, le mani poggiate sulle ginocchia stringono la borsetta come se si aspettasse che qualcuno la potesse scippare, si guarda attorno nervosamente e avvicinandosi al mio volto, sussurra: “Sono venuta per sapere cosa dicono i Tarocchi, devo dare una svolta alla mia vita e prendere decisioni importanti, non l’ho mai fatto prima, ma ora molte cose sono cambiate. Io, sono cambiata! Vediamo cos’hanno da dirmi le sue magiche figure.”

L’aspettavo da tempo. La prima volta che ci siamo incontrate, nel mostrarle le carte ho visto che avrebbe attraversato un periodo buio, di transizione, qualcosa che, come si dice, se non ti uccide ti cambia e ti fa vedere la vita attraverso occhi nuovi.
Con calma mischio i Tarocchi che, ancor più lentamente, scopro e metto ordinatamente in fila sul velluto rosso, ben visibili a Rosamarea che scruta le figure rappresentate cercando di immaginarne il significato.
“Il Carro, vediamo…  rappresenta la vettura verso un cambiamento, una svolta di rinnovamento dopo un avvenimento drastico.”
Lei, molto seriamente, quasi parlando tra sé, mi risponde: “Ho visto la morte in faccia in un incidente, qualche mese fa. La temo ancora molto, come solo chi vi è andato vicino può fare, per questo sono decisa a prendermi il meglio di ogni istante. Salirò su questo Carro della vittoria per intraprendere il viaggio di questa rinascita. La prima volta che ti vidi e mi avvicinai timidamente a questo tavolo, dicesti La Morte! Devi lasciare andare tutto ciò che è inutile, superfluo. Devi accettare un’inevitabile trasformazione, Rosamarea, ma prima dovrai liberarti del passato e confidare nella tua rinascita!, ti ricordi?”.
Questa nuova Rosamarea ha carattere, pensai,  il dolore ha forgiato la sua anima che la porta a guardare il futuro a fronte alta, decisa a prendersi le sue rivincite.
“Ho ancora molte domande sul mio passato. Poco prima dell’incidente ho saputo di non essere figlia biologica di mio padre, a cui volevo tanto bene, disperso in mare in una notte di tempesta. Mia madre l’ha tradito una sola volta, e io sono il frutto di quell’amore nascosto, fugace quanto indimenticabile verso un uomo venuto da lontano e sparito nel nulla. Al mio capezzale, tra gli altri è accorso Pierre, un anziano distinto signore conosciuto durante le gite al mare con il mio ex, Federico, e mi ha fatto una rivelazione che mi ha turbata non poco: è  lui il mio vero padre! Me l’ha rivelato tra i singhiozzi di un pianto angosciato appena mi sono svegliata dal coma... Ha incontrato mia madre sull’isola in mezzo all’azzurro del mediterraneo, dove lei stava giorni ad aspettare il marito di ritorno dalle battute di pesca; il fascino dello straniero per mia madre è stato irresistibile; mentre per Pierre, una semplice avventura per tentare di dimenticare un amore non corrisposto.”

Pierre, ha detto proprio quel nome? Pierre, il mio Pierre? No, non può essere… Sarà una stranissima coincidenza, chissà dove sarà… Magari un giorno Rosamarea tornerà qui con l’uomo di cui parla e potrò verificare se si tratta della stessa persona… Bevo un sorso d’acqua e riprendo a rivelare le carte.
“Il Diavolo, rappresenta la passione. Quella che adesso io vedo nei tuoi occhi, Rosamarea… Passione di vita ritrovata, passione d’amore, sesso. Hai parlato di un ex fidanzato, ma credo tu abbia una nuova mira di conquista, forse solo per una rivincita nei confronti del passato?”
Il suo sguardo si rabbuia un attimo, un velo di tristezza per chi non ha saputo apprezzare fino in fondo la sua dedizione, l’amore e la voglia di un’unione che lo completasse. Con un cenno della testa mi invita a proseguire nella lettura; rimangono solo due carte.
“L’Imperatrice” e le “Stelle”, cara ragazza, vogliono dire che tu vuoi essere ammirata, anche da più uomini, giochi a civettare, libera da legami, ma… la carta delle Stelle parla chiaro: vuol dire amore con la A maiuscola.”
“Io non gioco a civettare con gli uomini, sono profondamente delusa dall’amore a cui ho dato tutta me stessa senza avere niente in cambio, un sogno infranto dalla paura di un uomo che non sa prendere decisioni. Amerò sempre Federico, ma forse Cupido mi sta dando una nuova possibilità con una persona conosciuta per lavoro e voglio credere che questa amicizia possa diventare qualcosa di più. Queste stupide carte non dicono se il mio amore sarà ancora Federico o Dario?!”
Rosamarea mi guarda spazientita, ma mi distraggo per qualche attimo e mi pare che, d’improvviso, tutto abbia un senso. Rosamarea, Federico, Dario e Pierre…i nomi contenuti nella busta! Il mio sesto senso dice che presto tutti si ritroveranno insieme qui attorno a questo tavolo o in un’isola sperduta nell’azzurro del mediterraneo.
Ma Anna ed Emma, loro mancano ancora all’appello, chi saranno?


CAPITOLO DICIOTTO
(Scritto da Maria Rita Sanna)

“Bene, per oggi fermiamoci qui.”  
La voce del regista non ammetteva replica. “Tutti a casa, ci vediamo domani mattina alle sette!”
L’ultimo ad andare via fu Mario che, come ogni giorno, raccoglieva gli attrezzi delle scene, riordinava i camerini e preparava per l'indomani; proprio mentre stava entrando  nel camerino di Rosamarea sentì un lieve lamento. Bussò. Un colpo di tosse precedette il canonico “Avanti!”.
“Oh, scusi, non sapevo fosse ancora qui!” Disse Mario, imbarazzato. “Tutto a posto? Posso fare qualcosa per lei?”
“No, no, grazie, ma dammi pure del tu, anche se sono l’ultima arrivata possiamo parlare in confidenza”.
Anche Marina era imbarazzata, ma quell'uomo così gentile la faceva sentire a suo agio e, anzi, continuò: “Vedi, Mario mi sono trattenuta a riflettere e a chiedermi come mai in questa fiction non riescano a trovare la felicità per la protagonista… Ho visto che in questi mesi hanno cambiato già tre attrici, io sono la quarta, la produzione mi ha detto di essere solare e aperta, ma nel copione devo interpretare ancora una volta la sfigata. Quest'ultima scena, per esempio: ma ti pare che ancora debba capire le carte e non accettare il mio vero padre?”
Mario la prese dolcemente per mano: “Vieni, andiamo fuori da qui, conosco un localino niente male, a stomaco pieno si ragiona meglio!”
La serata trascorse lenta e piacevole per entrambi, si raccontarono le loro storie e si trovarono a star bene insieme, come vecchi amici. Mario non mancò di darle qualche dritta riguardo gli autori, li conosceva bene per essere stato a contatto con loro per più di dieci ore al giorno, tutti i giorni, dall’inizio delle riprese.
“Vedrai, andrà tutto bene, domani sarò vicino a te dal primo ciak! Non temere se quelli si infuriano, penserò io a loro!” Dicendole così, le strizzò l' occhio.

Nuovo giorno, nuove scene, cielo sereno, sole spaccapietre e voglia di spaccare il mondo. 
Marina era radiosa: “Oggi gli farò vedere io come si recita!”

Rosamarea davanti a Bianca, seduta con la schiena dritta, il mento alto e occhi che, più che parlare, fulminavano.
“Allora, Bianca, quest'ultima carta, il Diavolo, lo facciamo stramazzare all'inferno: io VOGLIO una passione per l'amore e per la vita. Non m'interessano le rivincite e il passato è passato. Adesso so che mia madre ha fatto uno sbaglio, l'ho perdonata e lei ha perdonato me. Ora so che il mio ex, Federico, ha bisogno di una svegliata e lo metterò alle strette per fargli prendere una decisione su di noi. So che Dario mi vuole già bene, anche se ci siamo poco frequentati. Per quanto riguarda Pierre... Lui è il mio vero padre e adesso sai che faccio? Vado a parlargli, che lui lo voglia o no!” Si alzò dalla sedia, quasi rovesciandola, e uscì dal locale.
“STOP!!!! Ma che fa quella pazza?!”.
“No, no riprendi!”.
“MARIOOOO! Dov'è il mio caffè?”
Una confusione di voci e persone regnava sul set. Mario, di corsa, arrivò con un caffè corretto e subito corse fuori inseguendo Rosamarea. L'auto era pronta davanti  all'edificio e la donna vi salì. Come d'accordo, andarono al molo a prendere Pierre, sicuri di trovarlo perché lui viveva nel cabinato di nove metri. In mezzo al traffico delle nove del mattino, la macchina sfrecciava irrispettosa dei segnali stradali e dei semafori; dietro di loro, il regista con la camera fuori dal finestrino  riprendeva l'auto in fuga, e l'aiutante al volante cercava di stare incollato ai fuggitivi.
“Il telefono squilla, capo!”
“Lascialo squillare, tanto è il Boss incazzato nero. Ma che strano, l'ho visto con gli occhi a mezza luna e mi è sembrato sbronzo!”
Arrivati alla barca trovarono Pierre intento a lucidare la strumentazione di bordo, si stupì nel vederli lì a quell'ora. Quel giorno non era il suo turno per recitare. “Pierre!!!” Tuonò Rosamarea. 
Aveva gli occhi infuocati, come il sole di quella mattina e una forza come una locomotiva senza freni. “Sono venuta a parlarti del mio... nostro passato. Voglio sapere una volta per tutte se tu hai amato mia madre o se per te è stato solo un piacevole passatempo!”
Pierre impietrito da tale vigore, non ebbe il tempo di pensare se fosse realtà o scena della fiction. Si trovò naso contro naso con la donna.
Tornarono i pugni allo stomaco: “Va bene, ti dirò tutto, ma ti prego, andiamo da Bianca, la cartomante, devo parlare anche con lei.”
Mario, a braccia incrociate, controllava che nessuno importunasse i due, e il regista riprendeva a pochi passi da loro.

CAPITOLO DICIANNOVE
(Scritto da Tania Mignani)

Osservo tutto ciò che sta accadendo ad occhi spalancati, mi pare di sognare, ma è tutto vero ed è dannatamente divertente! E sì che quando Marina mi ha telefonato la scorsa notte e mi ha parlato di questa insolita idea di sceneggiatura alla quale avremmo dovuto lavorare insieme, mai mi sarei aspettata il cataclisma che sta succedendo in questo momento.

Gli attori stanno recitando “a braccio” facendo emergere le loro reali nature. Cerco di prendere velocemente qualche appunto per proseguire con le prossime puntate, tutta la produzione è in subbuglio, ora che il materiale girato è al montaggio, e noi tutti siamo in attesa di vedere il risultato finale.
Mentre l’intera troupe, ancora eccitata da questa inconsueta registrazione, si sta affrettando per sistemare il più possibile quelli che paiono i resti di un tornado, mi soffermo a osservare persone e personaggi.
La “nuova” Rosamarea ci ha sorpreso in maniera sconvolgente. Siamo stati fuorviati dal classico clichè della giovane attrice considerata più per le indiscutibili doti fisiche che per le capacità recitative. In realtà è una ragazza molto determinata e piena di interessi, tra i quali la recitazione che sta studiando con i migliori maestri. Ora, decisamente più rilassata, sta scherzando con alcuni componenti del cast tra i quali il nostro Federico, il quale pare celasse una insospettabile verve sotto il suo aspetto un po’ distaccato  e snob.
Pur peccando di immodestia credo che una delle mie doti migliori, di gran lunga superiore alle mia abilità narrative, sia proprio questa innata capacità di carpire il vero carattere delle persone. Cerco di non soffermarmi alla prima impressione perché sono convinta che tutti noi indossiamo una sorta di maschera e che altro non siamo che attori sempre attenti a rientrare nei canoni del ruolo che ci viene affidato. Mi piace andare “al di là”, fargli calare  quella inutile maschera e svelare la loro vera natura. A volte sono piacevoli sorprese, altre volte solo enormi delusioni, ma la vita, del resto, non è forse anch’essa una fiction con un copione in continuo divenire e trame banali o eccitanti che si susseguono giorno dopo giorno?

Interrompo queste divagazioni e noto in un angolo  Dario pensieroso e assorto, sta fumando l’ennesima sigaretta, solleva lo sguardo verso di me, abbozza un lieve sorriso e con un cenno me ne offre una. Rispondo al suo sorriso e mi avvicino; mentre fumiamo commentiamo l’accaduto, Dario mi ha raccontato molto di sé nei giorni precedenti, del suo tormentato e doloroso passato, delle sue aspettative deluse e, soprattutto, di quel romanzo che ancora giace in un cassetto nell’attesa  che lui raccolga il coraggio necessario per mettersi in gioco. Le sue confidenze, il suo mettersi a nudo svelando debolezze e frustrazioni hanno fatto in modo che creassi quello che reputo il personaggio più sfaccettato e interessante della fiction.

Mentre osservo compiaciuta e soddisfatta questo piccolo mondo, in cui realtà e finzione si incontrano dando vita a nuove storie da raccontare, ciò che scorgo in fondo alla sala attrae sempre più la mia attenzione. Bianca e Pierre sono seduti uno a fianco dell’altra. Lui stringe tra le sue le mani di Bianca, sussurrandole qualcosa all’orecchio, mentre lei lo guarda con occhi visibilmente commossi.

Una figura si staglia al centro di questo scenario, ci sta osservando con aria sorniona sorridendo appagato: Mario il tuttofare, l’uomo in blu. 
Il vero e unico regista di questa assurda e complicata commedia chiamata vita.



CAPITOLO VENTI
(scritto da Daniela Quadri)

«Ehi tu! Fai attenzione con quegli arnesi, o stasera torno a casa con un occhio in meno!»
«Tu sguercio, e io fulminato come un cerino usato, se non la pianti di girarmi intorno con quel dannato cavo!»

Il solito trambusto tra macchinisti, elettricisti e attrezzisti che si apprestano a smontare il set. Quante volte ho assistito alle stesse scene? Ormai non me lo ricordo nemmeno più.

Ma ricordo ancora perfettamente il momento, l’istante preciso, quello insomma che si stampa a fuoco nella memoria, in cui mi venne affidato il mio primo incarico.

Ero appena giunto a destinazione; un incidente banale, quasi ridicolo – voi come definireste, altrimenti, un classico ruzzolone giù per le scale con rottura dell’osso del collo, se non un’enorme sfiga? – aveva messo la parola fine al mio viaggio terreno.

Non avevo mai seriamente pensato a quello che avrei trovato quando il mio cuore avesse cessato di battere. Nei pochi momenti mistici della mia esistenza fisica – scusate gli incisi, ma non voglio dilungarmi troppo a raccontarvi la mia vita di direttore di banca irreprensibile, irremovibile e, soprattutto, con l’indice MIBTEL al posto del cuore – mi ero immaginato un luogo pieno di luce, cori angelici e, per noi ex-banchieri, soffici nuvole cariche di estratti conto da sei zeri in su, in cui tuffarsi a piacimento. In quelli di grande depressione, come dopo l’annuncio del crollo in Borsa dei titoli della Brugola & Affini nel ’83, mi vedevo, bendato e immerso fino alla cintola, in un fiume tumultuoso color cioccolato, anche se l’odore non era proprio quello.

Così quando aprii gli occhi e vidi china su di me una bella signora con un foglio in mano, rimasi alquanto stupito e senza parole.

«Mario? È il tuo nome, vero? Bene, allora da oggi puoi considerarti nostro ospite. Non si sta troppo male qui, sai. Vitto e alloggio sono assicurati e la compagnia, tutte persone selezionate e simpatiche, non manca. In cambio, noi, la Direzione intendo, chiediamo solo la tua collaborazione al nostro progetto» Mi incalzò, senza darmi nemmeno il tempo di deglutire.

Di quale progetto andava cianciando? E cosa diavolo voleva da me quella strana donna, sicuramente affetta da qualche serio disturbo mentale?

«Il progetto RCU, Recupero Casi Umani, ci sta particolarmente a cuore, e la Direzione è sempre alla ricerca di AS, entusiasti e motivati. Sono sicura che tu, Mario, ci darai molte soddisfazioni!» Proseguì, sventolandomi il foglio sotto il naso.

La questione si stava ingarbugliando sempre più. Cosa cavolo erano gli AS? E quali risultati si aspettavano da me?

Come se mi leggesse nel pensiero, adesso so con certezza che accadde proprio così, la donna senza nome mi consegnò il foglio; in effetti si trattava di un elenco di nomi e niente più. Rosamarea, Federico, Dario, Bianca, Pierre e altri ancora. Forse costoro avevano debiti in sospeso con la Direzione, e io ero stato scelto come esattore per via della mia brillante carriera in banca?

«I nostri Addetti Sottocopertura agiscono in nome e per conto della Direzione e per ogni Caso Umano recuperato spetta loro una percentuale.  In altre parole, il tuo periodo di soggiorno qui sarà prolungato di un ulteriore 10% calcolato sugli anni di vita trascorsi sulla terra per ogni essere umano che riporterai sulla via della Rivelazione. Ecco, prendi. Questo è il contratto. Una firma qui sotto e una anche qui dietro ed è tutto regolarizzato. Bene, Mario, mi congratulo con te! Adesso sei un AS a tutti gli effetti, vai e fatti onore! Ah dimenticavo! Provvederò io stessa a consegnare una copia di questo elenco a una persona che da lungo tempo ci fa da contatto tra gli umani» E con una spinta, che di metafisico aveva ben poco, mi fece ruzzolare giù per quello che sembrava un enorme scivolo d’acqua senza fine.

Fu così che mi ritrovai di nuovo sulla Terra, dapprima nei panni di Mario-portinaio e poi di Mario-il tuttofare. Io, abituato a gestire e prendere decisioni, faticai non poco ad abituarmi al ruolo subalterno di umile aiutante di scena. Ma se sulle prime mordevo il freno e, ogni tanto, dovevo darmi un pizzicotto per non prendere a male parole quelle zucche vuote dei Casi Umani che mi erano stati affidati, poi cominciai a prenderci gusto.

Via, via che li vedevo allontanarsi dalle false chimere, dalle fantasie malate che si ostinavano a rincorrere, e li osservavo avvicinarsi al loro "Io" più profondo, mi si riempiva il cuore di felicità. Una sensazione del tutto nuova anche per me, che, oltre al MIBTEL di cui sopra, non avevo mai conosciuto altre fonti di gioia.

«Mario, andiamo a prenderci un caffè?»

Guardo l’orologio; mi restano ancora dieci minuti. Poi dovrò tornare lassù, o laggiù, chi lo sa, a fare rapporto alla signora senza nome.  E, come minimo, mi attenderà un nuovo elenco su cui lavorare. Altri nomi, altri volti, altri Casi Umani da recuperare.

«Volentieri, Rosamarea! Un caffè ci vuole proprio. Sempre al bar qui all’angolo?»

Mi accorgo, solo una frazione di secondo in ritardo, di averla chiamata Rosamarea. Ma la donna che mi sta davanti non ha più il volto dell’eroina della soap ormai conclusa. I suoi occhi, adesso, hanno il colore dell’orizzonte; profondi e consapevoli, come può essere solo chi ha saputo accettare la propria esistenza, senza rimpianti né rimorsi. Qui e adesso.

Per tutto il resto è già pronta un’altra storia.    



  E ADESSO...




 Rosamarea

Un romanzo a più mani
da un' idea di
Stefania Convalle 

Autori
(in ordine alfabetico)

Carlo Baroni, che ha dato vita al personaggio di Dario

Stefania Convalle, che ha creato l'incipit, Rosamarea, Bianca e Mario, e che ha curato (quando necessitava) la regia;-)

Michele Fierro, che ha creato Federico e sviluppato Pierre/Napoleone.

Carmen Gulino, che ha portato avanti per un tratto, Dario e Rosamarea.

Tania Mignani, che ha sviluppato Rosamarea e Dario; e che ha curato il penultimo capitolo, tirando le somme di tutta la storia.

Daniela Perego, che ha curato il personaggio di Bianca fungendo da perno per i vari protagonisti.

Daniela Quadri, che ha curato il personaggio di Rosamarea creando numerosi colpi di scena e il famoso Uomo in Blu; che ha scritto un capitolo "di rottura" cambiando la rotta della storia, e l'ultimo capitolo, magistralmente.

Maria Rita Sanna, che ha portato avanti Rosamarea e tutto il set!

Ma voglio aggiungere anche...

Grazie a:

Maria Rita Sanna, Carmen Gulino, per essersi buttate in questo esperimento di scrittura. Carmen ha mostrato tutto il suo lato romantico;-) e Maria Rita una fantasia molto vivace! :-D

Tania Mignani, vincitrice del mio Premio Letterario "Dentro l'amore" (Seconda edizione), che ha confermato, con questa prova, di aver meritato il primo premio!

Michele Fierro, che ha dato prova di una prosa convincente e ben strutturata, lasciando spazio (a tratti;-)...) alla scrittura di pancia;-) da me tanto predicata!

Carlo Baroni, che ha introdotto nella narrazione un personaggio "fuori dal coro", Dario, ma che ha creato quel pizzico di spirito trasgressivo che non guasta mai.

Daniela Perego, che ha visto il suo esordio "in pubblico" con una prestazione ottima. Mia allieva del laboratorio di scrittura, i suoi capitoli mi hanno riempito di orgoglio,  credo che in lei ci sia la stoffa della scrittrice :-).

Daniela Quadri, scrittrice che ha dato conferma della sua abilità e versatilità, scrivendo capitoli con un carattere differente a seconda della narrazione richiesta; è riuscita, con mia grande soddisfazione, a scrivere un capitolo talmente "di pancia" che più di pancia non si poteva! Ha chiuso il romanzo con un capitolo gestito con maestria, come solo chi si chiama scrittore sa fare.

...

Direi che l'esperimento di scrittura a più mani possa considerarsi riuscito! Ci siamo divertiti, abbiamo creato una bella storia, intrigante, gestendola "in divenire", portandola avanti tra colpi di scena vari e consegnando persino una morale interessante al lettore.

Grazie ai lettori che ci hanno seguito con affetto e partecipazione! Ci saranno altre prove del genere, visto che vi è piaciuto!

E adesso, per davvero, siamo alla fine...


Alla prossima

dalla vostra

Stefania Convalle