Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

lunedì 24 febbraio 2014

Numero 195 - Rivista on line, numero 4 - 24 Febbraio 2014





Dietro la porta di Stefi
Rivista settimanale on line
N° 4 del 24 Febbraio 2014

In questo numero:
1) Pillole per vivere meglio a cura di Stefania Convalle
2) L'angolo della poesia: il Destino secondo Wislawa                Szymborska a cura di Stefania Convalle
3) La vignetta del giorno: chicca di Mafalda.
4) Edward Hopper: di Cinzia, in arte Fidanzacinzia.
5) I rimedi della nonna: la proposta di oggi è di Cinzia (Fidanzacinzia)

Buona lettura!


Tratto da
"Non perderti in un bicchier d'acqua"
(Cento regole per vivere meglio)
di Richard Carlson

Quando sei di malumore ti sembra tutto nero

Il tuo umore spesso può trarti in inganno. A volte può convincerti che la tua vita sia assai peggio di quanto in realtà non sia. Quando invece sei di buon umore, la vita ti appare magnifica. Hai senso delle proporzioni, buon senso e saggezza. Col buon umore, le brutte cose non sembrano poi tanto brutte, i problemi sembrano meno gravi e di più facile soluzione. Quando sei di buon umore, le relazioni sembrano andare a gonfie vele e la comunicazione è facile. Se ti criticano, te la prendi con calma.

Al contrario, quando sei di cattivo umore, la vita ti sembra intollerabilmente grave e difficile. Hai pochissimo senso delle proporzioni. Prendi le cose di petto, la minima divergenza ti sembra un affronto personale e spesso fraintendi chi ti sta vicino e vedi malvagie intenzioni nelle azioni degli altri.

Qui sta il guaio della gente: non capisce che gli umori vanno e vengono in continuazione. E crede invece che la propria vita sia di colpo peggiorata nell'ultimo giorno o addirittura nell'ultima ora. Perciò chi si alza di buon umore, magari ama sua moglie, il suo lavoro e la sua auto. Probabilmente guarda con ottimismo al proprio futuro e si sente soddisfatto del passato. Ma verso sera, il suo buon umore si guasta. Ed ecco allora sostenere di odiare il proprio lavoro, pensare che la moglie è una rompiscatole, che la sua auto è un ferrovecchio e la sua carriera è ad un punto morto. Se gli chiedete qualcosa a proposito della sua infanzia mentre è di cattivo umore, probabilmente vi risponderà di avere avuto un'infanzia infelice. E magari darà ai genitori la colpa di tutti i suoi guai.

Un cambiamento così rapido e drastico può sembrare assurdo, addirittura ridicolo - ma ci caschiamo tutti quanti. Quando siamo di cattivo umore, perdiamo il senso delle proporzioni e tutto ci sembra urgente. Dimentichiamo completamente che quando siamo di buon umore vediamo le cose ben diversamente. In circostanze "identiche"  la persona con cui siamo sposati, l'ufficio in cui lavoriamo, l'auto che guidiamo, il nostro futuro, la nostra infanzia, ci sembrano completamente diversi, a seconda del nostro umore! Quando siamo giù, invece di dare la colpa al cattivo umore come sarebbe giusto, tendiamo a pensare che la nostra vita sia tutta un disastro. Sembra addirittura che siamo convinti che nelle ultime due ore la nostra vita sia andata letteralmente in pezzi.

La verità è che la vita non è quasi mai così brutta come può sembrarti nei momenti di malumore. Invece di restare immusonito e coltivare la convinzione che stai finalmente vedendo la vita in modo realistico, prova a mettere in dubbio il tuo giudizio. Ricorda:" Sì, è vero, mi sento arrabbiato (o frustrato, stressato, depresso); sono di malumore. Mi sento sempre negativo, quando sono giù di corda." 
Quando sei di malumore, impara a lasciar correre: consideralo un'inevitabile condizione umana che col tempo passerà, se non ci badi troppo. Evita di analizzare la tua vita proprio quando sei di malumore. E' un sistema emotivamente suicida. Se hai veramente un problema, il problema resterà anche quando il tuo umore migliorerà. Il trucco è ringraziare Dio per i momenti di buonumore e restare sereni in quelli di malumore: non bisogna prenderli troppo sul serio. 

La prossima volta che ti senti giù, per qualsiasi ragione, ricorda a te stesso: "Anche questa passerà." E passerà davvero.

L'angolo della poesia

Camille Claudel "la Valse" (1889-1895)

AMORE A PRIMA VISTA


Sono entrambi convinti

che un sentimento improvviso li unì.

E' bella una tale certezza

ma l'incertezza è più bella.


Non conoscendosi, credono

che non sia mai successo nulla tra loro.

Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi

dove da tempo potevano incrociarsi?


Vorrei chiedere loro

se non ricordano -

una volta un faccia a faccia

in qualche porta girevole?

uno "scusi" nella ressa?

un "ha sbagliato numero" nella cornetta?

- ma conosco la risposta.

No, non ricordano.


Li stupirebbe molto sapere

che già da parecchio tempo

il caso giocava con loro.


Non ancora pronto del tutto

a mutarsi per loro destino,

li avvicinava, li allontanava,

gli tagliava la strada

e soffocando una risata

con un salto si scansava.


Vi furono segni, segnali, 

che importa se indecifrabili.

Forse tre anni fa

o lo scorso martedì

una fogliolina volò via

da una spalla a un'altra?

Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.

Chissà, forse già la palla

tra i cespugli dell'infanzia?


Vi furono maniglie e campanelli

su cui anzitempo

un tocco si posava su un tocco.

Valigie accostate nel deposito bagagli.

Una notte, forse, lo stesso sogno,

subito confuso al risveglio.


Ogni inizio infatti

è solo un seguito

e il libro degli eventi

è sempre aperto a metà.


Wislawa Szymborska

(1923 - 2012)

Premio Nobel per la Letteratura nel 1996.



La vignetta del giorno
(L'acume dei bambini)


Edward Hopper (1882 -1967)
di 
Cinzia


L’arte di Hopper è molto realistica, i suoi quadri rappresentano un’America attuale, fatta di binari della ferrovia, fari sulla costa atlantica, mansarde vittoriane, case coloniche di legno bianco, distributori di benzina, caffè, camere d’albergo, drugstore, uffici, negozi.









Questo suo realismo di “cose”, contemporaneamente, esalta un irrealismo di “vita”; tutto è fermo, la New York degli anni Venti e Trenta viene fissata sulle sue tele come un luogo deserto, illuminata da luci fredde, geometriche, i pochi ‘attori’ rappresentati nei luoghi sono statici, senza nessun copione da recitare.










Hopper, dunque, dipinge un’atmosfera metafisica, un’ora eterna, un’immobilità senza suono, un momento in cui le rappresentazioni comuni (una vetrina di un negozio, un bar, ecc.) diventano simboli misteriosi, perdendo la loro ovvietà.









Nel suo dipinto “Gas”, per la prima volta viene rappresentata una pompa di benzina, preludio della Pop Art.





In questa opera, la stazione della Mobilgas (colorata ed illuminata da luce artificiale) diventa un simbolo doloroso del progresso moderno: l’invenzione della macchina non ha sciolto i dubbi dell’uomo contemporaneo che non sa da dove viene né dove porta la strada che si perde nell’oscurità del bosco.

In seguito ad un viaggio a Parigi la sua pittura acquista una luminosità nuova.



Infatti, invece dei consueti neri e gamme di terra, introduce le tonalità dei gialli, degli azzurri pallidi, dei rosa; i soggetti sono volumetrici, affinché suggeriscano un senso di durata e stabilità, come molte architetture viste di scorcio.

E’ la prima volta che dipinge all’aria aperta, per le strade; inoltre, la luminosità parigina gli sembra diversa da quella americana, anche le ombre gli sembrano più luminose, sostiene ci sia più luce riflessa.

La luce è il centro del suo interesse, il nucleo della sua ricerca artistica di sempre.

La luce filtrata dalla mente di Hopper diventa colore che costruisce gli oggetti, i corpi, le sensazioni.

La sua pittura si inserisce bene in un Post-impressionismo.

Anche quando dipinge il mare cerca il volume tra scogliere che contrastano il violento movimento delle acque.

Dalla metà degli anni Venti, soprattutto partendo dalla tela “Il faro sulla collina” (1927), il suo stile non ha più periodizzazione: la presenza costante del sole diventa il protagonista (anche se mai dipinto esplicitamente), illuminando, penetrando dentro stanze solitarie, esprimendo quietamente la nostalgia o la ricerca di una dimensione trascendente.

Nell’ultimo decennio della sua vita è tormentato dal pensiero della morte senza trovare consolazione in nulla; è il periodo in cui dipinge “Sole in un caffè” (1958) – “Secondo piano al sole” (1960) – “Gente al sole” (1960) – “Una donna nel sole” (1961) – “Sole in una stanza vuota” (1963).





Lui stesso afferma: “Tutto quello che volevo fare era dipingere la luce del sole sul lato di una casa.” – riaffiora, quindi, l’ossessione della luce che non lo abbandona più dopo il ritorno da Parigi, viaggio compiuto mezzo secolo prima, ma che non lo aveva mai abbandonato.

Per essere un artista, Hopper appare fin troppo semplice ed austero, ma, in realtà, possiede una personalità forte, decisa, che gli permette di esercitare un rigido controllo sul mondo che lo circonda.

La sua carriera artistica è una lunga e costante ricerca della sua profonda identità individuale.

Hopper è un uomo tranquillo, riservato e discreto, che lavora lontano dai clamori quasi come un eremita, rifuggendo dai luoghi della mondanità.

E’ interessante notare il rapporto intimo che nasce tra alcuni dipinti di Hopper e le pellicole cinematografiche di Alfred Hitchcock.

Basta osservare la casa vittoriana in cui si svolge l’azione del film “Psyco” per vedere che il regista si è ispirato all’edificio dipinto da Hopper in “Casa vicino alla ferrovia”.



Gli anni Cinquanta e Sessanta per Hopper sono carichi di premi e riconoscimenti, fino a quando l’artista si trova costretto a smettere di lavorare per problemi di salute.


Muore il 15 maggio 1967 nella sua casa-studio di New York; un anno prima dipinge la sua ultima opera “Due attori”.


Il dipinto si può considerare un vero e proprio testamento pittorico di Edward Hopper, il suo congedo, nel quale i due attori in costume, Pierrot e Pierrette, (nelle sembianze di Edward e della moglie Jo) si inchinano nel salutare gli spettatori.

E’ il suo modo originale di paragonare la vita ad una commedia nella quale ognuno di noi recita il proprio ruolo: il suo è stato quello di artista.

Sulla vita, Hopper dichiara “La vita interiore di un uomo è un regno vasto e variegato e non riguarda solo dei piacevoli accordi di colore, forma e disegno.
Il termine ‘vita’, come lo si usa in arte, è qualcosa che non si può disprezzare, perché coinvolge tutta l’esistenza: l’arte deve reagire all’esistenza, non evitarla.
La pittura deve occuparsi in modo più completo e meno evasivo della vita e dei fenomeni della natura, per poter tornare ad essere grande.”


I RIMEDI DELLA NONNA


Tisana per la tosse
suggerita da Cinzia

-       1 tazza da tè di acqua
-       4/5 brocche di garofano
-       3 pezzi di cannella
-       1 limone
-       Miele e ruhm


Bollire, per cinque minuti, una tazza di acqua insieme alle brocche di garofano ed ai pezzi di cannella.

L’infuso così ottenuto va filtrato e mescolato ad un limone spremuto, ad un cucchiaio di miele e mezzo bicchiere di ruhm che nel frattempo erano stati preparati a parte.

Va consumato molto caldo.

lunedì 17 febbraio 2014

Numero 194 - La rivista on line si arricchisce di vignette e molto altro:-) - 17 Febbraio 2014



Dietro la porta di Stefi
Rivista settimanale on line
n° 3 del 17 Febbraio 2014

In questo numero:
- Vi presento la redazione virtuale;-) di Stefania Convalle
- La vignetta della settimana
- Andy Warhol di Cinzia (in arte Fidanzacinzia)
- L'aforisma del giorno
- "In nome di Dio, dimmi chi sei!" di Francesco Meccariello
- L'angolo di Nonna Papera - Ricetta proposta da Giusi Inzirillo


Cari Lettori:-) Vi presento la redazione virtuale di Dietro la porta di Stefi: qui dentro ci siamo noi che, ogni settimana, diamo corpo a questa neo-rivista on line, solo per il piacere di farlo:-))
Mi piace pensare che in quella simpatica casetta della foto, Le Happy, ci si ritrovi per parlare insieme del numero successivo, proposte ed articoli. Al momento siamo in pochi, ma siamo talmente entusiasti che sembriamo almeno il doppio! Cinzia, poi, vale per tre!;-) 
Questa settimana il  numero si arricchisce di qualche elemento in più: una vignetta e un aforisma; ne ho scelti due che credo susciteranno una discussione, specialmente l'aforisma di Wilde: è una provocazione?
Fidanzacinzia ci regala un altro servizio fantastico su un artista geniale quale Warhol; un grazie particolare a lei che sta facendo davvero il lavoro della "giornalista", creando articoli per noi fatti di ricerca. Immagino il tempo che dedicherà loro e quindi voglio ringraziarla pubblicamente e farle i complimenti perché sta facendo cose davvero interessanti!
Oggi, poi, per gli amanti della letteratura, vi propongo un simpatico racconto di Francesco Meccariello, autore schivo, ma dalla penna fantastica! Non perdetevelo!
Infine, la ricetta della settimana è stata suggerita da Giusi Inzirillo, simpatica signora palermitana che ci ha voluto proporre un dolcetto davvero veloce e gustosissimo!

Insomma, una rivista che sta prendendo corpo sempre di più e che spero si arricchirà di nuovi collaboratori. Chiunque abbia qualcosa da dire o da raccontare, può partecipare ai prossimi numeri, basta contattarmi all'indirizzo email: steficonvalle@gmail.com.

Nel frattempo, buona lettura a tutti!!


La vignetta della settimana

 (Direi... molto in linea coi tempi che stiamo vivendo;-)...)

...

ANDY WARHOL (1928 – 1987)
di
Cinzia 


Andrew Warhola, in arte Andy Warhol, alla fine degli anni Cinquanta scopre una pittura fredda, ripensata sull’immagine trasmessa dalla pubblicità, ripensando a se stesso come artista-macchina che non inventa ma riproduce, che non interpreta ma ripete all’infinito.

Nel 1961, realizza le prime bottiglie di Coca-Cola, poi le scatolette di minestra Campbell: l’artista vuole emulare il comportamento ripetitivo di una macchina.




Warhol riproduce quello che ama: i personaggi dei cartoons, i “miti” americani, i biglietti da un dollaro, tutte cose “molto americane” per usare una sua ricorrente espressione.

In seguito, adotta la serigrafia per moltiplicare all’infinito un’immagine di partenza, disegnata a mano, prevalentemente con colori vivaci e forti, ed il passo successivo è la foto serigrafia, in cui un’immagine fotografica in bianco e nero, fortemente contrastata, viene trasferita su di un telaio di seta per poterla stampare su qualsiasi superficie piana.



La struttura ripetitiva di Warhol conduce a fissare la tristezza della ripetitività, la distruzione dell’espressione mediante l’informazione eccessiva e la distruzione del gusto ad opera del consumo.



Alcuni ritratti di star come Marilyn, Liz Taylor, Mao Tse-Tung e Che Guevara, rappresentano le “maschere” proposte dagli stessi personaggi; Warhol le ripropone rivitalizzandole con un potentissimo technicolor o reiterate all’infinito all’interno di tele enormi.




In questo modo, Warhol fa il suo ingresso trionfale nell’ambito della Pop Art e si trova a gestire la trasformazione del suo studio in una “Factory”, una catena di montaggio dedicata alla produzione di dipinti.

Dal 1964 sperimenta anche la scultura con materiali diversi, compensato, cartone, ecc. assemblandoli insieme costruisce scatole e scatoloni in modo da riprodurre fedelmente confezioni esistenti per prodotti di largo consumo.

Le sue mostre sono spettacolari, l’allestimento è fondamentale e curato da lui personalmente, le pareti sono tappezzate da ripetizioni modulari di una sua stessa opera, agisce per “occupazione” dello spazio espositivo, ma la sensazione visiva non è di riduzione dello spazio, bensì di ampliamento.

Per esempio, alla mostra di ritratti di Elvis, in cui il divo, in posa da pistolero, mette in atto un accerchiamento dello spettatore, che si sente perduto in una scenografica galleria degli specchi.


Oppure, ad un’altra mostra, Warhol tappezza una delle stanze con carta da parati che riproduce all’infinito l’immagine di una mucca.


Quindi, ecco il senso della Factory, la consistenza quantitativa della sua produzione necessita di assistenti, una piccola industria, che ben presto diventa punto di ritrovo culturale  delle persone più diverse: mercanti, critici d’arte, drag queens ed artisti di ogni tipo.

Il 3 giugno 1968 subisce un attentato, a sparargli è Valerie Solanas, una femminista fondatrice dello S.C.U.M., la “società per fare a pezzi gli uomini”; in Warhol, Valerie vedeva un abile manipolatore e sfruttatore del lavoro altrui.

Warhol rimane in coma ed in ospedale per un mese e mezzo, poi si riprende, ma rimane molto scosso dall’accaduto ed in seguito rifugge qualsiasi tipo di contatto fisico, prende le distanze dalle persone e dalla vita.

Si rende anche conto che durante il ricovero, lo staff della Factory ha continuato a lavorare e conclude che il business dinamico è la migliore forma d’arte.
La Business Art è il gradino subito dopo l’Arte, dice.

Si dedica al montaggio di film, ma, volutamente, senza alcuna regia, ad interviste, sperimentazioni, come quella di gestire un nuovo tipo di discoteca, cioè, un gruppo di suoni, in un ambiente multimediale con luci stroboscopiche, coreografie e spezzoni dei film di Warhol.

E registra, registra continuamente, il microfono viene puntato contro chiunque si avvicini, trasformando ogni situazione in un pezzo di teatro.

Colleziona ed accumula fotografie, registrazioni, disegni, che conserva nelle sue TIME CAPSULES, una serie di scatoloni tutti uguali, ognuno con un’etichetta riportante mese ed anno, trasformando la sua casa (un lussuoso palazzo in stile georgiano) in un magazzino debordante, in cui quasi nessuno è ammesso.

Nel 1987, viene operato per dolori addominali che ormai lo tormentavano da molto tempo, ma muore il mattino seguente all’intervento.

Nel 1989, il MoMA di New York gli dedica una retrospettiva che viaggerà per il mondo fino ad arrivare in Italia, a Venezia a Palazzo Grassi: Andy Warhol vi partecipa nelle vesti del sosia da lui stesso assoldato verso la fine degli anni Sessanta, Alan Midgette.

Warhol, che voleva che sulla sua lapide comparisse semplicemente la parola “ finzione “, avrebbe indubbiamente apprezzato.

La sua più celebre opera d’arte è stato certamente se stesso.

...

Aforisma del giorno


"Il genio non è delle donne."
(Oscar Wilde)

...


In nome di Dio, dimmi chi sei!
di
Francesco Meccariello


Premessa: per incredibile che possa sembrare, la vicenda narrata è una storia vera e le parole che danno il titolo al racconto sono state realmente pronunciate. Alla fantasia sono affidati i nomi e tutta una serie di dettagli che naturalmente non sarebbe più possibile ricostruire.



Staccandosi dal fianco occidentale del monte Taburno, il pennuto, volando in picchiata, vedrebbe distendersi sotto di sé un’ampia valle, spanciata come una macchia d’olio verso mezzogiorno e frastagliata al contorno dalle sporgenze delle colline. Infilandosi tra due file di queste colline, si troverà in una gola, nella quale gli comparirà il paese di L.
Qui, nell’insenatura tra i rilievi, un folto agglomerato di case va stringendosi a imbuto fino a scomparire tra i boschi. A metà dell’imbuto, scorgerà la chiesa principale, al centro di una piazza pavimentata in porfido e in asfalto.
All’epoca in cui avvennero i fatti che narriamo, avrebbe trovato un numero molto inferiore di case, concentrate a ridosso delle colline. La chiesa, ora intonacata e tinteggiata color paglierino, appariva in tufo a faccia vista. Poche erano le strade, nessuna asfaltata.
Ma lasciamo ora il volatile al percorso che preferisce, e andiamo a vedere cosa accadde in quella certa notte di molti decenni fa.

Giuseppe Tirone aveva la casa in un vicoletto fatto a scale al quale si accedeva proprio dalla piazza. Là si dirigeva quella sera di fine novembre. Era una serata piuttosto fredda e si era pure fatto tardi. La moglie, un donnone energumeno la cui già poca dolcezza si era prosciugata da tempo, non avrebbe approvato il ritardo. Il buon Giuseppe, però, si era rassegnato ad essere considerato sempre e comunque in difetto, per cui colpa più, colpa meno…
Il nostro uomo, al contrario della moglie, era di presenza piuttosto modesta: oltre che basso, appariva magro e dinoccolato. Non per niente, lo chiamavano Peppe ‘o tappo. Si era trattenuto più del solito all’osteria e strada facendo almanaccava la bugia con cui avrebbe opposto una parvenza di giustificazione all’ira della consorte.

Lo stretto sentiero che doveva percorrere era in terra battuta, rifinita in superficie con pietrisco sciolto. Le chiome degli alberi che costeggiavano il viottolo ne invadevano parzialmente la sede.
All’epoca non c’era l’illuminazione pubblica, ma la notte era serena e la luna quasi a palla garantiva luce a sufficienza.
Peppe osservava le figure degli alberi che affondavano nell’oscurità, i rami nodosi che emergevano dal nero della notte. Il lettore che sia sempre vissuto in città, a questo punto, difficilmente può comprendere cosa provava Peppe in quel momento. Già, perché la notte di città non è come la notte di paese. In città, di notte, semplicemente fa buio. Le strade si fanno deserte, le automobili vanno a dormire, e tutto qua.
In mezzo ai campi, la notte è un’altra cosa.

Alla luce del sole la campagna obbedisce alla griglia rigida della logica, si sottomette al dominio degli uomini e alle regole della loro ragione: ogni pezzo sta al suo posto, è docile, misurabile, privo di volontà.
Di notte, invece, quando il sole si ritira dietro le montagne, essa si anima e prende il sopravvento, la natura, forza irrazionale, più antica e con più futuro della nostra ragione, conquista il campo. Quanta differenza tra il canto diurno dell’usignolo e il grido lugubre dalla civetta, tra il volo lineare della rondine e il volteggio inquieto del pipistrello. Chi è stato da solo, di notte, in campagna, chi ne ha udito la voce, conosce quel brivido che ci coglie senza un motivo apparente, quell’istinto che ci spinge a scappare non si dove né perché.

Era questo il brivido che Peppe avvertiva percorrendo il sentiero. In mezzo alle piante, tra i fruscii improvvisi delle frasche, temeva di imbattersi in quelle creature della notte di cui gli raccontavano da bambino: storie di spiriti, che sortiscono dalle latebre oscure dei boschi, si acquattano negli anfratti…
Peppe allungò decisamente il passo, finché finalmente si trovò in piazza. Ancora avvolto dall’inquietudine, osservò sulla sinistra la facciata della chiesa, che si levava imponente e silenziosa. Il portone in legno giganteggiava solido e maestoso. Improvvisamente, due colpi sordi risuonarono dall’interno.

Peppe emise un grido soffocato e cominciò a scappare. Corse verso casa, salì i gradoni del vicolo e, dimenticando di avere le chiavi, prese a bussare con violenza alla porta. Dopo poco si affacciò alla finestra del primo piano una sagoma voluminosa, con l’aria assonnata.
“Chi è?”
“Carmè, apri, presto!”
“Ma che è?”
“Apri, Carmè!”

Tempo di scendere e la porta si aprì.

Peppe, senza neanche entrare,
“Carmè, ci stanno gli spiriti nella chiesa!”

Carmela, a denti stretti, afferrando la manica del marito con un moto d’impazienza,
“Ma trasi, ‘sto ‘mbriacone!”

Mentre i due litigavano accorse Gennaro Montella, che aveva la camera da letto che dava proprio sulla piazza:
“Pè, Carmè, arrivano rumori dalla chiesa, deve essere un demonio!”

Carmela allentò la presa, sconcertata. Peppe non se l’era inventato.

“Bisogna chiamà a don Pasquale”, continuò Gennaro.

Peppe si incaricò di correre ad avvisarlo. Si precipitò lungo la ripida scalinata che portava all’uscio di don Pasquale. Mentre saliva affannato, fu preso da un dubbio: “il parroco, si sa, dorme solo. E se invece…”. In effetti, qualche voce discorde, pronunciata a mezza bocca dai soliti bene informati… ma si sa, nei paesi il venticello della calunnia trova sempre i suoi varchi. L’esitazione lo trattenne solo per un attimo, sicché si ritrovò in brevissimo tempo a bussare con colpi forti al portone del curato.

Don Pasquale, che effettivamente dormiva solo, continuò per un pezzo a russare con violenza, coprendo con il ruggito del suo naso i rimbombi delle percosse che il buon Peppe si accaniva ad abbattere sul portone.
Dopo aver cambiato fianco un paio di volte, il parroco aprì mezzo occhio. Si rese conto che qualcuno bussava. Si alzò lentamente, sempre gli occhi socchiusi, e si avviò alla porta nel pigiama di lana. Don Pasquale, bisogna dirlo, era un autentico pezzo d’uomo, alto, asciutto, con le spalle larghe, i capelli folti e un vocione da predicatore che quando diceva la messa si sentiva fino al paese vicino.

Aprì il portone e trovò di fronte a sé l’esigua figura di Peppe ‘o tappo, con il cappello in mano e l’aria angosciata.
“Don Pasquà, ci stanno gli spiriti nella chiesa!”

Il curato, senza dire niente, richiuse la porta, lasciando Peppe all’esterno, e si riavviò a letto con gli occhi aperti il minimo indispensabile, cercando di non perdere il filo sottile della dormita interrotta.
Come fu sotto i panni e riassaggiava il teporino dolce del sonno che lo riavvolgeva senza sforzo, fu di nuovo disturbato, stavolta in maniera irrimediabile, da altri colpi al portone. Ormai l’incanto del sonno era compromesso, gli occhi si erano aperti entrambi e per interi.
Si riavviò sconsolato alla porta, la riaprì.

“Don Pasquà, veramente, ci stanno gli spiriti nella chiesa!”

“T’ha sonnato?”

Mentre Peppe si sforzava di farsi credere, arrivò trafelato Vincenzo Dantoni, detto ‘o massizzo:
“Don Pasquale, in chiesa, certi rumori, dei lamenti… forse un’anima purgante…”

Il parroco rimase un attimo in meditazione. Vincenzo Dantoni era notoriamente astemio e di comprovata affidabilità. Capì che doveva effettivamente esserci qualcosa d’insolito.
“Avviatevi giù, mi vesto e vi raggiungo”.

Detto questo, chiuse la porta e si avviò perplesso in camera da letto.
Don Pasquale, come tutti i preti di paese, era uomo razionale, eppure un leggero turbamento gli increspò una ruga in mezzo alla fronte. Volse lo sguardo al grande crocifisso appeso alle spalle del letto, poi vestì i paramenti, prese l’acquasantiera, indossò la collana con la croce di legno e si avviò per i gradini del vico. All’imbocco della piazza trovò assiepato un folto gruppo di persone, tutte con lo sguardo rivolto verso di lui. Nessuno parlò. Lo lasciarono andare avanti e lo seguirono quasi in fila indiana, come se volessero proteggersi dietro la sua figura imponente. Il serpentone capeggiato dal parroco si mosse con passo svelto fin sopra il sagrato della chiesa. Giunto a una decina di metri dal portone d’ingresso, don Pasquale rallentò. In realtà, non era ben chiaro cosa dovesse fare; la chiesa appariva come sempre, tutto era al suo posto, non udiva rumori né lamenti.

All’improvviso, un forte tonfo vibrò dal portone. La folla trasalì, don Pasquale fece un rapido passo indietro e con lui tutto il serpentone di gente arretrò e si contrasse.
Afferrò rapido l’acquasantiera e, dominando un lieve tremore delle mani, irrorò con forza acqua benedetta. Poi, consegnata l’ampolla a Peppe, che trovava ricovero al disotto della sua spalla, impugnò con due mani il crocifisso di legno che portava appeso al collo e lo sollevò più in alto che poté.

In questa posizione trovò forza e coraggio. Più alto di tutti gli altri, compreso del ruolo che la vicenda gli assegnava, tuonò con una voce così forte come mai aveva gridato. Sembrava che dovessero tramare i vetri, che qualunque spirito, anima o demonio non potesse che sottomettersi a quella voce sovrumana, a quel tono perentorio sigillato da una sacralità soprannaturale: risuonò scandito lentamente, con una solennità e una potenza che le orecchie locali mai avevano udito:

In nome di Dio, Dimmi chi sei!”

Dopo un istante di silenzio, dall’interno squillò una voce:

“Sono Annetella ‘a fornara, don Pasquà!”

Don Pasquale abbassò il crocifisso e corrugò le sopracciglia, mentre un brusio si sollevava alle sue spalle. Estrasse dalla tasca le chiavi della chiesa e si affrettò ad aprire il portone.
Già, era successo che, durante la funzione della sera, Annetella si era addormentata. Era un fatto abbastanza frequente, complici un po’ la penombra in cui era avvolto l’uditorio, un po’ la stanchezza dovuta al lavoro dei campi e non poco il fatto che, all’epoca, il celebrante rivolgeva le spalle ai fedeli. In verità, per quanto ormai la chiesa sia dotata di un efficiente impianto di illuminazione, per quanto ormai pochi ancora si macerino nel faticoso lavoro dei campi e nonostante adesso il prete non dia più le spalle al pubblico, l’usanza di dormire durante la messa serale dura ancora oggi.
Ora, però, il parroco, prima di chiudere la chiesa, controlla che tutti siano usciti. In quell’occasione, invece, don Pasquale aveva chiuso senza accorgersi di Annetella che dormiva.
La giovane signora, svegliatasi nel buio, aveva cercato di attirare l’attenzione picchiando contro la porta.

E così, senza colpo ferire, alcune ore dopo giunse finalmente l’alba. I raggi del sole dissiparono i resti della notte, misero a dormire le bestie notturne, spazzarono tutti i rimasugli dell’irrazionale e restituirono il campo al regno della ragione.
La gente prese ad affollare le vie e tutto ricominciò come prima.
Qualcuno, quella mattina, aveva delle ore di sonno in meno sulle spalle.
Ma anche qualcosa in più da raccontare.


Per la cronaca, Annetella, allora piuttosto giovane, è ormai molto anziana e si è trasferita in Toscana. Don Pasquale, alcuni anni dopo l’episodio del racconto, abbandonò l’abito talare e prese moglie. Ora riposa in pace.

...

L'angolo di Nonna Papera;-)




L'angolo di Nonna Papera, quest'oggi ospita una ricetta di una nostra amica di Palermo, Giusi Inzirillo, che ci spiega una ricetta molto dolce;-) : LA PIGNOCCATA.
Ogni 100 grammi di farina di grano duro si aggiunge un uovo; si impastano i due ingredienti e quando il composto è pronto si creano dei bastoncini che si tagliano a tocchetti. Si friggono in olio bollente e si fanno raffreddare. Intanto in una padella (senza olio), si scalda il miele e quando si è sciolto si amalgamano i tocchetti raffreddati e le mandorle tostate, si versano su un vassoio a mucchietti e si fanno raffreddare.
Variante: mentre i tocchetti fritti si raffreddano, in una padella senza olio si scalda acqua, cacao q.b. e zucchero; si amalgamano a questo composto i tocchetti raffreddati precedentemente, si mettono in una scodella e si aggiunge lo zucchero.
La pignoccata è servita (e un chiletto in più di ciccia, anche;-)))...)

Alla prossima settimana!