SENZA LUCE
Graziella Braghiroli
È incredibile come una canzone possa essere la chiave che apre porte che credi chiuse per sempre.
Non vedo più il salotto, non sento più il frigorifero che ronza.
Sono nella mia cameretta da ragazza, ho quindici anni e indosso jeans taglia 40 così stretti che ho dovuto sdraiarmi sul letto per chiudere la cerniera.
Ricordo quel pomeriggio come se fosse ieri.
Io e Elisa, la mia amica di allora, eravamo uscite di casa in punta di piedi perché i nostri padri non dovevano sapere che stavamo andando alla festina a casa di Angelo.
Ricordo la frangia che avevo sistemato in modo che coprisse il maledetto brufolo che mi era spuntato sulla fronte proprio quella mattina.
Ricordo quel misto di timidezza, spavalderia e speranza che solo a quell’età senti davvero.
E ricordo Guido. La mia prima vera cotta e in quel momento l'amore della vita.
Eravamo arrivate a festa già iniziata. La stanza era affollata, il tappeto arrotolato in un angolo lasciava lo spazio alle coppie che ballavano sulla musica che usciva dal mangiadischi.
Mi ero versata un bicchiere di aranciata già calda, cercavo Guido con gli occhi, mi importava solo di lui. E lui non c'era.
Poi, la porta si era aperta.
Guido era entrato, mano nella mano con una ragazza più grande, più bella e molto sicura di sé. Minigonna rossa e maglioncino d’angora bianco che avrei dato l'anima per avere.
Tutte le mie speranze erano crollate di colpo e avevo sentito il gelo della delusione per tutto il corpo.
Mi ero diretta a testa bassa verso il divano, dovevo sedermi, le gambe non mi reggevano.
Era stato in quel momento che erano partite le prime note di Senza luce.
Un ragazzo che conoscevo solo di vista e che non avrei mai guardato due volte, si era avvicinato e mi aveva chiesto: «Vuoi ballare con me?»
E io, con il cuore in tumulto, avevo detto sì.
Non ricordo il suo nome. Forse Marco? O Domenico?
Ricordo solo le sue mani calde, il modo in cui cercava di non stringere più del necessario, i suoi occhi che cercavano i miei, il suo sorriso.
Avevo quindici anni e quello era il mio primo lento.
Luigi Besana
Quella ragazza, dalla notte accesa. Ci andavo quando calava il crepuscolo.
«Se potessi essere una moneta, m'infilerei nel jukebox e farei suonare una canzone per te» le dissi una sera, mentre gli amici ballavano beat dance nello spazio utile in fondo alla sala.
«Con gran piacere. Ti aspettavo, ora metti la tua canzone» rispose.
La mia canzone, quella che dava fuoco al cuore, era in quei giorni “Sognando la California” dei Dik Dik, versione italiana di California Dreamin'.
Quel tema dolce e ricorrente, l'aspirazione d'una partenza verso il futuro, cercando una felicità desiderata, ma sempre rinviata perché nella vita c'era lei che stava ad aspettare. Tutto ciò dava slancio ai miei sogni.
Sapevo bene che non ci sono luoghi splendenti, è soltanto uno stratagemma, o vizio, o sete di esistere, ma vale la pena di cercarle.
Ora che ci penso, con quella canzone tornano suoni, oggetti, persone che hanno avuto un significato. A quel tempo amavo la Beat Generation e la sua musica derivata dal Jazz e dal Rock and Roll. Essere Beat significava essere calati nell'abisso della personalità, vedere le cose dal profondo. Leggevo "Il pasto nudo" di Burroghs, intreccio di visioni, nebbie alla cocaina, e "Urlo" di Ginsberg, quindi Corso, Ferlinghetti, Kerouak. La poesia non era più solamente l'espressione personale di una élite ma diventava un linguaggio di tutti. Quel fermento anarcoide mi toccava profondamente. Si diceva che hashish, marijuana, Lsd aumentavano le potenzialità della mente: io, confinato lontano dalla grande città e dalle sue infinite possibilità, mi appagavo con lo studio e la comprensione della realtà coi suoi aspetti. Le mie agitazioni oscillavano fra "La vita nei boschi" di Thoreau e la rivoluzione di Che Guevara. Portavo comunque i capelli lunghi, volevo, in qualche modo, sentirmi parte degli Hippy o dei Figli dei fiori, in quanto mi davano l'emozione di appartenere alla rivolta che avrebbe cambiato il mondo.
Le note di una nuova canzone si alzarono e presero vita intorno a noi.
Mary, la ragazza del jukebox mi fissava e nel cielo la luna bianca, appena visibile tra le nubi, saliva verso la notte.
«Ti amo, Mary, perché sei un simbolo di questa epoca, perché il tuo corpo è un canto che mi sbaraglia e sei arrivata a essere la più bella della storia. Ci siamo cercati come due gatti on the road in questa città trascurabile e ci amiamo in mezzo a questo pulviscolo e a questa musica. E so che quando ci baciamo il vento scende sul jukebox e fa volare una lirica d'amore per il mondo. Alla fine del viale comincia il giorno le luci sulla strada sono sogni che si spengono. Fa che duri questo dolce fluido con questa tua delicatezza inventata per me. Ti amo, perché posso affondare i tuoi occhi nella mia poca gioia e consegnarti i miei in cambio della tua poca tristezza.»
Mary al jukebox, fece partire di nuovo la mia canzone.
Dalle casse, soffocata dal brusio dei clienti, partiva Sere Nere.
Una fitta le attraversò il petto. Bastarono le prime note a capovolgere tutto, come se una mano invisibile avesse premuto un interruttore. Il bar si sfocò, le voci si allontanarono, e Anna si ritrovò di nuovo lì, in un tempo che credeva archiviato.
Aveva appena lasciato il suo primo amore. Una storia ingenua, adolescenziale, ma che l'aveva fatta sentire viva come nient’altro fino ad allora. E ora le sembrava che tutto le fosse scivolato via dalle mani. Si sentiva fuori posto, sbagliata, come se l'intero mondo sapesse andare avanti senza di lei.
Fu allora che partì quella canzone.
Non ne aveva mai sentito nemmeno una parola, eppure, dalle prime battute, fu come se qualcuno le avesse aperto una finestra nel petto. La musica non la consolò; non prometteva soluzioni, non le tendeva la mano, ma era lì, ferma accanto a lei come un ospite discreto. Le faceva compagnia mentre cercava di mettere ordine al caos che le ribolliva dentro. Ogni accordo sembrava darle il permesso di respirare, fosse anche solo per pochi secondi.
Anna rimase immobile, come incantata. Il dolore non diminuiva, ma almeno non era più un deserto silenzioso: aveva una forma, un ritmo, una voce ed era forse la prima volta che si sentiva meno sola nel suo vuoto.
Quando la canzone finì, il silenzio le cadde addosso come una coperta troppo pesante. Ma qualcosa, impercettibile, era cambiato. Non capiva cosa, non ancora. Avrebbe avuto bisogno di anni per comprenderlo.
Solo ora, da adulta, capiva davvero. Quella canzone aveva preservato un dolore acerbo, l'aveva tenuto vivo ma lo aveva anche trasformato in memoria invece che in cicatrice.
Sere Nere non era più il rifugio solitario di una preadolescente ferita, era diventata un ponte: un passaggio tra ciò che era stata e ciò che era diventata, tra il buio di allora e la chiarezza di adesso.
Anna sorrise appena, senza che nessuno se ne accorgesse.
Certe canzoni non passano: aspettano. E quando tornano, ti trovano diversa.
Tania Mignani
«Ma vai a quel paese» disse a mezza bocca.
«Con chi ce l'hai?» le chiese divertita la sua compagna di banco.
Conosceva Marina dal primo giorno del ginnasio e, per quanto si frequentassero poco, era l'unica che potesse definire amica.
«Con nessuno» le rispose alzando le spalle.
«Guarda che ti conosco. È tutto il giorno che ti osservo: non spiccichi una parola, sei assente, non hai voluto nemmeno assaggiare la fetta di torta che ho portato per festeggiare il tuo compleanno.»
«Non parlarmi del compleanno, ieri è stato uno schifo.»
«Non dirmi che Lorenzo si è comportato male…»
«Peggio, non si è presentato» rispose Daniela con la voce incrinata.
«Hai chiesto notizie a tuo fratello? Dopotutto, giocano nella stessa squadra.»
«Lui non deve saperlo, altrimenti, sai la presa per i fondelli da qui fino alla fine del mondo?»
Nel frattempo, altri compagni avevano preso i loro posti tra schiamazzi e battute demenziali e smisero di parlare. Marina le prese la mano, stringendola di tanto in tanto per darle conforto. Quando iniziarono i cori, ritornelli stonati delle canzoni che i ragazzi ascoltavano dal mangiadischi nell'intimità delle loro camere o dai jukebox dei locali più alla moda, Daniela le fece vedere il gettone.
«Avrei potuto chiamarlo, sono entrata e uscita dalla cabina non so quante volte, ma non ne ho mai avuto il coraggio. Se avesse risposto sua madre, che cosa avrei potuto dire? Signora, mi scusi, suo figlio è uno stronzo. Mi è stato dietro per mesi facendosi credere innamorato e poi, una volta ottenuto l’appuntamento e vedendomi cotta a puntino, si è dileguato. Ti pare che potessi dire così?»
«Decisamente no.»
«E sai cosa mi fa stare male? Il fatto di avere un anno in più per niente. Cosa m'interessa avere quindici anni, se poi non ho ancora un bacio da ricordare? Marina, la vita è proprio uno schifo.»
Una volta a casa, dopo avere risposto a com'è andata, ti sei divertita, disse alla madre che non voleva cenare.
«Ma cosa avete, tu e tuo fratello, da essere così musoni?»
«Io ce l'ho con il destino. Ieri pomeriggio, Lorenzo si è rotto un braccio e il portiere di riserva ne buscherà cinque, domenica» si giustificò il fratello.
A Daniela tornò l’appetito. Si sentì cattiva per avere pensato male di Lorenzo, anche addolorata per il suo incidente. Ma, soprattutto, pensò che il bacio tanto desiderato sarebbe arrivato presto.
Lacrime di solitudine incominciarono a scendere riempiendo rivoli che i segni del tempo avevano scavato sul suo volto non più giovane. Nella sua mente i ricordi riaffiorarono prepotenti. Prima fra tutti, l'immagine di loro seduti a gambe incrociate sul morbido tappeto dello studio dove erano soliti ritrovarsi, mentre si divertivano con quello strano gioco che avevano chiamato "bisticcio di parole". Si trattava appunto di trovare delle assonanze con le parole come "luce" e "amore", una dissonanza, più che un'assonanza.
Era uno strumento potente, non solo per il volume assordante, ma perché a noi femmine non era consentito avvicinarci. Gli sguardi degli avventori, maschi per la maggior parte, ci avrebbero subito etichettato come ragazze poco serie. Se avessimo scelto una canzone d'amore sarebbe stato un segnale chiaro di disponibilità all'abbordaggio da parte dei maschi.
Le sigarette, però, non destavano alcun sospetto, ai padri non si poteva disobbedire.
Un giorno, dopo il solito acquisto, con le monete rimaste avevamo comprato un pacchetto di chewing-gum.
«Nina, restano due monete. Le mettiamo nel jukebox? Che c'importa di quei due, nemmeno ci guardano.»
In effetti il locale era vuoto, se non per due signori seduti a un tavolo. Li reputavamo adulti perché ci avevano insegnato a portare rispetto, e timore, a chi non era nostro coetaneo. Comunque quei due stavano per i fatti loro, bevevano e fumavano.
Lo strumento sotto i nostri occhi brillava. Sulla parete rialzata, la fila di cartellini indicava le canzoni; sotto, un'altra fila di bottoni con lettere e numeri per selezionarle.
«Dai, Rita, metti la moneta.»
«Scegliamo Ti amo» dicevo io.
«Eh sì, poi ci guardano. Mettiamo Tu» rispondeva Nina.
Batti e ribatti, non decidevamo.
«Prima, Ti amo. Dopo, Tu. L'occasione è irripetibile.»
Le canzoni che ci piacevano erano tante, tutte belle e desiderate.
«Muoviti, Rita, prima che entrino altre persone!»
Prima la moneta, poi i bottoni. Alcuni ticchettii e deboli clangori annunciavano l’arrivo della prima nota. Un botto alle orecchie che ci aveva fatto vibrare; un’emozione forte che rivelava tutta la nostra innocente vittoria verso qualcosa di proibito.
Avevamo ascoltato ogni singola parola. Una volta a casa l'avremmo di nuovo snocciolata come le poesie, se non meglio, che studiavamo per la scuola.
«Buonasera signorine, quindi vi piacciono le canzoni d'amore.»
Io e Nina eravamo sbiancate. Che brutto risveglio dall’incanto!
Uno dei due uomini seduti al tavolino si era avvicinato a noi e voleva abbordarci, proprio come ci avevano ammonito tante volte le nostre madri.
Senza dire una parola, mentre quelle della canzone occupavano ogni silenzio libero, con la testa china, avevamo imboccato l'uscita. Nella strada avevamo iniziato a ridere come matte, senza però fermare la nostra fuga.
«Questa cosa che noi femmine non possiamo usare il jukebox deve finire» aveva detto Nina ridendo. Sapeva bene, come me, che non potevamo farci niente. Avremmo dovuto aspettare gli eventi del futuro.
Era già lì, d'altronde, a portata di mano. Bastava ancora una canzone.




















