Isabel Allende è tra le scrittrici contemporanee da me preferite. Ho sempre amato quel suo narrare tra reale e spirituale, e a lei mi sono ispirata nei primi anni della mia stessa scrittura, amando le stesse tematiche.
Ricordo ancora la prima volta, tanti anni fa, quando la scoprii. Ero in macchina, in coda nel traffico milanese, e ascoltavo la radio. Nel programma, a un certo punto, una voce mi fece arrivare un passo estrapolato dal famoso romanzo "Paula". Fu colpo di fulmine e da quel momento ho letto (quasi) tutto di lei.
Leggendo "Violeta" l'aspettativa era come sempre alta. Un romanzo che racconta una vita, cento anni, in un periodo storico incastonato tra due pandemie: la Spagnola e il Covid. Violeta racconta al nipote Camilo, attraverso una lunga lettera, la storia della sua famiglia. Un saga familiare, dunque. Un romanzo storico, perché, soprattutto nella seconda parte, la parte politica e sociale diventa predominante.
Devo dire che, pur apprezzando senza se e senza ma i romanzi della Allende, all'inizio della lettura, per numerose pagine, non ritrovavo quella parte che di lei amo, quel confine tra la vita e la morte dove si srotolano tanti dei suoi romanzi. Leggevo e mi sembrava che raccontasse - magnificamente, neh - le vicende, ma non sentivo quell'emozione che ho sempre avvertito tra le sue pagine.
Poi l'ho ritrovata, la sua penna da incantatrice, proprio quando i fatti narrati entravano nel passaggio dalla vita alla morte di alcuni personaggi importanti e lì c'era lei, c'era tutta con quel suo modo di parlare del trapasso da una dimensione all'altra come solo lei sa fare.
Era lì tutta la sua magia.
Lei.
Isabel Allende.
Comunque sempre grandissima.
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle
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