Non è facile scrivere questa recensione.
Un romanzo, quello di Daniela Montanari, "Per voce tua" (Phasar Edizioni), che ha suscitato in me osservazioni positive e altre meno.
Sarò sincera, come sempre faccio, e sono certa che l'autrice - che ritengo brava ed è pure simpatica - mi perdonerà.
Tutta la vicenda ruota intorno alla vita di una donna che a un certo punto della sua esistenza opera una sorta di bilancio il cui fulcro è la decisione, di quando era ragazza, di abortire.
Da qui si evincono sensi di colpa che si intrecciano con la quotidianità e che si concentrano in una sorta di groppo in gola, il boccone amaro che non si riesce a buttare giù, anche se in effetti la protagonista dovrà affrontare un intervento alle corde vocali.
Per taluni aspetti mi sono ritrovata nella vita della protagonista, in questa ricerca di risoluzione-assoluzione attraverso strade alternative che coinvolgono la sfera del mistero e delle terapie psicologiche alternative. Si citano le costellazioni familiari; si fa riferimento a Louise Hay e a Igor Sibaldi, che conosco; si racconta di una sorta di comunicazione con gli Angeli. Tutte pratiche che ho conosciuto e che mi hanno fatto pensare: "Caspita, l'autrice e io siamo sulla stessa lunghezza d'onda".
Come anche il lavoro stesso della protagonista, che è stato anche il mio in passato per lunghi anni; o anche la vita nella sfera amorosa con scelte sbagliate, ma anche con una raggiunta consapevolezza.
Insomma, ho trovato tanti punti in comune tra la protagonista e me che hanno sviluppato una sorta di empatia verso la sua storia.
Ma c'è un "ma". Un ma un po' difficile da digerire. E vi spiego perché, anche se è un tema parecchio delicato.
La protagonista, come ho detto prima, decide di abortire quando è ventenne, non se la sente di portare avanti la gravidanza. Però negli anni a seguire questa decisione diventa un tarlo che le fa pensare a quanti anni avrebbe il figlio se fosse nato, arriva a dargli anche un nome.
Ebbene, posto che ogni decisione va rispettata e ritengo anche giusto che chi decide di abortire possa farlo in sicurezza, questa vicenda narrata mi ha proiettato con forza verso la mia esperienza di tanti anni fa. E qui scendo nel mio privato, nel mio personale più profondo, ma lo spiego per far capire da dove nasce il mio disagio.
Ho sempre desiderato dei figli. Sempre. Ho cercato di fare cure per arrivare a diventare mamma, ma è andata male. Mi ero rassegnata quando, inaspettatamente, sono rimasta incinta. Avevo 38 anni e mi ero sembrato un miracolo!
Però l'ho perso.
Ai due mesi e mezzo di gestazione l'ecografia non dava scampo. Però ho sentito il suo cuore battere - lento - ma l'ho sentito.
Il mio aborto non è stata una scelta, l'ho subito.
Ho sperato che potesse riaccadere di nuovo, di restare incinta. Mi dicevo: se è successo una volta, può succedere ancora, e andrà bene.
Ma non è stato così.
Ci ho messo tanto tempo, tantissimo tempo, per accettare questo brutto scherzo del destino. Ce l'avevo con Dio, mi chiedevo perché mi avesse regalato ciò che io desideravo di più, oltretutto quando ormai non ci pensavo più, per poi portarmelo via e non darmi una nuova occasione.
Facevo fatica a rapportarmi con le donne incinte, anche se ovviamente capivo che loro non c'entravano. Ce l'avevo con le donne che abbandonavano i figli in un cassonetto, o con chi interrompeva la gravidanza; pensavo, cavolo, ma con tutti i sistemi di contraccezione che si hanno a disposizione, perché non ci si pensa prima? Mi dicevo che era tutto molto ingiusto. Soffrivo, mi sentivo una donna incapace di procreare, mi sentivo una mamma senza il suo cucciolo. Mi sentivo male. Punto.
Poi ho metabolizzato e ho capito che evidentemente il mio destino era un altro e ho avuto modo di essere mamma in tanti modi diversi.
Ecco. Il mio groppo in gola leggendo questo romanzo è stato questo. Non sono riuscita a provare empatia per la protagonista del romanzo per il motivo che ho spiegato.
Posto - e lo sottolineo - che ogni scelta, in questo caso difficile, va rispettata e non giudicata, trovo difficoltà a condividere un passaggio nelle ultime pagine che dice: "[...] Ma ormai siamo talmente tante, e siamo talmente forti dopo quello che ci è successo, che andiamo avanti unite, [...]"
Ecco (di nuovo), non credo che una donna che decide di abortire possa dire quello che mi è successo, perché è stata una scelta, anche se forzata o obbligata per circostanze della vita, per età e per qualsiasi altro motivo, ma pur sempre di scelta si tratta.
Le donne che invece hanno perso i propri bambini, vittime di aborti spontanei, allora sì che possono dire quello che ci è successo, perché non è dipeso da loro, l'hanno subito, e non senza dolore. Anzi, un dolore - un lutto - che pochi capiscono.
Io, più di vent'anni fa, quel cuoricino l'ho sentito battere e non lo dimenticherò mai.
Detto questo, so che l'autrice, da donne sensibile qual è, capirà il mio stato d'animo e questa sorta di critica che rivolgo alla protagonista del suo romanzo.
La penna di Daniela è bella, scrive benissimo, e ci racconta la storia di una rinascita. Un libro che vi consiglio di leggere perché, come vedete, offre tanti spunti di riflessione.
E voglio chiudere così.
Non ho mai dato un nome al mio bambino mai nato, che non so se fosse maschio o femmina, e di cui conservo solo il ricordo del suo cuoricino. Però, per lui ho scritto una poesia, tanto tempo fa. Una poesia che dice così...
CERCAMI
Nell’indaco
dei miei pensieri
si fa
strada la risposta
del
fiore mai nato.
Vive
negli spazi siderali
tra il
bianco di un petalo lunare
e il
soffio di un atomo spaiato.
Vite
mai nate
palpiti
universali
diventano
immortali.
Comunque,
sei
qui.
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle