-1-
Autore: RICCARDO SIMONCINI
Sono il Buio.
Mi sono rifugiato qui, dietro
questa vecchia porta che un tempo era splendida, dove nessuno mi
cercherà.
Ho freddo e sono solo, ma non ci
penso neanche a uscire da qui.
Qui è sicuro.
Fuori è Luce ovunque, tranne dentro
l'anima di alcune persone.
Sono stanco di fuggire, di avere
paura.
Preferisco tagliarmi fuori dal
mondo, se deve essere il prezzo della tranquillità.
Sono il Buio e mi basto.
Sono il Buio e non voglio.
Spesso qualcuno mi cerca, insieme
al Silenzio, ma non è più tempo per noi.
Né per me, né per lui.
Lui è morto, non si riesce a
trovare più da nessuna parte, ormai. Sconfitto, stanato anche dal semplice
frinire di una cicala. Era troppo debole.
Io non voglio fare la stessa fine.
Sto bene, qui.
Capita a volte, sì, che mi senta un
po' solo.
Quando succede, mi basta
socchiudere l'uscio e lasciare entrare un pezzetto di Mondo. Tre fiocchi
di Neve fresca, una Foglia vinta dall'autunno, un pizzico di Sole.
Ma è pericoloso là fuori. È
brutto.
Solo che da qualche giorno, là
fuori, passa Lei.
Lei è inspiegabile.
La prima volta, quando ho visto
quel movimento dietro lo spiraglio ho avuto talmente paura da immobilizzarmi.
Non ho voluto richiudere la porticina nel timore che potesse essere attratta
dal movimento e scoprirmi. Per necessità sono rimasto a guardarla.
Lei è inspiegabile.
È ripassata, nei giorni dopo, ma
non sempre.
In un paio di occasioni si è
soffermata, gli occhi socchiusi come a guardarmi, con la testa che ondeggiava
lenta per scrutare nell'oscurità.
Non può vedermi. Io sono il
Buio.
Avere i suoi occhi puntati nei miei
è stato inspiegabile.
E adesso, nel timore di perdermi un
suo passaggio tengo sempre più spesso la porta aperta ed entra sempre più Luce
e più Foglie e più Neve e più Sole.
Lei è inspiegabile.
Meravigliosa e inspiegabile.
Da quando l'ho vista non sono più
solo Buio.
Da quando l'ho vista sono Buio e
Attesa.
§§§
- 2 -
Autrice: PAMELA PIROLA
I segreti del capanno
La porta socchiusa del capanno degli attrezzi fece ritornare in mente a Sophie i ricordi d’infanzia. Quello era il luogo dove si
nascondeva con sua cugina Annalise, dove si raccontavano i loro segreti più
intimi e dove piangevano l'una sulla
spalla dell’altra.
Il capanno faceva parte della
immensa dimora dei nonni di Sophie. Lei amava trascorrere le giornate, in quel
posto. Le vennero in mente le corse sfrenate nel giardino, i picnic sotto al pino secolare, le passeggiate
con il nonno fino al fiume e in tutte queste circostanze c’era sempre anche
Annalise. Tra di loro si era instaurato
un rapporto speciale, unico e fraterno. Sapevano che potevano contare nel
momento del bisogno l’una sull’altra.
Purtroppo però questo periodo
magico finì quando Annalise dovette partire per New York perché era stata
assunta da una grande multinazionale.
Un oceano avrebbe separato le due cugine.
L’ultimo giorno che passarono
insieme andarono al capanno a piangere abbracciate. Poi arrivò il momento che nessuna delle due avrebbe mai voluto che arrivasse. E proprio allora una parte di Sophie volò via.
Le
settimane seguenti alla partenza di
Annalise furono difficili e dure da superare ma, con il passare del tempo,
Sophie capì che le amicizie vere e i legami speciali restano in eterno anche se
lontani chilometri e chilometri.
Sophie, immersa nei ricordi e nei pensieri
oltre alla brezza del vento, non si rese conto che qualcuno era sopraggiunto
alle sue spalle.
Quel giorno era speciale, avrebbe
rivisto finalmente dopo tanto tempo la parte di lei che era volata via, come
stava volando via dall’uscio del capanno
la foglia d'albero gialla, mossa dal
vento.
Sophie e Annalise avevano ereditato
la dimora dei nonni e a loro spettava la decisione se vendere o tenerla.
Quando Sophie si voltò, vide sua
cugina e, senza dire una parola, si abbracciarono.
Quello era il loro posto speciale e
per nulla al mondo avrebbero potuto rinunciarci.
Davanti al pino si promisero di ritrovarsi lì ogni estate e per sigillare questa promessa si scambiarono un bracciale uguale che entrambe misero al polso sinistro… La parte del corpo che porta al cuore.
§§§
- 3 -
Autrice: TIZIANA MAZZA
La casa nel bosco
Quella mattina la nostalgia bussò
più del solito sulla corteccia della sua memoria.
Alla fine aveva vinto.
Era riuscita a penetrare i meandri
della sua mente, riportando alla luce quei ricordi mai sopiti.
Cos’era stato a risvegliarla?
Lorena stava passeggiando per i
giardinetti della sua città, osservando le mamme sedute sulle panchine a chiacchierare
mentre i loro pargoli giocavano con la sabbia, in quel tardo pomeriggio
d’autunno. All’improvviso una leggera brezza si era alzata facendo staccare dai
rami degli alberi le foglie ormai secche e subito le erano tornati alla mente i
ricordi d’infanzia, quando ancora si festeggiava il santo patrono Francesco e,
unendo la ricorrenza di ognissanti con la commemorazione dei morti, si poteva
disporre di qualche giorno di vacanza. Lei era solita trascorrere quel periodo dai
nonni, in quella piccola casa di campagna dalle porte color azzurro pastello, molto
più adatte a un’abitazione marina, come quelle che si trovavano sulle isole
greche. Invece no, quelle quattro mura si trovavano proprio nel centro della Pianura
Padana e l’unica acqua che si trovava nei paraggi era quella del ruscello che
scorreva a duecento metri e che, dopo alcuni giorni di pioggia, rumoreggiava
atteggiandosi a grande cascata, come se si volesse dare delle arie… Ma forse
era solo il suo ricordo di bambina che lo ingigantiva.
La decisione arrivò così, sui due
piedi, in risposta a un richiamo irresistibile. Riempì il trolley con lo
stretto necessario per una settimana e salì a bordo della sua fedele Carolina -
così Lorena soleva chiamare la sua Cinquecento – lasciandosi condurre sulle
strade della memoria per ricongiungersi con quel pezzo di cuore lasciato fra
quelle mura diroccate.
Giunta sul posto si stupì di
trovare la porta aperta. Era scrostata, ma conservava ancora tracce dell’antico
colore azzurro. Per terra, ovunque, foglie secche di platani scricchiolavano
sotto alle suole delle scarpe, mentre i suoi piedi compivano passi incerti.
«C’è nessuno?»
La sua voce uscì falsata dalla
bocca. Solo in quel momento si rese conto del pericolo che stava correndo: e se
ci fosse stato qualche malintenzionato? Si sentì tanto Cappuccetto Rosso,
pronta a finire nelle fauci del lupo.
Si guardò attorno, il tempo
sembrava essersi fermato, tutto era rimasto immutato: i mobili, le
suppellettili, perfino gli odori erano quelli di una volta… Le sembrava perfino
di sentire il profumo della cannella, lo stesso che si spargeva per la casa
quando la nonna preparava la torta di mele… Il potere della suggestione!
Seguì la scia del dolce aroma fino
ad arrivare in cucina, dove sul tavolo giaceva in bella mostra una torta di
mele proprio come quella dei suoi ricordi d’infanzia. Sembrava appena sfornata,
allungò una mano per toccarla, era ancora calda… Una leggera brezza fece
frusciare le foglie sul pavimento: sentì come una lieve carezza sfiorarle la
guancia, era dolce, sapeva di mele e cannella…
Nonna!
§§§
- 4 -
Autrice: LINDA SILVIA SCARPENTI
Agnese
Ricordo che ero solita passare da quella strada, per recarmi in ufficio il mattino.
Era da poco iniziata la primavera
e, nelle giornate di sole con il cielo terso da rendere Milano speciale,
riuscivo ad allungare il tragitto, per goderne appieno i benefici.
Ero anche solita vedere, davanti al portone di quella casa d’epoca di piazza Sant’Ambrogio, una bella signora sorridente, che puliva il marciapiede.
Bastò poco per iniziare a salutarci e a scambiare due parole. Due parole che divennero, col tempo, una consuetudine cui mai avremmo rinunciato.
Mi aveva subito colpito per l’aspetto e il portamento dignitoso, cui faceva da cornice un sorriso dal quale, però, traspariva una tristezza interiore infinita: Agnese.
Ricordo quella volta in cui accennò al dolore provato quando la vita le portò via l’affetto più grande che avesse al mondo… Sua figlia.
«Cosa si prova? Dolore, certo! Come si può, però, cercare di spiegare esattamente quello che si prova? Del resto, come puoi descrivere un dolore così forte, lancinante… Talmente penetrante da diventare parte di te, per poi trasformare le tue emozioni, il tuo sentire e il tuo vivere?» disse un giorno, in modo concitato, quasi a voler esorcizzare il dolore stesso, e come se non fossi presente.
«Forse, è proprio tutto questo che
dà l’idea di quello che si prova, non credi?» aggiunse.
Riferendosi alle sue esperienze - a volte, fissando il vuoto - ripeteva quasi ogni giorno che il perdono era il filo che correva lungo la trama della sua vita.
«Il perdono, proprio così! Bisogna
proseguire… Si deve andare avanti. La vita toglie, ma dà anche tanto; si deve
perdonare» diceva, quasi a volermi convincere.
Quanta forza, pensavo…
Spesso e volentieri, le chiedevo
dove fosse Dio, il suo Dio… Io che l’avevo perso.
Ricordo quella volta, quando Agnese
mi rispose un po’ bruscamente, ma con l’affetto di chi rimprovera un figlio: «Nessuno
conosce i disegni del Signore.»
Beh, quella volta, riuscì ad
ammutolirmi: non sono più stata in grado di replicare perché il pensiero di
quanto la Fede possa aiutare è stato predominante. Non importa quanto doloroso
sia il tuo destino, se credi fermamente che a pianificarlo sia stato qualcuno
più grande di te.
Non riesco più a passare da quella bellissima piazza, il cuore mi si riempie di dolore. Da quella mattina in cui non la vidi fuori, sul marciapiede, e dalla mattina seguente, quando il portone parato a lutto diede conferma al dubbio, lasciando spazio a quel dolore infinito che provo tuttora.
L’altra notte l'ho sognata. Era con una ragazza, credo sua figlia.
Mi sorrideva senza voler celare
alcuna tristezza. Mi ha detto che non mi vede più passare da casa sua… Mi ha
ricordato che la vita va perdonata.
È da qualche giorno che ho ripreso ad attraversare piazza Sant’Ambrogio, dove le foglie colorate d’autunno, sollevate leggermente dall’aria novembrina, si posano leggere sul marciapiede di Agnese.
Passo e la saluto, come ogni
mattina, con la consuetudine cui mai più vorrò rinunciare.
§§§
- 5 -
Autrice: BARBARA GALIMBERTI
FOGLIE D’AUTUNNO
Il pianto incessante della pioggia
stava lasciando il posto a un pallido raggio di sole, che a fine settembre
cercava ancora di sbalordire arrivando all’improvviso.
Elena sorrise dentro di sé al
pensiero di quel messaggio ricevuto qualche ora prima da suo marito.
Usciva sempre molto presto al
mattino per recarsi al lavoro e lui, solo con uno sguardo assonato, ogni giorno
la salutava accucciato nel letto.
Avevano preso l’abitudine di
scriversi qualche parola appena possibile, come fossero ancora ragazzini
desiderosi di confidarsi piccoli segreti.
Da quando il loro unico figlio si
era trasferito a Roma, erano rimasti soli a vivere la quotidianità dei loro
silenzi o il brusio di qualche risata. Ogni sera abbracciati sul divano, troppo
grande per due persone, guardavano spensierati una serie televisiva o un
vecchio film, del quale conoscevano a memoria le battute, dividendosi un gelato
confezionato con l’unico cucchiaio rimasto di un vecchio servizio di posate.
L’allontanarsi di un figlio crea un
vuoto, che fa male e lascia un segno. Ma Elena e Marco stavano cercando di
ricreare abitudini che fossero solo loro, come quelle che avevano costruito con
fatica e tanto amore in tutti quegli anni, dopo aver varcato la porta della
loro prima casa, con l’emozione di sapere che da quel giorno sarebbero vissuti
l’uno per l’altra.
Uscita dall’ufficio, Elena era
corsa in stazione sperando di prendere il primo treno per raggiungere Marco al
più presto. Nelle poche parole di quel messaggio non era riuscita a capire il
perché dovesse recarsi alla casa sul lago. Era passato più di un anno
dall’ultima volta che erano andati lì. Emanuele si era trasferito da poco e
loro ormai esausti dal suo trasloco, avevano deciso di prendersi qualche giorno
di vacanza, andando proprio in quella vecchia e rugosa casa, che li aveva
ospitati dal momento in cui, anni prima, le loro vite si erano unite.
Poi, chissà perché non avevano più
trovato il tempo di scappare dalle corse di tutti i giorni. Elena si sedette accanto al finestrino per
ammirare lo spettacolo dei colori del lago e le montagne che sembrava volessero
abbracciarlo.
In poco più di mezz’ora arrivò a
destinazione. Il sole si era ormai nascosto. La danza degli immensi alberi, che
si muovevano sulle note di un vento leggero, l’accompagnò fino al quel vecchio
uscio.
Proprio lì, foglie ingiallite si
posarono con delicatezza sui suoi piedi, dopo aver lasciato il loro amato
albero, per poterlo proteggere dal freddo che ormai era pronto ad arrivare.
Lo scricchiolio della vecchia porta
di legno destò Elena dai suoi pensieri. Marco era lì, con i capelli ormai
ingrigiti, qualche chilo di troppo, ma con quel sorriso e quell’amore negli occhi,
che ancora per lei lo rendevano speciale .
La luce soffusa di una candela illuminò i loro sguardi. Elena sentì una lacrima scendere solitaria tra le piccole rughe, che si erano ormai affacciate sul suo viso. Con dolcezza Marco l’accarezzò e sussurrando con tutto l’amore, che dopo tanti anni riempiva ancora il suo cuore, disse con semplicità...
...Ti amo.
§§§
- 6 -
Autrice: LAURA SCARTABELLI
La porta azzurra
Di nuovo un tuffo al cuore.
Non ero più passata di lì da quando
lei se n’era andata.
Teresa era una donnina piccola.
Solo di statura, però. Per il resto era immensa come i suoi occhi, in fondo ai
quali potevi vedere la calma del mare dopo la tempesta.
Abitava in una casetta con la porta
azzurra ai margini del bosco, proprio sotto la fermata dell’autobus che ogni sera
prendevo per tornare a casa, dopo la giornata di lavoro.
Un giorno, causa litigata
telefonica con il mio fidanzato, persi il pullman e mi misi seduta sotto la sua
finestra ad aspettare quello successivo, che però non sarebbe arrivato prima di
un’ora.
Sfinita di stanchezza e con i nervi
a pezzi, in silenzio, cominciai a piangere.
«Che può essere successo di tanto
grave a una ragazza così carina?»
Era la voce più dolce che avessi
mai sentito. Sembrava quasi una melodia.
Mi voltai. Anche la figura era
armonica.
«Mi scusi, signora... No, niente…
Sciocchezze.»
«Quando una donna piange, non lo fa
mai per cose sciocche.»
Mi chiese se volevo entrare a bere
un sorso d’acqua e, come se la conoscessi da sempre, non solo entrai ma le
raccontai tutto.
La discussione con Marco, i suoi
modi arroganti e il costante senso di inadeguatezza che mi portavo addosso e che,
da sempre, mi faceva sentire diversa dalle mie coetanee.
Loro dentro. Io fuori.
Teresa mi ascoltò con attenzione e poi, guardandomi dritta negli occhi, mi disse: «Hai dentro un mondo intero da esplorare e da far esplodere quando sarà il momento. Ognuno ha i propri tempi di arrivo nella vita. Quella che tu chiami inadeguatezza, in realtà è il tuo punto di forza. Fanne tesoro.»
Da allora, mi fermavo spesso la
sera a chiacchierare con Teresa.
Aveva ottant’anni e una vita alle
spalle non facile. Non aveva parenti prossimi, solo una nipote che però viveva
molto lontano. Nonostante ciò, era sempre radiosa e io mi sentivo bene anche solo
a guardarla.
La porta azzurra di casa, il
pavimento di legno dipinto di verde e lei sulla sedia a dondolo, erano ormai diventate
immagini familiari.
Quando non mi fermavo, aspettavo
comunque la sua presenza alla finestra o sulla porta di casa, per un saluto.
Anche quella mattina le nostre voci
avevano risuonato nell’aria fresca di fine ottobre; ma alla sera Teresa non era né alla finestra, né
sulla porta che però, stranamente, era aperta.
Entrai.
Un tuffo al cuore.
Era sul dondolo, con gli occhiali
in mano e il capo reclinato da una parte. Sulle labbra un lieve sorriso.
Se n’era andata così. In silenzio.
Ho cambiato itinerario per andare a
lavorare e non ho mai più preso quell’autobus. Fino a oggi. Ne avevo un disperato
e doloroso bisogno.
La porta era aperta con alcune
persone dentro. Forse la nipote con il marito. Chissà…
Le foglie aranciate sembravano quasi addobbare la porta azzurra e il pavimento verde per ricordarmi che il suo amore non si è perso.
Ha solo cambiato forma e dimensione.
§§§
- 7 -
Autore: VALTER MANUNZA
L’ultimo autunno
Ho lasciato la porta aperta dall’ultimo autunno.
Dall’ultimo autunno, sai, da quel giorno, perché voglio che entri ancora l’odore.
Nelle giornate di
vento a volte lo porta, o almeno a me pare. Se solo chiudo gli occhi, si infila
nelle stanze e mi scuote. La finestra che sbatte e io non la chiudo. Le foglie
cadono e si posano lì, sulla linea che mi separa dal mondo. Una mi guarda e
pare voglia entrare. Poi si ferma, timida.
La porta l'ho lasciato aperta, da quel giorno dell’ultimo autunno.
Voglio che entri il rumore che più non sento. Solo un giorno, attraverso il traffico e l’abbaiare di un cane, sai, ho sentito quel fischio e il mio nome. O almeno mi è parso a occhi chiusi in poltrona.
Stanno ferme, le foglie, mentre passano le
ore senza che per me cambi niente. Si muovono appena alla brezza leggera.
Ci sono giorni
chiari d’inverno che il sole limpido le colpisce solo un attimo prima che torni
rapida l’ombra. Come quando provo a sorridere ma poi mi ricordo.
Qualcuno si affaccia ogni tanto e mi parla piano. Mi guarda come se fossi strano perché tengo la porta aperta. Io vorrei dirglielo che si deve chiudere da sola. Che non posso farci niente.
Mica ho voglia, sai, di sforzarmi, di dimenticare. Non mi dispiace mica che sei qui, anche così.
A volte mi
appoggio allo stipite e mi affaccio. Lo vedo che c’è un mondo, anche se per me
ha cambiato colore.
Ma non ho la forza
di uscire. Non ancora. Aspetto che la porta si chiuda da sé per passarci
attraverso.
La notte, dici?
Non la chiudo. No.
Neanche la notte.
La accosto un po’ e
lascio uno spiraglio perché entri anche un minimo di luce che illumini il buio.
Un odore, un
rumore anche lieve, che io possa continuare a pensare.
Dall’ultimo autunno ho lasciato la porta aperta e le foglie a guardarmi.
§§§
Quadro con foglie
e vernice secca
«Guarda bene. Non
ci vedi proprio nulla?»
«Delle foglie su
una soglia di casa. Che diavolo dovrei vederci?»
«E questo cosa
significa?»
«Il giardiniere si
è dimenticato di portale via?»
«No, dannazione!
No!»
«Non lo so, io non
ci vedo nulla di strano…»
«Come ci saranno
finite queste foglie qui?»
«Ma che ne so?
Sarà stato il vento!»
«Il vento?»
«Il vento» ripeté
l’altro con sarcasmo.
«Il vento... Il
vento ti porta sulla soglia di casa delle foglie di acero secche e una foglia
di betulla o castagno o quel che è?»
«Perché? È così
strano?»
«E quelle scaglie
di vernice secca, invece?»
«Segno
dell’usura?»
«Segno dell’usura…
e come mai allora sono messe tutte l’una vicino all’altra? Vicino alle foglie…
con una foglia verde e delle foglie secche…»
«Mi sa che hai
troppa immaginazione.»
«No, sei tu che ne
sei privo!»
«Che significa,
allora?»
«La giovinezza e
la virtù?»
«What?»
«La scaltrezza e
l’ottusità?»
«Comme?»
«La monotonia e il
cambiamento!»
«Sarà… Ma allora
perché tante foglie e delle vernice secca per terra?»
«Perché rimanere
inchiodati alle vecchie abitudini è facile, fin troppo facile, ma rimarrai
sempre dove sei. Cambiare, invece, è ben più arduo e non sai mai se avrai
successo o no. Però sai già cosa devi fare per scoprirlo.»
«Come faccio a
saperlo?»
«Se la smetti di
guardare per aria ma osservi meglio… Guarda la foglia verde, vedi dove punta?»
«Dentro la stanza buia. Ma non so cosa c’è là dentro. Ho un po’ paura...»
«Lo so.»
§§§
- 9 -
Autrice: COSTANZA TROTTI
La porta della vecchia casa si apre scricchiolando con quel suono che da piccoli ci faceva rabbrividire perché credevamo alla presenza dei fantasmi. Il tappeto di foglie secche, con la spinta del vento, ha seminato i suoi resti sulla soglia, non lasciando la casa mai del tutto sola. Mi tocca entrare, il buio non mi spaventa e continuo a tentoni verso la finestra.
In buona compagnia dei ricordi, risento le filastrocche lunghe con le diverse tonalità di voce, i colpi dei piedi che saltellano, in attesa dei racconti intorno al braciere caldo e sfavillante.
Forse non sono mai andata via davvero; come le foglie hanno trovato il loro
posto lontane dall'albero, così i pezzi di cuore sono rimasti lì, tra le pieghe
più nascoste del tempo, dove i macigni spigolosi della vita vengono levigati
dalle maree della memoria.
§§§
- 10 -
Autrice: ELISABETTA MOTTA
Percorro il sentiero in acciottolato chiaro. Il cielo è limpido ma tira vento. Mi soffermo su quella soglia, attratta dalla porta aperta. Il legno è scrostato, porta il peso del tempo, come una pelle segnata dagli anni. Sono curiosa di entrare, ma allo stesso tempo non voglio violare la privacy di quelle mura domestiche, anche se sembrano disabitate da anni. Un refolo di vento spinge all’interno le foglie secche, gialle e rosse, unici colori a vivacizzare il buio. Il loro fruscio spezza il silenzio tra quelle pareti. Il silenzio di anime che non ci sono più.
Il suo uscio scostato è un invito a
entrare. Seguo quelle foglie che vanno a raccogliersi in un angolo, come se
avessero trovato un rifugio al loro vagabondare. Lo scalpiccio dei miei passi
si unisce al rumore che producono nel rincorrersi sul pavimento, in un
malinconico girotondo.
Mi fermo, timorosa di disturbare la
quiete di quel posto, come se fosse un luogo sacro.
Chissà, forse in passato dei
bambini hanno fatto davvero un girotondo lì dentro, un allegro girotondo
facendo risuonare le pareti dei loro gridolini gioiosi. Un tavolo malridotto è
posto al centro, attorno ci sono delle sedie instabili. Un vecchio camino
troneggia nell’angolo, la sua cappa è annerita. Immagino una pentola di
terracotta che sobbolle sulle braci, nei lunghi e rigidi inverni; un fuoco
scoppiettante che irradia calore e luce nella stanza. I vetri delle finestre
appannati. Una famiglia raccolta attorno
a quella tavola che ospita un fiasco di vino e un cestino di castagne. Delle
voci, degli odori, dei sapori.
Quel luogo deserto ha una storia da
raccontare. È vivo, anche se triste perché è rimasto solo. I luoghi non muoiono
mai. Hanno un’anima immortale. Ma si offendono. Piangono. Sopravvivono a noi.
Raccontano di noi. Sono memoria e la memoria è l’abbraccio caldo di cui abbiamo
bisogno quando ci sentiamo vuoti e persi. Abbandonati, esattamente come quella
casa buia.
Riprendo la mia passeggiata. Il sole mi bacia il volto e sorrido. I miei
passi sono lenti come a volere assaporare la riposata bellezza di quella
giornata d’autunno; i suoi colori sono vita. Gli alberi guardano al cielo, con
i loro rami spogli. Gli uccelli si librano in volo, disegnando mondi infiniti.
§§§
- 11 -
Autrice: FEDERICA GALETTO
Il cielo plumbeo di quel mattino
mi scivolò nel cuore, lento e inesorabile. Sul fondo della tazza davanti a me
solo polvere, di caffè e nuvole. Il telefono taceva dalla sera precedente;
immobile sul tavolo della cucina
tratteneva nella pancia di metallo un suo messaggio. Nel giardino di
fronte la siepe di lauro luccicava nella luce livida e oltre il viale ancora
spoglio, piantumato di calle, la porta sbarrata della sua casa rimpiccioliva,
mentre la guardavo fissandola senza speranza. Ricordai quando lo vidi per la
prima volta: indossava una tuta blu e un cappello di lana che gli copriva la
sommità del capo, da cui spuntavano riccioli neri cadenti sulle spalle. Potava
gli arbusti di rose accanto al cancello, fischiettando. Un giorno uscii dalla
porta a ritirare la posta e i nostri sguardi si incrociarono, così come avvenne
nei giorni seguenti, fino a sorriderci ma senza avere mai il coraggio di
parlare. Un giorno, però, il postino scambiò una lettera indirizzata a me con
un'altra sua e poche ore dopo bevevamo caffè in veranda, ridendo di quel
contrattempo, dimenticando il mondo fuori, come ci fossimo sempre conosciuti.
Il destino ci aveva così agganciati al suo carro di luci, risplendenti come
stelle la notte. Ci innamorammo subito, come folgorati da misteriosi lampi
caldi che ci vorticavano dentro, in una sorta di bolla incandescente che ci
conteneva. I suoi occhi verdi e lucenti mi rapirono; come in un sogno mi fecero
credere che potesse davvero esistere un mondo in cui l'amore dominava ogni
cosa. Nella primavera del nostro primo anno, ci dedicammo insieme a piantumare
le aiuole sul retro della mia casa, scegliendo viole mammole, iris e
giunchiglie, tulipani e primule, e gerani ricadenti appesi alla ringhiera del
balcone della mia camera. Lui era un uomo che i fiori li aveva nelle mani,
nella testa e soprattutto nel cuore; lo capii dal modo in cui mi guardò la prima volta senza neppure
conoscermi, da come toccava le foglie del vecchio gelso, dal sorriso che
dedicava alla terra ogni volta che la rivoltava. Aveva viaggiato molto e si era
infine rifugiato in quel piccolo borgo medioevale, coltivando rare specie di
orchidee, strappando al fazzoletto di terra dietro alla sua casa la bellezza
dei fiori e la succulenta bramosia degli ortaggi. Uomo riservato e imponente,
di poche parole e occhi grandi e curiosi. Quel giorno però, la porta della sua
casa era rimasta serrata. La intravidi oltre la siepe di lauroceraso, accanto
alla porta socchiusa del garage. Nel
piccolo taglio di luce del portone il suo capo: riverso sulla spalla sinistra,
fermo in una piega innaturale, simile a quella della testa di una marionetta
rotta. Urlai tanto che il mio grido fece
tremare i vetri delle finestre; e tutti i petali dei fiori che lui aveva
piantato per me.
Foglie morte
Passata la tempesta, rimangono per
terra solo rovine, rami spezzati e tante foglie strappate agli alberi dalla
furia rovinosa del vento.
Era un pomeriggio di mezza estate;
piano piano un piccolo aggroviglio di nuvole grigie e piene d’acqua si formò
nel cielo. Qualche tuono isolato accompagnato da fulmini creava motivo di
preoccupazione. Poi, il vento ne trasportò altre da lontano fino a formare un
ammasso più compatto. La gente guardava preoccupata il cielo e temeva che in
breve tempo si potesse scatenare un tremendo temporale.
La calura dei giorni precedenti
aveva reso l’aria irrespirabile; il caldo afoso era opprimente: mancava quasi
il respiro. Un temporale sarebbe stato il benvenuto per rinfrescare l’aria;
però, quell’ammasso di nuvole scure, che man mano diventava più compatto, non
prometteva nulla di buono.
Già in passato ci fu un evento
simile con conseguenze disastrose; però, la gente dimenticò presto i danni precedenti.
Carlo, il gestore di un lido, non si sentiva per nulla tranquillo; era in
dubbio se lasciare tutto immutato, sperando che il vento amico avrebbe
allontanato le nuvole, portandole il più lontano possibile per farle sfogare
chissà dove, oppure mettere a riparo ombrelloni, sdraio e ogni cosa leggera che
il vento avrebbe potuto spazzare via.
Quella volta rischiò e affidò a Dio
le sue preghiere affinché la tempesta passasse senza lasciare danni. Gli era
andata bene altre volte e la troppa sicurezza, che anche allora le sue
preghiere fossero state esaudite per un attimo, lo tranquillizzarono. Era
convinzione che quelle perturbazioni estive fossero un fuoco di paglia; troppo
rumore per nulla.
Carlo continuò il suo lavoro
all’interno del locale incurante di guardare il cielo. La spiaggia intanto si
era svuotata dei bagnanti, che raccolte le loro cose andarono via per mettersi
al riparo. Ma il cielo è imprevedibile: ogni momento non è uguale al
precedente. I venti sono forze della natura imprevedibili; soffiano in ogni
direzione quando c’è presenza di temporale imminente. E così, quello che
teoricamente doveva essere un temporale solo annunciato, invece scoppiò in
tutta la sua potenza e si abbatté su quel lembo di terra fino ad allora
risparmiato, smentendo le previsioni di Carlo.
Vortici di polvere si innalzarono
nell’aria e un turbinio di oggetti si sollevò come fuscelli; foglie di tante
forme, dimensioni e colori si alzarono dal suolo simili a farfalle svolazzanti.
Sbattute di qua e di là venivano sospinte verso zone controvento e qui fra
mulinelli giravano su sé stesse, per poi fermarsi definitamente quando il vento
si calmava. Non ci fu una tempesta di acqua, ma solo di vento.
La furia delle folate strappò
letteralmente le foglie dagli alberi e le fece volteggiare nell’aria a suo
piacimento.
La foto in questione ci mostra i
segni di quella tempesta; quelle foglie ingiallite prima del tempo, a causa
della calura estiva, ci dicono che le foglie sono destinate a cadere, ma se
cadono prima del tempo non è un bel segnale per i cambiamenti climatici.
- 13 -
Autore: CHRISTIAN POLLI
Sai che le porte non si richiudono
così facilmente?, pensai, mentre mi ero fermato davanti a quella casa
abbandonata.
Chissà chi ci avrà abitato, chissà
quali sentimenti quell’abitazione avrà provato… Continuavo a ragionare così
finché un brivido mi percorse la schiena e, in un lampo cerebrale, vidi
ossa e sangue. Non era che una pura illusione, una chimera, il comprendere che
quella casa aveva qualcosa di maledetto. Un sussulto di anime dannate che
scemano al vorticare del vento impetuoso di quella giornata d’autunno mi fece venire i brividi. Non sapevo che fare: rimanere lì, fisso, a intravedere i
fantasmi della mia mente, o incamminarmi verso quella strana porta? Mi feci
coraggio, presi con me l’ombrello da passeggio e, con sottofondo un lento
gracchiare di corvi, mi incamminai. Arrivato nei pressi dell’abitazione, notai
con stupore che quella catapecchia aveva la porta leggermente aperta e, sul
limitare dell’ingresso, un grumo di foglie autunnali erano sparpagliate quasi a
dipingere la scena di un paesaggio di morte.
Deglutii profondamente e accesi la pila che portavo con me per osservare ciò che c’era all’interno. La casa era nuda, spoglia: vi erano soltanto una sedia a dondolo e, per terra, un peluche con sopra scritto daddy, ovvero “papino”. Ma non feci in tempo a rendermi conto che sul lato del muro di ponente, una scritta vi si stagliava con quella che credevo fosse vernice rinsecchita: “Ti ho amato e tu mi hai…”
La frase
terminava così, incompleta.
Che cosa potrà significare tutto
questo?, mi chiesi io, allarmato da quella tremenda apparizione.
«E che cosa, se non un omicidio?» mi sussurrò glaciale una voce alle spalle.
Il mio cuore correva all’impazzata,
sudavo freddo e per poco non svenni. Mi girai e vidi un uomo, sulla quarantina,
che sorrideva di una risata infernale.
«Chi siete voi?» feci io, tremando.
«Chi sono o... chi ero?» fece lui
ridendo e piangendo al contempo. «Non ha più importanza. L’unica cosa che devi
sapere è che vivevo finché non ammazzai mia moglie e mia figlia in un raptus di
follia omicida nell’anno 1843.»
«Ma… voi… siete un pazzo! Siamo nel
1943 e non un secolo fa!» ribattei io guardandolo sconvolto.
«Appaio ogni cento anni nel luogo che il demonio mi ha destinato per ricordarmi l’orribile delitto dal quale non scampai né in vita, né in morte. Quando mi presero le autorità, non volli confessarmi e andai al patibolo ridendo… Esatto, come adesso mi è dipinto sul volto. Non credi alla mia storia? Guarda, oh uomo, questa scritta di sangue umano che la mia Bessy volle scrivere prima di essere squarciata dalla mia ascia. Guarda!» E gridò scomparendo tra i tormenti di un gelo di morte nel quale caddi in uno stato di sopore.
Mi svegliai circondato dai poliziotti e dai
miei parenti che mi vennero a cercare. Ma quell’esperienza mi lasciò diverso,
di sicuro non più lo stesso. Sia che abbia sognato sia che fosse tutto vero,
scoprì che non tutte le porte si richiudono così facilmente, se si hanno dei
conti in sospeso.
§§§
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Autrice: ELEONORA FIGLIUZZI
Mosaico di ricordi
Un vento fortissimo spazzava via
le foglie quasi appassite, in quell’autunno dai mille colori, e sul mio
uscio di casa socchiuso si formava un mosaico di una rara bellezza. La
pioggia che scendeva lenta rendeva ancor più luminose le loro forme. Il
tramonto mi sorprese ancora lì, ferma a osservare il loro danzare nella
penombra della sera e dentro di me nasceva così il desiderio improvviso,
di dar voce a quello spettacolo che ogni anno si ripeteva.
Ma una voce all’interno della stanza mi fece tornare sui miei passi. Piano, chiusi dietro di me la porta ancora aperta, lasciando fuori quella meraviglia che aveva conquistato i miei occhi, ma ancor più la mia anima...
§§§
- 15 -
Autrice: TANIA MIGNANI
Cambiamenti
Senti, Lady, ma cosa ci facciamo qui, noi due?
Eh, lo so, a te basta annusare a destra e a sinistra, scodinzolare un po' e guardare ogni cosa con quell’aria di sufficienza.
Ma io, dimmi, che ci sono venuta a
fare qui, oggi?
Sì, lo so, devo controllare questa
vecchia casa della nonna. Il signore che se n’è occupato
finora è anziano e dovrò trovare qualcuno che prenda il suo posto.
Il giardino non è male, vero Lady?
Ho capito che ti piace, è inutile che scorrazzi in lungo e in largo buttandoti
sui mucchi di foglie secche. Questi enormi alberi sono bellissimi ma in autunno
riempiono il giardino di foglie, anche nonna si lamentava sempre quando doveva
raccoglierle.
Vieni, entriamo. C’è odore di
chiuso qua dentro, spalanchiamo le finestre e cambiamo aria così, nel frattempo
entra anche un po' di sole, godiamocelo che fra poco inizierà l’inverno.
Quanta polvere, fortuna che il
vecchio custode ha pensato di coprire i mobili con dei teli, non è che siano di valore, ma nonna ci teneva tanto.
La mia amica dice che
dovrei venderla o, almeno, affittarla. Mi chiedo chi abbia voglia di vivere in
questo piccolo borgo, in mezzo alla campagna, a più di un’ora di strada dalla
città, dalla civiltà.
Guarda, Lady, questa è la vecchia
vetrina di nonna. È ancora in buono stato, se affitterò la casa dovrò portarla
via, non vorrei che i nuovi inquilini la rovinassero.
Nonna ci teneva il servizio buono.
Ricordo ancora una sera, la Vigilia
di Natale, in cui mi diede il permesso di apparecchiare, avrò avuto dieci anni.
Che ansia, ero terrorizzata dal pensiero di fare cadere una delle sue preziose
porcellane. Sono sicura che, se fosse successo, non si sarebbe mai arrabbiata
con me.
Da bambina trascorrevo le vacanze
estive e invernali in questa casa, poi, crescendo, non la frequentai più.
Ero giovane e non avevo voglia di
sprecare le mie giornate in un paese semi-abbandonato come questo.
Lady, io e te siamo animali da
città, la vita in campagna ci annoia, vuoi mettere una bella passeggiata in
centro tra mille vetrine. Ehi, non ci provare, non guardarmi con
quella espressione, ti stancheresti subito anche tu.
Certo, qui il silenzio non manca,
forse è anche troppo. Magari ne avessimo un po' anche nel nostro appartamento,
potrei dedicarmi al mio romanzo con più concentrazione e invece… La signora del
piano di sotto che alle otto di mattina passa l’aspirapolvere come se non ci
fosse un domani, il tizio del piano di sopra che rincasa a mezzanotte con la
fidanzata che vive perennemente su scarpe con tacchi a spillo. Senza
considerare le comari che fanno salotto sul pianerottolo a ogni ora del
giorno.
No, non se ne parla, non potrei mai
vivere qui. Lady, non ci provare. Sì, lo so, qui potresti uscire anche da sola
nel giardino, non dovrei vestirmi di mattino presto o alla sera per portarti
fuori e io potrei sistemarmi nel gazebo e scrivere all’aria aperta.
Magari ci potremmo provare, solo
pochi giorni o un week end. Il riscaldamento è funzionante e c’è scorta di
legno per il camino.
Vieni, Lady, andiamo a vedere le camere, magari stasera ci fermiamo qui, ormai è tardi.
Ho visto una pizzeria all’entrata del paese,
ti va?
§§§
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Autrice: SILVANA DA ROIT
L’ANTIDOTO
La casa era già stata sgomberata dopo la morte improvvisa del padre, ma Diletta aveva deciso di andare a vederla per convincersi che fosse davvero vuota. Appena seppe che lo zio vi ritornava per recuperare la conigliera, si fece portare da lui.
Davanti al cancello provò lo stesso
stupore di quando l’aveva varcato la prima volta, e alla meraviglia impastò
un’uguale dose di malinconia. Ne conosceva la ragione, anche se aveva gran cura
nel nascondere il proprio turbamento perché agli adulti non piaceva avere a che
fare con bambini immusoniti, scappava loro la pazienza nel vedere la paura
dell’abbandono farsi largo in quegli occhi che perdevano l’innocenza.
O più semplicemente non sapevano
arginarla.
Il cancello si estendeva tra la
casa e un pozzo ricoperto da un tetto in piode che Diletta raggiungeva
arrampicandosi sulle inferriate. Ne aveva fatto la sua base, una specie di casa
sull’albero dove disegnare, leggere o starsene quieta coccolando gattini che
mai avrebbe visto crescere. La madre, una gatta selvatica rinsecchita, ne aveva
sfornati in quantità nascondendoli nella legnaia; qualcuno spariva, altri
venivano accolti da differenti famiglie. Le si diceva di non affezionarsi
troppo, e pur sapendo di doversene separare, stringeva a sé quei corpicini
tiepidi e palpitanti con il desiderio che nessuno arrivasse a portarglieli via.
Qualcuno arrivava sempre, come un
destino ineluttabile.
Attorno, la campagna sembrava
inghiottire la piccola casa e in tarda primavera sbocciava uno sterminato
esercito di gladioli che a inizio fioritura cadevano di traverso sulle zolle,
uno dietro l’altro, sotto la falce affilata dei coltivatori.
Al tramonto, non rimanevano che scarti
cotti dal sole, nessun petalo a testimoniare la bellezza mai matura.
Tutto finiva o spariva. L’aveva
imparato non dalla sua amata maestra, dalla vita stessa.
Mentre lo zio impilava le gabbie
arrugginite, Diletta colse un bagliore dietro le imposte della camera dove
aveva dormito col padre. Salì le scale esterne e forzò il portone gonfio di
umidità, poi aprì la finestra per rischiarare l’interno e venne investita da
una luce cruda, pesante, infingarda, che correva lungo le pareti scrostate,
negli angoli scuriti dal fumo e dalle ragnatele, tra le assi rovinate del
pavimento. Non c’era niente lì. Nessuna ragione per rimanere e, quel che era
peggio, nessuno da cui ritornare. Le venne da piangere: aveva timore di
portarsi sempre appresso quel senso di vuoto.
Poco prima di chiudere l’uscio, la
corrente d’aria mulinò due foglie secche appena dopo l’entrata; nel volo
rasoterra parvero rincorrersi, perdersi nel vortice, riunirsi, infine posarsi
fradicie di ebbrezza.
Era certa fosse un segnale, un
antidoto, una magia contro quel niente, quella sorta di rassegnazione che aveva
iniziato a marcarle la bocca.
§§§
Erano solo quattro assi inchiodate,
ma quella era la porta del basso.
Si apriva e tutto era in penombra,
un vago sentore di vino, olio e origano saliva alle narici, in estate da quelle
mura scavate nella roccia si percepiva una piacevole freschezza.
Quando gli occhi si abituavano si
vedevano le cose più disparate, attrezzi serviti un tempo per falciare l’erba,
grossi tini, botti, bottiglie vuote, trecce di aglio e l’immancabile origano a
testa in giù, messo a seccare in mazzetti e avvolto in carta di giornale, il
suo odore copriva gli altri.
Quello era il regno della nonna Caterina,
sì, perché lei soffriva il caldo e seduta su quell’uscio trovava refrigerio da
quell’arietta fresca che usciva dal basso, poteva così anche mantenere le
relazioni con le comari, e badare ai bambini delle donne che andavano nei
campi, c’era una muta intesa, fatta di amore e accoglienza.
Si formava un gruppetto di donne
anziane e bambini, il loro vociare disturbava il riposo pomeridiano del nonno,
e allora i piccoli battibecchi facevano ridere tutti, devo proprio essere
sincera, la nonna era una birichina.
Il nonno oltre ad amarla la venerava; diceva di lei, la mia sposa, negli occhi gli passava un velo di
dolce malinconia.
La porta di quel basso ha visto
anni di dolore, l’unico figlio morto in guerra, e quei vestiti listati a lutto
e portati per tutta la vita, quante lacrime sono cadute su quei gradini, con la
schiena piegata dal dolore appoggiata a quelle assi di legno ruvido.
Ha visto anche noi, nipoti seduti
lì, entrare in cerca di novità, e poi sederci a chiacchierare con la nonna e le
sue amiche.
Quando ero piccola ricordo che con
la scusa di farmi dormire mi portava con lei sullo scalino del basso, mi
prendeva in braccio e mi copriva il volto con il suo grembiule nero enorme che
le prendeva tutta la gonna fino alle caviglie, era il suo modo di farmi ombra,
non mi sono mai addormentata ma volevo stare così, vicino a lei, immobile, la
guardavo fra le trame della stoffa, e la sua voce diventava un sussurro, mentre
mi cantava le nenie antiche calabresi; intorno a noi bambini scalzi che
giocavano, ma in silenzio, non ricordo che abbiano mai litigato fra di loro,
quello era un mondo sommerso di povertà ma ricco d’amore, e lei, la mia nonna, era la regina della bontà.
Quel basso ora è chiuso, quella
casa è chiusa, il mio amato paese si è svuotato, le stradine solitarie non
ascoltano più i giochi dei bimbi, i gradoni di pietra divorati dall’erba
infestante, cosa darei per ritornare a sedermi sulla porta del basso, con i
miei adorati nonni.
Autrice: SONIA SIGNORINO
Dentro il suo mondo
Sara era stanca di prendere schiaffi in faccia dalla vita. Quella vita che aveva sempre amato smisuratamente e affrontata a testa alta. Sempre.
La vita, a Sara, non aveva mai
regalato nulla.
Qualsiasi cosa ottenesse era
frutto di lotta, determinazione,
perseveranza e, nonostante tutto, raramente riusciva a raggiungere gli
obiettivi prefissati.
Non era come le sue amiche, quelle erano persone a cui bastava uno schiocco di dita per avere tutto ciò di cui avevano bisogno. Volevano un aumento di stipendio dal capo? Bastava parlargliene! Desideravano un corpo perfetto? Bastava mangiare un pochino meglio… (ma giusto un po’) per perdere quei chilogrammi e valorizzare ancora di più quei corpi già esenti da difetti. Viste da fuori, sembravano perfette. Acchiappavano a mano aperta e occhi sognanti ogni brandello di felicità che il cielo faceva cadere di tanto in tanto quei brandelli erano tutti per loro.
Sara era stanca. Aveva voglia di
chiudersi a riccio, allontanarsi dal mondo, allontanarsi da quella stessa vita
che aveva sempre ammirato, la guardava con l’audacia che possiede una bambina
quando osserva con bramosia i colori brillanti di un arcobaleno dopo una
pioggia torrenziale.
Era convinta che qualcosa di buono
ci fosse anche per lei. Bastava solo aspettare, calare le aspettative.
Non poteva essere come le sue
amiche, loro erano nate sotto una stella diversa dalla sua, doveva farsene una
ragione.
Persa da una frustrazione che mai
come allora aveva provato, decise di nascondersi dal mondo. Da tutti.
Scelse con cura il suo nascondiglio e fu certa di trovarlo quando vide una porta bianca, usurata, quasi abbandonata. Quella porta rispecchiava appieno, in maniera quasi empatica, il suo stato d’animo. Era perfetta.
Cominciò ad ammirare da una piccola,
piccolissima fessura, il mondo che scorreva e si celava là fuori.
Questa volta, dopo l'ennesimo abbandono, la scelta era soltanto sua. Si tagliava fuori. Nessuno poteva farle più del male. Lei era nel suo ripostiglio, blindata ermeticamente.
Decise di portare con sé dei libri.
Era l’unica medicina che l’aiutava a vivere una vita non sua, fatta di
emozioni, li sceglieva con cura maniacale.
Man mano che i giorni passavano,
cominciò a soffrire sempre meno la solitudine, anzi, quel silenzio era quasi
appagante.
Quel piccolo luogo, era diventato
il suo mondo fatto di piccoli spazi, ma presto si rese conto che alienandosi si
sarebbe preclusa la possibilità di vivere quelle emozioni che raramente aveva
provato, quelle emozioni che le avevano regalato attimi di indiscutibile
trepidazione. Era davvero difficile scegliere.
Vivere o lasciarsi morire dentro?
Davvero avrebbe dovuto dare
un’altra possibilità alla vita?
Si era bruciata troppo, aveva
troppa paura, un timore che le attanagliava lo stomaco e non la faceva
respirare, un'angoscia fuori della sua portata. Non avrebbe sopportato
un'altra delusione. Questa volta no.
Chiuse definitivamente alle sue
spalle la porta bianca, quel piccolo spiraglio, quel filo che la teneva
ancora legata al mondo.
Decise, con piena consapevolezza di
buttare l'ancora in fondo al mare.
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Autrice: GIOVANNA AGATA LUCENTI
Ci sono momenti che se ci si ferma
un po’ in silenzio, senza pensare niente di particolare, lasciando che, senza
cercarli, siano i ricordi a piombarti addosso inaspettati, si resta sorpresi di
ciò che riesce a risalire nella superficie del cuore.
Era una casa che aveva senz’altro conosciuto tempi migliori, la porta, dal legno scrostato, doveva essere un tempo di un bell’azzurro, che ora, sbiadito, dava all’insieme un’aria triste e desolata.
Non chiudeva più nemmeno tanto bene
e al primo soffio di vento si apriva leggermente, lasciando entrare una miriade
di foglie secche che, nella casa, con il passare del tempo, avevano formato un
tappeto.
Inoltrandosi all’interno, tutto in
apparenza sapeva di desolazione ma a un occhio più attento non sfuggivano certi
segni che lasciavano capire quanto vissuto quelle pareti avevano accumulato.
Meg, dopo tantissimo tempo,
ritornava nella casa dei nonni, ma non s’immaginava certo di trovarla in quello
stato di profondo abbandono.
Ancora bambina, si era trasferita
con la mamma, famosa restauratrice, a Firenze e ora, tornata per un breve
periodo in quello sperduto paese del New England, varcava la soglia di quella
che un tempo era stata per lei la “casa della felicità”, così la chiamava
quando aveva appena cinque anni.
Certo, ora, le risultava difficile
pensarla così, giudicando da quel che vedeva, ma addentrandosi in quella che
una volta doveva essere un’accogliente cucina, le sembrava quasi sentire ancora
la nonna che si dava da fare per prepararle la colazione; e quella sedia davanti
alla finestra… Era lì che il nonno fumava il suo sigaro dopo aver pranzato!
Salendo su per la scala
traballante, dove mancava qualche scalino, si arrivava alla stanza da letto e
quasi con passo religioso Meg si guardò attorno, sentendosi invadere da una
inaspettata commozione. In un angolo della camera c’era ancora il suo lettino,
quante volte ci saltava per finire quasi sempre nel lettone dei nonni!
Chissà perché non si sentiva sola
in quella casa…
Come aveva potuto dimenticare?
Avvertiva ancora le mani della
nonna intrecciare i fiori di biancospino fra i suoi capelli mentre la chiamava la
mia principessa!
Si sentiva abbracciata da quelle
pareti che avevano visto e sentito tanta gioia e quando uscì si avvide che
proprio sulla soglia di casa stavano sparsi dei fiori bianchi e freschi come
appena raccolti. Un brivido le percorse la schiena.
Si, quella sarebbe proprio stata la
sua casa.
§§§
Letti tutti?
E adesso esprimete in un commento le vostre tre preferenze!
Ah... Molti di voi mi ringraziano per il tempo che dedico a queste iniziative. Mi chiedono come ricambiare. Beh... è facile! Acquistate una delle mie opere o degli autori di Edizioni Convalle! Mi sembra un ottimo modo per dire: grazie :-)
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Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle