Il mio breve trattato sulla Cucina Italiana, amata e celebrata in tutto
il mondo, intende farvi conoscere un patrimonio culturale che affonda le sue
radici in secoli di storia e tradizioni. Ciò che la rende unica è la sua
straordinaria varietà, frutto della diversità geografica e climatica della
penisola, che ha generato innumerevoli piatti e sapori regionali.
Ben più di una semplice tradizione culinaria, essa è un viaggio attraverso
la storia e la mitologia, le cui radici affondano in tempi antichi, quando la
penisola era conosciuta come Enotria, terra del vino, e la Sicilia, con i suoi
fertili campi di grano, era celebrata come il granaio di Roma.
I miti greci raccontano come Demetra,
dea dell’agricoltura, abbia scelto proprio queste terre per insegnare agli
uomini l’arte della coltivazione, donando loro il grano e le messi e questo
spiega perché quasi tutte le regioni abbiano delle specialità di pasta, dai
nomi diversi. Questa eredità millenaria si riflette nella straordinaria varietà
di piatti a base di farina, dalla pasta fresca emiliana alla pizza napoletana,
fino ai dolci siciliani, testimonianza di tradizioni secolari, trasmesse di
generazione in generazione e arrivate oggi fino a noi.
Chiamerò quest’esperienza Paradiso dei Sapori, un itinerario tra le
regione italiane, ognuna delle quali è un giardino di delizie, dalle
caratteristiche specialità.
Sebbene la cucina italiana sia un mosaico di sapori, i piatti forti sono
i primi.
Nella Valle d’Aosta, la polenta concia ci avvolge in un abbraccio, caldo
come un tramonto sulle Alpi; Il Piemonte ci incanta con gli agnolotti al
tartufo bianco e la bagna càuda, dove aglio e acciughe si fondono in un’intensa
esplosione di sapori. In Liguria troviamo le trofie al pesto, avvolte da un
manto di verde basilico e pinoli. La Lombardia delizia con il risotto alla
milanese, incantevole nell’esplosione di zafferano, e il panettone, soffice
come una nuvola. L'Emilia-Romagna, patria dei tortellini in brodo e delle lasagne,
ci accoglie con una tradizione di salumi e formaggi di altissima qualità, tra
cui il Parmigiano Reggiano. Tra i primi memorabili, troviamo in Lazio la carbonara,
un tripudio d’intensi sapori. Il tartufo regna sovrano negli strangozzi dell’Umbria,
mentre l’Abruzzo vanta i maccheroni alla chitarra, una sinfonia di ricchi ragù;
i cavatiei del Molise raccontano la semplice genuinità della tradizione; la Campania
è l’apoteosi di pizza e profumi agrumati, mentre le orecchiette alle cime di
rapa della Puglia sprigionano il loro semplice, inconfondibile gusto; la Basilicata
regala lagane con ceci, un tuffo nella tradizione contadina; in Sicilia la pasta
alla Norma è un’opera lirica da gustare.
Sebbene la fama dei primi piatti sia indiscussa, sono celebri anche i
secondi, quali la bistecca alla fiorentina, il porceddu sardo e i piatti di pesce
che abbondano nelle regioni affacciate sul mare.I sapori aromatici si mescolano
al piccante, in Calabria, nella famosa 'nduja.
Anche se ogni regione sforna ottimi dolci, ricorderò soprattutto cassate
e cannoli siciliani.
Un viaggio nella cucina italiana non sarebbe completo senza menzionare l’olio
profumato d’oliva, ligure, toscano e meridionale, vero nettare di verde
smeraldo, e i vini pregiati, compagni inseparabili di ogni piatto, capaci di
esaltarne i saporiti gusti.
Ma la Cucina Italiana non è una semplice somma di ricette regionali: è soprattutto
un'esperienza di condivisione e ospitalità, un’arte che celebra il gusto, la
salute e la gioia dello stare insieme. Il cibo è un pretesto per riunirsi,
celebrare la vita e rafforzare i legami; ogni piatto è un invito a sedersi
insieme a condividere storie e risate, a sentirsi parte di una comunità.
Se questo breve excursus vi ha stimolato a esplorare e conoscerne i tesori,
non mi resta ora che augurarvi Buon appetito!
(Maria Grazia Conti)
TRATTATELLO OTTO
L'ETERNA LOTTA TRA ARANCINO E SUPPLì
Togliere dignità a una pietanza chiamandola col nome di un’altra: un
problema comune in una tradizione culinaria ricca come la nostra, e se state
leggendo questo articolo scommettiamo che siete reduci da una delle più
classiche brutte figure, quella arancino/supplì. Non preoccupatevi, non solo
non siete gli unici, ma siete anche giustificati: entrambe crocchette fritte
con ripieno a base di riso, entrambe dorate in superficie, entrambe croccanti
all’esterno e morbide all’interno… Insomma, a prima vista chi direbbe che
esiste una differenza?
Eppure esiste, esiste eccome, e se continuate a leggere avrete la chiave
per evitare l’ira di orgogliosi siciliani e orgogliosi romani, detentori
rispettivamente dell’una e dell’altra tradizione gastronomica.
Ma bando alle ciance, partiamo dai tratti estetici.
La forma originale rotonda dell’arancino e il suo colore dorato ricordano
proprio un’arancia. Facile, no? Lo dice il nome stesso! Per amor di
completezza, però, sappiate che nella Sicilia orientale l’arancino è
tipicamente conico (un richiamo all’Etna, sostengono gli orgogliosi catanesi, e
chi potrebbe biasimarli?!) Nessuna di queste forme, comunque, può essere
scambiata con quella del supplì: dai, adesso non ditemi che non riuscite a
distinguere un preparato dalla forma rotonda o conica da una sì tondeggiante,
ma allungata e leggermente schiacciata! Quest’ultima, infatti, è l’unica, sola
e inimitabile forma del supplì.
Tolti di mezzo i convenevoli estetici, vi tocca sorbirvi qualche
informazione sulla preparazione. Tranquilli, saremo buoni! Niente ricette nel
dettaglio, solo due panoramiche semplici e veloci.
Partiamo dall’arancino: cuocere il riso al dente e farlo raffreddare;
formare dei dischi, inserirci la farcitura – un classico ragù, che si prepara a
parte, unito a dadini di mozzarella – e chiuderli; passare i preparati in una
pastella di farina, sale e acqua e poi nel pangrattato; friggerli in olio, scolarli
e farli riposare qualche minuto.
Per il supplì il procedimento è completamente diverso: il punto di
partenza, infatti, è un vero e proprio risotto con ragù! Cucinatelo (e se vi
va, perché no, mangiatene un po’!), lasciatelo in frigo due orette e poi lavoratelo
formando piccole conche e inserendovi al centro i cubetti di mozzarella. Altra
differenza con l’arancino: qui non serve alcuna pastella. I supplì si impanano
passandoli prima nell’uovo – e attenzione, si friggono esclusivamente in olio
di semi.
Questo è anche il momento migliore per spiegarvi il nome supplì. Vi
sareste immaginati che si tratta dell’italianizzazione del sostantivo francese surprise?
E sì, avete indovinato, surprise vuol dire proprio “sorpresa”! Ma perché, vi
chiederete? Anzitutto, per essere precisi, il nome completo di questo piatto è “supplì
al telefono”, perché quando lo si mangia caldo – il che è auspicabile – e si
apre in due, la mozzarella fila tra le due parti di riso, ricordando appunto un
telefono. E proprio a questa mozzarella filante, immancabile nel supplì, si
riferisce il termine “sorpresa”.
Ma un’altra sorpresa ve la diamo noi adesso: la destinazione dei due
prodotti è completamente diversa! I supplì sono concepiti come antipasto, ad
esempio nelle pizzerie, oppure come moderno street food; gli arancini, invece, nascono
come portata completa e non possono essere considerati né antipasti né spuntini.
Ecco perché gli arancini sono più grandi e corposi (no, non lasciatevi
ingannare dalle versioni mini servite alle fiere!).
A questo punto potremmo continuare parlandovi delle varianti – vi sarete
accorti che sono piatti piuttosto versatili, e infatti ne esistono versioni
fantasiose, dai ripieni a base di funghi e salsiccia a quelli coi frutti di
mare – ma meglio rimandare a un’altra volta: lo sappiamo che vi stavate
appassionando, ma lo scopo qui era garantirvi una figura quanto meno dignitosa
davanti a orgogliosi siciliani e a orgogliosi romani. Che dite, ci siamo riusciti?!
(Arianna Desogus)
TRATTATELLO NOVE
SE È VERO CHE VIVERE È AL DI SOPRA DI TUTTO…
A volerla fare breve, per dipingere un quadro generale della cucina
italiana, si potrebbe chiedere aiuto a quella formula matematica per cui
cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Basterebbe rileggerla
in questa maniera: cambiando la regione da cui proviene una ricetta, il piacere
per il palato rimane immutato. Credo che chi di forchette se ne intende non
avrebbe nulla da obiettare, dopotutto questa è una sacrosanta verità. Eppure,
volendo andare più a fondo, avverto una sensazione per cui tutto questo non è
sufficiente per esprimere un concetto che fatico a catturare con il pensiero.
Proverò allora a farvi immaginare l’Italia come un’avvenente donna, o un
bellissimo uomo, a seconda di quelli che sono i vostri gusti. Dopotutto siamo
persone come ce ne sono tante: dateci un buon piatto da mangiare e una bellezza
da ammirare che non lesineremo il nostro sorriso.
Vi invito quindi a deliziare la fantasia partendo dagli arti inferiori.
Li vedo svilupparsi tra piatti di orecchiette con cime di rapa pugliesi e
sapori piccanti che richiamano alla tradizione calabra. Aggiungendo una nota di
gusto personale, raffiguro nella mia testa una bella cartellata gigante che
cinge la gamba del tavoliere come se fosse un reggicalze da strappare via a
colpi di morsi: tradizione matrimoniale che si sposa con la tradizione
culinaria.
Prima di risalire verso il centro del nostro paese, ringrazieremo a
dovere le acque salate che, insieme al clima mediterraneo che contraddistingue
il Sud, fungono da centro benessere naturale per la coltivazione delle arance e
degli agrumi. È un gioco divertente immaginare piedi massaggiati con soluzioni
al mirto e creme di pistacchio per fare in modo che le caviglie non diventino
grosse come due arancini: le famose caviglie da mordere.
A questo punto, sempre con la missione di dare sostanza a quel pensiero
latente che lievita dentro di me, vi esorto a perdere gli occhi – e il palato –
su quel fondoschiena perfetto e pieno come un’oliva ascolana che si muove a
ritmo di danza fino a raggiungere le terre degli arrosticini. Poi, a portare gli
occhi in avanti, alla ricerca di un seno prosperoso o di un petto scolpito. Li sogno
tanto perfetti da potermi lasciare a bocca spalancata come un abbacchio o un
caciucco, decidete voi.
Tra inebrianti profumi di amatriciane, carbonare e fiorentine al sangue,
punterei, poi, dritto verso il cuore. Non è un caso, penso, che volendo
trasformare la nostra nazione in un essere umano, il cuore coincida con
l’Emilia. A parer mio, ma è solo un'altra debolezza personale, sarebbe davvero
un bene se tutti avessimo l’anima di questa gente. Un cuore grande come un
tortellino, ma che dico, come una piadina, un crescione, anzi, come una lasagna
al ragù intera. Un cuore impossibile da non amare.
E poi su verso il cervello, verso la parte razionale del sogno che
profuma di fegato, baccalà, risotti, cotolette, panettoni e bolliti. Una testa
senza dubbio intrigante, che, se vista al femminile, farebbe fede a quella
vecchia canzone che ostenta un’altra grande verità: oltre le gambe c’è di più.
Proprio la visione al femminile potrebbe essere la chiave per aprire quel
pensiero che cerco dall’inizio del viaggio tra i sapori nazionali. Perché soltanto
una donna è in grado di portare in grembo una vita da mettere al mondo. Grembo
che coinciderebbe con la Campania.
Se è vero che vivere è al di sopra di tutto, è altrettanto vero che in
una scala dei cibi italiani la vetta spetterebbe alla pizza.
Perché la pizza è vita.
Perché bastava menzionarla in principio per riuscire a farla breve.
Ma a quel punto non ci sarebbe stato più gusto.
(Stefano Buzzi)
TRATTATELLO DIECI
PROFUMI E SAPORI DI APRILE
Aprile è il mese del risveglio. È come uscire da un inverno freddo che
coinvolge non solo il fisico, ma, certe volte, anche l’anima. Ha una bella
responsabilità, quindi, ma gode del fatto che le giornate iniziano a essere più
lunghe, perché per curare l’anima delle persone serve tempo e dedizione.
Qualcuno si domanderà: ma non dovevamo parlare di cucina? Infatti il cibo
parla d’amore e, in quanto tale, è in grado di nutrire e cicatrizzare anche le ferite
dell’anima. È un ottimo antidoto, in qualsiasi mese dell’anno, per ogni tipo di
tristezza e riesce a restituire equilibrio a quei momenti difficili e
inaspettati che, qualche volta, la vita ci riserva.
È il mese del risveglio anche perché profuma di una primavera ancora in
boccio, alla quale piace fare l’occhiolino all’estate. Ci sono ortaggi che, da
questo mese, iniziano a sgomitare su tavole ancora calde di brodo e tortellini.
Nessuna rimostranza al piatto caldo fumante e ai suoi golosi ospiti
galleggianti, ma la primavera ha bisogno anche di altro. La rucola, per
esempio, è una fresca pennellata verde già preludio d’estate e abbinata al
tonno con sesamo ha un tocco intrigante e sensuale. Del resto gli antichi
romani la coltivavano nei terreni che accoglievano le statue falliche erette in
onore del dio Priapo, re della virilità, e in virtù di questo la usavano per
preparare i filtri d’amore.
Altri ortaggi primaverili sono gli agretti. Chiamati anche barba di frate
per la loro forma allungata, hanno una consistenza croccante e un gusto acidulo
e piccante, che conferisce sapore anche alle pietanze più insipide dando,
quindi, la certezza che ogni situazione si può migliorare. È come dare
all’anima la conferma che non si perderà mai ma, anzi, godrà sempre di un
respiro più ampio e profondo.
È un mese che risveglia i gusti, dunque, anticipando i sapori estivi. Pertanto,
pensando all’estate, possiamo non andare con il pensiero alle fragole? La
fragola è un frutto gustoso ma, forse, non tutti sanno che ha anche un
significato esoterico: è considerata la pianta del Paradiso. Si dice che mangiare
fragole conferisca uno stato di estasi, quasi di beatitudine e che, quindi,
liberi le emozioni. Chi ha visto il film “Inside out 2” sa che la pazienza – una
dei protagonisti del film – prepara la marmellata di fragole a tutti gli amici,
per poi ammirare, dopo l’assaggio, la loro espressione beata. Come dire che c’è
sempre, insomma, altra vita da godere se lasciamo andare, senza l’ostinazione
di trattenere, ciò che ormai è lontano da noi.
Aprile non è dolce dormire, come diceva un detto popolare, ma è piuttosto
scoprire. Fa sempre rima ma ha una prospettiva del tutto diversa. Invita a
guardare fuori, a respirare aria nuova, a trovare una connessione più profonda e
autentica con noi stessi, anche attraverso i sensi. L’olfatto non ha le stesse
sollecitazioni in ogni mese dell’anno. Il profumo del pesce fresco sulle
banchine dei porticcioli è un’altra apertura verso l’estate e, mai come in
questo mese, riscalda il cuore e solletica le papille gustative.
In primavera non c’è mai la ressa fra i banchi del pescato fresco e si può
scegliere con calma: acciughe, sgombri e sardine, tanto per fare alcuni esempi,
sono piccoli pesci che danno il buonumore soltanto a vederli e la semplicità
nel cucinarli è il loro punto di forza. Le acciughe con aglio e prezzemolo,
così come gli sgombri e le sardine fritte, raccontano la bellezza dell’umiltà
di un pesce povero ma con un potenziale enorme.
Come tutto ciò che non ha pretese se non quelle di arrivare al cuore e,
lì, restare per sempre.
(Laura Scartabelli)
TRATTATELLO UNDICI
LA CUCINA ITALIANA - UN VIAGGIO NEL TEMPO TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Mi sono chiesta tante volte come un piatto, anche il più semplice, possa
raccontare l’intera storia di un popolo.
L’Italia, con la sua molteplice varietà di paesaggi e tradizioni
culinarie, è una terra dove regioni e città hanno una loro storia gastronomica,
che affonda le radici nei secoli che si sono succeduti.
E della cucina italiana mi affascina proprio la capacità di rimanere
legata alla tradizione, sebbene aperta alle influenze moderne, riuscendo così a
unire il passato al presente.
Seppure le sue origini risalgono all’Antica Roma, influenzata dalle
tradizioni greche, etrusche e arabe, è con il Medioevo che inizia a delinearsi
l’Italia gastronomica che conosciamo oggi.
Nel tempo, ogni regione ha perfezionato le sue ricette, migliorando i
piatti con ingredienti locali che, poco alla volta, sono diventati simboli
identitari per le diverse interpretazioni del cibo.
Mi piace pensare alla cucina italiana come a un paesaggio che si
trasforma da Nord a Sud, riflettendo le diverse caratteristiche regionali, ma
rimanendo simile per la qualità degli ingredienti e la semplicità della
preparazione.
Prendiamo la pasta: è l’emblema della cucina italiana, ma ciò che rende
ogni piatto una piccola opera d’arte non è solo la varietà delle forme, che
cambiano a seconda delle regioni, bensì la tradizione che si intreccia con
l’arte culinaria.
Pensate a un piatto come la Pasta alla Carbonara, una delle ricette
simbolo di Roma: ci racconta le trasformazioni della cucina povera romana, dove
pochi ingredienti – guanciale, uova, pecorino e pepe – si combinano alla
perfezione, creando un bilanciamento perfetto.
Per non parlare della pizza, che ha raggiunto una fama degna di nota,
capace di sposare semplicità e straordinarietà. La pizza Margherita,
rivendicata dalla città di Napoli come propria, è diventata il simbolo di
un’Italia unita.
Interessanti le regioni del Sud, come la Sicilia, dove la cucina è il
risultato di secoli di contaminazioni greche, arabe e normanne.
Cous cous di pesce… Caponata… Cannoli dalla dolcezza irrefrenabile: tutti
piatti che raccontano una storia di incontro e fusione culturale, che ancora
oggi si riflette nella loro vitalità e ricchezza.
E che dire del Nord, dove la tradizione culinaria si differenzia
nettamente da quella meridionale? Dove le risorse della montagna – quali il
burro, il formaggio e i funghi – dominano in piatti come il Risotto alla
Milanese, re della tradizione lombarda, fatta non solo di comfort food ma anche
di raffinatezza?
E dei dolci? Quanto tempo mi occorrerebbe per parlarne? Dico solo che
ogni regione ha le proprie specialità, spesso legate a festività religiose e
tradizioni locali.
Tradizione, sempre lei… Sebbene aperta alle influenze moderne.
E sì, il fenomeno della cucina italiana contemporanea riesce a riscrivere
la tradizione con tocchi moderni, senza rinnegarla: va alla ricerca
dell’essenza di un piatto, evitando di perderne l’anima.
I grandi chef italiani sono gli interpreti di una cucina che si evolve,
si reinventa, pur non dimenticando mai da dove proviene.
Ed è qui che entra in scena la cosiddetta cucina molecolare,
quell’approccio innovativo alla gastronomia che utilizza principi scientifici
per trasformare gli ingredienti e creare nuove esperienze culinarie.
Ma per quanto si parli di passato e presente, di tradizioni e modernità,
sono convinta che la cucina italiana e i suoi ingredienti raccontano storie. La
pasta fatta in casa della nonna, l’olio extravergine di oliva del piccolo
produttore, il vino di quella cantina… Storie di amore per la terra e di
rispetto per la tradizione.
E, allora, forza, a tavola! Chiudete gli occhi, assaporate e gustate… E
tenetevi forte, perché si parte per un viaggio nel tempo tra tradizione e
innovazione.
(Linda Silvia Scarpenti)
TRATTATELLO DODICI
LA RIVINCITA DELLE FORCHETTE
In un’epoca in cui la forma pare prevalere sulla sostanza e canoni
estetici irraggiungibili dominano la scena, è lecito domandarsi se la
tradizione culinaria italiana sia ancora rappresentata dagli antichi sapori o
sia ormai in balia delle nuove tendenze gastronomiche. Tendenze che rischiano
di trasformare la nostra cara dieta mediterranea in una forma d’arte da
ammirare, piuttosto che da assaporare.
Chi non ama la cucina italiana? Arma di seduzione di massa, filosofia di
vita, fiero baluardo che resiste agli attacchi di chef improvvisati che postano
improbabili ricette su TikTok, e grandi cuochi che si sfidano a colpi di
riduzioni di essenza di carote ed esplosioni gourmet di sapori campagnoli. Tutto,
in porzioni così striminzite che non sfamerebbero neanche un gatto.
In questa vetrina virtuale, dove i sommelier spuntano come funghi dopo la
pioggia di settembre e sniffano calici come cani da tartufo, noi italiani, alla
fine, optiamo per un bel bicchiere di vino della casa, perché – diciamolo –
casa è sempre casa. Un autentico balsamo per l’anima che fa bene anche al
cuore.
Cosa c’è di meglio di un corposo Barbera d’Alba per innaffiare con
generosità un piatto di polenta e cinghiale in umido? E come resistere al
connubio maialino sardo e Cannonau? Addentare la cotenna croccante e assaporare
la carne morbida e succosa trasforma il pasto in un’esperienza sensoriale che
racchiude il sole, la terra e il vento della Sardegna.
Immagina di trovarti in una piccola osteria in collina, dove l’aria è intrisa
del profumo dei vigneti e del rosmarino selvatico e il tuo piatto, una
ribollita capace di scaldare anche l’anima più nera, ti viene servita nel
classico coccio di ceramica. Chi mai si sognerebbe di barattare un tale piacere
con un pasto in piedi al fast food?
Questa è la dieta mediterranea, signori.
Un paradiso per il palato, un santuario di benessere venerato in tutto il
mondo capace di celare con eleganza le più grandi abbuffate. Un’ affascinante
contraddizione tra rigorosi principi nutrizionali e puro piacere. Ma se
scienziati e medici prescrivono la dieta mediterranea come elisir di lunga vita,
chi siamo noi per rifiutare un piatto di parmigiana di melanzane?
Mentre in Italia impazza la diatriba tra spaghetti da non spezzare e
pizze con o senza cornicione, all’estero la nostra arte culinaria prevede
esperimenti ai limiti della realtà.
In ogni angolo del mondo scoviamo qualche chef che, con entusiasmo, cerca
di reinventare i patti della tradizione con risvolti degni di un film di
Tarantino. Eppure, ogni volta che al ristorante vietnamita il cameriere ci
offre, con accento stentato, la propria versione di spaghetti bolognese, ci
sentiamo un po' a casa.
La cucina italiana rimane un linguaggio d’amore universale e poco importa
se a New York o in qualche sobborgo di Soho cercheranno di propinarci un piatto
di pasta condito col ketchup, significherà pur qualcosa se cercano di imitarci.
Ma passiamo ai peccati di gola che non possono mai mancare a fine pasto.
Da nord a sud, la penisola ci regala emozioni di zucchero, burro e creme che
non temono rivali. I nostri dolci sono così "semplici" e
"leggeri" che un solo morso rischia di spedirti dal cardiologo.
I dolci italiani non sono solo cibo: sono cultura, tradizione e,
soprattutto, una deliziosa scusa per rimandare la dieta.
Anche se la spettacolarizzazione della gastronomia oggi gioca un ruolo
predominante, la nostra preziosa tradizione culinaria, fatta di piatti genuini
e gesti tramandati di generazione in generazione, rimane un patrimonio
inestimabile.
In questo equilibrio precario tra tradizione e innovazione, diciamocelo:
per noi, la lasagna vince sempre.
(Valentina Ciocca)
TRATTATELLO TREDICI
MINESTRINE ALLA RISCOSSA
Ai venticinque lettori del mio Blog, oggi, voglio parlare di un piatto
spesso ingiustamente bistrattato, snobbato, a volte, addirittura, schifato. Un
piatto che non ha voce nei menù ricercati dei matrimoni e dei battesimi o, se
ce l’ha, compare di striscio, stilato a caratteri piccoli, quasi dovesse andare
a nascondersi dalla vergogna. Ma non c’è alcuna vergogna nell’essere umili,
nell’essere semplici ed essenziali, come lui è.
Perché la storia della cucina italiana non è fatta solo da arrosti di
vitello e lepri in salmì, per quanto se ne senta parlare molto di più, su certi
libri di cucina. La storia della cucina italiana è fatta, da nord a sud,
soprattutto da placide e pazienti minestrine in brodo.
Pensate a quanta gente sarebbe morta se non fosse esistito questo piatto!
Un piatto che in silenzio, con naturalezza, ha riempito la pancia a milioni di
persone, quando c’era ben poco con cui riempire la pancia. Non dareste un soldo
di cacio alle erbe dei campi, vero? E cosa pensate dei cespugli d’ortica, specialmente
quando, in estate, ci finite in mezzo, con le gonne o i pantaloni corti?
Provate invece a bollirla, l’ortica, e aggiungere un pizzico di sale! Ma poco
sale, mi raccomando, che un tempo il sale era oro e oggi rischia di farvi
salire troppo la pressione. Quella è una delizia, una delizia per stomaci
affamati, e non.
Quante medaglie al valore, ingiustamente negate, avrebbe di certo
meritato, la minestrina! Ma in questa vita chi viene ricordato e rispettato è
il più potente e, spesso, il più gradasso, non certo il più umile.
E poi questo straordinario e bistrattato piatto non ha solo salvato tante
vite dalla fame. Le ha salvate, almeno per quanto mi riguarda, anche dalla
malinconia.
Vi è mai capitato di percorrere, la sera, certe strade di paese, dove, a
ogni incrocio, trovate le edicole con i santi? Io parlo del mio, di paese, ma
potrei citarne milioni e milioni di altri. Mettiamo che sia estate.
Perché chi lo ha detto che le minestrine si mangiano solo d’inverno? Sono
deliziose, se lasciate raffreddare, anche in estate! Dicevo che state
camminando soli, in una sera d’estate, e vi viene da piangere. L’ennesima sera
in cui piangere vi pare l’unica soluzione al martirio di questa vita, o ameno
della vostra, di vita. State quasi pensando di farla finita, quando,
all’improvviso, un profumino di brodo vi solletica il naso. Viene da quella
casa, laggiù, quella con le tende bianche in lino e la luce gialla alla
finestra. Un salto nel passato e ci siete voi, dentro quella finestra
illuminata. Siete piccoli; la vostra mamma, armata di un cucchiaio lucido e
strapieno di midolline in brodo, le sta pazientemente dirigendo nel vostro
piccolo becco da passerotto. Voi caricate le guance a più non posso, fino
a farle assomigliare a due bombe a mano, infine bombardate. Si spiaccica tutto
sul vestito nero a fiori rossi della mamma che, così, con piccole aggiunte di
vomito biancastro, pare pure più alla moda!
Ricordando tutto ciò, cominciate a ridere. E i pensieri di morte sono
rimandati, rimandati a settembre. Almeno, per me, è sempre stato così.
È vero che dicono:” O mangi questa minestra o salti dalla finestra”. È
un’ingiustizia, però. Se sapessero da quante finestre ho evitato di saltare
giù, io, grazie al profumo delle minestrine!
Voglio svelarvi un segreto. Mia nonna era un’ottima cuoca di minestrine.
Quando è morta non ho messo fiori sulla tomba, ma un grande vaso, pieno di
ortaggi, che curo di persona. Ogni tanto, con la complicità del guardiano, le
colgo e la sera preparo, ancora, la sua minestrina.
(Alessandra Nobile)
TRATTATELLO QUATTORDICI
ARTE E CREATIVITÀ NELLA CUCINA ITALIANA
Italia: popolo di santi, poeti e navigatori e, aggiungo io, di grandi
maestri cucinieri, sì proprio così, non chef, ma Maestri cucinieri! Non per
niente, la cucina italiana è rinomata in tutto il mondo per la ricchezza dei
suoi sapori e la genuinità dei suoi ingredienti.
Saper cucinare era, a tutti gli
effetti, un’Arte; non per niente il primo libro di cucina, risalente al II sec.
d.C., fu opera di Apicio, cuoco e scrittore famoso; si deve a lui la ricetta
delle lasagne, all’epoca conosciute con il nome di “lagane”, un piatto di
sottili sfoglie di pasta condite con un saporito ripieno a base di carne o
pesce.
Molti piatti simbolo della cucina italiana hanno origini storiche ben
precise e confermano, ancora una volta, la creatività del nostro popolo, che ha
saputo trarre il meglio dalle diverse culture che l’hanno influenzato.
La polenta, per esempio, trova origine fra i Sumeri, ma solo in Italia
s’iniziò a prepararla utilizzando del farro macinato e cotto, trasformandola in
un alimento nutriente ed economico.
E che dire della famosa Amatriciana, un semplice piatto per pastori
dediti alla transumanza, ma che in seguito, con l’aggiunta del pomodoro e del
guanciale, ha dato origine all’inimitabile piatto di pasta che tutto il mondo
c’invidia.
Senza parlare della pizza che, prendendo origine da un’antica focaccia
preparata dai Greci, la pitta, è stata reinventata fino a raggiungere
“l’apoteosi”, con la ricetta della pizza Margherita, in onore dell’omonima
regina d’Italia con i classici ingredienti a formare il tricolore.
Ma si deve all’antica città di Siracusa, in Sicilia, se la cucina
italiana e quella siciliana in particolare, sono divenute famose in tutto il
mondo occidentale. Oggi, nomi come Miteco, Labdaco, Terpsione, ci dicono poco
ma verso il III sec. A.C. erano delle vere e proprie celebrità, non solo cuochi
ma anche artisti colti e raffinati, insomma gli “chef stellati” di oggi li
farebbero rivoltare nella tomba…
Soffermandomi sulla cucina siciliana poi, si può non parlare dei dolci
famosi in tutto il mondo, quali sua maestà la Cassata siciliana e i Cannoli?
Solo a nominarli si ha il risveglio di tutti sensi!
L’origine della famosa cassata si
fa risalire a un pastore arabo che, una notte, decise di mischiare la ricotta
con lo zucchero e per farlo si servì di una bacinella, quas’at appunto in
arabo. Questo semplice dolce arrivò all’Emiro di Palermo che, conquistato dal
sapore, ordinò ai suoi cuochi di ricrearlo e questi aggiunsero un guscio di
pasta frolla; in seguito però, furono i siciliani che, con Pan di Spagna,
frutta candita, scaglie di cioccolato e pasta reale di mandorle a ricoprire il
tutto, fecero nascere la deliziosa e coloratissima Cassata.
Del Cannolo invece, parla addirittura Cicerone, che nel 70 a.C., durante
un viaggio in Sicilia, rimane ammaliato da un tubo di farina ripieno di morbida
crema di latte, perfetta descrizione del dolce che oggi si presenta anche
ripieno di ricotta o cioccolato.
Se invece, per concludere in “bontà”, dico “Pasta alla Norma”, è il
famoso primo piatto con melenzane fritte, pomodori e ricotta salata che si para
davanti agli occhi dell’immaginazione. Questo semplice ma gustosissimo piatto
si associa alla stupenda musica del celebre compositore catanese Vincenzo
Bellini e alla sua famosa opera lirica, infatti fu il commediografo siciliano
Nino Martoglio che dopo averla assaggiata esordì dicendo: «E’ una Norma!» come
per affermare che fosse perfetta come la musica di Bellini.
Per concludere, se è vero il famoso detto “l’uomo è ciò che mangia”, non
c’è da meravigliarsi che il nostro paese sia il più famoso nel mondo per arte e
cultura!
(Giovanna Agata Lucenti)
E dopo aver letto tutti i 14 trattatelli,
non vi resta che votare!
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle