Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

mercoledì 11 marzo 2020

Numero 318 - A tu per tu con la paura - 11 Marzo 2020


Chi non ha paura, in un momento come quello che stiamo attraversando? Credo sia un sentimento diffuso. 
Mi sono chiesta se sia meglio ignorarlo o esternarlo.
Ma siccome io, come tanti di voi, ho l'arma della scrittura che mi è venuta in soccorso in tanti momenti difficili della mia vita, ho pensato che parlarne serva a esorcizzare la paura.

In queste settimane, da quando circola quel virus lì, dal nome quasi regale - corona - ognuno di noi deve fare i conti con le proprie paure, alcune ataviche, come quelle di non avere sufficiente cibo, di dover affrontare la fame, e allora si mangia, si mangia, si mangia...

La mia vita non è cambiata di molto, stavo a casa prima e sto a casa adesso, lavorando tra le mie quattro mura. Ma è cambiato il mio sentire, la paura dell'ignoto, la paura di qualcosa fuori dal nostro controllo.

#iorestoacasa, sì, l'unico mezzo per proteggersi. 

Ma dobbiamo fare  i conti con noi stessi, con il personale equilibrio, per non farsi prendere dall'ansia.

E allora, amanti della scrittura, 
usiamo lo strumento che amiamo: le parole.

Scrivetemi il vostro rapporto con la paura in questa situazione contingente. Intanto il tempo passerà e la luce in fondo al tunnel sarà più vicina.

Inviatemi i vostri testi a steficonvalle@gmail.com, in allegato. Se volete accompagnare la vostra mail anche con una foto che accompagni il vostro testo, posterò il tutto in questo numero del blog.

Approfitto di questo spazio per ricordarvi che gli animali non rappresentano un pericolo e quindi NON ABBANDONATE i vostri amici pelosi! Tra l'altro, in questo periodo, loro riescono a strapparci un sorriso e li possiamo coccolare a volontà :-)



Unica cosa che vi chiedo.
Parlate di voi, non fate comizi coinvolgendo la politica etc etc. Grazie.

Vi aspetto!


Stefania Convalle (e Pepe)

A voi la penna...



Costanza Trotti


Il tempo non corre più, sembra fermo come le lancette del vecchio orologio a pendolo, messo in bella posa perché fa storia. A dire il vero anche i miei piedi non camminano, dondolano su e giù, prima uno poi l'altro, sotto il peso delle gambe incrociate sul divano.  Io che, appena rientrata, ero già pronta sulla porta a prendere il volo, le chiavi dell'auto in mano e il rombo del motore a graffiare l'aria, ora sono relegata in questo angolo di casa. Notizie tragiche, paura, disperazione, impotenza, facce che salutano attraverso un video, affetti lontani ostaggio di blocchi aerei, divieto di quelle visite piene di coccole, tutto così assurdo, sembra uno di quei sogni che si ha fretta di svegliare. Siamo nel mezzo di una catastrofe e non vediamo la fine. E allora si legge, pagine e ancora pagine diventano compagne di solitudine, fiumi di parole riempiono le giornate, non importa se son mute, per ora è così che deve andare. Chiamatemi forte e subito quando le mani potranno stringere altre mani e gli occhi tuffarsi nello specchio di mare a me tanto caro.
...


Valter Manunza



Qualche mese fa passavo da Via dei Pensieri tornando dal lavoro. Insisteva lunga, dritta e muta, tra il Circolo del Tennis, l’ippodromo e lo stadio, a sinistra; il campo da rugby, la piscina e il campo di atletica, a destra. Una strada muscolosa, sudata, riempita di solito dal vigore dei ragazzi e che invece era vuota e triste.

Passando, dicevo, vidi verso la fine, poco prima della pista di pattinaggio, dando un’occhiata distratta alla mia destra, una finestra chiusa al primo piano di una casa angusta .
Non era semplicemente chiusa, era stretta e sofferente, prigioniera di un rampicante prepotente.
Mi fermai, curioso, per capire se anche questo fosse l’effetto della regina arrogante che, senza regno e senza trono, fissandoci con gli occhi a fessura e l’aria spavalda, ci aveva costretti in casa. Subdola e silenziosa ci aveva fatto tutti rossi e novelli Pilato in fila ai lavandini, ci minacciava anche per un semplice bacio, una stretta di mano; e anche se avevamo resistito, imparato a colmare il vuoto degli abbracci con gli occhi, a stringersi intorno a dei sorrisi, quella finestra mi dette l’inquietudine del prigioniero.
Passai altre volte e al buio vidi una luce scappare da sotto la porta e allora mi informai e seppi che lì abitava Ettore. Lo conoscevo. Lo incontravo qualche volta al bar di fronte o in tabaccheria, dietro l’angolo, dopo la farmacia. Comprava sempre il sigaro toscano, l'Originale, diceva. Era un vecchietto svelto, alto, magro, con le guance scavate, la faccia arrossata. Aveva sempre un portamento dignitoso e gli occhi un po’ acquosi. E sorrideva.
Quando m’informai mi dissero che si era chiuso in casa perché lui questa cosa non la poteva soffrire. Lui che viveva in mezzo agli schiamazzi dei ragazzi, e li vedeva correre e saltare, e sentiva i fischi, i cori dello stadio, e li vedeva scherzare affacciato a quella finestra al primo piano. L’aveva chiusa e non l’aveva aperta più. Non aveva più voluto sapere niente, sentire niente di questa cosa che era un vecchio e doveva stare attento.
Leggeva i suoi libri, ascoltava la sua musica. Si faceva portare qualcosa da mangiare e un sigaro ogni tanto, toscano originale. Era solo e non apriva quasi a nessuno.

Oggi ho pensato a lui. Il tempo è passato, c’è un venticello caldo e tutto ondeggia dolcemente tra i riflessi d’oro, è il momento dei fiori che baciano le api. C’è confusione e macchine che passano e motorini che sono urla di giovani lupi. Sorrisi del sole quando cede il passo tardi alla notte. Sul rampicante alla finestra sono nati dei boccioli rossi.
Ho bussato e bussato ancora. 
Ettore!, ho gridato. Ha aperto piano la porta. Il sole ha guardato dentro casa, lo ha baciato in fronte e gli ha illuminato gli occhi che mi guardavano come chi sa ma non ricorda.
Ettore, gli ho detto, non hai sentito? E mentre sbucava fuori dalla porta allungando il collo rugoso e sottile come un uccellino dal nido, tra l’interdetto e l'incredulo, non ho sentito niente, ha sussurrato quasi in gola.
Ho allargato le braccia e ho stretto quelle ossa piccole chiuse in una giacca grande.
Hanno detto che ci possiamo abbracciare.
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Tiziana Mazza

Vita al tempo di Coronavirus

Le giornate scorrono lente e veloci allo stesso tempo; è strano, da quando sto chiusa in casa mi sembra di avere meno tempo per fare tutte le cose che vorrei fare, come dedicare maggior tempo alla lettura e alla scrittura. Non so come, ma le giornate scorrono senza che io riesca a concludere niente, non riesco a concentrarmi, un occhio al libro e uno alla TV. I social sono inondati di messaggi terroristici, ho deciso di non guardarli più, ma poi inevitabilmente mentre li consulto per trovare gli amici, l’occhio viene attratto da questo o quel post catastrofico e il tempo scorre senza che neanche me ne accorga.
Stare in casa di per sé non è così male, ma di tanto in tanto bisogna pur uscire per fare la spesa, e allora ecco che bisogna bardarsi come se si dovesse andare in un reparto infettivo e, in effetti, è così: mascherina, guanti, occhiali. Il respiro difficoltoso, lo slalom per strada e al supermercato per stare più al largo possibile dalle poche persone che si incontrano, l’incubo del cosa compro? L’addetto al reparto salumi - incredibile - non porta la mascherina, meglio comperare imbustato. Il must di fare in fretta per tornare al sicuro fra le proprie mura il più presto possibile, naturalmente dopo aver effettuato tutte le sanificazioni di rito! Le mie povere mani! Ormai assomigliano sempre più a carta vetrata nonostante i chili di crema spalmati sulle sue superfici.

E poi guardo la mia cara mammina, prossima ai 90 anni e prego affinché il malefico Covid-19 non si accorga di lei, perché per lei, in questi assurdi tempi da overbooking del reparto terapia intensiva negli ospedali, quasi certamente un respiratore non c’è. 
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Venerina Gabriele
Noi siamo l’Oltre


Forse è giunto il momento di prendere consapevolezza che la vita va oltre la realtà che vediamo e percepiamo con gli occhi della nostra umanità. Aggrappati alla materia, fino adesso abbiamo corso verso mete e confini illusori. Accecati dall’Io, dal di più, dal potere, dall’egoismo, spesso non ci siamo curati del simile, del creato e delle creature. Spesso nell’illusione momentanea del quieto vivere, abbiamo calpestato il bisogno di chi implorava aiuto e amore. Spesso abbiamo sostituito l’essenziale e il giusto, con il superfluo e la spazzatura verbale, visiva e materiale che ci ha sommersi. Adesso l’Autore di questa grande opera chiamata Vita ci impone di fermarci. Ci impone il silenzio. Silenzio per pensare e rivedere le priorità,  il senso di questa permanenza in questo frammento di universo.
Fuori da ogni frastuono, liberi dalla corsa verso il nulla, accecati da luci e miraggi di ogni tipo, nella solitudine che scorre lenta e impregna le ore, scopriamo l’immensità della vita illuminata dai colori dell’arcobaleno, nella sue molteplici sfaccettature. Introspezione, meditazione, contemplazione; sono momenti di arricchimento e di innalzamento dell’anima. Ma fino a pochi giorni fa, queste erano sole parole che si intercalavano mute fra illusorie necessità e preoccupazioni del vivere quotidiano. Abbiamo tanto logorato e sbiadito le parole con le certezze abusate e frammentate. Adesso è il momento di ascoltare la voce dell’anima che acquieta ogni tempesta. E’ il momento del risveglio e di aprire gli occhi verso nuovi orizzonti di pace, di Amore, di connessione di anime in cammino verso nuovi lidi. La
paura ci imprigiona, la consapevolezza che noi siamo l’Oltre ci rende liberi.
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Elena Caio
Appunti di diario di quarantena

Ventunesimo giorno di quarantena.
Qui casa tutto bene, per ora, per me, per noi. Sappiamo che là fuori c’è un mondo silente che stride con quello degli ospedali. Lì è tutto un via-vai di ambulanze, di corse contro il tempo, di mascherine sudate. Eroi silenziosi che non hanno tempo per le chiacchiere.
La gente al calduccio nelle proprie abitazioni non fa altro che lamentarsi della privazione della libertà. Temporanea e per la nostra salute. Io  invece non ci sto così male in questi domiciliari consapevoli. Certo, sono fortunato, sto lavorando da casa in smart-working e il resto dei miei familiari pure.
Ieri sono uscito per fare la spesa. C’era un sole lattiginoso, l’asfalto odorava di polvere e non più di catrame. Ho chiuso gli occhi e mi sembrava di essere in un film di fantascienza anni ’80, tra il kafkiano e l’onirico.
Un signore con un pastore tedesco mi ha tenuto a distanza. Adesso che ci penso anche l’altro ieri l’ho incontrato. Probabilmente siamo usciti alla stessa ora. Che bel pelo lucido, penso! Mi guarda con sospetto - Tranquillo, non vengo nella vostra direzione - Chissà quante volte l’avrò visto nel quartiere senza neanche accorgermene.
Scendo anche oggi a fare la spesa e ritrovo il signore con il cane. Ma che ora è? Forse, anzi quasi sicuramente, la stessa di ieri.  Giornate tutte uguali volano via dal calendario. Come fosse  sempre domenica, statica e ripetitiva ogni volta.
Mi brucia un po’ la gola. I familiari mi tranquillizzano, non sarà il virus ma il fatto di respirare l’aria casalinga per molto tempo, non giova alla salute. Invece non ci dormo la notte e vado sul balcone con la giacca a vento per sentire l’aria fredda almeno sulla faccia.

Venticinquesimo giorno di quarantena
Non è ancora tutto finito, in tv dicono che il picco arriverà nei prossimi giorni. La gola non mi brucia più, che sollievo! Ma subito dopo penso,  e se invece lo stessi incubando? E se fossi portatore-sano? Oddio… sano… mica tanto, con tutti i miei acciacchi! Cerco di stemperare l’ansia con l’ironia ma funziona come il bicchiere d’acqua ai bambini, quando cadono. Un secondo dopo e sono ancora lì a piangere.
Non puoi distrarti dal Coronavirus, se non ti è entrato biologicamente, di sicuro ti è entrato nella testa. È una presenza ingombrante a tutte le ore della giornata. Sta cambiando le nostre abitudini e anche se sei negativo al tampone, il respiro dei giorni è sempre affannoso.
Ma stamattina mi sono svegliato presto e c’era il sole sopra le nuvole. Ho detto a mia moglie, lo senti anche tu? E lei, scandendo bene le parole, sì, è il rumore di un treno.  

E dal terrazzo non l’avevamo mai sentito prima.


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Daniela Perego
COVID-19
  
Silenzioso, invisibile, subdolo, aggressivo e a volte letale.
Il nemico mondiale nell’anno 2020.
Un bel giorno si è presentato all’umanità, incredula di tanta ferocia e velocità nella trasmissione da persona a persona, invadendo i nostri spazi e uccidendo la nostra libertà; sì, la libertà di movimento e, più importante, la libertà di decisione. Perché, a causa sua, la stragrande maggioranza delle persone si è rifugiata nelle proprie abitazioni ed esce solo per fare la spesa o, se obbligata, a raggiungere il posto di lavoro.
Mai avrei pensato, nel terzo millennio, di vivere un’esperienza simile alla guerra; diciamolo, è proprio così, come in tempo di guerra è pericoloso uscire e il fronte non è una linea ben marcata, ma lo spazio stesso, l’aria che respiriamo e le persone che si avvicinano.
In tutto questo scenario apocalittico, siamo bombardati dai media che, a turno, intervistano il virologo più accreditato o trasmettono servizi dalle città più colpite; il nord è particolarmente sotto attacco e io ho paura. Paura di prendere la malattia, paura per i miei cari e i conoscenti, paura che tutto questo porti a una crisi ben più pesante di quella sanitaria in atto adesso.
Ho scelto l’auto quarantena, nel senso che mi sono messa in pausa dal lavoro, nonostante lì funzioni ancora tutto, almeno fino alle ultime notizie; ho seguito le direttive dei governanti e spero di non dovermene pentire.
Non è una vacanza… è necessario per fermare il diffondersi del virus.
Questo il mio mantra, mentre pulisco casa fino alla paranoia, disinfetto e lavo, mentre mi affaccio al balcone e vedo, nonostante tutto, troppe auto in circolazione e vicini di casa che escono più volte al giorno, senza protezione e misure cautelative. Ognuno avrà la sua ragione ma un po’ più di collaborazione non guasterebbe.
Penso a mio suocero, novantenne in casa da solo, al quale portiamo la spesa una volta alla settimana, mettendo le borse fuori dalla porta per non avvicinarci; lui è chiuso in casa da circa un mese, e nonostante segua le notizie, rimane incredulo davanti alle restrizioni perché lui, che la guerra l’ha vissuta davvero, non vede un reale nemico.
Sui social si moltiplicano i messaggi di chi al fronte ci sta per davvero: infermieri, medici e operatori sanitari, senza dimenticare le forze dell’ordine; foto di visi scolpiti dai segni delle mascherine e  occhiali protettivi e resoconti – più o meno veritieri – di un turno in terapia intensiva.
Dall’altro lato si è riscoperta un pochino di umanità e senso civico nell’aiutare i vicini di casa anziani o malati che, non potendo uscire, si affidano ai volontari per la consegna della spesa e dei medicinali. Questo è il lato migliore dell’umanità.
Voglio credere che tutto questo finirà presto.
Insieme, rispettando le regole, ce la possiamo e dobbiamo fare. Riavremo il tempo perso e sarà ancora più bello. Abbracci, baci, strette di mano e tante passeggiate sottobraccio nei parchi, facendo shopping o semplicemente a gustarci un gelato.
In questo tempo di primavera ci siamo forse persi le  prime fioriture ma sono certa che potremo affrontare le nuove stagioni con più consapevolezza dell’importanza di questo nostro essere qui, in questo mondo che può sembrare ostile ma – alla fine -  ci vuole ancora bene.
Quando i social, tra un anno, ci riproporranno questi post li leggeremo ricordando la sofferenza di questo tempo, ricordando le vite perse in questa guerra da terzo millennio; più forti di questa esperienza che ha saputo, in molti casi, scoprire i lati migliori delle persone.
Abbiamo fiducia nel tempo che verrà e, mi raccomando, rispettiamo le regole. #iorestoacasa
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Elisabetta Motta
Riflessioni

Oggi splende un sole bellissimo. Sul mio terrazzo si posano a turno le cinciallegre e le tortore. Ho imparato a riconoscerle dal loro verso. Sull’albero nel giardino di fronte, si rincorrono in volo i pappagalli. Non abito nella Foresta Nera, ma a Roma, la città Eterna. Viene voglia di uscire e di godersi ogni angolo delle sue antiche rovine, invece è un’altra giornata di quarantena e siamo costretti a viverla in casa, come ormai da due settimane. Si esce solo per le commissioni strettamente necessarie, andare in farmacia o fare la spesa al supermercato. Quest’ultima è diventata una missione difficile e pericolosa. Ogni volta, mi affido a qualche angelo che mi protegga da quel nemico invisibile pronto a colpire a tradimento.
Non so ancora per quanto tempo andrà avanti questa situazione. Nessuno di noi ha certezze in questo momento. Ci sono solo paura, ansia e preoccupazione per tutti.
Il silenzio è assordante attorno a me. Ma non è il silenzio della mia casa. È il silenzio di una città intera che sembra essersi addormentata per sempre. Tutto si è fermato. Tranne lui, il temibile mostro contro cui stiamo combattendo.
Rifletto e credo che quando saremo usciti da quest’incubo sapremo apprezzare anche le cose più semplici e scontate come fare una passeggiata al parco, incontrare gli amici, sorseggiare un caffè al bar. E rivedere i propri cari. E allora forse avremo imparato a non dare più nulla per scontato e a essere grati per ciò che abbiamo.  A vivere la vita nei suoi preziosi momenti, senza più sprecarne nemmeno uno, a volere più bene a noi stessi e agli altri.  Ecco, forse questo virus ci lascerà qualche insegnamento positivo, dopotutto.
Confinata tra le mie pareti domestiche, non ho perso la voglia di fare, di continuare a sorridere, di scherzare con i miei figli, di preparare torte. Le mie giornate corrono svelte perché lavoro da casa. Ma l’ho sempre fatto, quindi per me non è una novità lo smart working. E mi ritengo fortunata. Penso a tutte le persone davvero in difficoltà, a chi era già nella bufera prima che questa bufera ci investisse tutti.
Mentre finisco di scrivere queste mie riflessioni, è in arrivo il bollettino della Protezione Civile: i numeri sono allarmanti. Ma forse meno di ieri.
Teniamo l’umore ben saldo e non dimentichiamoci di sperare che prima o poi passerà. Che presto tornerà a brillare il sole nella nostra quotidianità, come quello che rischiarava oggi il cielo di Roma.
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Claudia Gabrieli
               Io resto a casa                

«In tempi di pandemie non si deve fare il Don Abbondio».
Lo ha detto Papa Francesco nel Suo discorso ai fedeli.
Con questa frase, intensa e significativa, ha invitato tutti ad andare avanti mantenendo fede alle proprie responsabilità, a non sottrarsi alle difficoltà e, allo stesso tempo, a rispettare le imposizioni necessarie per la salvaguardia di tutti. Mi ha commosso, vederlo camminare lungo Via del Corso, curvo, come se volesse prendere su di sé il pesante fardello dell’immane tragedia che sta sconvolgendo l’umanità e si è abbattuta sul mondo. Ha abbracciato il Crocifisso miracoloso di San Marcello per supplicare la fine di questa Pandemia; le Sue parole, in questo particolare momento di paura, invitano alla riflessione, ci riavvicinano a Dio.
Dopo l’iniziale attimo di incredulità, di spavalderia, se vogliamo, dicevo a me stessa che esagerazione, non può essere così grave, d’improvviso mi sono ritrovata nel baratro. Per la prima volta, da quando sono nata, vivo un’esperienza che lascerà profonde tracce nell’essere umano, perché non conosciamo il nemico, il virus Covid 19 che silenzioso entra nei nostri polmoni e toglie il fiato, non sappiamo come sconfiggerlo, è una lotta ìmpari.
Covid-19 ha piegato gli uomini, li ha messi di fronte alla solitudine, allontanato genitori, figli, nipoti, parenti e amici. Non ci si può vedere, abbracciare, baciare per il timore del contagio. Si muore soli, lontano dai propri cari e non si può neppure avere una degna sepoltura.
La punizione più grande che ci possa essere per l’uomo, vite solitarie! È necessario e doveroso “restare a casa” come ci chiedono, abbiamo tutti i moderni comfort, ma oggi, e solo oggi, comprendo quanto mi costa questo piccolo sacrificio. Non sto male a casa, ci sono sempre stata volentieri, ma ammetto che ora ci sono momenti in cui mi sento privata della libertà e mi chiedo se era necessaria questa tragedia per comprendere i valori della vita. Quei valori che, per egoismo, abbiamo dimenticato e calpestato.
Mi guardo intorno e nell’infinito silenzio, sento sorgere in me tanta malinconia, la tristezza. Respiro nell'aria la debolezza umana.
C'è il sole, oggi, dal balcone ammiro i prati intorno, le finestre aperte e soltanto la voce lontana di un canto che  rompe la quiete. Mi ritrovo le lacrime sul viso, non riesco a trattenerle, intense emozioni che si alternano, succedono incontrollate, rendendo deboli le mie sicurezze: salute, vita, famiglia e lavoro. Tutto spazzato via in un attimo.
Penso a chi ora soffre, impotente a questa sciagura, persone sole, che stanno combattendo la loro battaglia per la vita senza alcun conforto.
Vivo momenti di silenzio, surreali, i tempi si sono dilatati, soffusi e con essi si è rallentata la voglia di fare, non riesco a trovare la giusta concentrazione, tutto pare essersi fermato.
Mi giunge quel solitario abbaiare di cani e solo sirene di ambulanze per le vie cittadine: impotenza e solitudine nel cuore. Ho paura.
Mi chiedo cosa succederà, se riusciremo a risollevarci e poi…poi la primavera si è affacciata, il canto degli uccellini e i fiori che iniziano a sbocciare mi riportano la speranza, ce la faremo, dobbiamo farcela per ritrovarci tutti uniti in uno splendido abbraccio con la nuova consapevolezza che l’amore e l’unione vincono su tutto. Con questa speranza, giorno dopo giorno vado avanti, alla fine del tunnel ci sarà la luce.