Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

venerdì 4 aprile 2025

Numero 468 - Masterbook seconda edizione - FASE 2 - Trattatelli sulla cucina italiana - 4 Aprile 2025


Siamo entrati nella FASE 2: la semifinale della seconda edizione del Masterbook!

14 Concorrenti ancora in gara, vediamo chi sono (in ordine alfabetico):

Buzzi Stefano
Ciocca Valentina
Conti Maria Grazia
Desogus Arianna
Hary Maura
Lucenti Giovanna Agata
Malvestiti Antonella
Morara Sandra
Nobile Alessandra
Scarpenti Linda Silvia
Scartabelli Laura
Scavello Carmine
Tomiato Emanuela
Vanini Tatiana

I concorrenti dovevano scrivere un trattatello sulla cucina italiana in 600 parole. Impresa non facile. 
Vediamo come se la sono cavata!

Ricordo che i testi vengono da me postati in questo Blog senza che io intervenga in nessun modo, anche se dovessi aver visto degli errori. 
Inoltre li posto in ordine di arrivo alla mia casella di posta.

I testi verranno giudicati senza conoscere il nome di chi li ha scritti, in modo che il giudizio non sia condizionato da niente.
La giuria tecnica valuterà la forma, la correttezza della lingua italiana, l'idea, l'originalità, lo stile.

Giovedì 10 aprile, nella diretta che si terrà nella Pagina di Edizioni Convalle su Facebook, sapremo e saprete i 7 concorrenti che passeranno alla Finale.

Ma voi, caro pubblico che mi seguite, potrete esprimere in un commento FIRMATO, le vostre tre preferenze che daranno vita al voto popolare da cui uscirà un preferito assoluto di questa prova. 
Questo non influirà sul voto ufficiale espresso dalla giuria tecnica che determinerà l'uscita dal gioco di 7 concorrenti.

Potrete votare fino a Mercoledì 9 aprile, ore 20.
Potrete votare anche scrivendo a steficonvalle@gmail.com

E ora, non ci resta che gustarci i trattatelli che - sono sicura - ci faranno anche sorridere.


TRATTATELLO UNO
IL TRATTATORTELLINO DELLO CHEF CACCIANNNAVUOLO: 
LA CUCINA ITALIANA E GLI ORRORI STRANIERI


L'Italia è famosa nel mondo per la moda, la storia, ma soprattutto per il cibo. La nostra cucina è fatta di passione, amore, piatti goduriosi che negli anni tanti hanno provato a imitare, riuscendo a mettere in tavola degli strafalcioni terribili. È il momento di fare chiarezza.
Noi, solo noi, abbiamo la dieta mediterranea, chiamata così per la straordinaria varietà che l'Italia, da nord a sud, mette in campo grazie all'abbraccio del Mar Mediterraneo, non perché sta nei buffet dei Club Méditerranée!
Partiamo delle basi: la pasta.
Quanti tipi di pasta abbiamo, e su tutti i più famosi sono gli spaghetti. Chi ha inventato gli spaghetti? Adesso se mi rispondete che li hanno inventati i cinesi, vi tiro una scoppola. Sono nostri, inventati da noi, a Vico Equense. Ricordatevi che ogni volta che nomino Vico Equense vi dovete inchinare.
E come si condiscono gli spaghetti? Col pomodoro, buono, rosso, succoso e una foglia di basilico. Perfetto, da farci la scarpetta per raccogliere il sugo che resta. Potete mettere pure il ragù che, dai, lo concedo, è quello bolognese, ma pure noi a Vico Equense (inchino), facciamo una salsa che mamma mia!, mai, come a New York metterci la marmellata di albicocche o le polpette!
E la Carbonara? Vogliamo parlare della Carbonara e dei danni che fanno gli stranieri? La Sora Lella, che sempre ci protegga l'appetito, diceva:
Si parte dalla cacio e pepe; se aggiungi il guanciale fai la Gricia; dalla Gricia hai due strade: metti l'uovo e ottieni la Carbonara, non vuoi l'uovo? Metti il pomodoro e hai l'Amatriciana.
Basta, stop, fine, punto. Eppure in Inghilterra la Carbonara la fanno con l'uovo, e vorrei vedè, la panna (aiuto), la pancetta (terrore) e, tenetevi forte perché sto per dirvi qualcosa che vi farà venire gli incubi: i piselli! Arrestateli, dico io.
E poi i risotti, che vanno mantecati col burro fuori dal fuoco, le lasagne rigorosamente a sette strati, i cannelloni di magro o di carne, i tortellini, piccoli e chiusi a regola d'arte, vuoti, ripieni, da sbizzarrirsi.
La pizza, un capitolo a parte. Creata a Vico Equense (inchino), metteteci tutto, ma l'ananas no: per la regina Margherita, no!
I secondi, vogliamo parlare della varietà di secondi che abbiamo noi? Di carne, di pesce, accompagnati dalla polenta, dalle verdure, dalla mostarda. Ma non il riso! Ripetete con me:
Col riso il risotto,
mantecato e giusto cotto,
se lo metto nel secondo
venga Satana e finisca il mondo.

Se gli indiani ci vogliono accompagnare il pollo, fatti loro. Noi no. Se i giapponesi ci fanno le palle per il sushi, pazienza. Noi no. Se i cinesi lo usano al posto del pane, li compatisco, ma noi no!
I formaggi. Nessuno ha la nostra varietà di formaggi, nemmeno i francesi, che poi, buoni quelli a farsi belli con le cose nostre.
Non ci credete? Adesso vedete.
Il più grande condottiero francese? Napoleone. Bravi, sì, perché era italiano come la Corsica.
Il più famoso quadro francese? La Gioconda. Ottimo, perché è nostra, del buon Da Vinci.
Il più famoso formaggio francese? Il Gorgonzola. Oh, ma dico! Lo sanno tutti che è italiano, fatto a Vico Equense (inchino). No? Non è di (inchino) Vico Equense? Vabbuò gauagliò è della provincia milanese, ma tanto siamo  lo stesso paese.
Lo capite il succo di questo trattato? L'Italia crea, il resto del mondo distrugge.
Ora vi saluto con una perla da chef: nei vostri piatti aggiungete sempre un pizzico di limone, perché il limone sgrassa!

 

 TRATTATELLO DUE
PANCOTTO E OMOGENEIZZATI

Le persone della mia generazione sono state svezzate col pancotto – ricetta antica diffusa tra Nord e sud Italia, che ha come ingrediente base il pane raffermo a cui si aggiungevano acqua, olio extravergine di oliva, verdure, aromi e legumi. Ma era indicato anche per le persone anziane per via della sua alta digeribilità e la disponibilità degli ingredienti a km zero. 
I loro figli sono stati slattati con gli omogenizzati prodotti dalle industrie a base di carne, pesce, verdure e frutta. La fantasia non mancava alle mamme di allora: avevano inventato il ciucciotto fatto in casa per non far piangere il bebè. Consisteva in un centrino di cotone al cui centro veniva posto dello zucchero; si chiudevano i lembi attorno allo zucchero con un filo da cucito ed era pronto per essere usato come calmante.
Il pane non mancava mai sulla tavola del povero e del ricco ed era l’alimento principe dell’alimentazione. Era prodotto in autonomia col grano di famiglia e il lievito madre, che si passava di mano in mano. Guai a buttare il pane nella spazzatura: era un peccato mortale e un’offesa al genere umano.
Il pane raffermo con la muffa era ambito dalle ragazze in quanto le mamme avevano fatto passare il messaggio che facesse crescere i capelli lunghi e lucenti. I ragazzi, naturalmente, non le ostacolavano e nemmeno le prendevano in giro per non metterle in cattiva luce.
Mia madre era una maestra a recitare questa messinscena senza dare ombra di dubbio sulla sua efficacia alle mie sorelle. Anzi, diceva che aveva appreso questo consiglio dalla nonna materna.
Col Regno di Italia si è formata la Nazione, ma non gli Italiani. Gli spostamenti interni erano molto ridotti per cui la cucina regionale non aveva avuto influenza dalle altre. A vent’anni venni a lavorare in un’industria per telecomunicazioni nel milanese. Nel mio reparto eravamo in sedici colleghi provenienti da quindici regioni italiane diverse. Se avessimo voluto parlare ognuno nel proprio dialetto ci sarebbe stata una seconda Torre di Babele. Stessa cosa sarebbe successo con la cucina.
Un giorno facemmo un esperimento in occasione di uno sciopero della mensa aziendale. Anziché portare panini imbottiti o pasti frugali, decidemmo che ognuno di noi portasse una porzione di una ricetta tipica regionale. Restammo meravigliati davanti tanta ricchezza di piatti tipici e avemmo la possibilità di conoscere e di fare piccoli assaggi di quelle prelibatezze fino ad allora sconosciute.
L’Italia è apprezzata all’estero per le sue bellezze naturali, storiche e artistiche e per il cibo. Io e gli altri connazionali siamo orgogliosi che alcuni cibi italiani siano considerati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità; cito quelli che mi vengono in mente: la dieta mediterranea, il pesto genovese, il pane di Altamura, la pizza napoletana, … il Parmigiano Reggiano.
Ogni cucina regionale era in grado di produrre le proprie conserve per l’inverno, perché non si doveva buttare via nessun prodotto alimentare in surplus. Sottaceti, conserve e marmellate erano lavorate con le più affidabili e sofisticate tecniche di lavorazione: i conservanti naturali tipo sale, zucchero, salamoia e il vuoto ottenuto, facendo bollire i vasetti, assicurava un’ottima tenuta nel tempo.
Oggigiorno in una famiglia di quattro persone ci sono almeno tre tegami sui fornelli: non tutti i componenti familiari hanno gli stessi gusti alimentari. Le mamme, per accontentare tutti, si lasciano intenerire e si sacrificano. Ma c’è un altro fatto: oggi allergie e intolleranze alimentari sono in aumento. Mia madre e le sue coetanee usavano una pentola per tutta la famiglia e nessuno borbottava. L’alternativa era il detto: O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Nessuno si è mai buttato dalla finestra.


TRATTATELLO TRE   
CON LA PENNA TRA LE PENNE

Arduo compito scrivere un trattatello sulla cucina italiana.
In prima battuta mi viene la rima con tortello, casoncello, friariello, a seguire però mi tocca asciugare l’acquolina in bocca.
La nostra è una delle cucine più conosciute e diffuse, tanto che ben si presta a spiegare il concetto di globalizzazione.
Sì, perché una pizza la puoi trovare in ogni angolo del pianeta: dalle Svalbard alla punta estrema del Cile, certo non tutte saranno come quelle sfornate da Sorbillo, i puristi poi storceranno il naso e pure la bocca nel caso in cui ci trovino adagiata sopra una fetta di ananas o altre nefandezze.
La cucina italiana non ha limiti spaziali grazie anche alla diaspora dei cuochi italiani nel mondo e pure alle valigie degli emigranti cariche di nostalgia e bottiglie di pummarola, ma non conosce nemmeno limiti orari: li avete visti tutti quei turisti stranieri che, forchetta alla mano, a merenda affrontano con disinvoltura montagne di spaghetti o, sprezzanti del pericolo, a metà mattina abbinano lasagne e cappuccino?
Non sono altro che la conferma dell’attrazione irresistibile che i piatti della nostra cucina esercitano sugli esseri umani di qualsiasi latitudine; per non parlare poi degli innumerevoli tentativi di imitazione dei nostri prodotti che vanno dall’orrido parmesan fino alla innominabile zottarella.
Difendiamo allora con orgoglio le nostre eccellenze: siamo un popolo di navigatori, eroi, poeti e santi, ma anche di chef e di foodblogger.
Chi può resistere alla seduzione che esercitano le trenette al pesto, la pasta alla Norma, il Tiramisù, la bagna cauda o il caciucco?
Impresa impossibile.
A Dante toccherà allargare il sesto cerchio dell’Inferno perché in tanti, tra maritozzi, bonet, cassate, babà, seadas e cartellate, ci ritroveremo in dolce compagnia di Ciacco, che lì è confinato per la dannosa colpa della gola.
“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani” pare disse D’Azeglio esaminando i ricettari regionali e forse considerando, con un po’ di preoccupazione, il campanilismo che contrappone i sostenitori degli arancini siciliani a quelli dei supplì romani, chi rivendica il primato degli anolini e chi quello dei cappelletti.
Ma quindi quale segreto si nasconde dietro al grande successo della cucina italiana?
Non è solo il decantato modello nutrizionale della dieta mediterranea, contano anche la storia dei piatti, la tradizione contadina come per la ribollita, la poesia che fa derivare il tortellino dall’ombelico di Venere, l’arte che le donne baresi esprimono creando le orecchiette per strada, il racconto delle tradizioni casalinghe tramandate da generazioni, la convivialità e i pranzi della domenica.
“Però come li fa mamma…”
Che si tratti di carbonara o caponata, di sarde in saor o al beccafico sicuramente è l’affermazione che spesso esce dalle bocche degli Italiani nel momento in cui fa ingresso il primo boccone.
Riassumendo, per ottenere la ricetta della cucina italiana:
- occorrono varietà di prodotti stagionali del territorio
- bisogna aggiungere tradizioni regionali qb
- mescolare preferibilmente con mano di nonna
- condire con una spolverata di creatività
servire in una allegra tavolata e annaffiare con abbondante vino locale.
Buon appetito!

 

 TRATTATELLO QUATTRO
IL PRANZO DELLE FESTE

La mia infanzia è trascorsa tra pranzi affollati e vocianti.
Tre famiglie nella stessa palazzina, con un grande salone a disposizione per le feste.
Le donne erano il matriarcato culinario.
La cucina italiana passava da loro, ognuna aveva un piatto forte.
Fu idea di mia madre appendere in cucina un glossario che aggiornavano periodicamente. Per gioco, lo usavano per la ricetta da eseguire. Quando non si mettevano d'accordo su cosa preparare, puntavano il dito su una parola e ...si creava la magia.
Parole come affogare, ammollare, brasare, gratinare, imbiondire, caramellare...diventavano lo spunto per il menù.
Da caramellare, nasceva la Caramellata di cipolle.
Con impanare, si scatenavano l'acquolina e la fantasia più sfrenata: olive all'ascolana, fettine fritte, cremini fritti...
Alla julienne, era il tocco esotico! Parola sconosciuta soprattutto da mia nonna, la pronunciava marcando la "e" finale come il dialetto voleva. - E vavè! Ma non se potria di' ...tagliate fine?
Per non parlare poi del bagnomaria!
Lei che si chiamava Ida Maria, era convinta che quel termine fosse stato coniato per rendere omaggio al suo nome.
Nell'ottica del risparmio, non accendeva il fornello per far scaldare l'acqua. Metteva un pentolino sopra il bordo del camino, il più vicino possibile al fuoco, e aspettava che si scaldasse. Risparmio sì, ma cenere anche...!
Lei era addetta al pane e alla pizza, mia zia alla galantina e ai fritti e mia madre ai vincisgrassi e ai dolci.
In quale Regione ci troviamo? Nelle Marche!
I vincisgrassi, uno dei piatti tradizionali, erano un trionfo di sfoglia fatta in casa, ragù e besciamella a volontà.
L'origine del termine è avvolta nella leggenda: sembrerebbe che sia una storpiatura del nome di un generale austriaco, Alfred von Windish- Graets che, dopo un'estenuante battaglia nelle Marche, festeggiò la vittoria gustando questo piatto.
 
La concertazione dell'equipe culinaria raggiungeva il clou dell'anno, per il pranzo di Natale.
Le tre matriarche si sedevano intorno al tavolo delle trattative almeno quindici giorni prima e si dividevano i compiti, dopo aver fatto decantare le idee, proprio come un buon vino.
Al vino non rinunciavano! Il tavolo era onorato dalla presenza di un buon rosso delle nostre colline. Alla fine delle trattative, chissà se invece di decantare...cantavano allegramente?
Era un momento avvincente!
Mia nonna aveva diritto di veto: decideva lei e stilava il menù.
ANTIPASTI: pizza di pane, crostini con spuma di prosciutto, affettati misti, verdure sott'olio fatte in casa
PRIMO PIATTO: vincisgrassi o cannelloni
SECONDO e CONTORNI : galantina, insalata russa, frittura mista
DESSERT: tronchetto di Natale, assaggi di torrone e panettone, Frustingu 
Il primo e il dessert erano piatti tipici della tradizione marchigiana.
Per lu Frustingu tutti si mettevano a lavoro, tanto la ricetta era complessa.
Grandi e piccoli della famiglia erano chiamati all'appello: si triturava, sminuzzava, impastava, cuoceva, decorava.
L'assaggio finale prima della cottura, era affidato a mio padre.
Lui decideva se tutti i sapori erano equilibrati prima di infornare: diceva di essere il detentore della ricetta ereditata da sua madre e non si discuteva.
Lu frustingu non rispettava la dieta mediterranea tanto era calorico, ma non mancava mai sulla tavola imbandita per il pranzo di Natale.
Le Marche, patria di Giacomo Leopardi e di Gioacchino Rossini, musicista e grande amante della cucina!
Durante i preparativi dei vincisgrassi, Il Barbiere di Siviglia faceva da colonna sonora di sottofondo. Mio padre era convinto che desse la giusta ispirazione e la dovuta verve.
E noi tutti vivevamo l'atmosfera da Sabato del villaggio: la festa iniziava giorni prima. Pregustavamo la bontà dei piatti con la compagnia e una sana competizione. L'essere insieme per raggiungere il successo finale, significava vivere la famiglia, portare in tavola il nostro amore e la nostra unione.


TRATTATELLO CINQUE
 
TRATTATELLO, MATTARELLO, COLTELLO
 
Oggi, al raduno dei suoi pensieri selvaggi, all’Estimatora sboccia in testa la brillante idea della cucina italiana e del “trattatello” – dice lei –. “un affilato coltello per dimezzarci e farci cadere come mosche” – dico io.
E mentre frugo dentro al caos del consono e dei giusti pensieri, pure a me sboccia in testa un’idea. Sicuramente balzana, ma pur sempre un’idea.
Trattatello, mattarello, coltello… – che qualcosa mi devo pur inventare, e non dico per farmi brillare, ma almeno mascherare, e magari con la rima ci posso provare a presentare, illuminare, se non confondere e rintronare. Perché diciamolo, sul cibo ormai tutto è stato detto e ripetuto, e io mica voglio fare la figura dello sprovveduto, che passa il trito e ritrito come fosse un travaso di vino dentro la bottiglia, con l’imbuto.
Ecco, appunto, balzana, e per carità, ci mancherebbe – che già vi sento – non bastassero i chilometri, perché non solo una regione, ma per poterne parlare e giudicare, devi girare e assaggiare le specialità di tutta la nazione; e sai il tempo, lo stress, l’ingozzo, se poi ci aggiungiamo pure la rima, qui va a finire che non se ne viene più fuori.
E allora, vorrà dire che me ne farò una ragione; tralasciamo la faccenda della rima, e magari sarà pure alla meno peggio, e con scarsi risultati, ma non sia mai che mollo, e ci provo, ce la metto tutta per arrivare a una, se non felice, almeno passabile conclusione.
Gentili Signore e pure lor Signori, mi voglio presentare, sono quella povera crista che per guadagnarsi qualche punto al Masterbook – e ti prego, santa Padella, pensaci tu – deve portare a casa i risultati. E per fortuna lasagne, tagliatelle, tortellini e non supposte, sciroppi e altre castronerie deleterie.
Ma cerchiamo di essere professionali e ritorniamo nei ranghi del richiesto e la pianto con il dilungo e le castronerie, altrimenti tolgo spazio al trattatello – e non sia mai detto.
La pasta, il pane, la pizza, la carne, il pesce, le verdure, i dolci, il caffè, l’ammazza caffè e il doppio caffè.
Che noi italiani, nord, sud, est, ovest, abbiamo la fortuna dalla nostra e non ci facciamo mancare proprio niente.
Ogni regione, ogni città, ogni paese, ogni casa, e dove vai e dove ti giri, ci trovi una specialità, un suo perché, una sua goduria. E come una mamma affettuosa, tutto e tutti so’ pezzi e core.
Prendi a esempio, e così a caso partiamo dall’Emilia Romagna: le lasagne, le tagliatelle, i tortellini tipo l’ombelico di venere, quelli con la sfoglia fina e il ripieno di grana, prosciutto e mortadella; quelli che in brodo, ma pure all’asciutto sono sempre una botta di vita. E la parmigiana, la piadina, le anguille, la frittura di pesce.
Poi la Lombardia, la Valle d’Aosta: il risotto, la cotoletta, il panettone, la polenta, i canederli, il vin brulé.
Poi verso in giù, tipo Firenze: la ribollita, la fiorentina, la pappa col pomodoro.
La bella Napoli – e qui di sicuro ci troviamo la scelta dolce-salato: i babà, la pastiera, la pizza e lo spaghetto.
La Puglia: le orecchiette, i cavatelli e l’olio d’oliva.
E la Sicilia: la caponata, la pasta con le sarde, i cannoli, la cassata.
E naturalmente la Sardegna: la bottarga, la fregola, il pecorino, il pane carasau.
E altroché trattatello, qui non basta il tomo di un’enciclopedia.
E allora mi fermo qui.
Ti fermi qui? E il trattatello?
Macché trattatello, fatica sprecata, che ormai basta accendere lo schermo e ti ritrovi sommersa.
Meglio se vi lascio un saluto e vado a tocciare il cucchiaio nel ragù. E forse, pure nella Nutella.

 


TRATTATELLO SEI
NELLE TUE MANI


All’apparenza risulto fredda, ma poi…
Mi usano per arrotolare gli spaghetti allo scoglio, punzecchio pezzetti di pesce, gamberetti e qualche cozza; spesso collaboro a una minuziosa “scarpetta” di pane, giusto per raccogliere il sughetto insaporito di aglio, peperoncino e pomodoro che resta nella fondina, in molti ristoranti in riva al mare, sulle coste italiane.
Punto i denti con forza per favorire il taglio della pasta di pane mentre il mio collega coltello affonda nella mozzarella che profuma di basilico in una rotonda pizza Margherita, tipica di Napoli.
I più eleganti mi adoperano anche per punzecchiare le calde olive all’ascolana, ripiene e appena fritte, buone se mangiate anche con le dita.
Non serve il coltello, perché i miei fianchi riescono a tagliare il brasato piemontese, marinato per lunghe ore nel vino rosso (ndr, meglio se Barolo), carne succulenta, morbida, che regala al palato un’armonia di sapori; io servo anche per accoppiare la sua salsa densa con la polenta.
Una circonferenza dorata e fumante: raccolgo piccoli chicchi gialli che sprigionano l’aroma dello zafferano e faccio gustare il risotto alla milanese, un incanto per gli occhi e per le papille.
Sembrano piccoli cerchietti che nuotano nel ragù e nel sugo di pomodoro: prendo gli anelletti rossicci, una pasta cotta al forno, tipica delle case della Sicilia nei giorni di festa.
Ecco ora che, ancora calda, viene servita un’abbondante porzione nel piatto: che cos’è? Subito mi tuffo a porzionare generosi bocconi di melanzana, fritta e condita in una parmigiana che, nata al Sud, si è diffusa in tutta Italia, amata anche dagli amici vegetariani.
Dentro una sfoglia rotonda e calda c’è un morbido cuore di formaggio, all’esterno un velo di miele o di zucchero a velo: sfioro un pezzetto di seadas ancora tiepide e lo rigiro nel miele. Si mangia con gli occhi questo dolce sardo, la gola trova il suo giusto apprezzamento godurioso nei sapori che si sprigionano all’assaggio.
Che dire infine delle verdure alla piastra, delle insalate colorate, dei salumi e dei formaggi dalle tante forme… Sento la forza dei pomodori, delle mille primizie dell’orto, delle vigne e di tutti i prodotti che il territorio italiano, dal Sud al Nord, offre in ogni stagione dell’anno.
Ho narrato con una veloce pennellata una piccola parte della cucina italiana, un arcobaleno di ricette, qualità, profumi e materie prime di eccellenza; di certo avrei potuto dirvi molte più cose. La scelta è molto ampia. Si sa: l’Italia offre molto.
Forza, assaggiate, provate e gustate!
Ascoltate me, che sono una buona forchetta.

 

 TRATTATELLO SETTE
IL PARADISO DEI SAPORI

Il mio breve trattato sulla Cucina Italiana, amata e celebrata in tutto il mondo, intende farvi conoscere un patrimonio culturale che affonda le sue radici in secoli di storia e tradizioni. Ciò che la rende unica è la sua straordinaria varietà, frutto della diversità geografica e climatica della penisola, che ha generato innumerevoli piatti e sapori regionali.
Ben più di una semplice tradizione culinaria, essa è un viaggio attraverso la storia e la mitologia, le cui radici affondano in tempi antichi, quando la penisola era conosciuta come Enotria, terra del vino, e la Sicilia, con i suoi fertili campi di grano, era celebrata come il granaio di Roma.
I miti greci raccontano come Demetra, dea dell’agricoltura, abbia scelto proprio queste terre per insegnare agli uomini l’arte della coltivazione, donando loro il grano e le messi e questo spiega perché quasi tutte le regioni abbiano delle specialità di pasta, dai nomi diversi. Questa eredità millenaria si riflette nella straordinaria varietà di piatti a base di farina, dalla pasta fresca emiliana alla pizza napoletana, fino ai dolci siciliani, testimonianza di tradizioni secolari, trasmesse di generazione in generazione e arrivate oggi fino a noi.
Chiamerò quest’esperienza Paradiso dei Sapori, un itinerario tra le regione italiane, ognuna delle quali è un giardino di delizie, dalle caratteristiche specialità.
Sebbene la cucina italiana sia un mosaico di sapori, i piatti forti sono i primi.
Nella Valle d’Aosta, la polenta concia ci avvolge in un abbraccio, caldo come un tramonto sulle Alpi; Il Piemonte ci incanta con gli agnolotti al tartufo bianco e la bagna càuda, dove aglio e acciughe si fondono in un’intensa esplosione di sapori. In Liguria troviamo le trofie al pesto, avvolte da un manto di verde basilico e pinoli. La Lombardia delizia con il risotto alla milanese, incantevole nell’esplosione di zafferano, e il panettone, soffice come una nuvola. L'Emilia-Romagna, patria dei tortellini in brodo e delle lasagne, ci accoglie con una tradizione di salumi e formaggi di altissima qualità, tra cui il Parmigiano Reggiano. Tra i primi memorabili, troviamo in Lazio la carbonara, un tripudio d’intensi sapori. Il tartufo regna sovrano negli strangozzi dell’Umbria, mentre l’Abruzzo vanta i maccheroni alla chitarra, una sinfonia di ricchi ragù; i cavatiei del Molise raccontano la semplice genuinità della tradizione; la Campania è l’apoteosi di pizza e profumi agrumati, mentre le orecchiette alle cime di rapa della Puglia sprigionano il loro semplice, inconfondibile gusto; la Basilicata regala lagane con ceci, un tuffo nella tradizione contadina; in Sicilia la pasta alla Norma è un’opera lirica da gustare.
Sebbene la fama dei primi piatti sia indiscussa, sono celebri anche i secondi, quali la bistecca alla fiorentina, il porceddu sardo e i piatti di pesce che abbondano nelle regioni affacciate sul mare.I sapori aromatici si mescolano al piccante, in Calabria, nella famosa 'nduja.
Anche se ogni regione sforna ottimi dolci, ricorderò soprattutto cassate e cannoli siciliani.
Un viaggio nella cucina italiana non sarebbe completo senza menzionare l’olio profumato d’oliva, ligure, toscano e meridionale, vero nettare di verde smeraldo, e i vini pregiati, compagni inseparabili di ogni piatto, capaci di esaltarne i saporiti gusti.
Ma la Cucina Italiana non è una semplice somma di ricette regionali: è soprattutto un'esperienza di condivisione e ospitalità, un’arte che celebra il gusto, la salute e la gioia dello stare insieme. Il cibo è un pretesto per riunirsi, celebrare la vita e rafforzare i legami; ogni piatto è un invito a sedersi insieme a condividere storie e risate, a sentirsi parte di una comunità.
Se questo breve excursus vi ha stimolato a esplorare e conoscerne i tesori, non mi resta ora che augurarvi Buon appetito!


TRATTATELLO OTTO
L'ETERNA LOTTA TRA ARANCINO E SUPPLì

Togliere dignità a una pietanza chiamandola col nome di un’altra: un problema comune in una tradizione culinaria ricca come la nostra, e se state leggendo questo articolo scommettiamo che siete reduci da una delle più classiche brutte figure, quella arancino/supplì. Non preoccupatevi, non solo non siete gli unici, ma siete anche giustificati: entrambe crocchette fritte con ripieno a base di riso, entrambe dorate in superficie, entrambe croccanti all’esterno e morbide all’interno… Insomma, a prima vista chi direbbe che esiste una differenza?
Eppure esiste, esiste eccome, e se continuate a leggere avrete la chiave per evitare l’ira di orgogliosi siciliani e orgogliosi romani, detentori rispettivamente dell’una e dell’altra tradizione gastronomica.
Ma bando alle ciance, partiamo dai tratti estetici.
La forma originale rotonda dell’arancino e il suo colore dorato ricordano proprio un’arancia. Facile, no? Lo dice il nome stesso! Per amor di completezza, però, sappiate che nella Sicilia orientale l’arancino è tipicamente conico (un richiamo all’Etna, sostengono gli orgogliosi catanesi, e chi potrebbe biasimarli?!) Nessuna di queste forme, comunque, può essere scambiata con quella del supplì: dai, adesso non ditemi che non riuscite a distinguere un preparato dalla forma rotonda o conica da una sì tondeggiante, ma allungata e leggermente schiacciata! Quest’ultima, infatti, è l’unica, sola e inimitabile forma del supplì.
Tolti di mezzo i convenevoli estetici, vi tocca sorbirvi qualche informazione sulla preparazione. Tranquilli, saremo buoni! Niente ricette nel dettaglio, solo due panoramiche semplici e veloci.
Partiamo dall’arancino: cuocere il riso al dente e farlo raffreddare; formare dei dischi, inserirci la farcitura – un classico ragù, che si prepara a parte, unito a dadini di mozzarella – e chiuderli; passare i preparati in una pastella di farina, sale e acqua e poi nel pangrattato; friggerli in olio, scolarli e farli riposare qualche minuto.
Per il supplì il procedimento è completamente diverso: il punto di partenza, infatti, è un vero e proprio risotto con ragù! Cucinatelo (e se vi va, perché no, mangiatene un po’!), lasciatelo in frigo due orette e poi lavoratelo formando piccole conche e inserendovi al centro i cubetti di mozzarella. Altra differenza con l’arancino: qui non serve alcuna pastella. I supplì si impanano passandoli prima nell’uovo – e attenzione, si friggono esclusivamente in olio di semi.
Questo è anche il momento migliore per spiegarvi il nome supplì. Vi sareste immaginati che si tratta dell’italianizzazione del sostantivo francese surprise? E sì, avete indovinato, surprise vuol dire proprio “sorpresa”! Ma perché, vi chiederete? Anzitutto, per essere precisi, il nome completo di questo piatto è “supplì al telefono”, perché quando lo si mangia caldo – il che è auspicabile – e si apre in due, la mozzarella fila tra le due parti di riso, ricordando appunto un telefono. E proprio a questa mozzarella filante, immancabile nel supplì, si riferisce il termine “sorpresa”.
Ma un’altra sorpresa ve la diamo noi adesso: la destinazione dei due prodotti è completamente diversa! I supplì sono concepiti come antipasto, ad esempio nelle pizzerie, oppure come moderno street food; gli arancini, invece, nascono come portata completa e non possono essere considerati né antipasti né spuntini. Ecco perché gli arancini sono più grandi e corposi (no, non lasciatevi ingannare dalle versioni mini servite alle fiere!).
A questo punto potremmo continuare parlandovi delle varianti – vi sarete accorti che sono piatti piuttosto versatili, e infatti ne esistono versioni fantasiose, dai ripieni a base di funghi e salsiccia a quelli coi frutti di mare – ma meglio rimandare a un’altra volta: lo sappiamo che vi stavate appassionando, ma lo scopo qui era garantirvi una figura quanto meno dignitosa davanti a orgogliosi siciliani e a orgogliosi romani. Che dite, ci siamo riusciti?!

TRATTATELLO NOVE
SE È VERO CHE VIVERE È AL DI SOPRA DI TUTTO…

A volerla fare breve, per dipingere un quadro generale della cucina italiana, si potrebbe chiedere aiuto a quella formula matematica per cui cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Basterebbe rileggerla in questa maniera: cambiando la regione da cui proviene una ricetta, il piacere per il palato rimane immutato. Credo che chi di forchette se ne intende non avrebbe nulla da obiettare, dopotutto questa è una sacrosanta verità. Eppure, volendo andare più a fondo, avverto una sensazione per cui tutto questo non è sufficiente per esprimere un concetto che fatico a catturare con il pensiero.
Proverò allora a farvi immaginare l’Italia come un’avvenente donna, o un bellissimo uomo, a seconda di quelli che sono i vostri gusti. Dopotutto siamo persone come ce ne sono tante: dateci un buon piatto da mangiare e una bellezza da ammirare che non lesineremo il nostro sorriso.
Vi invito quindi a deliziare la fantasia partendo dagli arti inferiori. Li vedo svilupparsi tra piatti di orecchiette con cime di rapa pugliesi e sapori piccanti che richiamano alla tradizione calabra. Aggiungendo una nota di gusto personale, raffiguro nella mia testa una bella cartellata gigante che cinge la gamba del tavoliere come se fosse un reggicalze da strappare via a colpi di morsi: tradizione matrimoniale che si sposa con la tradizione culinaria.
Prima di risalire verso il centro del nostro paese, ringrazieremo a dovere le acque salate che, insieme al clima mediterraneo che contraddistingue il Sud, fungono da centro benessere naturale per la coltivazione delle arance e degli agrumi. È un gioco divertente immaginare piedi massaggiati con soluzioni al mirto e creme di pistacchio per fare in modo che le caviglie non diventino grosse come due arancini: le famose caviglie da mordere.
A questo punto, sempre con la missione di dare sostanza a quel pensiero latente che lievita dentro di me, vi esorto a perdere gli occhi – e il palato – su quel fondoschiena perfetto e pieno come un’oliva ascolana che si muove a ritmo di danza fino a raggiungere le terre degli arrosticini. Poi, a portare gli occhi in avanti, alla ricerca di un seno prosperoso o di un petto scolpito. Li sogno tanto perfetti da potermi lasciare a bocca spalancata come un abbacchio o un caciucco, decidete voi.
Tra inebrianti profumi di amatriciane, carbonare e fiorentine al sangue, punterei, poi, dritto verso il cuore. Non è un caso, penso, che volendo trasformare la nostra nazione in un essere umano, il cuore coincida con l’Emilia. A parer mio, ma è solo un'altra debolezza personale, sarebbe davvero un bene se tutti avessimo l’anima di questa gente. Un cuore grande come un tortellino, ma che dico, come una piadina, un crescione, anzi, come una lasagna al ragù intera. Un cuore impossibile da non amare.
E poi su verso il cervello, verso la parte razionale del sogno che profuma di fegato, baccalà, risotti, cotolette, panettoni e bolliti. Una testa senza dubbio intrigante, che, se vista al femminile, farebbe fede a quella vecchia canzone che ostenta un’altra grande verità: oltre le gambe c’è di più.
Proprio la visione al femminile potrebbe essere la chiave per aprire quel pensiero che cerco dall’inizio del viaggio tra i sapori nazionali. Perché soltanto una donna è in grado di portare in grembo una vita da mettere al mondo. Grembo che coinciderebbe con la Campania.
Se è vero che vivere è al di sopra di tutto, è altrettanto vero che in una scala dei cibi italiani la vetta spetterebbe alla pizza.
Perché la pizza è vita.
Perché bastava menzionarla in principio per riuscire a farla breve.
Ma a quel punto non ci sarebbe stato più gusto.


TRATTATELLO DIECI
PROFUMI E SAPORI DI APRILE

Aprile è il mese del risveglio. È come uscire da un inverno freddo che coinvolge non solo il fisico, ma, certe volte, anche l’anima. Ha una bella responsabilità, quindi, ma gode del fatto che le giornate iniziano a essere più lunghe, perché per curare l’anima delle persone serve tempo e dedizione.
Qualcuno si domanderà: ma non dovevamo parlare di cucina? Infatti il cibo parla d’amore e, in quanto tale, è in grado di nutrire e cicatrizzare anche le ferite dell’anima. È un ottimo antidoto, in qualsiasi mese dell’anno, per ogni tipo di tristezza e riesce a restituire equilibrio a quei momenti difficili e inaspettati che, qualche volta, la vita ci riserva.  
È il mese del risveglio anche perché profuma di una primavera ancora in boccio, alla quale piace fare l’occhiolino all’estate. Ci sono ortaggi che, da questo mese, iniziano a sgomitare su tavole ancora calde di brodo e tortellini.
Nessuna rimostranza al piatto caldo fumante e ai suoi golosi ospiti galleggianti, ma la primavera ha bisogno anche di altro. La rucola, per esempio, è una fresca pennellata verde già preludio d’estate e abbinata al tonno con sesamo ha un tocco intrigante e sensuale. Del resto gli antichi romani la coltivavano nei terreni che accoglievano le statue falliche erette in onore del dio Priapo, re della virilità, e in virtù di questo la usavano per preparare i filtri d’amore.
Altri ortaggi primaverili sono gli agretti. Chiamati anche barba di frate per la loro forma allungata, hanno una consistenza croccante e un gusto acidulo e piccante, che conferisce sapore anche alle pietanze più insipide dando, quindi, la certezza che ogni situazione si può migliorare. È come dare all’anima la conferma che non si perderà mai ma, anzi, godrà sempre di un respiro più ampio e profondo.
È un mese che risveglia i gusti, dunque, anticipando i sapori estivi. Pertanto, pensando all’estate, possiamo non andare con il pensiero alle fragole? La fragola è un frutto gustoso ma, forse, non tutti sanno che ha anche un significato esoterico: è considerata la pianta del Paradiso. Si dice che mangiare fragole conferisca uno stato di estasi, quasi di beatitudine e che, quindi, liberi le emozioni. Chi ha visto il film “Inside out 2” sa che la pazienza – una dei protagonisti del film – prepara la marmellata di fragole a tutti gli amici, per poi ammirare, dopo l’assaggio, la loro espressione beata. Come dire che c’è sempre, insomma, altra vita da godere se lasciamo andare, senza l’ostinazione di trattenere, ciò che ormai è lontano da noi.
Aprile non è dolce dormire, come diceva un detto popolare, ma è piuttosto scoprire. Fa sempre rima ma ha una prospettiva del tutto diversa. Invita a guardare fuori, a respirare aria nuova, a trovare una connessione più profonda e autentica con noi stessi, anche attraverso i sensi. L’olfatto non ha le stesse sollecitazioni in ogni mese dell’anno. Il profumo del pesce fresco sulle banchine dei porticcioli è un’altra apertura verso l’estate e, mai come in questo mese, riscalda il cuore e solletica le papille gustative.
In primavera non c’è mai la ressa fra i banchi del pescato fresco e si può scegliere con calma: acciughe, sgombri e sardine, tanto per fare alcuni esempi, sono piccoli pesci che danno il buonumore soltanto a vederli e la semplicità nel cucinarli è il loro punto di forza. Le acciughe con aglio e prezzemolo, così come gli sgombri e le sardine fritte, raccontano la bellezza dell’umiltà di un pesce povero ma con un potenziale enorme.
Come tutto ciò che non ha pretese se non quelle di arrivare al cuore e, lì, restare per sempre.


TRATTATELLO UNDICI
LA CUCINA ITALIANA - UN VIAGGIO NEL TEMPO TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

 

Mi sono chiesta tante volte come un piatto, anche il più semplice, possa raccontare l’intera storia di un popolo. 
L’Italia, con la sua molteplice varietà di paesaggi e tradizioni culinarie, è una terra dove regioni e città hanno una loro storia gastronomica, che affonda le radici nei secoli che si sono succeduti.  
E della cucina italiana mi affascina proprio la capacità di rimanere legata alla tradizione, sebbene aperta alle influenze moderne, riuscendo così a unire il passato al presente. 
Seppure le sue origini risalgono all’Antica Roma, influenzata dalle tradizioni greche, etrusche e arabe, è con il Medioevo che inizia a delinearsi l’Italia gastronomica che conosciamo oggi.  
Nel tempo, ogni regione ha perfezionato le sue ricette, migliorando i piatti con ingredienti locali che, poco alla volta, sono diventati simboli identitari per le diverse interpretazioni del cibo. 
Mi piace pensare alla cucina italiana come a un paesaggio che si trasforma da Nord a Sud, riflettendo le diverse caratteristiche regionali, ma rimanendo simile per la qualità degli ingredienti e la semplicità della preparazione. 
Prendiamo la pasta: è l’emblema della cucina italiana, ma ciò che rende ogni piatto una piccola opera d’arte non è solo la varietà delle forme, che cambiano a seconda delle regioni, bensì la tradizione che si intreccia con l’arte culinaria. 
Pensate a un piatto come la Pasta alla Carbonara, una delle ricette simbolo di Roma: ci racconta le trasformazioni della cucina povera romana, dove pochi ingredienti – guanciale, uova, pecorino e pepe – si combinano alla perfezione, creando un bilanciamento perfetto. 
Per non parlare della pizza, che ha raggiunto una fama degna di nota, capace di sposare semplicità e straordinarietà. La pizza Margherita, rivendicata dalla città di Napoli come propria, è diventata il simbolo di un’Italia unita.  
Interessanti le regioni del Sud, come la Sicilia, dove la cucina è il risultato di secoli di contaminazioni greche, arabe e normanne.  
Cous cous di pesce… Caponata… Cannoli dalla dolcezza irrefrenabile: tutti piatti che raccontano una storia di incontro e fusione culturale, che ancora oggi si riflette nella loro vitalità e ricchezza. 
E che dire del Nord, dove la tradizione culinaria si differenzia nettamente da quella meridionale? Dove le risorse della montagna – quali il burro, il formaggio e i funghi – dominano in piatti come il Risotto alla Milanese, re della tradizione lombarda, fatta non solo di comfort food ma anche di raffinatezza? 
E dei dolci? Quanto tempo mi occorrerebbe per parlarne? Dico solo che ogni regione ha le proprie specialità, spesso legate a festività religiose e tradizioni locali. 
Tradizione, sempre lei… Sebbene aperta alle influenze moderne. 
E sì, il fenomeno della cucina italiana contemporanea riesce a riscrivere la tradizione con tocchi moderni, senza rinnegarla: va alla ricerca dell’essenza di un piatto, evitando di perderne l’anima.  
I grandi chef italiani sono gli interpreti di una cucina che si evolve, si reinventa, pur non dimenticando mai da dove proviene.  
Ed è qui che entra in scena la cosiddetta cucina molecolare, quell’approccio innovativo alla gastronomia che utilizza principi scientifici per trasformare gli ingredienti e creare nuove esperienze culinarie.  
Ma per quanto si parli di passato e presente, di tradizioni e modernità, sono convinta che la cucina italiana e i suoi ingredienti raccontano storie. La pasta fatta in casa della nonna, l’olio extravergine di oliva del piccolo produttore, il vino di quella cantina… Storie di amore per la terra e di rispetto per la tradizione. 
E, allora, forza, a tavola! Chiudete gli occhi, assaporate e gustate… E tenetevi forte, perché si parte per un viaggio nel tempo tra tradizione e innovazione.  


TRATTATELLO DODICI
LA RIVINCITA DELLE FORCHETTE

In un’epoca in cui la forma pare prevalere sulla sostanza e canoni estetici irraggiungibili dominano la scena, è lecito domandarsi se la tradizione culinaria italiana sia ancora rappresentata dagli antichi sapori o sia ormai in balia delle nuove tendenze gastronomiche. Tendenze che rischiano di trasformare la nostra cara dieta mediterranea in una forma d’arte da ammirare, piuttosto che da assaporare.
Chi non ama la cucina italiana? Arma di seduzione di massa, filosofia di vita, fiero baluardo che resiste agli attacchi di chef improvvisati che postano improbabili ricette su TikTok, e grandi cuochi che si sfidano a colpi di riduzioni di essenza di carote ed esplosioni gourmet di sapori campagnoli. Tutto, in porzioni così striminzite che non sfamerebbero neanche un gatto.
In questa vetrina virtuale, dove i sommelier spuntano come funghi dopo la pioggia di settembre e sniffano calici come cani da tartufo, noi italiani, alla fine, optiamo per un bel bicchiere di vino della casa, perché – diciamolo – casa è sempre casa. Un autentico balsamo per l’anima che fa bene anche al cuore.
Cosa c’è di meglio di un corposo Barbera d’Alba per innaffiare con generosità un piatto di polenta e cinghiale in umido? E come resistere al connubio maialino sardo e Cannonau? Addentare la cotenna croccante e assaporare la carne morbida e succosa trasforma il pasto in un’esperienza sensoriale che racchiude il sole, la terra e il vento della Sardegna.
Immagina di trovarti in una piccola osteria in collina, dove l’aria è intrisa del profumo dei vigneti e del rosmarino selvatico e il tuo piatto, una ribollita capace di scaldare anche l’anima più nera, ti viene servita nel classico coccio di ceramica. Chi mai si sognerebbe di barattare un tale piacere con un pasto in piedi al fast food?
Questa è la dieta mediterranea, signori.
Un paradiso per il palato, un santuario di benessere venerato in tutto il mondo capace di celare con eleganza le più grandi abbuffate. Un’ affascinante contraddizione tra rigorosi principi nutrizionali e puro piacere. Ma se scienziati e medici prescrivono la dieta mediterranea come elisir di lunga vita, chi siamo noi per rifiutare un piatto di parmigiana di melanzane?
Mentre in Italia impazza la diatriba tra spaghetti da non spezzare e pizze con o senza cornicione, all’estero la nostra arte culinaria prevede esperimenti ai limiti della realtà.
In ogni angolo del mondo scoviamo qualche chef che, con entusiasmo, cerca di reinventare i patti della tradizione con risvolti degni di un film di Tarantino. Eppure, ogni volta che al ristorante vietnamita il cameriere ci offre, con accento stentato, la propria versione di spaghetti bolognese, ci sentiamo un po' a casa.
La cucina italiana rimane un linguaggio d’amore universale e poco importa se a New York o in qualche sobborgo di Soho cercheranno di propinarci un piatto di pasta condito col ketchup, significherà pur qualcosa se cercano di imitarci.
Ma passiamo ai peccati di gola che non possono mai mancare a fine pasto. Da nord a sud, la penisola ci regala emozioni di zucchero, burro e creme che non temono rivali. I nostri dolci sono così "semplici" e "leggeri" che un solo morso rischia di spedirti dal cardiologo.
I dolci italiani non sono solo cibo: sono cultura, tradizione e, soprattutto, una deliziosa scusa per rimandare la dieta.
Anche se la spettacolarizzazione della gastronomia oggi gioca un ruolo predominante, la nostra preziosa tradizione culinaria, fatta di piatti genuini e gesti tramandati di generazione in generazione, rimane un patrimonio inestimabile.
In questo equilibrio precario tra tradizione e innovazione, diciamocelo: per noi, la lasagna vince sempre.


TRATTATELLO TREDICI
MINESTRINE ALLA RISCOSSA

Ai venticinque lettori del mio Blog, oggi, voglio parlare di un piatto spesso ingiustamente bistrattato, snobbato, a volte, addirittura, schifato. Un piatto che non ha voce nei menù ricercati dei matrimoni e dei battesimi o, se ce l’ha, compare di striscio, stilato a caratteri piccoli, quasi dovesse andare a nascondersi dalla vergogna. Ma non c’è alcuna vergogna nell’essere umili, nell’essere semplici ed essenziali, come lui è. 
Perché la storia della cucina italiana non è fatta solo da arrosti di vitello e lepri in salmì, per quanto se ne senta parlare molto di più, su certi libri di cucina. La storia della cucina italiana è fatta, da nord a sud, soprattutto da placide e pazienti minestrine in brodo.
Pensate a quanta gente sarebbe morta se non fosse esistito questo piatto! Un piatto che in silenzio, con naturalezza, ha riempito la pancia a milioni di persone, quando c’era ben poco con cui riempire la pancia. Non dareste un soldo di cacio alle erbe dei campi, vero? E cosa pensate dei cespugli d’ortica, specialmente quando, in estate, ci finite in mezzo, con le gonne o i pantaloni corti? Provate invece a bollirla, l’ortica, e aggiungere un pizzico di sale! Ma poco sale, mi raccomando, che un tempo il sale era oro e oggi rischia di farvi salire troppo la pressione. Quella è una delizia, una delizia per stomaci affamati, e non. 
Quante medaglie al valore, ingiustamente negate, avrebbe di certo meritato, la minestrina! Ma in questa vita chi viene ricordato e rispettato è il più potente e, spesso, il più gradasso, non certo il più umile.
E poi questo straordinario e bistrattato piatto non ha solo salvato tante vite dalla fame. Le ha salvate, almeno per quanto mi riguarda, anche dalla malinconia. 
Vi è mai capitato di percorrere, la sera, certe strade di paese, dove, a ogni incrocio, trovate le edicole con i santi? Io parlo del mio, di paese, ma potrei citarne milioni e milioni di altri.  Mettiamo che sia estate. Perché chi lo ha detto che le minestrine si mangiano solo d’inverno? Sono deliziose, se lasciate raffreddare, anche in estate! Dicevo che state camminando soli, in una sera d’estate, e vi viene da piangere. L’ennesima sera in cui piangere vi pare l’unica soluzione al martirio di questa vita, o ameno della vostra, di vita. State quasi pensando di farla finita, quando, all’improvviso, un profumino di brodo vi solletica il naso. Viene da quella casa, laggiù, quella con le tende bianche in lino e la luce gialla alla finestra. Un salto nel passato e ci siete voi, dentro quella finestra illuminata. Siete piccoli; la vostra mamma, armata di un cucchiaio lucido e strapieno di midolline in brodo, le sta pazientemente dirigendo nel vostro piccolo becco da passerotto.  Voi caricate le guance a più non posso, fino a farle assomigliare a due bombe a mano, infine bombardate. Si spiaccica tutto sul vestito nero a fiori rossi della mamma che, così, con piccole aggiunte di vomito biancastro, pare pure più alla moda!
Ricordando tutto ciò, cominciate a ridere. E i pensieri di morte sono rimandati, rimandati a settembre. Almeno, per me, è sempre stato così.
È vero che dicono:” O mangi questa minestra o salti dalla finestra”. È un’ingiustizia, però. Se sapessero da quante finestre ho evitato di saltare giù, io, grazie al profumo delle minestrine! 
Voglio svelarvi un segreto. Mia nonna era un’ottima cuoca di minestrine. Quando è morta non ho messo fiori sulla tomba, ma un grande vaso, pieno di ortaggi, che curo di persona. Ogni tanto, con la complicità del guardiano, le colgo e la sera preparo, ancora, la sua minestrina. 


TRATTATELLO QUATTORDICI
ARTE E CREATIVITÀ NELLA CUCINA ITALIANA

Italia: popolo di santi, poeti e navigatori e, aggiungo io, di grandi maestri cucinieri, sì proprio così, non chef, ma Maestri cucinieri! Non per niente, la cucina italiana è rinomata in tutto il mondo per la ricchezza dei suoi sapori e la genuinità dei suoi ingredienti.
Saper cucinare era, a tutti gli effetti, un’Arte; non per niente il primo libro di cucina, risalente al II sec. d.C., fu opera di Apicio, cuoco e scrittore famoso; si deve a lui la ricetta delle lasagne, all’epoca conosciute con il nome di “lagane”, un piatto di sottili sfoglie di pasta condite con un saporito ripieno a base di carne o pesce.
Molti piatti simbolo della cucina italiana hanno origini storiche ben precise e confermano, ancora una volta, la creatività del nostro popolo, che ha saputo trarre il meglio dalle diverse culture che l’hanno influenzato.
La polenta, per esempio, trova origine fra i Sumeri, ma solo in Italia s’iniziò a prepararla utilizzando del farro macinato e cotto, trasformandola in un alimento nutriente ed economico.
E che dire della famosa Amatriciana, un semplice piatto per pastori dediti alla transumanza, ma che in seguito, con l’aggiunta del pomodoro e del guanciale, ha dato origine all’inimitabile piatto di pasta che tutto il mondo c’invidia. 
Senza parlare della pizza che, prendendo origine da un’antica focaccia preparata dai Greci, la pitta, è stata reinventata fino a raggiungere “l’apoteosi”, con la ricetta della pizza Margherita, in onore dell’omonima regina d’Italia con i classici ingredienti a formare il tricolore.
Ma si deve all’antica città di Siracusa, in Sicilia, se la cucina italiana e quella siciliana in particolare, sono divenute famose in tutto il mondo occidentale. Oggi, nomi come Miteco, Labdaco, Terpsione, ci dicono poco ma verso il III sec. A.C. erano delle vere e proprie celebrità, non solo cuochi ma anche artisti colti e raffinati, insomma gli “chef stellati” di oggi li farebbero rivoltare nella tomba…
Soffermandomi sulla cucina siciliana poi, si può non parlare dei dolci famosi in tutto il mondo, quali sua maestà la Cassata siciliana e i Cannoli? Solo a nominarli si ha il risveglio di tutti sensi!
L’origine della famosa cassata si fa risalire a un pastore arabo che, una notte, decise di mischiare la ricotta con lo zucchero e per farlo si servì di una bacinella, quas’at appunto in arabo. Questo semplice dolce arrivò all’Emiro di Palermo che, conquistato dal sapore, ordinò ai suoi cuochi di ricrearlo e questi aggiunsero un guscio di pasta frolla; in seguito però, furono i siciliani che, con Pan di Spagna, frutta candita, scaglie di cioccolato e pasta reale di mandorle a ricoprire il tutto, fecero nascere la deliziosa e coloratissima Cassata.
Del Cannolo invece, parla addirittura Cicerone, che nel 70 a.C., durante un viaggio in Sicilia, rimane ammaliato da un tubo di farina ripieno di morbida crema di latte, perfetta descrizione del dolce che oggi si presenta anche ripieno di ricotta o cioccolato.
Se invece, per concludere in “bontà”, dico “Pasta alla Norma”, è il famoso primo piatto con melenzane fritte, pomodori e ricotta salata che si para davanti agli occhi dell’immaginazione. Questo semplice ma gustosissimo piatto si associa alla stupenda musica del celebre compositore catanese Vincenzo Bellini e alla sua famosa opera lirica, infatti fu il commediografo siciliano Nino Martoglio che dopo averla assaggiata esordì dicendo: «E’ una Norma!» come per affermare che fosse perfetta come la musica di Bellini.
Per concludere, se è vero il famoso detto “l’uomo è ciò che mangia”, non c’è da meravigliarsi che il nostro paese sia il più famoso nel mondo per arte e cultura!

E dopo aver letto tutti i 14 trattatelli, 
non vi resta che votare!

Alla prossima
dalla vostra  
Stefania Convalle





 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                    

 

 

 

 

 

 

 

 

 


domenica 23 marzo 2025

Numero 467 - Parliamo di libri: tra opere della letteratura e opere di Edizioni Convalle - Anne Tyler e Tania Mignani - 23 Marzo 2025


 

Amo ricevere libri come regalo, quando c'è qualche ricorrenza. Mi piace anche perché mi fa piacere osservare quale opera è l'oggetto del regalo, se è frutto di un pensiero relativo a ciò che potrebbe piacermi. 
In questo caso, qualche mese fa, un'amica cara, nonché autrice della mia casa editrice, mi ha fatto arrivare un romanzo che è tra i suoi preferiti: "Per puro caso" di Anne Tyler. Me ne aveva parlato e mi aveva incuriosito la storia. E dopo qualche giorno è arrivata la sorpresa!
Naturalmente l'ho iniziato subito.
Intanto, per chi non sapesse chi è Anne Tyler, vi dico che è una scrittrice americana, ha scritto una miriade di romanzi, alcuni sono diventati anche film famosi. Ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa  nel 1989.
Oggi ha più di ottant'anni e vive a Baltimora. Sono andata, per curiosità, a cercare una sua foto e ho trovato un bel sorriso e simpatico. Un po' come ho trovato il suo romanzo: con un bel sorriso e simpatico.
"Per puro caso" è un romanzo corposo, ma pur non amando i romanzi di questa mole, la lettura è stata una pillola quotidiana di piacevolezza. Qualche pagina al giorno e sono arrivata alla fine oggi.
Ma vi chiederete: cosa c'entra la foto scelta per questo numero, perché il romanzo della Tyler fotografato accanto a quello di Tania Mignani?
Ve lo spiego subito!
Quando ho iniziato a leggere il romanzo, dopo qualche pagina ho detto a Tania che mi sembrava di leggere una sua opera: due stili che viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda, come anche la modalità di raccontare storie normali (o quasi), stando dentro la quotidianità. Una sorta di cronaca familiare con tutte le dinamiche di coppia, o tra genitori e figli.
Quindi ho detto a Tania: ma sembri tu!
Lei mi ha risposto: seeeeeeeeeeeeeeeeeee (e ha riso).
Insomma, il romanzo di Tania, "In perfetto disordine" potrebbe essere stato scritto da Anne Tyler e il romanzo di Anne Tyler potrebbe essere stato scritto da Tania Mignani.
Ma torniamo al romanzo in questione.
La storia si potrebbe riassumere in poche parole: casalinga e madre di tre figli, dentro una comune famiglia americana degli anni novanta, sentendosi poco valorizzata e quasi invisibile davanti ai figli adolescenti e al marito concentrato sul suo lavoro di veterinario, decide all'improvviso di andarsene. Non lo fa con un programma organizzato, ma durante una passeggiata lungo il mare, nel bel mezzo di una vacanza, cammina cammina cammina, fino ad allontanarsi concretamente e mentalmente dalla vecchia vita. 
Fino al finale che non vi svelo.
Ma non è che tra evento scatenante e finale, succedano miriadi di fatti, direi proprio di no. C'è il piacere di raccontare, come davanti a un caffè in compagnia di un'amica, la propria vita, attraverso aneddoti, emozioni, pensieri.
Insomma, la protagonista - Delia - diventa quasi un'amica e il lettore vuole essere partecipe di ciò che le succede ogni giorno nel suo quotidiano.
Devo dire anche che Delia è un personaggio che procura sentimenti ambivalenti nel lettore, almeno nel mio caso.
Da una parte si appoggia la sua decisione di andarsene e si comprende lo stato d'animo che scatena tutto ciò perché da donna posso dire che il sentire di Delia è comune a tante di noi. Nello stesso tempo, a volte ci si chiede come faccia, una madre di famiglia, ad andarsene così, d'un tratto, facendo perdere le tracce di sé al marito, figli e tutto il parentado.
Una storia che si legge con la piacevolezza di un tè caldo in un pomeriggio freddo d'inverno, con la curiosità di sapere come andrà a finire: cosa farà, alla fine, Delia? Un romanzo che lascia una scia piacevole, anche perché tutta la narrazione è condita da una buona dose di ironia.
E "In perfetto disordine"? 
Mi sorprende pensare che la B è qualcosa che le due scrittrici hanno in comune.
"Per puro caso" è ambientato tra Baltimora e Bay Borough; "In perfetto disordine", tra Bologna e una puntatina a Berlino.
Ma a parte questo particolare curioso, riporto una parte della prefazione che scrissi all'epoca per il suo romanzo:
Leggere le opere di Tania Mignani è come ritrovarsi seduti insieme a lei in un bel giardino, in una sera di fine estate, quando l’aria è più fresca, le luci si avvicinano all’autunno e davanti a un tramonto si sente la sua voce morbida e accogliente parlare d’amore, l’amore che tutti conosciamo, quello tra un uomo e una donna, quello che è attraversato da una miriade di emozioni.
Si resta affascinati dalla sua penna con la quale, ancora una volta, riesce a porgere al lettore storie di vita dove ognuno può ritrovare un pezzetto di sé.
Una mano, quella di Tania, autentica e sincera. Una penna che non si atteggia, ma che asseconda la sensibilità dell’autrice regalando pagine e pagine di profondità e conoscenza dell’animo umano.
Un cammino tra momenti di felicità dei protagonisti, ma anche di disperazione descritta alla perfezione, dove fa capolino l’ironia pungente di colei che narra, un’ironia amara che arriva a essere dissacrante proprio perché inserita in passaggi dove sarebbe così facile calcare la mano e virare verso il melodramma… Ma lei non lo fa. 

In conclusione mi chiedo: ma non è che Tania Mignani è Ann Tyler in incognito? :-D 
In tutti i casi, la sintesi è che la penna di Tania è di un alto livello e le auguriamo di vincere il Pulitzer per la Narrativa. Chissà... 

E poi, aggiungo, osservando la foto della copertina di questo numero, che ritrae le due opere a fianco: non si direbbe che si tratta di due copertine di case editrici di dimensioni così diverse! Che ne dite? 
Io dico che Edizioni Convalle è un gioiellino, eh lo so, sono l'editrice, cos'altro potrei dire... Però chi mi conosce sa che sono obiettiva e autocritica, non me la canto e me la suono, per intenderci... E sono più che orgogliosa di quello che è Edizioni Convalle, dentro e fuori. E non è cosa da poco.
A questo punto non mi resta che salutarvi, invitandovi a lasciare un commento a questo numero del blog, per dire la vostra. E se non avete letto i romanzi di cui vi ho parlato, fatelo! Leggete entrambi e poi ditemi se avrete avuto la mia stessa impressione.



Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle


sabato 22 marzo 2025

Numero 466 - Com'è finita la GARA LAMPO? - 22 Marzo 2025

 


Meglio tardi che mai! 

Ecco i risultati finali della Gara Lampo che si è svolta durante le vacanze natalizie 2024/2025. Nella diretta del giovedì, nella Pagina di Edizioni Convalle su Facebook, avevo già annunciato i vincitori e chi ha ottenuto il premio della critica, ma - come promesso - dovevo dedicare un numero del Blog ai premiati.

Ed eccomi qui!

Cominciamo dai vincitori, coloro che sono saliti sul podio.

Al primo posto, sia per il voto popolare, sia per il premio della critica: TANIA MIGNANI.

E allora rileggiamo il suo racconto, qui di seguito.


RACCOLTA DIFFERENZIATA

Tania Mignani

 

La mattina che te ne sei andato hai pensato bene di dirmelo mentre mi stavo lavando i denti.
Tipico da parte tua, almeno non ti avrei interrotto, sai quanto ci tenga alla mia igiene orale. Hai elencato una serie di motivazioni, peraltro sensate, alle quali avevi pensato per tutta la notte. Sarebbe bastato dire scopo con un'altra e avresti risparmiato molte ore di sonno.
La mattina che te ne sei andato ho svegliato i bambini come ogni giorno e tu ti sei offerto di accompagnarli a scuola e di preparare loro la colazione. Ne sono rimasta piacevolmente colpita.
Ho aperto Facebook, una coppia che conosciamo aveva pubblicato una foto annunciando a tutti la fine del loro rapporto rassicurandoci che il loro amore non era finito, si era solo trasformato. Avevano già ricevuto centotrentadue like e molti commenti, la maggior parte dei quali diceva “siete speciali, vi lovvo”.
La mattina che te ne sei andato mi sono chiesta, in tutta sincerità, come fanno quelle coppie a capire quando è il momento giusto e, contemporaneamente, essere così fotogenici.
C'era un sole stupendo, quella mattina, mai successo quando si decideva di fare una gita al mare…
I bambini hanno fatto colazione diligentemente e io ho provato un gran tristezza.
Prima di uscire hai detto: Vabbè, allora ciao.
Ho portato la spazzatura in giardino, ma i recipienti non riuscivano a contenere tutto quello che avevo bisogno di smaltire.
Sarebbe servito un contenitore per le delusioni, uno per le giornate storte, uno enorme per la rabbia, da svuotare almeno tre volte al giorno. Un altro per gli sbagli e per le frasi taglienti, uno per i rospi ingoiati, per i nodi alla gola, per certi ricordi che non mi lasciavano in pace.
La mattina che te ne sei andato ho cominciato ad aspettare che arrivasse la sera.


LA MIA NOTA CRITICA

Un racconto che racchiude tutto ciò che cerco nella scrittura: linguaggio moderno e corretto, perfetta sintesi, incipit che porta subito dentro la storia, stile semplice ma personale, cura della forma, immagini al passo coi tempi e originali. 
Significato profondo: uno sguardo sugli amori che giungono al capolinea. Tutto raccontato senza cadere mai nella banalità o nel già sentito, e soprattutto con grande eleganza e raffinatezza.

Ho rivolto qualche domanda a Tania in merito a questa gara.
- Mi racconti le emozioni provate in seguito al risultato finale della Gara Lampo?

- Ogni volta in cui un mio racconto raggiunge il lettore, ovvero le emozioni che ho cercato di descrivere e riportare su un foglio vengono percepite da chi legge, per me è sempre una vittoria, significa che le ho descritte nel modo giusto. La soddisfazione di essere capiti attraverso quanto scriviamo è impagabile.

- Cosa ti ha spinto a partecipare? 

- È sempre importante mettersi alla prova e, qualunque risultato si raggiunga, sia esso positivo o negativo, è un’utilissima cartina tornasole per capire se quanto ho scritto sia stato efficace. È un’ulteriore spinta a migliorarsi e a raggiungere sempre più lettori.

- Cosa vuoi dire a chi ha votato per te nel Blog?

- Innanzitutto, grazie per aver apprezzato il mio racconto. Se è stato votato significa che i lettori ne hanno capito il significato tramite le emozioni che sono riuscita a trasmettere e questo, per me, è un grandissimo risultato.


Complimenti ancora a Tania Mignani che ha vinto su due fronti: quello popolare e quello tecnico (cosa più unica che rara!)



Ma passiamo a Barbara Fabbri che si è classifica al secondo posto secondo la giuria popolare.

Ecco qui di seguito il suo racconto.

 

DIALOGO TRA S-CONOSCIUTI

Barbara Fabbri

 

ALLA FERMATA DEL BUS
1- «Buongiorno, mi scusi se la importuno, ma sono sue le scarpe che indossa?»
2- «Ma parla con me?»
1- «Certo che parlo con lei, le ho chiesto se sono sue le scarpe.»
2- «Ma certo che sono mie, ma a lei cosa interessa?»
1- «Va beh, ma non si arrabbi, era una semplice curiosità. Sa le ho anche io quelle scarpe.»
2- «Eh quindi? Sa quante scarpe uguali a queste ci sono in giro?»
1- «Certo, ha perfettamente ragione, mi scusi se le sembro invadente.»
2- «Ma roba da matti, tutti io li trovo quelli strani. Senta non ho tempo da perdere io, vada a rompere le scatole a qualcun altro.»
1- «Ma gli altri non hanno le mie scarpe.»
2- «Ancora con questa storia, ma la vuole capire che queste scarpe sono mie, perché dovrei indossare le sue scarpe?»
1- «Ah, non lo so me lo dica lei?»
2- «Senta adesso mi ha proprio stufato, non ha nient'altro da fare?»
1- «No, a dire il vero non ho proprio nulla da fare, tranne cercare le mie scarpe che non trovo più da una settimana.»
2- «Beh, provi a cercarle altrove. Vada, vada!»

Il bus arriva e la gente si accalca per salire. L'uomo che cerca le sue scarpe rimane fermo a osservare i suoi mocassini allontanarsi nella calca. Mentre guarda con malinconia e dolore il baffo di vernice verde, che segna il retro del tacco. Ripensa a quando aveva sistemato quel vecchio cassettone e il colore era colato sulle scarpe. Sua moglie ne aveva riso. Lo aveva chiamato imbranato e lo aveva baciato. Lui aveva pensato di togliere quella macchia, ma rappresentava un momento felice della sua vita. Adesso non era più così, era da un po' di tempo, che le cose non andavano più bene tra lui e sua moglie.
Aveva pensato che lei avesse cancellato quel segno dalle scarpe come per cancellare la loro storia d'amore oramai agli sgoccioli. Invece “l'altro” si era sbagliato, nella fretta aveva preso le scarpe macchiate, e aveva lasciato le sue, perfettamente identiche, ma senza quella traccia d'amore che ora era il segno del tradimento.
Si tirò su il bavero della giacca si avviò a piedi verso il centro, Non sarebbe tornato a casa. Voleva andare in un negozio a comperarsi un paio di mocassini. Quelli che aveva ai piedi li avrebbe buttati via, come avrebbe fatto con il suo matrimonio. Guardò il cielo che stava scurendosi, e sollevando le spalle penso che, comunque quel cassettone verde, a lui non era mai piaciuto. 

LA MIA NOTA CRITICA

Uno sguardo originale sull'argomento del tradimento, ben condotto, che assume un colore giallo, dove le scarpe assumono il ruolo di prova delle malefatte del coniuge. Una modalità personale, con un velo di ironia che non guasta mai.



Al terzo posto, secondo la giuria popolare, si sono classificate due autrici: Valentina Ciocca e Laura Scartabelli.

Cominciamo da racconto di Valentina, che potete leggere qui di seguito.


LA PANCHINA DEI SOGNATORI

Valentina Ciocca

 

Osservo la panchina vuota. Non sono pronto a rinunciare al nostro rituale, a quel momento dolce e confortante che ci ha accompagnati per tanto tempo.
Prendo il bastone, mi fa sentire più sicuro e procedo lento verso la spiaggia. Il cuore è sempre un passo avanti, ma le gambe, beh, le gambe sono tutta un'altra storia, mi rallentano, ma io non demordo. Proseguo fingendo di sentire ancora il tepore del tuo braccio accostato al mio.
Ma tu non ci sei più.
Assaporo l'odore del mare e vado a pesca di ricordi. Il mio sguardo si perde tra il blu dell'acqua e la linea infinita dell'orizzonte e i pensieri si fanno pesanti, difficili da ascoltare, quando un rumore improvviso mi riporta alla realtà.
Una ragazzina coi pattini a rotelle ha urtato la nostra panchina. Quella panchina che è stata testimone dei nostri sogni fino a pochi giorni fa, quando te ne sei andata. 

«Ehi, tutto bene?»
La piccola, distesa a terra, alza lo sguardo velato di lacrime.
«Ti aiuterei ad alzarti, ma non vorrei trovarmi a gambe all'aria come una vecchia tartaruga.»
«Mi scusi, non è un bel modo di presentarsi a un colloquio, ma volevo fare presto così ho pensato di usare i pattini.»
«Colloquio? Non sei un po' giovane per lavorare?»
«Ma lei non è il signor Adriano? Nell'annuncio c'era scritto di presentarmi qui domenica mattina e che l'avrei riconosciuta per via del giornale e del bastone. Io sono Greta, piacere.»
«Quale annuncio? Io sono in pensione e non ho idea di cosa tu stia dicendo.»
Greta mi porge un foglietto. Riconosco subito la calligrafia: Cercasi anima gentile disposta ad accompagnare il signor Adriano durante la passeggiata della domenica mattina e a trascorrere del tempo con lui. Il signor Adriano avrà con sé un giornale e un bastone da passeggio. Compenso da concordare.
Stringo il prezioso pezzetto di carta tra le mani e avverto la fragranza a me più cara, una impercettibile nota di gelsomino e per un istante mi sembra di averti di nuovo qui.
«La prego, la mamma mi ha promesso di comprarmi la bicicletta se per l'estate avessi trovato un piccolo lavoretto, anche gratis. Non so cosa potrei fare, con le faccende di casa sono un disastro ma mi piace chiacchierare, adoro leggere e so anche stare zitta quando serve.»
«Beh, non sarò certo io a impedirti di avere di avere quella bicicletta! Vieni, facciamo due passi.»
«Grazie, signor Adriano, grazie mille. Prima di andare possiamo aspettare la mamma? Sarà qui nei paraggi per accertarsi che lei sia un uomo per bene, ma io già lo sapevo. La signora che mi ha consegnato il biglietto era tanto bella e gentile anche se sembrava affaticata.»
«Andiamo a conoscere la tua mamma, nel frattempo se ti piacciono le storie e gli intrighi d'amore ti racconterò di quella incantevole signora che si chiamava Agnese.»
Ecco, un altro ricordo che bussa, ma questa volta prendo Greta sotto il braccio e sorrido, pensando che, anche da lassù, hai trovato il modo di prenderti cura di me.


LA MIA NOTA CRITICA

Un racconto suggestivo che affronta il delicato argomento della solitudine che deriva dall'età, quando dopo una vita insieme, due coniugi vengono divisi dalla morte di uno dei due. L'autrice si addentra, però, in un narrare poetico che si addentra in un'atmosfera eterea, perché coloro che se ne vanno sono sempre vicini con il loro spirito e continuano a badare a noi. Ben condotto, riesce a toccare le corde dell'emozione di ognuno di noi.

Valentina mi ha poi inviato un pensiero relativo a questa esperienza:

Mi chiamo Valentina Ciocca e mi sono affacciata al mondo della scrittura grazie al laboratorio di Stefania. 
Sono un’appassionata lettrice e attraverso le parole provo a tirar fuori quella parte di me che di solito rimane un po' in ombra perché sono timida.
Il risultato della Gara Lampo è stato una grande soddisfazione ed è arrivato in un momento un po' difficile, un raggio di luce in mezzo a giorni bui per la malattia della mia mamma.  A dire la verità non ero sicura di partecipare perché presa da tanti pensieri, ma alla fine la voglia di mettersi in gioco ha prevalso e così, senza aspettative, mi sono buttata.
È stata una piacevole sorpresa sapere di essere arrivata terza e di essermi confrontata con tante penne esperte e di qualità.
Ringrazio chi ha speso il proprio tempo per leggere il mio racconto e chi lo ha apprezzato, ma soprattutto Stefania che ha inventato questo particolare format di gara che ci ha permesso di farci conoscere.



Ma passiamo a Laura Scartabelli, anche lei classificatasi al terzo posto col suo racconto, che potete rileggere qui di seguito.


LA BICICLETTA ROSSA

Laura Scartabelli

 

Certe volte ho sperato di vederti nel mare, altre nel cielo. Magari in una nuvola che, nel suo trasformarsi, potesse assumere una sembianza che mi parlasse di te.
Perché avevo paura, sai. Una grande paura che quel buco nero ti avesse inghiottito in via definitiva, senza lasciare alcuna traccia di te. Così cercavo, cercavo… Ma non vedevo mai niente che mi facesse pensare alla tua presenza qui, accanto a me.
Così, alla fine, ho creduto che tutto ciò che desideravo vedere nella natura fosse solo una speranza costruita dalla mente per non rassegnarsi al fatto che tu non c'eri più e ho lasciato, purtroppo, che la rabbia si impossessasse di me.
Quel giorno eri uscito di casa allegro come sempre e, come sempre, avevi inforcato la tua bicicletta rossa. Era la stessa strada, lo stesso percorso, la stessa ordinaria quotidianità. Ma in fondo alla strada non c'era il come sempre perché quell'itinerario così conosciuto, quel giorno, si era interrotto. Un enorme automezzo lo aveva fermato senza preavviso, insieme alla tua vita.
Perché quel gigantesco furgone è passato di lì?
Questa era la domanda che mi batteva in testa in continuazione poiché dalle nostre parti non avevo mai visto veicoli di quelle dimensioni.
Poi qualcuno mi disse essere appartenente alla ditta di trasporti che si stava occupando del trasloco della famiglia americana; gli acquirenti dell'imponente villa degli Smith, da anni disabitata.
Li ho odiati con ferocia e ho desiderato il peggio per loro. Fanculo i loro soldi e la loro smania di grandezza. Erano solo tre persone. Che cazzo ci facevano in una casa così grande? Loro potevano avere tutto mentre io non avevo più niente, nemmeno gli occhi per piangere. L'unico sentimento che riuscivo a provare era la rabbia che si tramutava in urla aggressive verso chiunque tentasse di rivolgermi la parola.
Tua madre, per contro, era inerme. Io urlavo, lei taceva. Non so dove la nostra sofferenza trovava più accoglienza, se nella mia ira oppure nel suo doloroso silenzio.
Un tempo non quantificabile trascorso in balia del nulla. 

Fino a ieri.
Ieri è successo qualcosa di speciale.
Uscendo da casa, per raccogliere il giornale lasciato dal portalettere, ho visto una bicicletta rossa. Allora il mio cuore, in letargo forzato da anni, mi ha ricordato della sua esistenza. Quella bicicletta, identica alla tua, era appoggiata alla struttura che sorregge la cassetta della posta. Ho pensato di sognare e impazzire nello stesso momento. Poi una voce, che con tutta probabilità tentava un contatto già da alcuni secondi, mi ha riportato nel presente.
«Signore, signore. Mi scusi…»
Davanti a me, una ragazzina bionda. Gioiosa e piena di vita.
«Sì, dimmi.»
«Mi si è rotta la catena della bicicletta. Può aiutarmi, per favore?»
 
Allora ho capito che la speranza non è un'invenzione della mente, ma il doloroso cammino di un'anima che chiede il permesso di tornare a casa.


LA MIA NOTA CRITICA

L'autrice racconta di un evento che sconvolge la vita di due genitori: la perdita di un figlio in seguito a un incidente.

Senza falsi buonismi, analizza gli stati d'animo del padre; lo fa senza mettersi i guanti nel mostrare sentimenti di rabbia e di incapacità di perdonare i colpevoli: uomini o destino?

Però mostra anche - attraverso il personaggio della bambina che incarna l'innocenza - che l'essere umano può arrivare al perdono, o almeno all'accettazione di quanto accaduto, trovando una spiegazione, seppur eterea, che conduce verso la la luce in fondo al tunnel della disperazione.


Anche a Laura ho rivolto qualche domanda.

- Mi racconti le emozioni provate in seguito al risultato finale della Gara Lampo?

- Beh, avete presente quando si dice: quando sei felice facci caso? Ecco, diciamo che le emozioni si sono concentrate tutte insieme per sfociare nella felicità.

 - Cosa ti ha spinto a partecipare? 

- La voglia di mettermi in gioco. Ormai ho sperimentato che quella, a prescindere dal risultato, è sempre positiva.

 - Cosa vuoi dire a chi ha votato per te nel Blog?

- Prima di tutto li ringrazio molto, anche perché scegliere non era facile dato che i pezzi degni di nota erano davvero tanti e poi, visto che hanno apprezzato il mio brano, vorrei suggerire loro di… leggere la mia raccolta di racconti! 😊

Complimenti anche a Laura Scartabelli.




Complimenti anche alle due autrici Costanza Trotti, autrice della poesia "Lunga è la notte", e Sandra Morara autrice del racconto "Gli asini volano", che hanno ricevuto da me una menzione speciale per la bellezza dei loro testi, meritevoli di segnalazione. Ma aggiungo due parole nello specifico, per ognuna delle due opere, che potete rileggere qui: 

https://st62co.blogspot.com/2024/12/numero-459-gara-lampo-seconda-edizione.html


LA MIA NOTA CRITICA

"Lunga è la notte", poesia di Costanza Trotti

Una poesia che trasmette in modo perfetto la notte dal punto di vista di un insonne. Lunga è la notte in tali frangenti e l'autrice riesce a farci sentire stati d'animo, inquietudini, quasi sensazioni di panico, con immagini poetiche suggestive. Si avverte la mano ispirata e capace della poetessa, non una virgola fuori posto, l'equilibrio è perfetto.


LA MIA NOTA CRITICA

"Gli asini volano", racconto di Sandra Morara

Una scrittura originale e fuori dal comune. Uno stile diverso e fortemente personale. La storia di un tradimento raccontato in modo ironico. Una scrittura intelligente e libera da preconcetti.



Non ci resta, adesso, che attendere come si concludere il Masterbook, il Torneo di scrittura online. 
Ma di questo parleremo quando avremo il vincitore!


Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle