Noi, solo noi, abbiamo la dieta mediterranea, chiamata così per la straordinaria varietà che l'Italia, da nord a sud, mette in campo grazie all'abbraccio del Mar Mediterraneo, non perché sta nei buffet dei Club Méditerranée!
Quanti tipi di pasta abbiamo, e su tutti i più famosi sono gli spaghetti. Chi ha inventato gli spaghetti? Adesso se mi rispondete che li hanno inventati i cinesi, vi tiro una scoppola. Sono nostri, inventati da noi, a Vico Equense. Ricordatevi che ogni volta che nomino Vico Equense vi dovete inchinare.
E come si condiscono gli spaghetti? Col pomodoro, buono, rosso, succoso e una foglia di basilico. Perfetto, da farci la scarpetta per raccogliere il sugo che resta. Potete mettere pure il ragù che, dai, lo concedo, è quello bolognese, ma pure noi a Vico Equense (inchino), facciamo una salsa che mamma mia!, mai, come a New York metterci la marmellata di albicocche o le polpette!
E la Carbonara? Vogliamo parlare della Carbonara e dei danni che fanno gli stranieri? La Sora Lella, che sempre ci protegga l'appetito, diceva:
Si parte dalla cacio e pepe; se aggiungi il guanciale fai la Gricia; dalla Gricia hai due strade: metti l'uovo e ottieni la Carbonara, non vuoi l'uovo? Metti il pomodoro e hai l'Amatriciana.
Basta, stop, fine, punto. Eppure in Inghilterra la Carbonara la fanno con l'uovo, e vorrei vedè, la panna (aiuto), la pancetta (terrore) e, tenetevi forte perché sto per dirvi qualcosa che vi farà venire gli incubi: i piselli! Arrestateli, dico io.
E poi i risotti, che vanno mantecati col burro fuori dal fuoco, le lasagne rigorosamente a sette strati, i cannelloni di magro o di carne, i tortellini, piccoli e chiusi a regola d'arte, vuoti, ripieni, da sbizzarrirsi.
La pizza, un capitolo a parte. Creata a Vico Equense (inchino), metteteci tutto, ma l'ananas no: per la regina Margherita, no!
I secondi, vogliamo parlare della varietà di secondi che abbiamo noi? Di carne, di pesce, accompagnati dalla polenta, dalle verdure, dalla mostarda. Ma non il riso! Ripetete con me:
Col riso il risotto,
mantecato e giusto cotto,
se lo metto nel secondo
venga Satana e finisca il mondo.
Se gli indiani ci vogliono accompagnare il pollo, fatti loro. Noi no. Se i giapponesi ci fanno le palle per il sushi, pazienza. Noi no. Se i cinesi lo usano al posto del pane, li compatisco, ma noi no!
I formaggi. Nessuno ha la nostra varietà di formaggi, nemmeno i francesi, che poi, buoni quelli a farsi belli con le cose nostre.
Non ci credete? Adesso vedete.
Il più grande condottiero francese? Napoleone. Bravi, sì, perché era italiano come la Corsica.
Il più famoso quadro francese? La Gioconda. Ottimo, perché è nostra, del buon Da Vinci.
Il più famoso formaggio francese? Il Gorgonzola. Oh, ma dico! Lo sanno tutti che è italiano, fatto a Vico Equense (inchino). No? Non è di (inchino) Vico Equense? Vabbuò gauagliò è della provincia milanese, ma tanto siamo lo stesso paese.
Lo capite il succo di questo trattato? L'Italia crea, il resto del mondo distrugge.
Ora vi saluto con una perla da chef: nei vostri piatti aggiungete sempre un pizzico di limone, perché il limone sgrassa!
PANCOTTO E OMOGENEIZZATI
I loro figli sono stati slattati con gli omogenizzati prodotti dalle industrie a base di carne, pesce, verdure e frutta. La fantasia non mancava alle mamme di allora: avevano inventato il ciucciotto fatto in casa per non far piangere il bebè. Consisteva in un centrino di cotone al cui centro veniva posto dello zucchero; si chiudevano i lembi attorno allo zucchero con un filo da cucito ed era pronto per essere usato come calmante.
Il pane raffermo con la muffa era ambito dalle ragazze in quanto le mamme avevano fatto passare il messaggio che facesse crescere i capelli lunghi e lucenti. I ragazzi, naturalmente, non le ostacolavano e nemmeno le prendevano in giro per non metterle in cattiva luce.
Mia madre era una maestra a recitare questa messinscena senza dare ombra di dubbio sulla sua efficacia alle mie sorelle. Anzi, diceva che aveva appreso questo consiglio dalla nonna materna.
Col Regno di Italia si è formata la Nazione, ma non gli Italiani. Gli spostamenti interni erano molto ridotti per cui la cucina regionale non aveva avuto influenza dalle altre. A vent’anni venni a lavorare in un’industria per telecomunicazioni nel milanese. Nel mio reparto eravamo in sedici colleghi provenienti da quindici regioni italiane diverse. Se avessimo voluto parlare ognuno nel proprio dialetto ci sarebbe stata una seconda Torre di Babele. Stessa cosa sarebbe successo con la cucina.
Un giorno facemmo un esperimento in occasione di uno sciopero della mensa aziendale. Anziché portare panini imbottiti o pasti frugali, decidemmo che ognuno di noi portasse una porzione di una ricetta tipica regionale. Restammo meravigliati davanti tanta ricchezza di piatti tipici e avemmo la possibilità di conoscere e di fare piccoli assaggi di quelle prelibatezze fino ad allora sconosciute.
L’Italia è apprezzata all’estero per le sue bellezze naturali, storiche e artistiche e per il cibo. Io e gli altri connazionali siamo orgogliosi che alcuni cibi italiani siano considerati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità; cito quelli che mi vengono in mente: la dieta mediterranea, il pesto genovese, il pane di Altamura, la pizza napoletana, … il Parmigiano Reggiano.
Ogni cucina regionale era in grado di produrre le proprie conserve per l’inverno, perché non si doveva buttare via nessun prodotto alimentare in surplus. Sottaceti, conserve e marmellate erano lavorate con le più affidabili e sofisticate tecniche di lavorazione: i conservanti naturali tipo sale, zucchero, salamoia e il vuoto ottenuto, facendo bollire i vasetti, assicurava un’ottima tenuta nel tempo.
Oggigiorno in una famiglia di quattro persone ci sono almeno tre tegami sui fornelli: non tutti i componenti familiari hanno gli stessi gusti alimentari. Le mamme, per accontentare tutti, si lasciano intenerire e si sacrificano. Ma c’è un altro fatto: oggi allergie e intolleranze alimentari sono in aumento. Mia madre e le sue coetanee usavano una pentola per tutta la famiglia e nessuno borbottava. L’alternativa era il detto: O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Nessuno si è mai buttato dalla finestra.
In prima battuta mi viene la rima con tortello, casoncello, friariello, a seguire però mi tocca asciugare l’acquolina in bocca.
La nostra è una delle cucine più conosciute e diffuse, tanto che ben si presta a spiegare il concetto di globalizzazione.
Sì, perché una pizza la puoi trovare in ogni angolo del pianeta: dalle Svalbard alla punta estrema del Cile, certo non tutte saranno come quelle sfornate da Sorbillo, i puristi poi storceranno il naso e pure la bocca nel caso in cui ci trovino adagiata sopra una fetta di ananas o altre nefandezze.
La cucina italiana non ha limiti spaziali grazie anche alla diaspora dei cuochi italiani nel mondo e pure alle valigie degli emigranti cariche di nostalgia e bottiglie di pummarola, ma non conosce nemmeno limiti orari: li avete visti tutti quei turisti stranieri che, forchetta alla mano, a merenda affrontano con disinvoltura montagne di spaghetti o, sprezzanti del pericolo, a metà mattina abbinano lasagne e cappuccino?
Non sono altro che la conferma dell’attrazione irresistibile che i piatti della nostra cucina esercitano sugli esseri umani di qualsiasi latitudine; per non parlare poi degli innumerevoli tentativi di imitazione dei nostri prodotti che vanno dall’orrido parmesan fino alla innominabile zottarella.
Difendiamo allora con orgoglio le nostre eccellenze: siamo un popolo di navigatori, eroi, poeti e santi, ma anche di chef e di foodblogger.
Chi può resistere alla seduzione che esercitano le trenette al pesto, la pasta alla Norma, il Tiramisù, la bagna cauda o il caciucco?
Impresa impossibile.
A Dante toccherà allargare il sesto cerchio dell’Inferno perché in tanti, tra maritozzi, bonet, cassate, babà, seadas e cartellate, ci ritroveremo in dolce compagnia di Ciacco, che lì è confinato per la dannosa colpa della gola.
“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani” pare disse D’Azeglio esaminando i ricettari regionali e forse considerando, con un po’ di preoccupazione, il campanilismo che contrappone i sostenitori degli arancini siciliani a quelli dei supplì romani, chi rivendica il primato degli anolini e chi quello dei cappelletti.
Ma quindi quale segreto si nasconde dietro al grande successo della cucina italiana?
Non è solo il decantato modello nutrizionale della dieta mediterranea, contano anche la storia dei piatti, la tradizione contadina come per la ribollita, la poesia che fa derivare il tortellino dall’ombelico di Venere, l’arte che le donne baresi esprimono creando le orecchiette per strada, il racconto delle tradizioni casalinghe tramandate da generazioni, la convivialità e i pranzi della domenica.
“Però come li fa mamma…”
Che si tratti di carbonara o caponata, di sarde in saor o al beccafico sicuramente è l’affermazione che spesso esce dalle bocche degli Italiani nel momento in cui fa ingresso il primo boccone.
Riassumendo, per ottenere la ricetta della cucina italiana:
- occorrono varietà di prodotti stagionali del territorio
- bisogna aggiungere tradizioni regionali qb
- mescolare preferibilmente con mano di nonna
- condire con una spolverata di creatività
servire in una allegra tavolata e annaffiare con abbondante vino locale.
Buon appetito!
IL PRANZO DELLE FESTE
Tre famiglie nella stessa palazzina, con un grande salone a disposizione per le feste.
Le donne erano il matriarcato culinario.
La cucina italiana passava da loro, ognuna aveva un piatto forte.
Fu idea di mia madre appendere in cucina un glossario che aggiornavano periodicamente. Per gioco, lo usavano per la ricetta da eseguire. Quando non si mettevano d'accordo su cosa preparare, puntavano il dito su una parola e ...si creava la magia.
Parole come affogare, ammollare, brasare, gratinare, imbiondire, caramellare...diventavano lo spunto per il menù.
Da caramellare, nasceva la Caramellata di cipolle.
Con impanare, si scatenavano l'acquolina e la fantasia più sfrenata: olive all'ascolana, fettine fritte, cremini fritti...
Alla julienne, era il tocco esotico! Parola sconosciuta soprattutto da mia nonna, la pronunciava marcando la "e" finale come il dialetto voleva. - E vavè! Ma non se potria di' ...tagliate fine?
Per non parlare poi del bagnomaria!
Lei che si chiamava Ida Maria, era convinta che quel termine fosse stato coniato per rendere omaggio al suo nome.
Nell'ottica del risparmio, non accendeva il fornello per far scaldare l'acqua. Metteva un pentolino sopra il bordo del camino, il più vicino possibile al fuoco, e aspettava che si scaldasse. Risparmio sì, ma cenere anche...!
Lei era addetta al pane e alla pizza, mia zia alla galantina e ai fritti e mia madre ai vincisgrassi e ai dolci.
In quale Regione ci troviamo? Nelle Marche!
I vincisgrassi, uno dei piatti tradizionali, erano un trionfo di sfoglia fatta in casa, ragù e besciamella a volontà.
L'origine del termine è avvolta nella leggenda: sembrerebbe che sia una storpiatura del nome di un generale austriaco, Alfred von Windish- Graets che, dopo un'estenuante battaglia nelle Marche, festeggiò la vittoria gustando questo piatto.
Le tre matriarche si sedevano intorno al tavolo delle trattative almeno quindici giorni prima e si dividevano i compiti, dopo aver fatto decantare le idee, proprio come un buon vino.
Al vino non rinunciavano! Il tavolo era onorato dalla presenza di un buon rosso delle nostre colline. Alla fine delle trattative, chissà se invece di decantare...cantavano allegramente?
Era un momento avvincente!
Mia nonna aveva diritto di veto: decideva lei e stilava il menù.
ANTIPASTI: pizza di pane, crostini con spuma di prosciutto, affettati misti, verdure sott'olio fatte in casa
PRIMO PIATTO: vincisgrassi o cannelloni
SECONDO e CONTORNI : galantina, insalata russa, frittura mista
DESSERT: tronchetto di Natale, assaggi di torrone e panettone, Frustingu
Per lu Frustingu tutti si mettevano a lavoro, tanto la ricetta era complessa.
Grandi e piccoli della famiglia erano chiamati all'appello: si triturava, sminuzzava, impastava, cuoceva, decorava.
L'assaggio finale prima della cottura, era affidato a mio padre.
Lui decideva se tutti i sapori erano equilibrati prima di infornare: diceva di essere il detentore della ricetta ereditata da sua madre e non si discuteva.
Lu frustingu non rispettava la dieta mediterranea tanto era calorico, ma non mancava mai sulla tavola imbandita per il pranzo di Natale.
Le Marche, patria di Giacomo Leopardi e di Gioacchino Rossini, musicista e grande amante della cucina!
Durante i preparativi dei vincisgrassi, Il Barbiere di Siviglia faceva da colonna sonora di sottofondo. Mio padre era convinto che desse la giusta ispirazione e la dovuta verve.
E noi tutti vivevamo l'atmosfera da Sabato del villaggio: la festa iniziava giorni prima. Pregustavamo la bontà dei piatti con la compagnia e una sana competizione. L'essere insieme per raggiungere il successo finale, significava vivere la famiglia, portare in tavola il nostro amore e la nostra unione.
Ben più di una semplice tradizione culinaria, essa è un viaggio attraverso la storia e la mitologia, le cui radici affondano in tempi antichi, quando la penisola era conosciuta come Enotria, terra del vino, e la Sicilia, con i suoi fertili campi di grano, era celebrata come il granaio di Roma.
I miti greci raccontano come Demetra, dea dell’agricoltura, abbia scelto proprio queste terre per insegnare agli uomini l’arte della coltivazione, donando loro il grano e le messi e questo spiega perché quasi tutte le regioni abbiano delle specialità di pasta, dai nomi diversi. Questa eredità millenaria si riflette nella straordinaria varietà di piatti a base di farina, dalla pasta fresca emiliana alla pizza napoletana, fino ai dolci siciliani, testimonianza di tradizioni secolari, trasmesse di generazione in generazione e arrivate oggi fino a noi.
Chiamerò quest’esperienza Paradiso dei Sapori, un itinerario tra le regione italiane, ognuna delle quali è un giardino di delizie, dalle caratteristiche specialità.
Sebbene la cucina italiana sia un mosaico di sapori, i piatti forti sono i primi.
Nella Valle d’Aosta, la polenta concia ci avvolge in un abbraccio, caldo come un tramonto sulle Alpi; Il Piemonte ci incanta con gli agnolotti al tartufo bianco e la bagna càuda, dove aglio e acciughe si fondono in un’intensa esplosione di sapori. In Liguria troviamo le trofie al pesto, avvolte da un manto di verde basilico e pinoli. La Lombardia delizia con il risotto alla milanese, incantevole nell’esplosione di zafferano, e il panettone, soffice come una nuvola. L'Emilia-Romagna, patria dei tortellini in brodo e delle lasagne, ci accoglie con una tradizione di salumi e formaggi di altissima qualità, tra cui il Parmigiano Reggiano. Tra i primi memorabili, troviamo in Lazio la carbonara, un tripudio d’intensi sapori. Il tartufo regna sovrano negli strangozzi dell’Umbria, mentre l’Abruzzo vanta i maccheroni alla chitarra, una sinfonia di ricchi ragù; i cavatiei del Molise raccontano la semplice genuinità della tradizione; la Campania è l’apoteosi di pizza e profumi agrumati, mentre le orecchiette alle cime di rapa della Puglia sprigionano il loro semplice, inconfondibile gusto; la Basilicata regala lagane con ceci, un tuffo nella tradizione contadina; in Sicilia la pasta alla Norma è un’opera lirica da gustare.
Sebbene la fama dei primi piatti sia indiscussa, sono celebri anche i secondi, quali la bistecca alla fiorentina, il porceddu sardo e i piatti di pesce che abbondano nelle regioni affacciate sul mare.I sapori aromatici si mescolano al piccante, in Calabria, nella famosa 'nduja.
Anche se ogni regione sforna ottimi dolci, ricorderò soprattutto cassate e cannoli siciliani.
Un viaggio nella cucina italiana non sarebbe completo senza menzionare l’olio profumato d’oliva, ligure, toscano e meridionale, vero nettare di verde smeraldo, e i vini pregiati, compagni inseparabili di ogni piatto, capaci di esaltarne i saporiti gusti.
Ma la Cucina Italiana non è una semplice somma di ricette regionali: è soprattutto un'esperienza di condivisione e ospitalità, un’arte che celebra il gusto, la salute e la gioia dello stare insieme. Il cibo è un pretesto per riunirsi, celebrare la vita e rafforzare i legami; ogni piatto è un invito a sedersi insieme a condividere storie e risate, a sentirsi parte di una comunità.
Se questo breve excursus vi ha stimolato a esplorare e conoscerne i tesori, non mi resta ora che augurarvi Buon appetito!
Eppure esiste, esiste eccome, e se continuate a leggere avrete la chiave per evitare l’ira di orgogliosi siciliani e orgogliosi romani, detentori rispettivamente dell’una e dell’altra tradizione gastronomica.
Ma bando alle ciance, partiamo dai tratti estetici.
La forma originale rotonda dell’arancino e il suo colore dorato ricordano proprio un’arancia. Facile, no? Lo dice il nome stesso! Per amor di completezza, però, sappiate che nella Sicilia orientale l’arancino è tipicamente conico (un richiamo all’Etna, sostengono gli orgogliosi catanesi, e chi potrebbe biasimarli?!) Nessuna di queste forme, comunque, può essere scambiata con quella del supplì: dai, adesso non ditemi che non riuscite a distinguere un preparato dalla forma rotonda o conica da una sì tondeggiante, ma allungata e leggermente schiacciata! Quest’ultima, infatti, è l’unica, sola e inimitabile forma del supplì.
Tolti di mezzo i convenevoli estetici, vi tocca sorbirvi qualche informazione sulla preparazione. Tranquilli, saremo buoni! Niente ricette nel dettaglio, solo due panoramiche semplici e veloci.
Partiamo dall’arancino: cuocere il riso al dente e farlo raffreddare; formare dei dischi, inserirci la farcitura – un classico ragù, che si prepara a parte, unito a dadini di mozzarella – e chiuderli; passare i preparati in una pastella di farina, sale e acqua e poi nel pangrattato; friggerli in olio, scolarli e farli riposare qualche minuto.
Per il supplì il procedimento è completamente diverso: il punto di partenza, infatti, è un vero e proprio risotto con ragù! Cucinatelo (e se vi va, perché no, mangiatene un po’!), lasciatelo in frigo due orette e poi lavoratelo formando piccole conche e inserendovi al centro i cubetti di mozzarella. Altra differenza con l’arancino: qui non serve alcuna pastella. I supplì si impanano passandoli prima nell’uovo – e attenzione, si friggono esclusivamente in olio di semi.
Questo è anche il momento migliore per spiegarvi il nome supplì. Vi sareste immaginati che si tratta dell’italianizzazione del sostantivo francese surprise? E sì, avete indovinato, surprise vuol dire proprio “sorpresa”! Ma perché, vi chiederete? Anzitutto, per essere precisi, il nome completo di questo piatto è “supplì al telefono”, perché quando lo si mangia caldo – il che è auspicabile – e si apre in due, la mozzarella fila tra le due parti di riso, ricordando appunto un telefono. E proprio a questa mozzarella filante, immancabile nel supplì, si riferisce il termine “sorpresa”.
Ma un’altra sorpresa ve la diamo noi adesso: la destinazione dei due prodotti è completamente diversa! I supplì sono concepiti come antipasto, ad esempio nelle pizzerie, oppure come moderno street food; gli arancini, invece, nascono come portata completa e non possono essere considerati né antipasti né spuntini. Ecco perché gli arancini sono più grandi e corposi (no, non lasciatevi ingannare dalle versioni mini servite alle fiere!).
A questo punto potremmo continuare parlandovi delle varianti – vi sarete accorti che sono piatti piuttosto versatili, e infatti ne esistono versioni fantasiose, dai ripieni a base di funghi e salsiccia a quelli coi frutti di mare – ma meglio rimandare a un’altra volta: lo sappiamo che vi stavate appassionando, ma lo scopo qui era garantirvi una figura quanto meno dignitosa davanti a orgogliosi siciliani e a orgogliosi romani. Che dite, ci siamo riusciti?!
Proverò allora a farvi immaginare l’Italia come un’avvenente donna, o un bellissimo uomo, a seconda di quelli che sono i vostri gusti. Dopotutto siamo persone come ce ne sono tante: dateci un buon piatto da mangiare e una bellezza da ammirare che non lesineremo il nostro sorriso.
Vi invito quindi a deliziare la fantasia partendo dagli arti inferiori. Li vedo svilupparsi tra piatti di orecchiette con cime di rapa pugliesi e sapori piccanti che richiamano alla tradizione calabra. Aggiungendo una nota di gusto personale, raffiguro nella mia testa una bella cartellata gigante che cinge la gamba del tavoliere come se fosse un reggicalze da strappare via a colpi di morsi: tradizione matrimoniale che si sposa con la tradizione culinaria.
Prima di risalire verso il centro del nostro paese, ringrazieremo a dovere le acque salate che, insieme al clima mediterraneo che contraddistingue il Sud, fungono da centro benessere naturale per la coltivazione delle arance e degli agrumi. È un gioco divertente immaginare piedi massaggiati con soluzioni al mirto e creme di pistacchio per fare in modo che le caviglie non diventino grosse come due arancini: le famose caviglie da mordere.
A questo punto, sempre con la missione di dare sostanza a quel pensiero latente che lievita dentro di me, vi esorto a perdere gli occhi – e il palato – su quel fondoschiena perfetto e pieno come un’oliva ascolana che si muove a ritmo di danza fino a raggiungere le terre degli arrosticini. Poi, a portare gli occhi in avanti, alla ricerca di un seno prosperoso o di un petto scolpito. Li sogno tanto perfetti da potermi lasciare a bocca spalancata come un abbacchio o un caciucco, decidete voi.
Tra inebrianti profumi di amatriciane, carbonare e fiorentine al sangue, punterei, poi, dritto verso il cuore. Non è un caso, penso, che volendo trasformare la nostra nazione in un essere umano, il cuore coincida con l’Emilia. A parer mio, ma è solo un'altra debolezza personale, sarebbe davvero un bene se tutti avessimo l’anima di questa gente. Un cuore grande come un tortellino, ma che dico, come una piadina, un crescione, anzi, come una lasagna al ragù intera. Un cuore impossibile da non amare.
E poi su verso il cervello, verso la parte razionale del sogno che profuma di fegato, baccalà, risotti, cotolette, panettoni e bolliti. Una testa senza dubbio intrigante, che, se vista al femminile, farebbe fede a quella vecchia canzone che ostenta un’altra grande verità: oltre le gambe c’è di più.
Proprio la visione al femminile potrebbe essere la chiave per aprire quel pensiero che cerco dall’inizio del viaggio tra i sapori nazionali. Perché soltanto una donna è in grado di portare in grembo una vita da mettere al mondo. Grembo che coinciderebbe con la Campania.
Se è vero che vivere è al di sopra di tutto, è altrettanto vero che in una scala dei cibi italiani la vetta spetterebbe alla pizza.
Perché la pizza è vita.
Perché bastava menzionarla in principio per riuscire a farla breve.
Ma a quel punto non ci sarebbe stato più gusto.
Qualcuno si domanderà: ma non dovevamo parlare di cucina? Infatti il cibo parla d’amore e, in quanto tale, è in grado di nutrire e cicatrizzare anche le ferite dell’anima. È un ottimo antidoto, in qualsiasi mese dell’anno, per ogni tipo di tristezza e riesce a restituire equilibrio a quei momenti difficili e inaspettati che, qualche volta, la vita ci riserva.
È il mese del risveglio anche perché profuma di una primavera ancora in boccio, alla quale piace fare l’occhiolino all’estate. Ci sono ortaggi che, da questo mese, iniziano a sgomitare su tavole ancora calde di brodo e tortellini.
Nessuna rimostranza al piatto caldo fumante e ai suoi golosi ospiti galleggianti, ma la primavera ha bisogno anche di altro. La rucola, per esempio, è una fresca pennellata verde già preludio d’estate e abbinata al tonno con sesamo ha un tocco intrigante e sensuale. Del resto gli antichi romani la coltivavano nei terreni che accoglievano le statue falliche erette in onore del dio Priapo, re della virilità, e in virtù di questo la usavano per preparare i filtri d’amore.
Altri ortaggi primaverili sono gli agretti. Chiamati anche barba di frate per la loro forma allungata, hanno una consistenza croccante e un gusto acidulo e piccante, che conferisce sapore anche alle pietanze più insipide dando, quindi, la certezza che ogni situazione si può migliorare. È come dare all’anima la conferma che non si perderà mai ma, anzi, godrà sempre di un respiro più ampio e profondo.
È un mese che risveglia i gusti, dunque, anticipando i sapori estivi. Pertanto, pensando all’estate, possiamo non andare con il pensiero alle fragole? La fragola è un frutto gustoso ma, forse, non tutti sanno che ha anche un significato esoterico: è considerata la pianta del Paradiso. Si dice che mangiare fragole conferisca uno stato di estasi, quasi di beatitudine e che, quindi, liberi le emozioni. Chi ha visto il film “Inside out 2” sa che la pazienza – una dei protagonisti del film – prepara la marmellata di fragole a tutti gli amici, per poi ammirare, dopo l’assaggio, la loro espressione beata. Come dire che c’è sempre, insomma, altra vita da godere se lasciamo andare, senza l’ostinazione di trattenere, ciò che ormai è lontano da noi.
Aprile non è dolce dormire, come diceva un detto popolare, ma è piuttosto scoprire. Fa sempre rima ma ha una prospettiva del tutto diversa. Invita a guardare fuori, a respirare aria nuova, a trovare una connessione più profonda e autentica con noi stessi, anche attraverso i sensi. L’olfatto non ha le stesse sollecitazioni in ogni mese dell’anno. Il profumo del pesce fresco sulle banchine dei porticcioli è un’altra apertura verso l’estate e, mai come in questo mese, riscalda il cuore e solletica le papille gustative.
In primavera non c’è mai la ressa fra i banchi del pescato fresco e si può scegliere con calma: acciughe, sgombri e sardine, tanto per fare alcuni esempi, sono piccoli pesci che danno il buonumore soltanto a vederli e la semplicità nel cucinarli è il loro punto di forza. Le acciughe con aglio e prezzemolo, così come gli sgombri e le sardine fritte, raccontano la bellezza dell’umiltà di un pesce povero ma con un potenziale enorme.
Come tutto ciò che non ha pretese se non quelle di arrivare al cuore e, lì, restare per sempre.
L’Italia, con la sua molteplice varietà di paesaggi e tradizioni culinarie, è una terra dove regioni e città hanno una loro storia gastronomica, che affonda le radici nei secoli che si sono succeduti.
E della cucina italiana mi affascina proprio la capacità di rimanere legata alla tradizione, sebbene aperta alle influenze moderne, riuscendo così a unire il passato al presente.
Seppure le sue origini risalgono all’Antica Roma, influenzata dalle tradizioni greche, etrusche e arabe, è con il Medioevo che inizia a delinearsi l’Italia gastronomica che conosciamo oggi.
Nel tempo, ogni regione ha perfezionato le sue ricette, migliorando i piatti con ingredienti locali che, poco alla volta, sono diventati simboli identitari per le diverse interpretazioni del cibo.
Mi piace pensare alla cucina italiana come a un paesaggio che si trasforma da Nord a Sud, riflettendo le diverse caratteristiche regionali, ma rimanendo simile per la qualità degli ingredienti e la semplicità della preparazione.
Prendiamo la pasta: è l’emblema della cucina italiana, ma ciò che rende ogni piatto una piccola opera d’arte non è solo la varietà delle forme, che cambiano a seconda delle regioni, bensì la tradizione che si intreccia con l’arte culinaria.
Pensate a un piatto come la Pasta alla Carbonara, una delle ricette simbolo di Roma: ci racconta le trasformazioni della cucina povera romana, dove pochi ingredienti – guanciale, uova, pecorino e pepe – si combinano alla perfezione, creando un bilanciamento perfetto.
Per non parlare della pizza, che ha raggiunto una fama degna di nota, capace di sposare semplicità e straordinarietà. La pizza Margherita, rivendicata dalla città di Napoli come propria, è diventata il simbolo di un’Italia unita.
Interessanti le regioni del Sud, come la Sicilia, dove la cucina è il risultato di secoli di contaminazioni greche, arabe e normanne.
Cous cous di pesce… Caponata… Cannoli dalla dolcezza irrefrenabile: tutti piatti che raccontano una storia di incontro e fusione culturale, che ancora oggi si riflette nella loro vitalità e ricchezza.
E che dire del Nord, dove la tradizione culinaria si differenzia nettamente da quella meridionale? Dove le risorse della montagna – quali il burro, il formaggio e i funghi – dominano in piatti come il Risotto alla Milanese, re della tradizione lombarda, fatta non solo di comfort food ma anche di raffinatezza?
E dei dolci? Quanto tempo mi occorrerebbe per parlarne? Dico solo che ogni regione ha le proprie specialità, spesso legate a festività religiose e tradizioni locali.
Tradizione, sempre lei… Sebbene aperta alle influenze moderne.
E sì, il fenomeno della cucina italiana contemporanea riesce a riscrivere la tradizione con tocchi moderni, senza rinnegarla: va alla ricerca dell’essenza di un piatto, evitando di perderne l’anima.
I grandi chef italiani sono gli interpreti di una cucina che si evolve, si reinventa, pur non dimenticando mai da dove proviene.
Ed è qui che entra in scena la cosiddetta cucina molecolare, quell’approccio innovativo alla gastronomia che utilizza principi scientifici per trasformare gli ingredienti e creare nuove esperienze culinarie.
Ma per quanto si parli di passato e presente, di tradizioni e modernità, sono convinta che la cucina italiana e i suoi ingredienti raccontano storie. La pasta fatta in casa della nonna, l’olio extravergine di oliva del piccolo produttore, il vino di quella cantina… Storie di amore per la terra e di rispetto per la tradizione.
E, allora, forza, a tavola! Chiudete gli occhi, assaporate e gustate… E tenetevi forte, perché si parte per un viaggio nel tempo tra tradizione e innovazione.
Chi non ama la cucina italiana? Arma di seduzione di massa, filosofia di vita, fiero baluardo che resiste agli attacchi di chef improvvisati che postano improbabili ricette su TikTok, e grandi cuochi che si sfidano a colpi di riduzioni di essenza di carote ed esplosioni gourmet di sapori campagnoli. Tutto, in porzioni così striminzite che non sfamerebbero neanche un gatto.
In questa vetrina virtuale, dove i sommelier spuntano come funghi dopo la pioggia di settembre e sniffano calici come cani da tartufo, noi italiani, alla fine, optiamo per un bel bicchiere di vino della casa, perché – diciamolo – casa è sempre casa. Un autentico balsamo per l’anima che fa bene anche al cuore.
Cosa c’è di meglio di un corposo Barbera d’Alba per innaffiare con generosità un piatto di polenta e cinghiale in umido? E come resistere al connubio maialino sardo e Cannonau? Addentare la cotenna croccante e assaporare la carne morbida e succosa trasforma il pasto in un’esperienza sensoriale che racchiude il sole, la terra e il vento della Sardegna.
Immagina di trovarti in una piccola osteria in collina, dove l’aria è intrisa del profumo dei vigneti e del rosmarino selvatico e il tuo piatto, una ribollita capace di scaldare anche l’anima più nera, ti viene servita nel classico coccio di ceramica. Chi mai si sognerebbe di barattare un tale piacere con un pasto in piedi al fast food?
Questa è la dieta mediterranea, signori.
Un paradiso per il palato, un santuario di benessere venerato in tutto il mondo capace di celare con eleganza le più grandi abbuffate. Un’ affascinante contraddizione tra rigorosi principi nutrizionali e puro piacere. Ma se scienziati e medici prescrivono la dieta mediterranea come elisir di lunga vita, chi siamo noi per rifiutare un piatto di parmigiana di melanzane?
Mentre in Italia impazza la diatriba tra spaghetti da non spezzare e pizze con o senza cornicione, all’estero la nostra arte culinaria prevede esperimenti ai limiti della realtà.
In ogni angolo del mondo scoviamo qualche chef che, con entusiasmo, cerca di reinventare i patti della tradizione con risvolti degni di un film di Tarantino. Eppure, ogni volta che al ristorante vietnamita il cameriere ci offre, con accento stentato, la propria versione di spaghetti bolognese, ci sentiamo un po' a casa.
La cucina italiana rimane un linguaggio d’amore universale e poco importa se a New York o in qualche sobborgo di Soho cercheranno di propinarci un piatto di pasta condito col ketchup, significherà pur qualcosa se cercano di imitarci.
Ma passiamo ai peccati di gola che non possono mai mancare a fine pasto. Da nord a sud, la penisola ci regala emozioni di zucchero, burro e creme che non temono rivali. I nostri dolci sono così "semplici" e "leggeri" che un solo morso rischia di spedirti dal cardiologo.
I dolci italiani non sono solo cibo: sono cultura, tradizione e, soprattutto, una deliziosa scusa per rimandare la dieta.
Anche se la spettacolarizzazione della gastronomia oggi gioca un ruolo predominante, la nostra preziosa tradizione culinaria, fatta di piatti genuini e gesti tramandati di generazione in generazione, rimane un patrimonio inestimabile.
In questo equilibrio precario tra tradizione e innovazione, diciamocelo: per noi, la lasagna vince sempre.
Perché la storia della cucina italiana non è fatta solo da arrosti di vitello e lepri in salmì, per quanto se ne senta parlare molto di più, su certi libri di cucina. La storia della cucina italiana è fatta, da nord a sud, soprattutto da placide e pazienti minestrine in brodo.
Pensate a quanta gente sarebbe morta se non fosse esistito questo piatto! Un piatto che in silenzio, con naturalezza, ha riempito la pancia a milioni di persone, quando c’era ben poco con cui riempire la pancia. Non dareste un soldo di cacio alle erbe dei campi, vero? E cosa pensate dei cespugli d’ortica, specialmente quando, in estate, ci finite in mezzo, con le gonne o i pantaloni corti? Provate invece a bollirla, l’ortica, e aggiungere un pizzico di sale! Ma poco sale, mi raccomando, che un tempo il sale era oro e oggi rischia di farvi salire troppo la pressione. Quella è una delizia, una delizia per stomaci affamati, e non.
Quante medaglie al valore, ingiustamente negate, avrebbe di certo meritato, la minestrina! Ma in questa vita chi viene ricordato e rispettato è il più potente e, spesso, il più gradasso, non certo il più umile.
E poi questo straordinario e bistrattato piatto non ha solo salvato tante vite dalla fame. Le ha salvate, almeno per quanto mi riguarda, anche dalla malinconia.
Vi è mai capitato di percorrere, la sera, certe strade di paese, dove, a ogni incrocio, trovate le edicole con i santi? Io parlo del mio, di paese, ma potrei citarne milioni e milioni di altri. Mettiamo che sia estate. Perché chi lo ha detto che le minestrine si mangiano solo d’inverno? Sono deliziose, se lasciate raffreddare, anche in estate! Dicevo che state camminando soli, in una sera d’estate, e vi viene da piangere. L’ennesima sera in cui piangere vi pare l’unica soluzione al martirio di questa vita, o ameno della vostra, di vita. State quasi pensando di farla finita, quando, all’improvviso, un profumino di brodo vi solletica il naso. Viene da quella casa, laggiù, quella con le tende bianche in lino e la luce gialla alla finestra. Un salto nel passato e ci siete voi, dentro quella finestra illuminata. Siete piccoli; la vostra mamma, armata di un cucchiaio lucido e strapieno di midolline in brodo, le sta pazientemente dirigendo nel vostro piccolo becco da passerotto. Voi caricate le guance a più non posso, fino a farle assomigliare a due bombe a mano, infine bombardate. Si spiaccica tutto sul vestito nero a fiori rossi della mamma che, così, con piccole aggiunte di vomito biancastro, pare pure più alla moda!
Ricordando tutto ciò, cominciate a ridere. E i pensieri di morte sono rimandati, rimandati a settembre. Almeno, per me, è sempre stato così.
È vero che dicono:” O mangi questa minestra o salti dalla finestra”. È un’ingiustizia, però. Se sapessero da quante finestre ho evitato di saltare giù, io, grazie al profumo delle minestrine!
Voglio svelarvi un segreto. Mia nonna era un’ottima cuoca di minestrine. Quando è morta non ho messo fiori sulla tomba, ma un grande vaso, pieno di ortaggi, che curo di persona. Ogni tanto, con la complicità del guardiano, le colgo e la sera preparo, ancora, la sua minestrina.
Saper cucinare era, a tutti gli effetti, un’Arte; non per niente il primo libro di cucina, risalente al II sec. d.C., fu opera di Apicio, cuoco e scrittore famoso; si deve a lui la ricetta delle lasagne, all’epoca conosciute con il nome di “lagane”, un piatto di sottili sfoglie di pasta condite con un saporito ripieno a base di carne o pesce.
Molti piatti simbolo della cucina italiana hanno origini storiche ben precise e confermano, ancora una volta, la creatività del nostro popolo, che ha saputo trarre il meglio dalle diverse culture che l’hanno influenzato.
La polenta, per esempio, trova origine fra i Sumeri, ma solo in Italia s’iniziò a prepararla utilizzando del farro macinato e cotto, trasformandola in un alimento nutriente ed economico.
E che dire della famosa Amatriciana, un semplice piatto per pastori dediti alla transumanza, ma che in seguito, con l’aggiunta del pomodoro e del guanciale, ha dato origine all’inimitabile piatto di pasta che tutto il mondo c’invidia.
Senza parlare della pizza che, prendendo origine da un’antica focaccia preparata dai Greci, la pitta, è stata reinventata fino a raggiungere “l’apoteosi”, con la ricetta della pizza Margherita, in onore dell’omonima regina d’Italia con i classici ingredienti a formare il tricolore.
Ma si deve all’antica città di Siracusa, in Sicilia, se la cucina italiana e quella siciliana in particolare, sono divenute famose in tutto il mondo occidentale. Oggi, nomi come Miteco, Labdaco, Terpsione, ci dicono poco ma verso il III sec. A.C. erano delle vere e proprie celebrità, non solo cuochi ma anche artisti colti e raffinati, insomma gli “chef stellati” di oggi li farebbero rivoltare nella tomba…
Soffermandomi sulla cucina siciliana poi, si può non parlare dei dolci famosi in tutto il mondo, quali sua maestà la Cassata siciliana e i Cannoli? Solo a nominarli si ha il risveglio di tutti sensi!
L’origine della famosa cassata si fa risalire a un pastore arabo che, una notte, decise di mischiare la ricotta con lo zucchero e per farlo si servì di una bacinella, quas’at appunto in arabo. Questo semplice dolce arrivò all’Emiro di Palermo che, conquistato dal sapore, ordinò ai suoi cuochi di ricrearlo e questi aggiunsero un guscio di pasta frolla; in seguito però, furono i siciliani che, con Pan di Spagna, frutta candita, scaglie di cioccolato e pasta reale di mandorle a ricoprire il tutto, fecero nascere la deliziosa e coloratissima Cassata.
Del Cannolo invece, parla addirittura Cicerone, che nel 70 a.C., durante un viaggio in Sicilia, rimane ammaliato da un tubo di farina ripieno di morbida crema di latte, perfetta descrizione del dolce che oggi si presenta anche ripieno di ricotta o cioccolato.
Se invece, per concludere in “bontà”, dico “Pasta alla Norma”, è il famoso primo piatto con melenzane fritte, pomodori e ricotta salata che si para davanti agli occhi dell’immaginazione. Questo semplice ma gustosissimo piatto si associa alla stupenda musica del celebre compositore catanese Vincenzo Bellini e alla sua famosa opera lirica, infatti fu il commediografo siciliano Nino Martoglio che dopo averla assaggiata esordì dicendo: «E’ una Norma!» come per affermare che fosse perfetta come la musica di Bellini.
Per concludere, se è vero il famoso detto “l’uomo è ciò che mangia”, non c’è da meravigliarsi che il nostro paese sia il più famoso nel mondo per arte e cultura!