Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

venerdì 23 maggio 2025

Numero 472 - Il racconto vincitore della seconda edizione del Masterbook - 23 Maggio 2025


Si è conclusa la seconda edizione del Masterbook, il torneo di scrittura on line a eliminazione diretta, che ci ha intrattenuto per diversi mesi.
Attraverso le varie fasi del torneo, si è giunti alla rosa dei finalisti. Ricordiamo i loro nomi:

(in ordine alfabetico)

Valentina Ciocca
Antonella Malvestiti
Giovanna Agata Lucenti
Sandra Morara
Linda Silvia Scarpenti
Laura Scartabelli
Emanuela Tomiato

Chi è salito sul podio?

Al 1° posto si è classificato il racconto "Affinché nulla sia dimenticato" di Linda Silvia Scarpenti

Al 2° posto si è classificato il racconto "Vittoria segreta" di Valentina Ciocca

Al 3° posto si è classificato "Le ferite del cuore" di Giovanna Agata Lucenti

Questi racconti saranno postati nel Blog, a partire da oggi con il vincitore, scritto da Linda Silvia Scarpenti, a cui rivolgiamo i nostri complimenti per la delicatezza, il garbo, la profondità, e - molto importante - la correttezza del testo, la fluidità, l'eleganza.


Linda Silvia Scarpenti e il suo racconto vincitore: BRAVA!

 AFFINCHÈ NULLA SIA DIMENTICATO

 
Capitolo uno
La Stanza nr. 10

La sveglia della stanza nr. 10 non suonava mai. Adele non ne aveva bisogno.
Si svegliava prima dell’alba, ogni giorno alla stessa ora: un rituale cui era abituata ormai da anni.
A quell’ora, il silenzio – quasi assoluto – nella Residenza Villa Anna di Fornovo, un paesino adagiato sull’appennino tosco-emiliano nella provincia parmense, veniva interrotto solo dai lievi cigolii delle porte antiche, e dal lamento ovattato del vento che si insinuava tra le fessure delle finestre.
Adele rimaneva qualche minuto immobile, le mani incrociate sul petto, gli occhi aperti. E mentre aspettava di sentire i passi di Marta nel corridoio, godeva di quel silenzio in cui i ricordi facevano rumore e si affacciavano alla mente più che durante il giorno.
Non è sempre stato così, del resto... pensò Adele, lasciando correre la mente a tantissimi anni prima, a quando, giovane moglie e madre, ogni mattina era una corsa, un caffè al volo, un bacio sulla fronte di sua figlia, i registri scolastici sotto braccio.
Ma senza andare troppo in là nel tempo, anche quando era andata in pensione, seppure vedova da qualche anno, aveva mantenuto una vita attiva, con amiche, letture e viaggi.
Poi, gli anni passano, ahimè…  E il tempo è come se si dilatasse, e ogni giorno è simile al precedente: pasti caldi, pillole colorate, chiacchiere leggere con altri ospiti. Sono ormai quasi sette anni che vivo qui, dopo quella volta in cui…
I pensieri di Adele s’interruppero, quando sentì la voce di Marta.
«Buongiorno, signora Adele. Sempre sveglia prima di tutti, eh? Le ho portato un po’ di miele, al posto dello zucchero, come piace a lei» disse la giovane donna, che prestava servizio come infermiera nella struttura, entrando nella stanza con un sorriso aperto, e il vassoio della colazione in mano.
Adele si tirò su a sedere lentamente, le mani affusolate e sottili sembravano rami d’inverno. Aveva occhi chiari, vividi, che parevano osservare oltre le cose.
«Sei tu che piaci a me, Marta. Il miele è solo una scusa.»
Marta rise. Anche a lei piaceva Adele. Era una delle poche ospiti con cui si poteva parlare davvero. C’era qualcosa in lei che l’affascinava: un insieme d’ironia e malinconia, che legavano tra di loro con eleganza.
«Ha voglia di fare una passeggiata in giardino, questa mattina?»
«Più tardi, forse. Prima, vorrei scrivere un po’.»
«Scrivere?»
Adele annuì, indicando un quaderno dalla copertina blu, appoggiato sul comodino.
«Ho deciso di raccontare la mia vita, prima che svanisca come fumo
Marta si avvicinò curiosa.
«È un diario, quindi…»
«È una promessa a me stessa, che quello che ho vissuto non sia dimenticato.»
Marta prese il quaderno tra le mani, lo aprì lentamente. Le prime pagine erano già scritte con una calligrafia ordinata, elegante, di un’altra epoca.
«Posso leggerne un pezzo?»
«No, Marta. Tu lo leggerai quando non ci sarò più. Ma posso raccontartelo io, se vuoi. Tu sei un’ottima ascoltatrice.»
Marta si sedette accanto a lei.
Adele fece un respiro profondo e iniziò.
«Avevo poco più di nove anni, quando il mondo si fece buio: era il 1944. Vivevamo in campagna, in una cascina tra le colline. Mio padre era stato richiamato al fronte; mia madre si alzava ogni giorno prima del sole per occuparsi dei campi e di noi tre figli, di cui io ero la più grande.
Se chiudo gli occhi, avverto ancora l’odore della terra bagnata. A tavola, c’era poco e niente, oltre al pane raffermo. Ma quello che più ricordo erano le risate: sì, ridevamo, nonostante tutto.»
Marta ascoltava come rapita, quasi trattenendo il fiato.
«La sera, si sentivano in lontananza colpi di fucile; mia madre, per distrarci, era solita raccontarci storie inventate, di fate che giocavano a nascondino nei cieli alla ricerca di una bellissima signora di nome Pace, che presto si sarebbe presentata a ogni porta, portando con sé tante cose belle a tutti. E noi bambini le credevamo. 
Credevamo alle fiabe, noi bimbi... Invece, arrivarono i tedeschi» continuò Adele con il tono di voce strozzata.
«Adele, tranquilla. Facciamo una pausa.»
«No, cara, sto bene, grazie… Dov’ero rimasta? Ah, sì… Ecco, i tedeschi! Un giorno, vennero a cercare mio zio. Si era nascosto nella stalla, era un partigiano. Mia madre era riuscita a prendermi per mano in tempo, dicendomi di correre nel bosco fino alla casa della nonna, senza guardarmi indietro. E io corsi, e corsi, fino a non sentire più il dolore fisico che mi procuravano le scarpe strette. Fino a quando, raggiunte le prime case del paese vicino al nostro, mi accasciai a terra svenuta. Quando mi ripresi, il primo volto che vidi fu quello di mia nonna, che abbracciai piangendo, raccontandole quello che era accaduto. Il giorno dopo, dei vicini di casa ci dissero che la cascina non c’era più, e che tutto era stato bruciato.»
Per un momento, la stanza rimase in silenzio, come se il tempo si fosse fermato, e anche i mobili stessero ascoltando.
«Mi dispiace…» disse Marta quasi sussurrando.
«Non dispiacerti, Marta. Quella notte ho imparato cosa vuol dire avere coraggio e, soprattutto, quanto può costare. Il coraggio, vedi, non è qualcosa che si possiede. È qualcosa che si impara a riconoscere, ogni giorno; dopodiché, sta a noi decidere se farlo nostro o meno. Anche qui, in questo posto.»
Adele richiuse il quaderno e sorrise. Un sorriso sincero, ma stanco.
Marta annuì, colpita dalla lucidità di quella donna che aveva vissuto tanto e ancora conservava la voglia di capire, di dire, di lasciare una traccia.
«Vuole che le porti qualcosa per scrivere meglio? Una penna nuova?»
«Portami una matita e una gomma. Mi rassicura sapere che potrei cancellare qualcosa, anche se poi non lo faccio. Il passato non si cancella: si ricorda e si racconta.»
Il giorno, alla Residenza Villa Anna, proseguì lento, tra il pranzo e il riposo pomeridiano.
Adele, però, non dormì. Rimase seduta davanti alla finestra, guardando il giardino dove alcuni ospiti passeggiavano aiutati dai bastoni o dalle braccia degli infermieri.
Ogni tanto chiudeva gli occhi, e il giardino diventava un campo d’erba alta, la casa della nonna, le risate di bambini con le ginocchia sbucciate.
Il tempo non guariva. Ma raccontare, sì.
E Adele, nella stanza nr. 10, aveva appena cominciato.
 
 
Capitolo due
 Il tempo delle scelte
 
Qualche giorno dopo, in uno dei soliti pomeriggi assolati, quando la luce calda filtrava dalle tende, sulle pareti della stanza nr. 10, Marta sedeva accanto a Adele, con il quaderno blu sulle ginocchia. Era diventato un piccolo rito, quel momento: qualche minuto insieme, ogni giorno, per ascoltare la voce del passato.
«Oggi voglio parlarti di Bruno. Non ti ho mai raccontato di lui» disse Adele, accarezzandosi i capelli ormai candidi.
«Era suo marito?» le chiese Marta sollevando lo sguardo dal quaderno, incuriosita.
«No. Non lo è mai stato. Ma per un po’ ho creduto che lo sarebbe diventato.»
Si fece silenzio. Adele sembrava lontana, ma i suoi occhi – vivi – era come se stessero guardando qualcosa che solo lei poteva vedere.
«Avevo ventitré anni. Era estate, insegnavo da poco in un paesino dell’entroterra. Bruno venne a sistemare il tetto della scuola dopo un temporale. Non era bello nel senso classico, ma aveva mani forti, voce calma, e occhi che ti guardavano come se fossi importante. Mi chiese se poteva bere alla fontana, e poi... Cominciammo a parlare.»
Marta, silenziosa, osservava Adele con una curiosità mista a tenerezza. Non riusciva a immaginare la giovane donna che Adele doveva essere stata, con quegli occhi ora sognanti e le mani che, senza rendersene conto, si erano strette attorno alla tazza.
«Mi ricordo ancora com’era l’aria di quella giornata» continuò Adele, come se le parole fossero uscite da sole, senza bisogno di pensare.
Marta, sempre più interessata, non interruppe.
«Il sole era ancora alto, l’odore del fieno si mescolava al profumo della terra bagnata dal temporale. Bruno si sedette accanto a me sulla panchina, e mi parlò di cose che non avevano nulla a che fare con il tetto. Abbiamo parlato di tutto, ma allo stesso tempo non dicevamo niente. Non mi sentivo come quando parli con qualcuno per fare conversazione, mi sentivo come se stessi scoprendo qualcosa d’importante senza rendermene conto. Una sensazione strana. Ogni giorno, alla stessa ora, passava vicino alla scuola. Fingeva di sistemare qualcosa, ma cercava solo un pretesto per vedermi. E io lo aspettavo. Un giorno, mi prese la mano. Sorrise, e abbassando lo sguardo, mi baciò sotto il glicine. Ricordo ancora che avevo i capelli sciolti e indossavo il vestito buono» proseguì Adele nel raccontare con un tono di voce basso, come se il ricordo stesse diventando più delicato, quasi fragile.
Marta ascoltava, sempre immobile.
«Il giorno dopo, l’ho rivisto. E il giorno dopo ancora. Lui veniva a fare piccole riparazioni qua e là, sempre con quella calma, quella sicurezza che ti dava l'impressione che il tempo per lui non fosse mai urgente. Ma non era solo il tempo a sembrargli indifferente. Erano le parole, gli sguardi... Tutto sembrava in qualche modo sospeso tra noi. Ho cominciato a cercarlo, ogni mattina. A sperare che ci fosse qualcosa di più, anche se non avevo il coraggio di dirlo. Mi sentivo confusa, ma mi piaceva.»
Si fermò un attimo, come se stesse riflettendo, e aggiunse: «A volte, il cuore ti porta in posti in cui non pensavi di poter andare. E, quando ti accorgi che ci sei arrivata, non sai nemmeno come ci sei finita. Eppure, sei lì.»
«E che cosa accadde, alla fine?» chiese Marta, con un’espressione sorpresa e curiosa allo stesso tempo, incapace di trattenere la domanda.
«Purtroppo, nulla. O meglio, successe tutto e niente allo stesso tempo» le sorrise Adele, con un velo di malinconia negli occhi.
Si fece di nuovo silenzio, e Marta non osò più parlare.
Quel racconto, pur incompleto, sembrava aver scavato un piccolo varco nel cuore di Adele, e Marta sapeva che avrebbe potuto aspettare ancora per la risposta a quella domanda.
«Era innamorata?»
«Sì, follemente. Ma la vita, Marta, è fatta di strade che, quando meno te lo aspetti, si chiudono all’improvviso. Senza preavvisi né segni a indicarti il momento giusto per fermarti.»
Adele smise un istante di parlare, come per decidere se continuare o no.
Poi, proseguì, dicendo: «La verità era che Bruno era promesso a un’altra. Lo sapevo e la conoscevo: era una ragazza del paese, figlia del fornaio. Le famiglie avevano già parlato, già deciso tutto. Ma lui diceva che mi avrebbe scelta comunque. Che avrebbe trovato il modo per sistemare le cose.»
«E non lo fece, vero?»
«No, non trovò il coraggio. Quel coraggio di cui ti ho già parlato… Quello che si impara a riconoscere, giorno dopo giorno, fino a farlo diventare parte di noi.»
Marta avvertì un nodo alla gola.
«Mi scrisse una lettera, una sola. Perdonami… Poi sparì. Mi sentii vuota per mesi. Ma continuai a insegnare ai bambini, per poter rispondere alle loro domande. Sono convinta che furono loro a salvarmi in quel periodo.»
Adele si alzò a fatica, appoggiandosi al bastone. Si avvicinò al comodino, aprì il secondo cassetto, e ne estrasse una busta ingiallita.
«È questa» disse, porgendola a Marta. «Non l’ho mai riletta.»
«Vuole che la legga io?»
Adele annuì piano.
Marta aprì la busta con delicatezza e lesse quelle poche righe, dalla scrittura decisa, maschile, quasi impaziente.
Adele,
Non sono l’uomo che pensavi. Ho paura, non di te, ma del dolore che potrei infliggere. Ho scelto la strada più semplice, anche se so non essere quella giusta. Spero che un giorno tu possa amare di nuovo… E dimenticarmi.
Perdonami.
Bruno.
Ci fu un lungo silenzio.
«L’ha mai più visto?» chiese Marta.
«Una volta, a un funerale. Anni dopo. Aveva tre figli, ormai ragazzini. Io avevo appena partorito la mia.»
«Si era sposata anche lei, quindi?»
«Sì. Con un uomo buono e onesto. Non era Bruno, no, ma era giusto per me. L’ho conosciuto a scuola, quattro o cinque anni dopo, quando arrivò per ricoprire il ruolo di Direttore. Era un po’ più vecchio di me. Aveva un modo di parlare gentile, e uno sguardo calmo che sembrava vedere oltre le apparenze. Con il tempo, ho imparato ad amarlo, anche se in modo diverso… Più quieto, più duraturo. E, così, scoprimmo di aver gettato insieme le basi di un amore che non bruciava, ma scaldava. Un legame che non aveva l’urgenza delle passioni giovanili, ma la solidità delle cose vere, costruite nel tempo, giorno dopo giorno. Con lui ho avuto Laura.»
«La sua bambina…» le sorrise Marta.
Adele sorrise a sua volta, ma con uno sguardo pieno di malinconia.
«Ci sentiamo pochissimo» disse l’anziana donna quasi sussurrando.
«Posso chiederle perché?»
«Perché a volte essere madre significa scegliere. E non sempre scegli bene. Quando Laura, finita l’università, si trasferì in Canada per conseguire un master in giornalismo, decise di continuare a vivere lì. Un giorno, quando aveva poco più di trent’anni, mi disse di essersi innamorata di un uomo sposato, e più vecchio di una quindicina d’anni. Cominciai a temere per lei e l’affrontai a muso duro: ero terrorizzata al pensiero che la vita potesse travolgerla. Le dissi cose dure, e ci allontanammo. Seppi poi che quell’uomo, dopo un paio d’anni di progetti e promesse di vita insieme, ero tornato dalla moglie. Ho sperato, allora, che ritornasse a casa, ma lei ha continuato a vivere lì, dove ha sempre fatto la giornalista.»
«E i vostri rapporti si sono sempre più raffreddati?»
«Abbiamo lo stesso carattere… E in aggiunta l’orgoglio è un muro difficile d’abbattere. Ho passato notti a chiedermi cosa avrei potuto fare per evitarlo. Ho scritto lettere che non ho mai spedito; ho continuato a vivere nel rimpianto, con la convinzione che le cose sarebbero cambiate con il tempo. Ma nulla è cambiato, Marta… Più il tempo passava, più diventava difficile tornare indietro. Così, abbiamo cominciato a sentirci meno. Sì, certo, in tutti questi anni, qualche volta è tornata a casa. Ma poi ha cominciato a diradare. L’ho rivista per il funerale di suo padre, e un altro paio di volte, quando è venuta a trovarmi qui, alla Residenza Villa Anna: una, durante la riabilitazione dopo l’intervento cui fui sottoposta per la frattura al femore… Ti ho raccontato, vero, della caduta per cui mi ruppi il femore? E di come Angela, spaventata a morte, proprio perché non ero andata ad aprirle la porta di casa come sempre, abbia chiamato un’ambulanza vedendomi a terra in bagno?»
«Sì. Mi ha raccontato di essere scivolata in bagno, uscendo dalla doccia, e che l’ha soccorsa la donna delle pulizie che, per fortuna, arrivò di lì a poco, essendo uno dei giorni in cui sarebbe dovuta venire a casa sua, giusto?»
«Esatto! Che cosa stavo dicendo… Ah, sì! E l’altra volta in cui vidi mia figlia – l’ultima volta – fu quando decisi di voler rimanere qui a vivere, perché il solo pensiero di tornare a casa sola mi spaventava. Il resto è storia.»
Marta si fece seria. Si chinò leggermente in avanti verso l’anziana per chiederle: «Adele, se potesse dirle una sola cosa – una sola – quale sarebbe?»
«Che l’ho sempre amata. Anche quando ho avuto paura per lei. Anche quando non l’ho capita» rispose Adele, senza pensarci su.
«Allora, forse, dovrebbe farglielo sapere» le sussurrò la giovane infermiera, prendendole la mano.
«Arriverà il giorno in cui lo verrà a sapere, di sicuro» mormorò Adele, chiudendo di nuovo gli occhi.
Quella notte, Marta rimase a pensare, rileggendo mentalmente le parole di Adele, i frammenti di una vita fatta di scelte, rinunce e silenzi.
Aveva imparato qualcosa da quella donna. Che ogni amore è un rischio. Che ogni decisione lascia una traccia. E che – a volte – il perdono non arriva dall’esterno, ma da dentro.
Nel silenzio della casa di riposo, nella stanza nr. 10, una donna anziana prendeva in mano una nuova pagina bianca, per non smettere di scrivere: non solo per sé, ma anche per chi si era allontanato.
 
 Capitolo tre
Ultima luce
 
L’autunno arrivò senza rumore.
Le foglie del giardino di Villa Anna si tinsero di rosso e di giallo, e l’aria si fece più rarefatta. Era come se il tempo stesso avesse rallentato il passo.
Adele si svegliava ancora presto, ma le sue mani erano più tremanti e il respiro più corto: anche Marta l’aveva notato.
Era un pomeriggio grigio quando Adele le chiese di prenderle il quaderno blu e sedersi vicino a lei.
«Oggi voglio che tu legga tutto quello che ho scritto finora. Non ho più la forza di raccontare ad alta voce.»
Marta aprì il quaderno, lentamente. La grafia si faceva via via più incerta, le righe meno ordinate, ma le parole erano sempre intense, lucide. Parlavano di amore e di guerra, di speranza e delusioni, di maternità, di sogni e ferite. Parlavano di una donna che non aveva vissuto una vita straordinaria, ma l’aveva amata fino in fondo. Pagina dopo pagina, Marta sentiva crescere qualcosa dentro. Un rispetto profondo. Un legame che andava oltre i ruoli di infermiera e paziente.
«È bellissimo, Adele…» le disse la giovane donna alla fine della lettura, con gli occhi lucidi.
«Non è letteratura. È vita.»
«Ma è proprio per questo che è bello, che vale.»
Adele le sorrise, stanca ma felice. Poi, con un filo di voce, aggiunse: «Marta, ho bisogno di un favore.»
«Qualsiasi cosa, mi dica.»
«Voglio scrivere un’ultima lettera a Laura. Ma non riesco più a tenere in mano la penna. Potresti scriverla tu per me?»
Marta annuì subito, commossa.
Adele dettò lentamente, scegliendo con cura ogni parola.
Cara Laura,
non so se leggerai mai questa lettera, come tutte quelle che ti ho scritto in questi anni, ma anche per questa sento il bisogno irrefrenabile di farlo. Ho sbagliato tante cose con te. 
Ho avuto paura, ho cercato di proteggerti, ma ho finito per allontanarti. Poi, la distanza, le incomprensioni e il tempo ci hanno messo del loro.
Sei stata il mio orgoglio, la mia luce, anche quando non sapevo dirtelo.
Se la vita ti porterà mai a leggere queste parole, sappi che ti amo.
Mamma
Quando Marta finì di scrivere, le mani le tremavano.
«Vuole che la spediamo?»
«La consegnerai tu, quando sarà il momento, con tutte le altre che non le ho mai spedito. Guarda per cortesia nel mio armadio, in fondo, in quella scatola di latta…» le rispose Adele, guardandola negli occhi.
Nelle settimane successive, Adele parlava meno, ma ascoltava sempre.
Marta la curava con una delicatezza; l’affetto reciproco che si era creato tra loro era come un filo invisibile che le teneva legate.
Un giorno, mentre fuori cadeva una pioggerellina leggera e il cielo sembrava fatto di fumo, Adele la prese per mano e sussurrò: «Non ho più paura, Marta, promettimi una cosa.»
«Qualsiasi.»
«Quando incontrerai mia figlia, dille di non smettere mai di raccontare le storie degli altri. Le parole salvano, anche quando arrivano tardi.»
Marta annuì, con un nodo alla gola.
Adele se ne andò in silenzio, alle 11:30 di una mattina di novembre. Aveva il viso sereno, e tra le mani il suo quaderno blu.
Marta pianse, ma non a lungo. Aveva promesso qualcosa, e intendeva mantenere la parola.
Il medico di turno, una volta constatata la morte, cominciò a disbrigare alcune pratiche, cercando il contatto della figlia, che risultava essere l’unica parente diretta della donna. Marta si offrì, così, di chiamare Laura.
La figlia di Adele non aveva dormito bene, quella notte: uno strano senso d’ansia l’aveva accompagnata fino alle prime ore dell’alba, quando, alle 05:30 del mattino, aveva deciso che sarebbe stato meglio alzarsi.
Seduta in cucina a sorseggiare un caffè, e ascoltando le news alla radio, ricevette una telefonata – quasi – inaspettata: erano quasi le 08:00 del mattino.
«Pronto…» rispose titubante.
«Signora Spagnoli? Laura Spagnoli… È lei?»
«Sì, ma chi parla?»
«Buonasera, anzi, buongiorno… Mi scusi dell’orario, chiamo dall’Italia, dalla Residenza Villa Anna, qui a Fornovo… Mi chiamo Marta Becci, sono un’infermiera della struttura dove risiede sua madre. È venuta a mancare questa mattina, mi spiace…» le disse sempre quella voce gentile dall’altra parte del telefono.
Il mondo, per un attimo, sembrò fermarsi, e quel senso di colpa latente, che ormai accompagnava la figlia di Adele da anni come un’ombra invisibile, si presentò con prepotenza per reclamare il posto dovuto.
«Capisco, mi organizzo e arrivo» riuscì a dire Laura, prima di riattaccare.
Prese il primo volo per l’Italia. Tornare a casa, per giunta per quel motivo, le sembrò quasi irreale.
Il giorno dopo, una volta atterrata, chiamò Marta e, ritirata l’auto a noleggio, si diresse verso Villa Anna.
Fu proprio Marta ad accogliere Laura nella sala d’aspetto.
La donna dai capelli grigi che si trovò davanti aveva occhi chiari, proprio come quelli di sua madre. 
Era stupita, diffidente. Ma l’infermiera le parlò con pacatezza, raccontandole di Adele, e di come un importante legame si fosse instaurato tra di loro. Poi, le porse il quaderno e una serie di lettere.
Laura li prese tra le mani senza dire nulla. E pianse per la prima volta da anni.
«Ho avuto paura. Più il tempo passava e più avevo paura, e il divario tra di noi sembrava sempre più incolmabile… Non è passato un solo giorno in cui non abbia pensato a lei, senza però mai immaginare che anche lei soffrisse: sono stato presuntuosa.»
«Anche sua madre non ha mai smesso di farlo» le disse Marta, accompagnandola nella camera mortuaria allestita, dove la salma di Adele era ancora esposta.
Le porse un piccolo mazzo di fiori secchi, aggiungendo: «Li teneva sempre sul comodino, accanto al letto. Diceva che glieli aveva portati sua figlia, tanti anni prima.»
Laura non ricordava, ma la commozione le chiuse la gola.
Marta le lasciò sole e uscì dalla camera.
Dopo il funerale, Laura si fermò ancora qualche giorno.
Marta fu più presente di quanto la donna non si aspettasse. L’aiutò con le pratiche, con la casa di Parma, dove era cresciuta e che Adele non aveva mai voluto vendere prima di morire, ma soprattutto con i ricordi.
Le raccontò aspetti della madre che lei non ricordava o mai aveva conosciuto: di come ogni giorno chiedesse che le venisse letta una poesia; di come parlasse spesso di Montréal, e di quella volta in cui era andata a trovare sua figlia; e di come si arrabbiasse quando le portavano il tè troppo zuccherato.
E tra di loro sembrò nascere un’intesa silenziosa fatta di sguardi e pause.
Laura si accorse che parlava con Marta come non parlava da anni. E Marta, che si era sempre presa cura delle vite degli altri con discrezione, trovò in Laura uno spazio in cui lasciare andare anche le sue stanchezze.
«Non so come ringraziarti» le disse Laura, una sera, al tramonto.
«È stata tua madre a farci incontrare. Forse, è stato il suo modo di farsi perdonare il silenzio.»
Quando ripartì per il Canada, Laura abbracciò Marta, come si abbraccia un vecchio amico: due generazioni e due vite diverse, unite da un filo di parole scritte.
Ma non fu un addio. Con la promessa che ogni anno a novembre Laura sarebbe tornata a Parma per portare fiori freschi a sua madre, all’inizio cominciarono a scriversi e, poi, a sentirsi ogni settimana.
Una sera, durante una di quelle telefonate, Laura disse a Marta di aver cominciato a scrivere un libro, che avrebbe voluto intitolare Affinché nulla sia dimenticato.
«Sono a buon punto. Ti leggo la dedica… A mia madre Adele, che, attraverso Marta, mi ha insegnato che, solo se lo si racconta, il passare del tempo può anche guarire.»
«Allora, dovrò mettermi all’opera per la presentazione ufficiale: ho degli amici che hanno una libreria qui in città, e che saranno lieti di ospitarti» le disse Marta con euforia.
La libreria nel centro di Parma era piena di gente. Tutte le sedie erano occupate, e alcuni ascoltatori incuriositi, che come altri non erano riusciti a sistemarsi in piedi davanti agli scaffali, stavano davanti alle due vetrine aspettando di poter entrare. La bella giornata primaverile sembrava non essere d’ostacolo alla loro attesa.
Laura sedeva al tavolo degli autori, un microfono davanti, il suo primo libro tra le mani. Accanto a lei, una giovane donna dallo sguardo vivace osservava il pubblico con calma: Marta, l’infermiera che aveva conosciuto sua madre.
«Quando ho incontrato Marta, circa un anno e mezzo fa» cominciò Laura, con voce sicura ma commossa, «non sapevo ancora che mi avrebbe cambiato la vita. Aveva conosciuto mia madre nella struttura in cui ha passato gli ultimi anni della sua esistenza. Mi ha raccontato che, ormai prossima ai suoi novant’anni, scriveva per non dimenticare, e non aveva ancora perso la voglia di andare avanti. Io, purtroppo, non la vedevo da anni, non solo perché vivo in Canada, ma perché uno stupido orgoglio aveva creato una ferita che entrambe avevamo creduto di non poter rimarginare. E, sempre attraverso Marta, ho saputo che mia madre era convinta che scrivere non serve a trattenere il passato, bensì a renderlo vivo per chi viene dopo.»
Fece una pausa, guardando il pubblico, e proseguì. «Questo mio libro è nato da lì. Dalle sue parole. E dalle lettere che mi aveva sempre scritto, senza mai spedirle. Mia madre aveva una storia, ma non l’ho mai voluta ascoltare.»
Smise di parlare e si girò verso Marta, che annuì con un sorriso.
«La memoria è un’eredità. E noi, a volte, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ce la consegni con delicatezza» concluse.
Dopo l’applauso, durante il firmacopie, si avvicinò a Laura una ragazzina adolescente, con gli occhi grandi e una copia del libro, chiedendole l’autografo.
«Mi piacerebbe tanto poter scrivere, un giorno, come lei. Ma ho paura che nessuno voglia ascoltarmi e leggermi» le disse la ragazza.
L’autrice le prese il libro e le chiese come si chiamasse.
«Adele.»
Laura la guardò e sorrise. Alzò gli occhi al cielo per un attimo, prima di scriverle la dedica.
Le storie che valgono sono quelle vere, quelle che nascono da dentro. Anche se fanno male o se sembrano insignificanti. Scrivile, un giorno qualcuno ti ringrazierà.

§§§

Complimenti ancora alla vincitrice!
Nei prossimi giorni posterò anche gli altri due racconti del podio.
Concludo questo numero del Blog ringraziando il pubblico che ci h seguito in questa lunga avventura! Grazie anche alla giuria  che ha letto e, insieme a me all'ultimo giro ;-), ha messo tanto impegno e tempo per giungere a una decisione, la più giusta possibile!
Ricordiamo chi sono:
Silvana Da Roit
Marta Martello
Tiziana Mazza
Tania Mignani
Gianluca Nespoli
Maria Rita Sanna



Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle

 


5 commenti:

  1. È stato bello ascoltarlo dalla voce di Stefania, ma leggerlo ancora di più. Bellissimo davvero, toccante e delicato, mi ha molto commossa.

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  2. Roseline Pera Oliveras24 maggio 2025 alle ore 09:36

    Linda, il tuo racconto mi ha emozionata, mi ha toccata profondamente. Continua a coltivare questo dono della scrittura, sei proprio brava!

    RispondiElimina
  3. Giovanna Agata Lucente24 maggio 2025 alle ore 11:53

    Bellissimo, commovente, vero e profondo! Scrivi davvero bene Linda e sarebbe un peccato se tu non coltivassi questo tuo grande talento. ❤️Sinceri complimenti, primo posto meritatissimo!

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  4. Rettifico il cognome Lucenti 😅

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  5. Complimenti a Lidia ! Il racconto mi è piaciuto e mi ha commosso per la grazia e la sensibilità con cui ha colto lo spirito di chi ha già vissuto,
    Per non voler dimenticare si usa lo strumento della scrittura, magico e tangibile nel creare e conservare i ricordi.
    Cesare

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