Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

venerdì 21 febbraio 2025

Numero 461 - Masterbook seconda edizione - FASE 1 - PROVA 1 gruppo B - 21 Febbraio 2025


 

Eccoci di nuovo con i racconti del GRUPPO B. I concorrenti dovevano scrivere un racconto ispirandosi alla fotografia che vedete qui sopra.

Vi ricordo la modalità di voto:

- dovrete scrivere in un commento a questo numero del blog le vostre TRE preferenze, cioè i tre racconti che vi saranno piaciuti di più, scrivendo il titolo (così non faccio confusione quando andrò a contare i voti). Se volete potete anche scrivere la motivazione per la quale scegliete proprio quei tre.

- nel commento dovrete mettere anche il vostro nome e cognome, perché la votazioni anonime non sono accettate.

- potrete votare fino a mercoledì 26 febbraio, ore 20

A l termine della votazione, i tre racconti più votati riceveranno un bonus (al 1° 9 voti, al 2° 6 e al 3° 3). Questi voti derivanti dal bonus andranno a sommarsi a quelli espressi dalla giuria tecnica, producendo una classifica provvisoria in questa prima Fase del Torneo. 

Vediamo chi sono i concorrenti del GRUPPO B, coloro che hanno scritto i racconti di questo numero del Blog. Li scrivo in ordine alfabetico, perché questi racconti li giudicherete senza sapere a chi appartengono, cosa che sarà svelata nella diretta di giovedì 27, a votazione conclusa.

Vi ricordo anche che i racconti vengono da me postati nel blog senza il mio intervento, cioè così come mi sono arrivati. Non correggo niente perché nella valutazione dei testi, anche la forma e l'uso corretto della lingua italiana devono avere un peso.

GRUPPO B

Stefano Buzzi

Arianna Desogus

Maura Hary

Giovanna Agata Lucenti

Sandra Morara

Linda Silvia Scarpenti

Cesare Sordi

Camilla Terso

Tatiana Vanini


Prima di terminare questo numero, vi dico anche com'è andata la prima prova per il GRUPPO A e qual è la classifica PROVVISORIA per quanto li riguarda.

Classifica provvisoria GRUPPO A – FASE 1 – Dopo la prima prova, data dalla somma dei voti della Giuria tecnica + i tre bonus ai tre racconti più votati dal pubblico: al primo bonus di 9; al secondo bonus di 6; al terzo bonus di 3.

 

1°  Antonella Malvestiti  55 voti

2°  Alessandra Nobile     55 voti

3°  Laura Scartabelli        50 voti

4°  Valentina Ciocca       44 voti

5°  Emanuela Tomiato   42 voti

6°  Maria Grazia Conti    39 voti

7°  Luca Togni                   37 voti

8°  Carmine Scavello       30 voti

9°  Ilaria Alesina              16 voti


In bocca al lupo a tutti i coraggiosi concorrenti e buona votazione a tutti voi che ci seguite!


§§§

ELABORATO UNO 
IL ROSA NON FA PER ME
 
Il rosa io non lo ho mai sopportato.
Anche all’asilo, dalle suore, volevo indossare il grembiule azzurro di mio fratello: amo il colore del mare e del cielo.
“Nora, sei ancora in camera? Stanno arrivando.”
“Un attimo solo. Dammi ancora un attimo.”
Ma so già che non sarà sufficiente, neanche questa volta, per trovare il coraggio di dire basta.
“Non è educato fare aspettare. C’è la sigla... Zum zum zum suonare suonare...”
Che fastidio sentirlo cantare tutta l’allegria e la leggerezza che ha strappato via a me!
Il sabato sera arrivano sempre alcune coppie di amici per vedere Canzonissima, mentre il venerdì è per la cena con i suoi colleghi.
Siamo stati tra i primi ad avere un televisore così molti venivano da noi a seguire varietà, quiz e partite, col tempo è diventata consuetudine.
Ci si abitua a tante cose.
Non mi tocca fare la spesa, né cucinare o servire a tavola, a quello ci pensa Angelina, io posso decidere il menu, i fiori e intrattenere le mogli, ma se si parla di lavoro o di politica le mie labbra devono rimanere incollate e sorridenti.
“Principessa, guarda che scarpine ti ho trovato. Sono perfette: uguali al vestito.”
Ridicole piuttosto e pure scomode; quando oggi pomeriggio si è presentato gongolante con la scatola tra le mani avrei voluto gettarla lontano.
Una principessa rinchiusa in una lussuosa torre, una bambola da vestire come preferisce e svestire quando vuole, come facevo io con quelle di carta, ripiegando le alette degli abiti sulle spalle.
Con il suo giocattolo può intrattenersi quando gli va e dimenticarsene se ha di meglio da fare.
É lui a decidere tutto.
“Lo sai quanto sei fortunata?”
É il ritornello che mia mamma mi ripete come un disco rotto da quando lui ha stabilito che sarei diventata sua moglie.
“Quando ti decidi a darci l’erede?” è invece quello preferito da mia suocera.
Sono i suoi occhi pungenti a indicarmi come la responsabile di quell’assenza, ed è vero: ci faccio molta attenzione. Finora ci sono riuscita.
Da quando, ragazzina, avevo letto su Oggi la storia della principessa triste ripudiata dallo Scià perché non gli aveva dato dei figli, avevo intuito che in realtà quella mancanza poteva anche essere un asso da calare al bisogno.
Il divorzio non si può pensare, figuriamoci pronunciare.
“Ti stiamo aspettando, muoviti!”
Un giorno d’amore per me vale più di cent’anni…”
É vero.
Non voglio più sprecare nemmeno un attimo della mia vita, non sono la bambola di nessuno, voglio qualcuno che mi ami per come sono. 
“Io esco, buona serata.”
“Come sarebbe esco? Ma, ma... come ti sei vestita?”
“Finalmente ho capito che il rosa non fa per me.”

§§§
ELABORATO DUE
BUGIE SENZA NOME
 
Il cellulare sul treppiede era posizionato per uno scatto che la riprendesse solo dalle ginocchia in giù.
Seduta sul letto, si era sistemata con la gamba destra accavallata sulla sinistra. La gonna del vestito rosa drappeggiata ad arte a metà polpaccio, con il tulle trasparente che svelava poco di più. Era l'invito a guardare i suoi piedi, calzati con  quelle vezzose ciabattine col tacco e le piume che li vestivano di charme.
Non si era messa lo smalto. Anzi, l'unghia dell'alluce sinistro, in primo piano, mostrava il segno irregolare di un colpo. Sciatteria? No, accuratezza nella messa in scena, come quella stanza con la moquette chiara, il comodino retrò e il vecchio telefono. Come il vestito di una finta eleganza che indossava con audace stile, perché i suoi clienti amavano fantasticare su quanto le donne ricche fossero molto simili a loro: imperfette, accessibili a pagamento, pronte per il loro piacere. Erano feticisti, la tristezza dell'umanità. Finché pagavano e tutto avveniva attraverso lo schermo di un cellulare, filtrato dall'app di Onlyfans, quel lavoro non sembrava nemmeno tanto squallido. Guadagnava più così in una settimana che in sei mesi di turni massacranti alla RSA, dove puliva sederi e spazzava pavimenti, a scelta nell'ordine.
Quando lo aveva raccontato alla madre, che grazie al social riusciva a pagarsi l'affitto del piccolo appartamento a Milano e a mandarle pure dei soldi, la sua vecchia si era arrabbiata. Le aveva detto che doveva smetterla subito di fare la prostituta, che era meglio pulire un cesso con dignità e mangiare pane e cipolle, che arricchirsi così.
Ma quale ricchezza, quale lusso? Viveva in trenta metri quadrati, con la maggior parte dello spazio usata per allestire il set per gli autoscatti, un angolo cottura da campeggio e un minuscolo bagno. I vestiti che usava li teneva in valigia sotto il letto, perché l'armadio a due ante, bastava per gli abiti e le calzature da scena.
Si prostituiva? Poteva dire così se nessuno la toccava e i suoi clienti le guardavano i piedi solo tramite le foto? Era importante cosa facevano con quelle immagini, in mano? No, non era una prostituta, lei sopravviveva. Non una puttana, ma una guerriera.
Usava la tecnologia e le perversioni della gente, non si limitava a piegare la schiena e pulire. Si era fatta furba, sfruttava chi credeva di sfruttarla e aveva capito pure un'altra cosa: presto avrebbe potuto smetterla con quel vecchio ricovero, chiudere con Milano e trasferirsi, magari al mare, in un'isola dei Caraibi. Sarebbe stata libera, di andare dove voleva, purché ci fosse un'ottima connessione, per continuare a postare le foto, perché avrebbe smesso con tutto, ma non con Onlyfans e le possibilità che le offriva.
Il cellulare scattò una nuova foto. Aveva finito, doveva solo mandarle a chi aveva pagato per averle.
Poi via, per il turno del pomeriggio, perché le foto, alla fine, sono solo bugie, mostrano quello che vuoi e non dicono nulla, nemmeno il tuo nome.

§§§
 ELABORATO TRE
NOVE GIORNI
 
Sono passati nove giorni e sono qui in camera, col telefono sul comodino ed il cellulare in mano.
Era quasi mezzanotte e quella sera, dopo la cena di San Valentino, in cui mi ero vestita romanticamente tutta di rosa, mi hai lasciata davanti al portone.
Ti ho chiesto quando ci saremmo rivisti e tu hai esitato e mi hai detto di avere pazienza.
In un primo momento ho pensato che mi avresti chiamato giovedì, poi venerdì poi oggi che è domenica, ma non ho ricevuto nulla né sul fisso né sul cellulare.
Mi sono chiesta e mi sto ancora chiedendo perché.
Credevo che si fosse creata una linea di sensibilità comune, che ci capissimo facilmente e che si stesse bene insieme.
Non bastava.
Credevo di aver dato il giusto impulso ad approfondire la nostra conoscenza.
Non bastava.
Credevo che la tenerezza dell’ultima volta fosse sufficiente a sciogliere le nostre corazze costruite negli ultimi anni.
Non è bastato.
Mi rendo conto di scrivere frasi forse banali, ma la vita non lo è mai e quindi ci deve essere una ragione se i fatti procedono così.
E’ evidente che io non posso telefonarti e non posso neanche fare altre azioni che potrebbero essere male interpretate e quindi controproducenti.
E mentre lo penso mi accorgo che ci tengo a te e che vorrei disperatamente continuare a vederti.
Ma non posso proprio perché l’iniziativa ora è nelle tue mani e solo una tua decisione, qualunque essa sia, potrebbe sbloccare la situazione.
Decidere per il sì, capisco che sarebbe imbarazzante, vorrebbe dire accettare di stare con me, anche alle mie condizioni e creare dei cambiamenti importanti nella tua vita, nei tuoi affetti e nelle tue relazioni.
Decidere per il no, sarebbe pure critico perché in fondo trovi interessante la mia presenza e le mie parole, ti piace avere una donna che ti guarda con interesse ed è disposta ad aiutarti in momenti che sono ancora difficili.
Significa anche buttare acqua sul quel piccolo fuoco che forse si sta riaccendendo.
Nello stesso tempo non è più possibile continuare come prima, vedersi come amici, andare al cinema o a teatro come se niente fosse accaduto.
Il cuore non lo permette e soprattutto non lo permette a me.
Gli anni passano ed accumulando le esperienze mi sembra ogni giorno di essere ancora nella mia età giovanile, ai miei primi sentimenti, alle prime aspirazioni.
Lo so che anche questo è banale, ma ora è mio e sono io che lo voglio vivere intensamente così come lo sento.
Domani è il decimo giorno, non so cosa farai ed il tuo carattere è abbastanza imprevedibile.
Sarei felice di essere sorpresa, comunque sia, perché l’attesa è sempre faticosa e l’azione è rigenerante.
Chiamerai lunedì o aspetterai ancora ?


§§§
ELABORATO QUATTRO
WHISKY E LATTE DI CAPRA
 
 
Se di nome fai Debora, seppur senza lo sfiato dell’h forestiero, ti viene spontaneo pensare che stai seduta sul letto con una vestaglietta rosa dalle sete velate e le ciabattine con il tacco fine e le piume di struzzo - per non parlare del telefono in tono e il comodino rococò - e quando ti alzi dal letto, cammini sexy ancheggiando per strada, e c’hai le poppe che sembrano due meloni e ballonzolano assassine che pare un mare in burrasca e i maschi ci sbavano e ci viene il coccolone, e soprattutto bevi solo whisky, mica latte di capra - che la nonna, con l’occhio scaramantico ci vedeva avanti, e per non saper né leggere né scrivere, fin da piccola aveva castrato sul nascere le prospettive impudiche con l’analcolico animale, le giaculatorie, le messe, i rosari e il senso delle regole antiche, ma giuste.
Forse, ma e però, che la mancanza di quello sfiato dell’h forestiero aveva spareggiato le aspettative e aperto le porte alle insicurezze, agli sghignazzi, le prese in giro, il farti credere che sei fuori dai tempi e dal mondo, e soprattutto sei fuori dal club di quelle quattro sfigate che fanno le bulle e si credono dio in terra, solo perché portano i jeans firmati, le scarpe con la targa dorata e si sono rifatte il naso, per non parlare delle labbra a canotto.
E ti senti un pesce fuor d’acqua, e ti senti persa. E se ti senti, vuol dire che prima non solo te lo dici, ma te lo ripeti - e dove cavolo lo trovo poi, il pezzo mancante della mia mela, se non c’ho le firme e i meloni - che vesto mercatino rionale e sono piatta di petto peggio del tagliere di nonna quando fa la sfoglia per le lasagne e le tagliatelle, che almeno su quelle ogni maschio ci sbava e gli prende il coccolone.
Tranquilla Debora senza lo sfiato forestiero dell’h che, come dice sempre tua nonna e te lo dico pure io - tempo al tempo, e vedi che lo trovi pure tu il pezzo mancante della mela, quella che prima se ne stava sull’albero ben radicato dietro l’angolo, ma poi si schioda, ti bussa alla porta, e ti dice che non gliene frega niente se non c’hai le firme, le scarpe con la targa dorata, le labbra a canotto, le poppe assassine e sei piatta come il tagliere di nonna, e porti il pigiama con i cuoricini e le ochette, e le pianelle rasoterra con la faccetta sorridente di gatto Silvestro e - che rimanga fra noi - pure le mutande ascellari con l’elastico slabbrato che non tiene più, perché lui è un estimatori di cervelli e vuole proprio te.
Nell’attesa - e che rimanga fra noi - pare che, spalmarsi sulle cosìdette gli escrementi del piccione, faccia davvero miracoli.

 

§§§
ELABORATO CINQUE
QUEL SENSO D’INQUIETUDINE
 
Seduta sul bordo del letto, Claire indossava un elegante abito in taffetà rosa, che lasciava intravedere la sottogonna in tulle.
Era come se all’improvviso avesse smesso di prepararsi, visto che ai piedi portava ancora le solite ciabattine rosa – quelle che tanto piacevano a suo marito – con tacchetti e piume di struzzo.
E immobile, con lo sguardo assente, guardava fuori dalla finestra.
Era una serata di maggio, e i colori del crepuscolo stavano colorando il cielo sopra quella cittadina del Maine, dove Claire e il marito vivevano, dando così inizio alla fine di un’altra tranquilla e monotona giornata.
La donna era solita definire così le sue giornate, badando bene di non riferire a nessuno i suoi pensieri, per non ferire il marito.
Eppure, sembrava vivere in armonia con se stessa e gli altri. E l’atmosfera che si respirava sapeva di tranquillità. Quella tranquillità che a Claire avevano sempre detto di desiderare, ma che ormai la stava soffocando.
E pensare che qualsiasi donna sarebbe stata felice di avere una bella casa come la sua, con il prato verde ben tenuto e curato; avrebbe fatto carte false per poter accudire con amore quel bel marito, un veterano della Seconda Guerra Mondiale; e avrebbe pagato per poter appartenere a quella cerchia di amici benestanti e sorridenti, i cui figli sarebbero diventati amici dei suoi.
«Claire, sei pronta? Quanto ti manca a scendere? Posso entrare?» chiese George aprendo la porta della camera ancora prima che la moglie gli rispondesse, e distogliendola dai suoi pensieri.
«Arrivo… Finisco di vestirmi» gli disse Claire, rimanendo seduta sul letto.
«Sono già arrivati quasi tutti, e i Taylor e i Mitchell stanno parcheggiando, cara, manchi solo tu!»
George la guardò con ammirazione e le si sedette accanto abbracciandola.
Claire lo allontanò, con la scusa che le avrebbe stropicciato quel bel vestito, che proprio lui le aveva suggerito di indossare per l’occasione.  
«Faccio in un attimo… Infilo le scarpe e scendo» aggiunse con un sorriso che aveva solo la funzione di nascondere un malessere – a lei – ormai noto.
Un’altra festa, un’altra serata con il sorriso forzato sulle labbra, pensò.
Si guardò allo specchio del comò posto di fronte a lei e, accarezzandosi il ventre, pensò a quel segreto che ancora non aveva voluto svelare.
Guardò le scarpe scelte da indossare per raggiungere gli ospiti, e un senso d’inquietudine la pervase.
Non metterò quelle scarpe eleganti, non sorriderò per piacere. L'apparenza non mi appartiene più, pensò.
Si alzò dal letto, e si tolse il vestito rosa.
Gettò le ciabattine in un angolo della stanza, come a voler seppellire una parte di sé che non voleva più.  
Indossò un abitino e un paio di scarpe comode e, con discrezione, scese le scale per andare alla porta di casa sul retro: uscì, lasciando dietro di sé quel mondo di certezze che non le erano mai appartenute.

§§§
ELABORATO SEI
NONNA

È la terza volta che bussano alla porta, ma io non riesco nemmeno ad alzarmi. Non posso, non voglio. Vestita e pettinata, sì, ma paralizzata sul bordo del letto, e col trucco già sciolto dalle lacrime. No, non posso farlo.
Accarezzo il costume del saggio. Sfioro la seta, dal tulle affiorano emozioni e ricordi. Come se il tessuto fosse impregnato della forza di uno spirito.
Di colpo mi sembra di averla davanti: le mani antiche ed esperte, il ditale colorato, gli occhiali grandi dalla montatura ovale, gli spilli tra le labbra, l’affetto immenso dietro il piglio severo e lo sguardo concentrato. E la scatola di latta in cui teneva tutto, poggiata per terra vicino alla sua poltrona. Quanti vestiti mi aveva sistemato negli anni?
Bussano di nuovo. Devo alzarmi, lo so. Il saggio comincia tra poco, e io devo salire in macchina con mamma e papà, arrivare a teatro, incontrare la coreografa e le compagne. Ma non posso, davvero non ce la faccio.
Lei invece ce la faceva sempre. Era infaticabile. Indistruttibile. Lo era stata nonostante la povertà, la guerra, le infinite difficoltà di una vita di sacrificio. Aveva imparato a cucire da sola, da bambina, con vecchi pezzi di stoffa trovati in casa: voleva vestire la sua unica bambola. E cucire è stato il suo unico gioco. Da adulta avrebbe potuto fare la sarta, ma ha dovuto dividersi tra la cura dei molti figli e i lavori in campagna.
Bussano ancora. Bussano e io me ne sto qui, seduta sul bordo del suo letto che sa di antico, come il suo comodino beige e il suo vecchio telefono rosa. Rosa, come il costume per il saggio che sto indossando e che lei mi aveva sistemato la settimana scorsa; per questo era ancora qui, nel suo armadio, insieme alle scarpette da punta che dovrei provare prima di uscire. Invece, di scarpe ne ho indossato altre: le sue vecchie scarpette buone, quelle col tacchetto, quelle che usava per le occasioni e che ho trovato qui, vicino al letto. È incredibile, hanno lo stesso rosa del mio costume. Chissà cosa direbbe lei. E chissà cosa direbbe vedendo che mi sono pettinata da sola. Le piaceva pettinarmi, mi pettinava sempre per gioco. E avrebbe dovuto pettinarmi lei per questo saggio. Avrebbe dovuto venire a teatro, vedermi. Sarebbe stata così felice, così orgogliosa.
Ripercorro la seta con le mani. Dammi la forza. Dammi un segno. Cosa avresti fatto tu al mio posto?
All’improvviso, un moto leggero attrae la mia attenzione. Un raggio di sole intenso, vivido, si è infilato nella finestra qui dietro, poggiandosi sul cuscino; alcuni riflessi danzano sulla seta del mio costume. Qualcosa scatta dentro di me. Guardo in basso, vedo i miei piedi curvarsi: con un brivido realizzo che sto per alzarmi. E un attimo dopo mi ritrovo dritta, ferma sulle gambe. Una forza inaspettata, antica, mi ha tirato su. Con addosso le sue scarpette, vado a prendere le mie da punta.
Nonna, questo ballo è per te.


§§§
ELABORATO SETTE
EVERGREEN
 
Vi capita mai di pensare a come è iniziata la storia d’amore che state vivendo?
Un incontro casuale, un appuntamento di lavoro, una frase banale, un sorriso impacciato… Sarebbe davvero bello conoscere come sono nate tutte le storie del mondo e scoprire le diavolerie di cui è capace l’amore per manifestarsi e poi vivere.
Faccio questo pensiero mentre da qualche minuto fisso i miei occhi nello specchio: brillano.
Anche il viso splende, come fosse una porcellana passata e ripassata con lo straccio.
È chiaro che mi sono innamorato.
Ho conosciuto Marlene il mese scorso durante una sessione di lavoro. Sono un fotografo, uno di quelli che lavora per le riviste di abiti da sposa. A dire il vero prediligo quelli degli stilisti eccentrici, quelli che vogliono prendere le distanze dal classico bianco da favola.
Nozze rosa era il nome della collezione che andavamo a presentare sul catalogo estivo di un noto atelier, Marlene era la modella.
Come dite? Volete sapere come è nata la nostra storia? Non vi basta sapere del nostro incontro sul set di una camera d’albergo apparecchiata a tinte rosé?
Ebbene, tutto è iniziato con una frase banale: Il tuo sorriso è già un evergreen.
Le ho detto così tra un cambio di scenografia e l’altro. Del resto il suo modo di ridere riempiva la stanza più del suo splendore e suonava nelle mie orecchie come una bella canzone che passa alla radio. Una di quelle che ascolti per tanti anni e non ti stancano mai: un evergreen.
Ho rotto il ghiaccio così.
Stupido? Provate voi a farvi avanti tra truccatori, addetti alle luci e assistenti di vario genere.
Quella sera ci siamo fermati a cena in un piccolo locale poco distante dall’albergo. Abbiamo iniziato così a conoscerci piano piano.
Oggi è passato un mese. Cos’è mai un mese per una storia d’amore? Nulla. In così poco tempo un sentimento condiviso può, al massimo, imparare a gattonare.
Per la mia felicità, invece, vivere una favola così bella è tantissimo. Innamorarsi è come gettare tutti gli abiti vecchi e vedersi con una nuova luce. Una luce che irradia lo specchio e che vorrei catturare con una fotografia.
Sarebbe bello che tutti si scattassero una foto nel momento in cui scoprono di essersi innamorati. Potrebbe essere utile, chissà, tanti anni dopo, quando il logorio della quotidianità agisce subdolo sulla qualità del sentimento.
Una cosa tipo… Ecco, guarda come eravamo belli quando ci siamo innamorati. Ripartiamo da lì, da una nuova foto insieme.
Bello, no?
Lascio questi pensieri, per me oggi lontani, e preparo l’attrezzatura per un nuovo servizio. Oggi posa Marlene.
Quando lavoro con lei ripenso al vestito rosa della prima volta e a quando, seduta sul letto, rideva per una battuta fatta da qualcuno nella stanza. Mi emoziono ancora. Prendo la macchina fotografica e cerco, tra le foto inedite di quel giorno, quella che ritengo più bella.
La metterò in una cornice e sarà il prossimo regalo che le farò.
Magari con un biglietto con scritto evergreen.

§§§
ELABORATO OTTO
LA VERITÀ IN UNA STANZA
 
Si erano seduti di spalle ognuno dalla propria parte del letto, nessuno dei due riusciva a respirare.
Isabella cercava di ingoiare la saliva e con essa la frase che aveva pronunciato qualche minuto prima suo marito: voglio la separazione.
Armando non provava più nulla verso la moglie e glielo aveva vomitato addosso tutto in un fiato nel giorno del matrimonio della cognata. Una data per cui Isabella si era preparata a lungo, visto che le doveva fare da damigella. A rendere speciale questo avvenimento era il rapporto simbiotico tra le due sorelle.   
Per l’occasione, la sposa, aveva chiesto, rigorosamente, di indossare un abito rosa, un colore che si intonava, guarda caso, con la camera di albergo dove alloggiavano la sera prima del matrimonio. Era passato molto tempo da quando marito e moglie non stavano soli nella stessa stanza.
L’abito l’aveva fatto confezionare alla miglior sarta del paese. Lo stesso dove si sparlava del matrimonio in questione e dell’onestà della sposa.
Isabella si schiarì la voce dal pianto e si girò verso Armando.
«È uno scherzo, vero?»
«No Isabella.»
«È solo un momento di crisi, sai capita dopo tanti anni. Riproviamoci!»
«Non mi sembra il caso.»
«Invece sì. Dopo dieci anni di matrimonio me lo devi.»
«Va bene, ma tanto sai che non cambierà nulla? Io non ti amo più e ci faremmo solo del male.»
Isabella fu presa da una feroce ira, indossò le sue scarpe rosa con tacco dodici e iniziò a fare su e giù per tutta la stanza. Il rumore dei tacchi indicava il suo nervosismo. I pensieri si affollavano e le parole erano difficili da dover articolare, così continuò con la voce di chi ha paura della verità.
«Chi è lei?»
Armando tacque
«È bella?»
Nonostante il silenzio del marito non aveva nessuna intenzione di dargli tregua. Ciò che le stava facendo era imperdonabile, inoltre proprio quel giorno e in quel posto.
Isabella aveva sfruttato l’occasione di quel matrimonio, in una località così romantica, con qualcosa di retrò, per provare a recuperare un rapporto ormai spento.
Infatti il loro soggiorno doveva continuare ancora una settimana dopo la cerimonia. Sperava che quel posto fuori dal tempo riaccendesse la passione, ma quella stanza la stava condannando alla verità.
«Da quanto tempo dura?»
A quel punto Armando si guardò nello specchio dell’armadio e si sentì una feccia umana. 
«È una vita che la conosco, ma a volte è meglio non sapere.»
Per un attimo avrebbe voluto togliersi la scarpa e buttagliela addosso e invece se la prese con il suo vestito strappandosi tutto il tulle che ricopriva la gonna di raso. Voleva solo urlare, ma non lo fece.
Sapeva che l’uomo in quanto tale non avrebbe avuto mai il coraggio di dirle la cruda verità, così prese la valigia e mentre stava per raggiungere l’uscita, il telefono rosa su suo comodino squillò. Era sua sorella.
«Mi dispiace, non mi sposo più, mi sono innamorata di Armando.»
Isabella uscì da quella stanza e dalla vita di entrambi.

 

§§§
 ELABORATO NOVE
L’ABITO DELLE FATE
 
Ricordi mamma, quanto eri bella il giorno del matrimonio, avvolta nel tuo vestito rosa da sposa?
Un tripudio di tulle e seta che ti fasciava in modo superbo.
In quel paesino della Sicilia, il vestito bianco era prerogativa di chi aveva avuto un regolare fidanzamento ed era arrivata pura al matrimonio e quindi tu, che vivevi già da tempo con papà e per giunta avevi avuto anche me, avresti dovuto ripiegare sul colore beige, che solo a pensarci, ti faceva rabbrividire dall’orrore.
Avevi scelto così l’abito delle fate, così come l’avevo chiamato io, appena visto per la prima volta.
A distanza di anni, avevo capito che quel colore rosa e quel matrimonio voluto a tutti i costi, ti dovevano ripagare di tante piccole umiliazioni, non avevi niente di cui vergognarti e lo volevi sbattere in faccia al mondo. Quel mondo che non sopportavi più, che viveva di ovattati bisbigli dietro le tende scostate delle finestre, di sguardi d’accusa e di silenzi incomprensibili. Io, fin da piccola, percepivo tutto questo e mentre camminavamo insieme per strada, ti stringevo più forte la mano.
Ricordo anche che avevi voluto cambiare la vecchia camera da letto con una nuova, chiara e dallo stile romantico, costava un bel po’, ma papà ti aveva accontentata.
L’avevi arredata con tappeti bianchi e cuscini rosa e perfino il telefono, poggiato sul comodino, era della stessa tinta.
A distanza di tempo, capisco che anche quello era un modo per uscire dal grigiore in cui ti sentivi imprigionata.
La sera, di ritorno dal matrimonio, calzate le pantofoline di raso rosa, ti eri seduta sul bordo del letto, avevi accavallato le belle gambe e il vestito si era aperto come un fiore, eri un incanto…
In quel momento era entrato papà e aveva detto: «Calimero, la mamma è stanca. Fila a dormire!»
Quel nomignolo, mi era rimasto appiccicato addosso dalla nascita, quando papà, vedendomi per la prima volta, si era reso conto che avevo ereditato i suoi colori scuri e che di te, così bionda e chiara, non avevo proprio niente.
Così, quell’aria delicata che ti avvolgeva, piano piano, ha fatto nascere in me il desiderio di proteggerti, avevo capito che, delle due, ero io la più forte e l’ho fatto a scapito di non potere vivere appieno la mia infanzia e di tradire poi, la mia adolescenza.
Papà non si era mai voluto accorgere del tuo disagio, così avevo capito che toccava a me prendermi cura di te, e sai, vivevo con la paura di non trovarti più a ogni ritorno a casa.
Non è stato facile, ma ti ho voluto bene così.
E anche tu me ne hai voluto a modo tuo, vero, mamma?
Ora che la tua delicata bellezza ha lasciato il posto alla fragilità degli anni, siamo ancora insieme.
Guarda com’è ancora bello l’abito delle fate! Ogni volta che lo distendo sul letto, ti brillano gli occhi e mi cerchi la mano e io, come sempre, sono qua a stringerla più forte, come una volta, ricordi?

Alla prossima
dalla vostra 
Stefania Convalle



 

 

 

 

 

 


25 commenti:


  1. 1- Nonna
    2- L'abito delle fate
    3- La verità in una stanza

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  2. Nonna
    Bugie senza nome
    Whisky e latte di capra

    (Silvia Garioni)

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  3. 1. n.6
    2. n.8
    3. n.9 Lella Brioschi

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  4. 1. Bugie senza nome
    2. Whisky e latte di capra
    4. Nonna

    M.Cristina Bellavita

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  5. Voto elaborato 2 - 4 - 7

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  6. Elaborati 2/5/6… in bocca al lupo a tutti! Antonella Malvestiti

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  7. Voto gli elaborati 4 - complimenti per la verve -, 1 e 2.
    Luca Togni

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  8. Voto 2,3, 5 Andrea Sordi

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  9. Le mie tre scelte:
    - Elaborato 1: Il rosa non fa per me
    -Elaborato 7: Evergreen
    -Elaborato 9: L'abito delle fate

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  10. Colla nadir,4 whisky e latte di capra,5 quel senso di d'inquietudine,6 nonna

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  11. 3 Nove giorni - 6 Nonna- 8 la verità in una stanza . Naiem Asma

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  12. Bugie senza nome per le descrizioni che ti portano nel racconto, l'originalità della storia e la perfetta collocazione tem

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  13. Bugie senza nome
    Per le descrizioni che ti portano nel racconto, l'originalità della storia, collocazione in questo tempo.
    L'abito delle fate per la storia.
    Nonna per i ricordi che evoca.
    Michela Rossi

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  14. Voto gli elaborati: 3, 5, 6; in bocca al lupo a tutte/i, ciao da Emanuela Tomiato

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  15. Voto l’elaborato numero 1: IL ROSA NON FA PER ME, per la delicatezza delle immagini e la bella scrittura, l’elaborato numero 4: WHISKY E LATTE DI CAPRA, per la scrittura originale e frizzante, infine l’elaborato numero 5: QUEL SENSO DI INQUIETUDINE, perché l’ho trovato lieve, toccante e malinconico. Complimenti a tutti! Alessandra Nobile

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  16. Sono Elena Mazza
    Elaborato 5 quel senso d' inquietudine
    Elaborato 8 la verita' in una stanza
    Elaborato 9 l'abito delle fate

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  17. Io voto 4 Whisky e latte di capra, 5 Quel senso d’inquietudine, 6 Nonna. Manuela Cason

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  18. N.2 bugie senza nome
    N.4 whisky e latte di capra
    N.8 la verità in una stanza
    Ilaria Luce Alesina

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  19. Voto gli elaborati n.2, n.4 e n.9
    Complimenti a tutti.
    Barbara Romano

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  20. Le mie scelte
    Elaborato 6 Nonna
    Elaborato 2 Bugie senza nome
    Elaborato 8 La verità in una stanza
    bravi tutti !

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  21. Linda Scarpenti

    Elaborato 2 - Bugie senza nome
    Elaborato 4 - Whisky e latte di capra
    Elaborato 8 - La verità in una stanza

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