Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

giovedì 31 luglio 2025

Numero 475 - Il gioco dell'estate (con le parole) - 31 Luglio 2025


 IL GIOCO DELL'ESTATE


Ma si può stare senza giocare con le parole?
Per chi ama scrivere, farlo sempre e comunque è un'esigenza.
E quindi ecco un giochino facile facile (non è vero) per tutti voi.

Cosa dovrete fare?

Dovrete scrivere un racconto a piacere, inserendo i titoli delle pubblicazioni firmate Edizioni Convalle, uscite nel 2024.

Regole:
- tutti (compresi gli autori delle opere alle quali si riferiscono i titoli) possono partecipare alla gara dell'estate.
- i titoli devono essere riportati esattamente come sono.
- tutti i titoli devono essere presenti nel racconto.
- lunghezza massima del racconto: 800 parole.
- il racconto non deve contenere nessun riferimento alla storie legate ai romanzi dei quali useremo i titoli. La storia deve essere inventata in toto.
- il racconto va inviato a steficonvalle@gmail.com in allegato word.doc ENTRO il 31 agosto 2025.


I racconti verranno postati nel blog, qui di seguito, in ordine di arrivo e potrete commentarli.

Nella prima diretta del giovedì di settembre (in data da definire) nella Pagina FB di Edizioni Convalle, verranno annunciati i primi tre classificati.

Di seguito, i titoli delle opere pubblicate nel 2025.
Saranno da inserire nel testo ESATTAMENTE come sono. Quindi dovrete scrivere una storia dove si possano armonizzare nella narrazione.

ESEMPIO:
Faccio un esempio con un titolo di una mia vecchia opera. Il sole delle cinque. 

Maria camminava nella piazza senza pensare a niente, dopo quello che era accaduto. Il sole delle cinque, in quel pomeriggio d'autunno, contribuiva a creare un'atmosfera malinconica ma allo stesso tempo di quiete assoluta. Di pace.

(In questo caso, Il sole delle cinque parte con la maiuscola, ma in caso voi inseriate il titolo all'interno di una frase, scriverete con la minuscola: il sole delle cinque.)


ECCO I TITOLI:

- Volevo solo avere più tempo
- Natalì
- Cercando un nuovo altrove
- Ero invisibile
- Le crepe dell'amore
- Maestri di scuola e di vita senza tempo
- Lo specchio convesso
- Il coraggio di scegliere
- Verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti
- Cadeva la neve
- Seduti allo stesso tavolo
- Spacco tutto

Ora tocca a voi.
Vi aspetto e condividete con gli amici e conoscenti che amano scrivere, più siamo e più ci divertiamo. Giusto?




Il muschio, il tavolo, la neve
di
Enrico Zaghini
 
In un luogo astratto, il Tempo, lo Spazio e il Luogo stavano  cercando un nuovo altrove dove ci sono maestri di scuola e di vita, senza tempo, e senza un’idea precisa di quei percorsi che portano a maturare le persone.
Erano seduti allo stesso tavolo e discutevano da un tempo infinito, come se fossero abbarbicati a quel tavolo come sulla roccia sta  il verde muschio, mentre stavano cercando di sfoltire il sottobosco dei sentimenti.
Non faceva differenza, per loro — i "maestri" — se l’argomento trattato fosse l’amore, la politica da due soldi, l’amicizia o la fame nel mondo.
Loro, i "maestri", discutevano della vita attraverso lo specchio convesso delle loro personali convinzioni, a volte astruse.
Nello stesso momento, a mille miglia da quel tavolo dove non si sa decidere, Natalì stava cercando di capire dove e come si fossero formate le crepe dell’amore che stava perdendo.
Sicuramente pensava che le mancasse il coraggio di scegliere la strada migliore per lei.
Volevo solo avere più tempo per decidere? sussurrava a se stessa  mentre fuori dall’uscio, senza il minimo brusio, lenta cadeva la neve.
Luigi, in quell’angolo tondo della stanza — ero invisibile per Natalì — in quel momento osservava la sua tristezza salire fino all’orlo del bicchiere.
Non poteva far traboccare l’inesistente bicchiere.
Si alzò, mentre pronunciava parole definitive: «Sto perdendo tempo, Natalì. Me ne vado. O spacco tutto

§§§

Il racconto 
di 
Maura Hary

Natalì
ti fissavo nei tuoi occhi verde muschio.
Il sottobosco dei sentimenti si agitava dentro di me.
Volevo solo avere più tempo per trovare, una volta per tutte, il coraggio di scegliere, perché lo so che per te ormai io ero invisibile: non sarebbe bastato lo specchio convesso per mostrarti le crepe dell’amore che mi hai procurato.
Fuori cadeva la neve e noi eravamo di nuovo seduti allo stesso tavolo quando tu mi hai trafitto:
«Sto cercando un nuovo altrove
Ci risiamo, pensavo, poi subito hai aggiunto: «Lo sai cosa vorrei? Maestri di scuola e di vita senza tempo. Ecco cosa mi manca!”
“Ah! Adesso li chiami così… ora però basta: questa volta spacco tutto!”

§§§

Libera
di
Sandra Morara

Ma, dico io, nella vita, si può cambiare idea o no?
Certo che si può!
Quel giorno lì, forse che a un certo punto, tra le crepe dell’amore può nascere il verde muschio, il sottobosco dei sentimenti. Quelli buoni, ma anche quelli che ti manca l’aria, ti soffocano e a quel gioco perverso proprio non ci stai più, e allora lui: il giudizio tramortito, ma non ancora morto. E lei: la voglia di rivalsa, la voglia di darci un taglio, di ribellarsi e di vivere, seduti allo stesso tavolo, si guardano in faccia, contano i magoni e le lacrime, il colore del sangue e le sfumature dei lividi, tirano le somme e nessun dubbio 1+1 a casa mia fa sempre 2, e mica ci vogliono maestri di scuola e di vita senza tempo a tirare le somme e le conseguenze.
Natalì, vuoi che la notte ha dormito male – la pancia, i piedi, il fiato di quel torturatore seriale sulla sua pancia, sui suoi piedi, sul suo fiato – vuoi che in quel po’ che ha dormito, ha sognato un simil principe azzurro e quasi quasi ci cascava – e certo volevo solo avere più tempo per cascarci – pensa sfacciata, ma si sa, i sogni muoiono all’alba e l’alba – ahimè – si è smorzata da un pezzo e, inutile dirlo – e soprattutto come non capirlo – si è alzata con la luna storta, il piede sbagliato e pure il trillo malefico dei minuti di controllo ci ha messo del suo – sì, perché – e prega il cielo che non ti venga un attacco di colite – se ti attardi un attimo in più in bagno, lui batte sulla porta con i pugni e urla infuriato – esci o spacco tutto!
E mentre ti guardi allo specchio convesso – che il terrore ti strabuzza la vista dentro agli occhi, ti vedi sformata, piegata, decapitata, annientata – che questo certo non è amore e si è frantumato l’incantesimo.
Incredibile, ma vero, quel momento è arrivato.
Finalmente il coraggio di scegliere la cosa giusta.
E se prima ero invisibile dentro a quel buco nero che era diventata la mia vita, adesso, all’improvviso un raggio di sole, un arcobaleno.
Be’, sole… In effetti fuori cadeva la neve, e di sicuro, cercando un nuovo altrove, avrei dovuto pensarci per tempo e fare le cose come Dio comanda, e invece tutto di fretta e buonagrazia. Perché le occasioni bisogna saperle cogliere. E quando lui, come sempre pentito e lacrimoso, giura che mai più e – Cara, preparati a festeggiare. Vado a comprare un mazzo di fiori, una bottiglia di Prosecco e torno subito – e nella foga – tutti i Santi del Paradiso vi ringrazio – si è scordato di chiudermi dentro con le solite quattro mandate, non ci ho pensato due volte, ho colto la palla al balzo e sono scappata.
Praticamente in mutande eh – per non parlare delle ciabattine infradito, che m’infradicio tutta, mi becco la polmonite e passo pure per matta.
Ma sono libera. E sai quanto me ne frega!

§§§

Cambiare alla ricerca delle cose semplici
di
Linda Silvia Scarpenti
 
Volevo solo avere più tempo, continuavo a ripetermi.
Un desiderio che, in qualche modo, mi accompagnava da anni, come una nenia che non riuscivo a togliermi dalla testa.
Il tempo per cambiare, per fare meglio, per non permettere che la vita mi scivolasse addosso senza lasciare traccia.
Ma quel tempo non arriva mai; o, forse, arriva solo quando non lo cerchi più.
Eppure, in quei momenti di silenzio in cui il cuore sembrava battere più forte e l’aria si faceva densa di pensieri, sentivo che il mondo intorno a me stava cambiando. E, per quanto mi sforzassi di cambiare anch’io – cercando un nuovo altrove, un luogo in cui non essere più prigioniero dei miei rimpianti – restavo immobile, come se qualcosa mi trattenesse lì, esattamente dove non volevo più stare.
Natalì era sempre stata la luce, la persona che riusciva a farmi vedere la bellezza anche nei luoghi più oscuri. Ma, nonostante l’affetto che ci legava, qualcosa tra noi era andato perso.
Mi chiedevo spesso che cosa fosse successo, se fosse stato il tempo a consumarci, o se fossimo stati noi a non capire quanto valesse la pena di lottare.
Ricordo ancora il giorno in cui mi guardò e mi disse, con quel tono quasi distaccato che mi spezzò il cuore: «Ero invisibile… Lo sono da tempo, ormai, vero?»
Una frase che conteneva un frammento di verità, e che proprio per questo, nel sentirla, ho capito che un’intera vita insieme era davvero finita.
Invisibile. In quella parola c’era tutto. Da allora, Natalì non è mai più riuscita davvero a farsi vedere da me.
Le cose tra noi non furono mai più le stesse.
Le crepe dell’amore erano ormai diventate solchi profondi, che di lì a poco avrebbero inghiottito le nostre speranze e il nostro futuro.
Ogni volta che cercavo di ricomporre i pezzi, qualcosa mi sfuggiva di mano. Come se il nostro amore fosse fragile, un vetro sottile che ogni volta che provavo a toccarlo si frantumava. Fuori cadeva la neve, e io dentro mi sentivo sempre più distante da lei.
Seduti allo stesso tavolo, le parole che avremmo voluto dirci non arrivavano mai.
Ci guardavamo, ma i nostri occhi non si incontravano più. Era come se ci fosse una parete invisibile tra di noi, una barriera che avevamo eretto nel tempo senza quasi accorgercene. Eppure, in quei momenti di silenzio, sentivo il peso di ogni parola non detta, di ogni gesto mancato.
Non c’era più modo di tornare indietro, non senza affrontare quella verità che, riflessa dentro lo specchio convesso in cui continuavamo a guardarci, appariva distorta e irriconoscibile.
Ma non volevo arrendermi, anche se sapevo di aver bisogno di qualcosa di più grande di me per riuscire a non soffocare del tutto.
Spacco tutto, era la frase che rimbalzava chiusa negli angoli più nascosti della mia mente, mentre cercavo di trovare una via di fuga. Ma il coraggio di scegliere, di ricominciare da zero, non era facile.
Mi sembrava di essere un esploratore nel verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti, un luogo oscuro e intricato, dove ogni passo richiedeva attenzione, ma dove la bellezza delle cose semplici aveva un valore inestimabile.
Ma quando capii che la soluzione era dentro di me, allora qualcosa cambiò.
I maestri di scuola e di vita senza tempo, e spesso incontrati nei momenti più inattesi, mi avevano insegnato che le risposte non arrivano sempre quando le cerchi. A volte, è il tempo stesso a decidere quando sei pronto ad accoglierle.
E nel silenzio di quella notte, mentre la neve continuava a cadere e il vento trascinava via i miei pensieri, compresi che il vero coraggio di scegliere sta nella forza di affrontare le nostre paure, i nostri errori, e – soprattutto – nel non dimenticare mai che, alla fine, abbiamo sempre dalla nostra parte la possibilità di cambiare. Perché è tutto ciò che davvero ci resta.

§§§

A te
di
Tatiana Vanini

 
Natalì,
che bello il tuo nome. Quando ci siamo conosciute, ho pensato subito che il destino ci avesse fatte incontrare. Amo il Natale e in te ho trovato un’amica sincera, un’anima affine. Era giusto che una persona con cui sto così bene portasse nel nome il periodo dell’anno che preferisco.
Stai leggendo la mia mail, l’ho scritta per spiegarti quello che ho fatto, ma soprattutto il perché. Te lo devo.
L’anno scorso ho fatto un controllo di routine. Sai che lo faccio sempre, perché sono un po’ ipocondriaca e mi aspetto ogni volta di scoprire che ho un tumore. Sono andata a fare gli esami e quando il medico mi ha chiamata per il verdetto, già mi immaginavo mentre gli dicevo "Accidenti, sto morendo". Volevo solo avere più tempo. Invece no. Stavo benissimo, in perfetta forma e sono uscita dallo studio con i complimenti dello specialista.
Sulla strada di casa ho visto una locandina che pubblicizzava un evento letterario in una libreria: la presentazione della silloge poetica di un collettivo di autori che si definiva Maestri di scuola e di vita senza tempo. La libreria era vicina, così sono andata alla presentazione e, a fine dell’incontro, ero così ammaliata dalle parole che avevo udito da comprare il libro. Da non credere: io con un libro di poesie! Una cosa davvero bizzarra, inusuale, che mi ha resa felice. È stata la prima volta che ho pensato quanto fosse bello evadere dalla quotidianità facendo qualcosa di diverso.
Ero ormai arrivata a casa, stavo per attraversare la strada e arrivare al portone del mio palazzo, quando lo specchio convesso davanti a me, che serve per mostrare se la strada è libera a chi esce da un garage lì vicino, mi ha fatto vedere qualcosa che non avrei mai immaginato: piccolo, ma inconfondibile con il suo cappotto viola, c’era mio marito in compagnia di qualcuno. Lasciando perdere l’immagine sono corsa nella sua direzione, arrivando abbastanza vicina da vederlo baciare una sconosciuta. Il primo pensiero è stato: Adesso li raggiungo. Faccio una scenata. Spacco tutto.
Invece no, sono tornata a casa e mi sono messa a preparare la cena.
Più tardi, seduti allo stesso tavolo per un pasto che non mi dava alcun piacere, dove non c’erano parole, né empatia e il silenzio era solo vuoto senza complicità, ho capito che per lui ero invisibile.
Quando più tardi, dopo il solito intermezzo televisivo, è andato a letto, io sono rimasta alzata. Ho fissato il vuoto per un po’, poi ho preso la silloge che avevo comprato poche ore prima e ho letto alcuni componimenti. Uno mi ha colpito: Verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti. Sembrava mi parlasse, che scavasse le crepe dell’amore che si erano formate nel mio cuore davanti al bacio traditore, trasformando anni di vita insieme in frammenti acuminati che mi facevano male, tanto male.
Ho smesso di leggere e mi sono avvicinata alla finestra. Cadeva la neve. Immagini la mia sorpresa di fronte a quello spettacolo? Senza pensarci troppo ho deciso di fare qualcosa di folle: uscire, coperta solo da giacca, stivali e cappello e immergermi in quella nevicata notturna, da sola, senza bisogno di avvertire qualcuno, perché mi andava di farlo.
Appena scesa in strada sono stata colpita dal silenzio, dalla quiete e da quell’aria fresca, ma non fredda. Ho respirato a pieni polmoni e cominciato a camminare, stupendomi a ogni passo, riscoprendo la mia città che sembrava più bella man mano che il manto bianco cresceva. La neve cadeva emettendo un rumore che pareva musica, la luce dei lampioni, aranciata e avvolgente, faceva sembrare tutto magico. In quella passeggiata senza obblighi né doveri, ho trovato il coraggio di scegliere. Ho messo me stessa davanti a tutti: ai doveri, a mio marito, alla famiglia, agli amici.
Follia momentanea? No, perché nei giorni successivi ho programmato la mia fuga, cercando un nuovo altrove.
Sono partita, con una valigia leggera e dopo aver svuotato il mio conto in banca. A gennaio ho cambiato la mia vita; a dicembre ti mando questa mail.
Natalì, scusami per essere sparita, per essere stata egoista. Puoi perdonarmi? Ti lascio il mio nuovo indirizzo e un biglietto d’aereo aperto. Se vuoi raggiungimi, passiamo il Natale insieme, ritroviamoci.
Ti abbraccio forte,
la tua amica Renata, che una notte, sotto la neve, è rinata.

§§§

All'alba di agosto
di
 Maria Rita Sanna
 
Le mattine di agosto hanno una luce più sincera, non c’è più quella strana foschia del caldo torrido che confonde i colori e la mente. Ora vedo chiaro dove voglio andare: io, Natalì, ho finalmente trovato il coraggio di scegliere.
All’alba di questo nuovo giorno vado via, quando leggerai queste due righe che ti lascio sarò già lontana, cercando un nuovo altrove. È strano, sai, parlarti senza averti di fronte, dirti ciò che sento in totale libertà senza essere interrotta o addirittura accusata di volerti sopraffare.
Ricordo che le crepe dell’amore, il nostro grande amore, si sono manifestate un giorno d’inverno. Il cielo era cupo ma non cadeva la neve, no – nemmeno niente dal cielo, peraltro – ma cadevano tanti piccoli petali bianchi, candidi e lucenti come la neve: erano i fiori dei mandorli. Cadevano sull’erba verde muschio, il sottobosco dei sentimenti, così la chiamavi per quante volte ci siamo rotolati sopra insieme. E proprio quel giorno, sul verde spruzzato di bianco, mi hai detto che mai avresti voluto una vita migliore per me; perché qui avevo tutto, un giardino da curare, una casa dove abitare, un uomo da amare. Questa era la felicità che tu sognavi -  volevi - per me. Come un campanello d’allarme, è risuonata nella mia testa la domanda: ma io, che cosa voglio? Avresti dovuto domandarmelo tu, ma non l’hai fatto perché per te ero invisibile, l’ho capito solo dopo molto tempo.
Anche se siamo stati seduti allo stello tavolo condividendo tanti e tanti pasti, non riesco a capacitarmi di come le lezioni dei tuoi amati maestri di scuola e di vita senza tempo non abbiano impregnato il tuo animo d’amore per il prossimo.
Ecco, l’ho detto, l’ho scritto: sei egoista.
L’ultima crepa ha posto la parola fine sul nostro amore, adesso spacco tutto e me ne vado. Dopo tanti giorni di caldo africano è arrivato il Maestrale a indicarmi la via di fuga, controvento, contro ogni convenzione.
Mi vedo, sai, nel tuo specchio, sì lo specchio convesso in cui ti rifletti per farti la barba e ho visto la verità, la tua verità: tu al centro in dimensioni reali e io dietro rimpicciolita come una formica. La mia verità è, invece, una donna che si allontana, sempre più distante dal punto focale del tuo specchio, dal tuo maledetto Io.
Volevo solo avere più tempo per prepararmi come si deve, con calma, come si conviene alle persone civili. Ma qui non è questione di civiltà o di rispetto, no, qui è tempo di agire, partire, lasciare le abitudini; non lasciare spazio a indugi, a ripensamenti.
L’alba è già sul cielo a riflettere di rosso i vetri delle finestre; sento i tuoi rumori, mi cerchi fra le lenzuola. Basta, davvero, vado via.
È l’ora dell’amore, dell’amo me. 

§§§

La rinuncia
di
Antonella Brioschi
 
Quel giorno cadeva la neve, soffice creava un paesaggio suggestivo.
Ero felice, stavo tornando a casa da te quando ti ho vista, Natalì.
Tu, mia moglie, camminavi abbracciata a un altro uomo, ti ho vista attraverso lo specchio convesso.  Non ti sei accorta di me, eri al di sopra di tutto, stavi cercando un nuovo altrove. Da mesi ormai ero invisibile, nei tuoi occhi color verde muschio non c’era più alcun sentimento per me.
Sono rincasato nella nostra casa dove tutto mi parla di te… I nostri mobili scelti per il nostro nido d’amore; le nostre fotografie sparse ovunque testimoni della nostra felicità. Mi guardo intorno e sento le crepe dell’amore che entrano nel mio cuore ferito. Dove sei, Natalì? Ti ho persa, "perché ti sei innamorata di un altro?" vorrei urlare.
Una furia cieca mi assale, spacco tutto,  poi mi calmo. Mi siedo e decido, mentre ti aspetto, di leggere alcune poesie di un libro che abbiamo sempre amato: Maestri di scuola e di vita senza tempo.
Ti amo, Natalì, e con te volevo solo avere più tempo per farti innamorare ancora di me.
Stasera, seduti allo stesso tavolo, ho il coraggio di scegliere.
“Se ti sei innamorata di un altro, ti lascio libera di stare con lui, ti amo troppo per saperti infelice con me. Se l’altro uomo può darti quello che non vuoi più da me,  ti lascio a lui.”
Natalì guardò negli occhi suo marito e vide tristezza ma anche forza nella rinuncia.
Non lo amava più ma lo ammirava, aveva avuto il coraggio di scegliere per lei.

§§§

Che ci fai ancora qui?
di
Cesare Sordi

 

Spacco tutto! dissi, entrando nel ristorante e vidi i miei amici tutti seduti allo stesso tavolo.
Natalì, che ci fai ancora qui?
Tutta la notte avevo sofferto per le crepe dell’amore che mi stavano tormentando da diverse settimane.
Natalì, volevo solo avere più tempo per raccontarti la mia vita e i miei problemi, ma a un tratto mi sono accorto che per te ero invisibile.
Mi ricordo con tristezza quando la mia giornata aveva preso un colore nuovo, come un verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti stava mutando la mia vita e non mi dava il coraggio di scegliere.
In casa c’era ancora lo specchio convesso che mi avevi regalato insieme a tutti quei libri che sono stati per me maestri di scuola e di vita senza tempo.
Addio, Natalì.
Cercando un nuovo altrove alzai lo sguardo verso la finestra e sorpreso vidi che cadeva la neve.

§§§

La tua vita
di
Barbara Galimberti

 

Quella tua vecchia Panda verde era sul bordo della strada. La portiera aperta, le chiavi inserite nel cruscotto, il motore freddo e silenzioso. L’avevi abbandonata lì, senza il minimo riguardo. Eppure, era la nostra macchina, quella che ci avrebbe dovuto permettere di andare lontano, verso la nostra vita insieme.
Ovunque mi girassi cadeva la neve. Fiocchi candidi e immacolati sembrava volessero avvolgermi.
Dov’eri? Forse ti eri solo rannicchiata dietro qualche tronco cercando un nuovo altrove, solo per noi due, come spesso sussurravi abbracciandomi.
Ti è sempre piaciuto giocare nascondendoti e io mi divertivo a ritrovarti. Alla fine, stremati per le lunghe corse e le risate, ci riposavamo seduti allo stesso tavolo in quel piccolo bar celato tra gli alberi, a ridere dei tuoi buffi scherzi.
Anche quel giorno corsi verso il tuo amabile e devastante infinito. Passo dopo passo, sprofondai con forza in quella immensa pianura bianca. Le gambe erano sempre più pesanti, mentre cercavo con tutto me stesso di riunirmi a te. Non riuscivo a respirare, il freddo mi soffocava. Scosse ghiacciate si impadronirono del mio corpo. Vidi solo qualche traccia di verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti del nostro immenso amore, che a tratti illuminava quel silenzio latteo.
Quante volte zia Natalì e i nonni ci avevano cercati tra quegli abeti maestosi. Ci rimproveravano con severità, per il “nostro comportamento non idoneo alla società”, così urlavano nel silenzio di quel luogo magico e profondo. Maestri di scuola e di vita senza tempo. Ma noi eravamo felici.
Volevo solo avere più tempo per poterti amare, per proteggerti dal buio. Volevo avere solo più tempo…
Non mi ero accorto di nulla, eppure era tutto così evidente. Le crepe dell’amore erano lì davanti a me, ma la mia cecità era ancora più profonda. L’esistenza che pensavo di vivere era in realtà offuscata dal dolore, il tuo.
Lo specchio convesso della vita non mi aveva mostrato la verità; se solo avessi smesso di guardarlo. Ho preferito vedere solo la falsa immagine che ogni giorno avevi deciso di mostrarmi. Forse ero invisibile per il tuo cuore, troppo chiuso in sé stesso.
Solo quando ti ritrovai, distesa su quel manto bianco, come una sposa pronta alla sua nuova vita, capii con quanta forza i tuoi oscuri e misteriosi pensieri avevano preso il posto dell’amore.
Il tuo esile braccio ormai ghiacciato era distante da te, come per allontanarsi da quel feroce dolore.
Tra le dita socchiuse qualche pillola coperta di neve.
Il coraggio di scegliere, mi stavi sussurrando per l’ultima volta.
Goccioline si erano posate sulle ciglia dei tuoi occhi semichiusi, ormai spenti.
Un biglietto: vivi la tua vita, ti amo.
Il bosco che amavamo aveva assunto una forma senza confini.
Spacco tutto, pensai. Nulla deve esistere senza di te.
Fredde lacrime solcarono il mio viso, mentre ripresi il cammino verso una nuova esistenza.

§§§

Senza titolo
di
Tiziana Mazza


Cadeva la neve da ormai tre giorni, il paesaggio era da cartolina. La neve era intonsa e talmente soffice da sembrare panna montata, sarebbe stato fantastico se solo Alina non avesse finito la legna tagliata da mettere nel camino.
Era isolata.
Sola in un paesaggio da fiaba, come in una di quelle che la nonna soleva raccontarle nelle fredde serate d'inverno, quando tutti in famiglia si radunavano per la cena, seduti allo stesso tavolo, a condividere cibo e racconti avventurosi, inventati e non, ma sempre affascinanti. Ricordi che bruciavano come la legna che avrebbe voluto ardere per scaldarsi. Le mani chiuse a pugno nel tentativo di far giungere un po' di sangue alla punta delle dita, ormai insensibili come il suo cuore indurito dalle mille ferite che la vita da adulta le aveva inferto. Le crepe dell'amore, le chiamava, dell'amore mancato a causa di Natalì, la sua migliore amica... La sua ex migliore amica.
Alina si guardò dentro lo specchio convesso sulla mensola davanti a lei. Ero invisibile, pensò con amarezza,  invisibile agli occhi di Alessandro che stravedeva per la sua amica, invisibile agli occhi di Natalì, a cui importava di lei solo quando le passava i compiti. I dolori giovanili erano stati per Alina maestri di scuola e di vita senza tempo, l’avevano fortificata trasformandola in un’altra persona: risolta, sicura di sé, autonoma. Cercando un nuovo altrove, aveva trovato il coraggio di scegliere nuovi amici, nuove aspirazioni, una nuova vita. Aveva smesso di vestire di nero, così lugubre come i pensieri che l’avevano accompagnata negli anni dell’adolescenza, ora il suo colore preferito era il verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti  che provava per Marcello aveva infatti il colore della speranza, come la speranza che nutriva in quel momento che lui le venisse in aiuto.
In risposta alla sua muta richiesta, sentì bussare alla porta. La aprì. Sulla soglia si stagliava la figura imbacuccata del suo innamorato con una grossa accetta in mano.
«Non c’è più legna» mormorò Alina, mostrandogli la legnaia vuota.»
Lo sguardo di Marcello corse ai grossi alberi all’esterno, che sembrava aspettassero solo di essere tagliati. 
«Non ti preoccupare, Alina, ci penso io.»
«Ma come farai?»
Marcello sorrise, alzò l’accetta e disse: «Semplice, spacco tutto

§§§

Un inverno buio
di
Marta Martello
 
 
Quante volte avevo pensato spacco tutto, ma poi il buonsenso mi impediva di fare gesti di cui mi sarei pentita.
Natalì mi osservava con i suoi occhi ingenui e curiosi.
Ne aveva viste tante in quei mesi, dove le crepe dell’amore avevano minato la mia relazione con suo padre. Nel silenzio che seguiva ogni discussione mi sentivo smarrita: immaginavo intorno a me il verde muschio, il sottobosco dei sentimenti che mi faceva rivedere tutta la nostra storia con occhi nuovi, consapevoli.
Seduti allo stesso tavolo cenavamo come fanno gli estranei, ognuno con lo sguardo sul proprio piatto. Peggio ancora: lui leggeva notifiche e messaggi sul cellulare. Cercavo di intavolare una chiacchierata, ma mi rendevo contro sempre di più che per lui io ero invisibile.
Come lo specchio convesso la mia vita mi appariva distorta.
Ogni sogno, ogni desiderio condiviso con il padre di mia figlia stava naufragando. Nemmeno il manuale di Maestri di scuola e di vita senza tempo, acquistato in libreria pochi mesi prima, sarebbe stato in grado di darmi consigli utili a sanare una situazione ormai alla deriva.
Il nostro tempo si stava esaurendo, ormai il suo interesse era fuori da noi. Un’altra donna lo stava aspettando.
Volevo solo avere più tempo per trovare il coraggio di scegliere.
Invece, era stato lui a decidere. Cadeva la neve il giorno in cui mi aveva lasciata.
La rinascita era iniziata cercando un altro altrove, poi avevo scoperto che il mio altrove si trovava a pochi passi da me: mia figlia che osservava, preoccupata, il mio viso rigato da una lacrima sfuggita al controllo.

§§§

Un uomo diverso
di
Elisabetta Motta
 

Volevo solo avere più tempo, Natalì. Sì, solo più tempo per ritrovare me stesso. E ci sono riuscito. Come? Cercando un nuovo altrove. Lo so, non è stato facile, anche perché ero invisibile. Mi sentivo davvero trasparente agli occhi altrui e tutto per colpa di un amore sbagliato. E me ne rendo conto soltanto adesso, sai? Ma l’importante è averlo capito. Si dice: meglio tardi che mai, no? Il mio cuore era ferito; sono queste le crepe dell’amore. E le mie erano profonde. Ma adesso sono guarito. L’ho imparato a mie spese, soffrendo… certo, ma almeno l’ho imparato. Mia nonna me lo diceva sempre: l’amore rende ciechi. Ah, i nonni! Maestri di scuola e di vita senza tempo. È l’esperienza del vissuto a renderli così. Io invece guardavo la realtà attraverso lo specchio convesso dei miei stessi occhi e mi risultava tutto distorto. Non me ne rendevo conto, però. Poi, a un tratto, ho capito. Ed è stato difficile prendere la decisione; a volte bisogna avere il coraggio di scegliere.
E adesso passeggiando nel bosco con te, il mio cuore è ormai guarito; e qui, circondato dalla natura, assaporo finalmente la pace della mia anima e in questo paesaggio verde muschio, analizzo il sottobosco dei sentimenti. Mi sento felice come quando da bambino cadeva la neve e noi tutti in famiglia, seduti allo stesso tavolo, condividevamo un pasto e la gioia di stare insieme.
Vorrei tornare a quei tempi. Lo so, non si può. Ma sono consapevole di essere una persona diversa, sono cambiato dopo questo amore sbagliato. E adesso, quando mi assale il ricordo, non soffro più; anzi sono così arrabbiato che spesso mi dico: spacco tutto! Ho distrutto in questo modo le mie pene del cuore.  

§§§

Inseguendo un sogno
di 
Graziella Braghiroli

 

«Devo andarmene, altrimenti spacco tutto!» 
Marta si ripeteva questa frase come un mantra mentre chiudeva piano la porta di casa. Aveva infilato nello zaino qualche vestito, un album da disegno pieno di schizzi e un biglietto per Parigi comprato di nascosto due settimane prima.
Suo fratello Andrea studiava lì, architettura. I suoi genitori era molto fieri di lui, mentre quando lei aveva detto che voleva studiare arte, dipingere e vivere tra tele e colori, le avevano detto di svegliarsi e di trovare un lavoro vero.
Così se ne era andata cercando un nuovo altrove.
«Ero invisibile per loro che si credono maestri di scuola e di vita senza tempo, ma si dovranno ricredere.»
Arrivò a Parigi  che albeggiava. Le erano rimasti ancora pochi euro e si fece portare a casa di suo fratello, al Quartiere Latino. Andrea la accolse sbalordito ma non la criticò. Le disse solo: «Convincerò mamma e papà a lasciarti qui, ma devi fare sul serio, Marta. Devi avere il coraggio di scegliere
I primi giorni furono un vortice di parole incomprensibili, odore di metropolitana e panini sbocconcellati sulle panchine dei giardini pubblici.
Dormiva su un materassino gonfiabile accanto alla scrivania di suo fratello e passava le giornate a visitare musei, a cercare annunci di corsi gratuiti o ateliers aperti e a disegnare ritratti nei bistrots.
Fu in uno di questi che conobbe Natalì, una donna sui cinquant’anni dai lunghi capelli color rame,  che l’aveva notata mentre disegnava su un tovagliolino di carta.
«Non male» le aveva detto sedendosi di fronte a lei senza chiedere il permesso. «Se vuoi imparare qualcosa, ti aspetto al mio studio, domani. 78, Rue des Écoles, terzo piano.»
L’atelier di Natalì era un caos magnifico. Tele ovunque, cavalletti, odore di trementina e sulla parete in fondo lo specchio convesso che inglobava tutta la stanza. C’erano altri giovani come Marta, seduti alla stesso tavolo, pronti ad accoglierla.
«Natalì non ti insegna solo a dipingere, ti costringe a guardarti dentro» le dissero. «Se vuoi fare arte, dice, devi essere onesta con te stessa.»
All’inizio, Marta pensava che fosse tutta una posa, ma poi cominciò a capire e quando una sua tela venne criticata davanti a tutti, non si sentì  umiliata e invece di dire volevo solo avere più tempo, accettò la critica e si sentì viva. Qualcuno la prendeva finalmente sul serio.
Un giorno, Natalì la portò con sé a un’esposizione collettiva in un centro culturale di periferia.
«Tu non esponi ancora» le disse «ma impara a guardare. Vedi questa tela? Verde muschio, il sottobosco dei sentimenti.» aggiunse sfiorando il dipinto.
Marta vide un quadro enorme, senza cornice, pieno di colori, potente. Sentì come se qualcosa la colpisse allo stomaco.
Quella notte dipinse fino all’alba. Mise sulla tela il volto di sua madre che non la capiva, gli occhi severi di suo padre, la paura di non farcela e la speranza di riuscire.
Il giorno dopo la portò a Natali.
«Guarda» le disse « lo chiamerò le crepe dell’amore
Natalì non disse una parola per cinque minuti. Poi si tolse gli occhiali e la guardò.
«Finalmente» sussurrò.
Marta non divenne famosa ma, un mese dopo, partecipò alla sua prima collettiva. Due persone si fermarono a lungo davanti al suo quadro e un’altra le disse che l’aveva fatta piangere.
Quando uscì dalla mostra, cadeva la neve. Parigi era ancora la stessa: caotica e indifferente, ma Marta camminava con un altro passo. Non sapeva ancora dove sarebbe arrivata ma per la prima volta, non aveva più voglia di tornare indietro.

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 Natalì e Giacomo, di nuovo insieme
di
Carmine Scavello
 
 
Natalì e Giacomo si erano conosciuti sui banchi di scuola e da allora avevano deciso di vivere una vita insieme, promettendosi eterno amore. 
Il destino, però, voltò loro le spalle, ma Cupido, che ricuce i vecchi legami amorosi interrotti, compì il miracolo di riannodare i fili e di far squillare di nuovo quei due telefonini rimasti muti per così lungo tempo. 
Ci fu un invito reciproco, contemporaneo, inaspettato, e inconsciamente tanto desiderato, in quanto lo stupido orgoglio bloccava ogni tentativo di rompere il ghiaccio.
Alla fine, tutto è bene ciò che finisce bene. I due giovani, nel frattempo, non avevano cercato altri legami sentimentali. Era scritto nel cielo che il loro amore non potesse dissolversi come una bolla di sapone.
 
In seguito all’incontro organizzato da Cupido, i due giovani innamorati si erano trovati seduti allo stesso tavolo del bar del parco pubblico di cinque anni prima – data del loro ultimo incontro – per ricucire le crepe dell’amore che li aveva visti protagonisti di un bel rapporto amoroso. Invece, purtroppo si erano lasciati con l’amaro in bocca, cercando un altro altrove, dove ricominciare da zero un’altra storia d’amore.
Giacomo si stava giustificando dicendo: «Mi dispiace per quel che è accaduto; volevo solo avere più tempo, cosicché mi sono allontanato da te e, quindi, per un po’ di tempo ero invisibile. Persino lo specchio convesso si rifiutava di riflettere la mia immagine per protesta nei miei confronti.»
Natalì, dopo l’ultimo incontro al bar di cinque anni prima, si era detta: «Non mi interessa più nulla di Giacomo, spacco tutto ciò che mi lega a lui.» 
Sera dopo sera si riconciliò con sé stessa; cadde in un sonno profondo e sognò che cadeva la neve, ma prima aveva fatto il presepe con il verde muschio, che ricordava il sottobosco dei sentimenti. Mentre sognava, era Natale e leggeva a tavola la letterina che scrisse al papà; gliela consigliarono Vincenzo e Giovanni, i suoi maestri di scuola e di vita senza tempo.
Al risveglio di quel sogno fantastico, si rese conto che era arrivato il coraggio di scegliere
Quindi, quando Cupido bussò alla sua porta, accettò l’invito di riappacificarsi con Giacomo. 
Ora erano lì felici di stare insieme seduti a quello stesso tavolo, come se il tempo non fosse scorso inutilmente.

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Il primo passo
di
Emanuela Carmelita Tomiato

Eccola, Natalì.
Saliva sulla bilancia, leggeva le cifre e ogni giorno il numero aumentava di qualche etto. Si illudeva di fare la brava ma il risultato di quel piccolo numero in crescita le dava strane emozioni. A volte pensava: adesso spacco tutto, oggi dieta stretta; ma il più delle volte si sentiva disarmata e in fondo abbattuta.
Anche lo specchio convesso, piantato sul marciapiede proprio di fronte a casa sua, le restituiva un’immagine allargata di sé stessa, una balena, enorme e grassa. Proprio come si sentiva.
Senza meta, a volte vagava per la strada cercando un nuovo altrove, un posto libero dove stare senza occhi giudicanti e senza bilancia.
Cercava chi la potesse aiutare in questa impresa di dimagrimento, le servivano dei maestri di scuola e di vita senza tempo, capaci di andare a smuovere quel tasto sopito e nascosto nel suo cervello; quello che, attivandosi purtroppo al contrario, le diceva sempre di mangiare, di assaggiare, di ingozzarsi. E, invece di avere il coraggio di scegliere cosa fosse più giusto per lei stessa, si ritrovava con gli amici, paffutelli pure loro, tutti seduti allo stesso tavolo, in ogni stagione dell’anno.
E se anche fuori cadeva la neve, il motivo mangereccio c’era sempre: lei partecipava spesso a pizzate o faceva abbuffate estive nei prati verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti e delle emozioni che germogliavano con la pancia piena davano, il giorno dopo, una carrettata di rimorsi e di lacrime di coccodrillo. Inconsolabili.
Ero invisibile, pensava. La gente non si preoccupava per lei, anzi, la criticava per la sua stazza.
Volevo solo avere più tempo, si riprometteva ogni sera. Aveva giusto il tempo per decidere della sua vita. Voleva cambiare in modo completo e totale.
Aveva bisogno di attenzioni e cure, quelle che trasparivano da tutte le crepe dell’amore, batoste che l’avevano segnata e ridotta così.
Dentro, giù nell’anima aveva scoperto che c’era la forza utile alla sua rinascita.
E, a casa, aveva chiuso la porta del frigorifero, cominciando da un gesto semplice per un percorso in salita, dove lei già aveva fatto il primo passo.

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Il cinquantesimo compleanno
di 
Camilla Terso

Voleva solo più tempo per capire cosa le stesse succedendo. Per Natalì era arrivato il momento più particolare per una donna: era il giorno del suo cinquantesimo compleanno e avere mezzo secolo la spaventava. Sapeva che gli anni che stavano arrivando erano quelli del tramonto, ma anche quelli della saggezza, quelli in cui non si va per forza cercando un nuovo altrove. Anzi, trovava rassicurante la quotidianità della giornata: un buon piatto di pasta, un bel film, magari sul divano con una copertina di pile. Cose semplici, ma che la facevano stare bene.
Cinquant'anni, una tappa con cui doveva fare i conti: con i dolori in tutto il corpo, la stanchezza e la lentezza nel fare le cose. La menopausa e tutto ciò che comportava. Faceva a botte con i continui sbalzi d'umore e la rabbia, la stessa che le faceva dire, dentro di sé spacco tutto. Odiava essere così rabbiosa, non si riconosceva più.
Quel giorno di dicembre, precisamente la vigilia di Natale, Natalì si svegliò in un silenzio surreale e capì che cadeva la neve e la città sembrava non volersi svegliare. Il motivo principale per cui aveva sempre odiato il giorno del suo compleanno era perché faceva sempre molto freddo e nessuno aveva voglia di festeggiare; inoltre erano tutti impegnati nella ricerca degli ultimi regali. Infatti, non aveva organizzato nulla. Avrebbe voluto nascere, come suo fratello più grande, in piena estate, ma anche in quel caso il periodo non è del tutto favorevole per festeggiare un compleanno perché la gente è sempre tutta al mare.
Quel 24 dicembre, Natalì, prima di farsi sommergere dagli auguri, spense il cellulare perché voleva ripercorrere le tappe dei suoi cinquant'anni. Ne approfittò per abbandonarsi in una nuvola fatta dal fumo delle sue sigarette. La sua finta solitudine, quella mattina, le faceva comodo, nel senso che poteva oziare nel letto per tutto il tempo. Non si era mai sposata perché non ne aveva mai sentito la necessità. Negli anni si era conquistata la libertà a caro prezzo e non voleva condividerla con nessuno e tantomeno con un uomo. Era arrivata a questa conclusione dopo tutte le crepe dell'amore che il suo cuore aveva accumulato nel tempo.
Natalì era una donna a cui la vita non aveva fatto sconti, ma aveva sempre avuto il coraggio di scegliere anche andando contro tutti e tutto, facendo scelte controcorrente, come trasferirsi in una città nuova e grande come Roma. Aveva scelto di vivere della sua arte, esibendosi per strada. Quando le capitava di fare un viaggio interiore, come quella mattina, seduta accanto al presepe mentre si inebriava del profumo del verde muschio, si ritrovò nel sottobosco dei sentimenti. I suoi. Ripensò alle varie fasi della sua vita e, senza accorgersene, iniziò uno strano dialogo con le varie Natalì. Come in uno specchio convesso, rivide la sua vita da tutte le angolazioni. Le immaginava tutte sedute allo stesso tavolo.
Iniziò a chiacchierare con la piccola Natalì.
«Tu sei stata la più fortunata tra noi» le disse.
«Perché?» chiese con aria ingenua.
«Perché sei quella che ha vissuto i tempi migliori. Invece colei che ha sofferto più di tutte noi è la Natalì adolescenziale» disse guardandole tutte.
La ragazzina che ancora c'era in lei si sentì interpellata.
«Ha ragione. Io ero invisibile al mondo. Nessuno, per anni, mi ha mai preso sul serio.»
«Poi, però, abbiamo recuperato, siamo stimate da tutte. Abbiamo avuto dei bei giorni, abbiamo avuto la fortuna di provare delle emozioni forti. Ci siamo laureate, abbiamo vissuto una bellissima storia d'amore e soprattutto abbiamo avuto maestri di scuola e di vita senza tempo» ribatté la Natalì adulta.
Poi scoppiò a ridere tra sé quando uno squillo del telefono di casa la distolse dal suo dialogo interiore. Era la sua migliore amica che con una scusa la portò a pranzo fuori, dove l'aspettavano tutte le persone che le volevano bene, e capì che era il risultato di cinquant'anni spesi bene.

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 Tracce di vita perduta 
di
Laura Scartabelli

Natalì.
Per me è sempre stato un nome assurdo. Natalie – alla francese – sarebbe andato già meglio. Invece io ero Natalì con la i accentata perché secondo i miei genitori, così scritto ricordava meglio la nascita di Gesù. Fin qui tutto poteva anche avere un senso. L’assurdità derivava invece dal fatto che i miei erano atei e, pertanto, non c’era alcun effettivo intento di omaggiare  nostro Signore. Lo scopo era, quindi, solo quello che con il tempo ha definito la loro vita: stupire con gesti plateali senza mai avere, in realtà, il coraggio di scegliere e soprattutto capire a che cosa dare davvero importanza.
Quando ero piccola c’era armonia fra di loro. Pian piano, però, è come sparita nel nulla. E la ribellione dentro di me cresceva in maniera esponenziale tantoché la frase che, sempre più spesso, attraversava i miei pensieri era: ora spacco tutto.
Le loro anime erano simili ma avrebbero avuto bisogno di specchiarsi l’una nell’altra. Per tanto tempo ho sperato che lo specchio convesso che la mamma aveva comprato da quell’antiquario di nicchia, prima o poi riflettesse ciò che avevano dentro in modo da far capire loro che dovevano accogliersi e non respingersi. Io li osservavo mentre, ogni sera, seppur vicini e seduti allo stesso tavolo accumulavano distanze sempre maggiori.
Ero arrivata al limite e non riuscivo più a sopportare quell’atteggiamento che aveva la presunzione di poter ingannare la vita così, con leggerezza. O, forse, non era neanche leggerezza ma solo il travestimento delle crepe dell’amore, ormai insediate nei loro cuori.
Avevo da poco compiuto diciotto anni, per cui gli scontri con i miei genitori erano quasi diventati una costante.
Volevo solo avere più tempo e, soprattutto, volevo farlo con calma, delicatezza e raziocinio, ma quel giorno i miei nervi cedettero in maniera irrimediabile e ciò che avevo dentro uscì senza modulazione e con lo stesso fragore di un ordigno.
«Natalì, si può sapere perché hai sempre quell’aria insofferente?» disse mio padre senza staccare gli occhi dal cellulare.
«Giusto, stavo per dirlo io» fece eco mia madre, anche lei senza distogliere lo sguardo dall’apparecchio telefonico.
Non ci vidi più. Da tempo immemore ero invisibile ai loro sguardi, occupati solo ad accrescere la levità della loro vita e, nonostante ciò, avevano pure il coraggio di avanzare critiche nei miei confronti. Fu come gettare benzina sul fuoco.
«Volete davvero sapere il perché della mia insofferenza? Bene. Vi accontento subito. È da tempo che ci penso e mi sarebbe piaciuto farlo con meno veemenza. Però nella vita non tutto accade nei tempi e con le modalità che vogliamo.»
Entrambi alzarono gli occhi di scatto.
«Perché, papà, hai regalato quel mazzo enorme di rose alla mamma per il suo compleanno?»
«Che razza di domanda è? Non capisco. Perché, appunto, era il suo compleanno.»
«Certo. Festa comandata, rosa assicurata, eh?»
«Natalì, la tua strafottenza mi sta alterando. 
Stai sproloquiando senza una ragione.»
«Ne avrei centinaia e centinaia di ragioni. Ma non ti accorgi, anzi, non vi accorgete che vi atteggiate a maestri di scuola e di vita senza tempo mentre è proprio la vostra di vita che avrebbe bisogno di insegnanti?»
«Spiegami meglio. In questo mondo moderno sono i figli a dare un indirizzo alla vita dei genitori? Perché magari sono rimasto indietro.»
Papà era addirittura sarcastico mentre la mamma, silente, aveva abbassato gli occhi come chi sa di non essere più tanto al sicuro.
«Non sei rimasto indietro, papà. E che con i tuoi gesti plateali, forse e dico forse, puoi imbrogliare la mamma, non me.»
«Basta Natalì, esigo delle scuse.»
«Le scuse dovresti farle a te stesso visto che vai cercando un nuovo altrove da non so più quanto tempo e, da mesi, direi che tu lo abbia pure trovato, eppure continui a far credere al mondo di essere innamorato della mamma.»
Papà tacque. Ma io non avevo ancora finito.
«E tu, mamma? Non hai niente da dire? Ti va bene così? Vi sopportate da anni e la cosa più brutta è che avevate due anime simili. Un sacrilegio, aver sprecato tutto così. L’anima unisce i cuori e li porta nel futuro del mondo, dove chiunque possa ritrovarli. Con questo potenziale, anche se diversi nel carattere e nei modi di pensare, avreste potuto arrivare ovunque. Invece la vostra corsa è finita qui. Vi è chiaro adesso il motivo della mia insofferenza?»
Mamma, sempre in silenzio, iniziò a piangere. Le lacrime scendevano con la stessa velocità della vita che, ormai, aveva iniziato a far perdere le sue tracce.
Guardai fuori dalla finestra. Cadeva la neve che, di lì a poco, avrebbe coperto il muschio del bosco circostante e non solo. Avrebbe sotterrato per sempre il loro verde muschio, il sottobosco dei sentimenti.

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Frammenti
di
Cristina Bellavita
 

Cadeva la neve, fitta e abbondante, ammantando di bianco il piccolo giardino rettangolare della sua abitazione.
Natalì pensò all’esagonale struttura cristallina dei fiocchi; maestri di scuola e di vita senza tempo, le parvero testimoni silenziosi dell’eterno susseguirsi dei cicli naturali delle stagioni.
Seduti allo stesso tavolo, lei e Bruno constatarono che le crepe dell’amore erano divenute profondi crepacci, squarciando in modo irreversibile il tessuto del loro cuore, non più di un colore rosso vivo ma verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti era stato divorato da un mostro che possedeva una fame insaziabile.
La Depressione.
Immersi in un silenzio opprimente, fecero piazza pulita dello spezzatino di vitello in men che non si dica, senza percepirne l’aroma né il gusto.
All’improvviso, Bruno esclamò: «Ero invisibile, talmente invisibile che un giorno mi sono sorpreso a pensare: spacco tutto, così sarà costretta a vedermi, a prendere atto che esisto. Non ho mai avuto il coraggio di farlo, ma l’ho desiderato più volte.»
A Natalì, azzannata da un feroce senso di colpa nei suoi confronti, quelle parole parvero aguzze come pietre. Appoggiò la forchetta sul bordo del piatto e lo fissò attentamente, notando il solco profondo della ruga verticale fra le sopracciglia, le occhiaie violacee e le grinze sottili all’angolo delle palpebre.
Un guizzo di incredulità dilatò le pupille di Bruno, abituato da tempo ad essere soltanto sfiorato dal suo sguardo, come se avesse perso consistenza.
Natalì spasimava dal bisogno di sentire qualsiasi cosa che non fosse quel vuoto che la stritolava e scandagliò i ricordi nella speranza di rivivere per un istante l’ebbrezza dei loro baci appassionati, il desiderio sprigionato dal tocco delle sue mani e la voce dolce come il miele quando le sussurrava: «Ti amo così tanto!»
Fu l’ennesima sconfitta, nemmeno un’emozione accompagnò quei ricordi.
Natalì viveva nel buio di una perenne eclissi.
Mentre sminuzzava l’ultimo boccone di pane pensando ai mesi infiniti in cui si era annidata nel suo bozzolo di dolore, esclamò: «Volevo solo avere più tempo
Bruno rimase sconvolto.
Erano stati tre anni d’inferno, nei quali aveva assistito al lento ma inesorabile sgretolarsi della solida roccia sulla quale poggiava il loro amore, teso la corda della propria pazienza fino a spezzarla, masticando sensi di colpa, rabbia e sofferenza fino a quando, per non soccombere, aveva alzato bandiera bianca.
Era diventato l’ombra di se stesso.
Natalì lo sapeva e proprio per questo non riusciva a guardarlo. Aggiunse, trattenendo un singhiozzo: «Trovare il coraggio di scegliere, cercando un nuovo altrove, mi ha lacerato. Mi sono persa, sfinita e prigioniera di un buio che ha spezzato ogni mia volontà.»
Bruno avrebbe voluto prenderle la mano, in un istintivo gesto di conforto, per dirle: «Respira…»
Il timore che lei si ritraesse lo aveva bloccato; aveva perduto la capacità di capire quale fosse la cosa migliore da fare, in certi momenti. Con tono accorato, esclamò: «Mi sono sentito così inutile e impotente per non essere riuscito ad aiutarti!»
Lei sussurrò, mentre le dita torturavano la pellicina attorno alle unghie: «Lo so… Mi dispiace.»
Si alzarono da tavola, entrambi sconfitti. Bruno indossò giaccone e cappello e si diresse alla porta di ingresso, osservando per l’ultima volta quella casa che stava per lasciare definitivamente.
Prima di chiudere l’uscio, Natalì pronunciò un’ultima parola: «Grazie.»
Restò poi con le spalle appoggiate alla porta per diversi minuti, svuotata. Chiuse gli occhi.
Nella sua mente, all’improvviso, frammenti di immagini nitidissime si incastrarono formando un mosaico, catapultandola in una sorta di visione onirica.
Era in un luogo imprecisato, al volante della sua auto, e osservava lo specchio convesso del retrovisore esterno nel quale era riflessa di spalle la figura imponente di Bruno che si allontanava da lei, rimpicciolendo fino a scomparire.
Al di là del parabrezza, davanti a sé, una vasta distesa di campi innevati era tagliata in due da una strada lunga e dritta, dalla superficie scivolosa e ghiacciata.
Senza pensare al rischio di sbandare e restare impantanata nella neve fresca, premette l’acceleratore e l’auto si mise in moto per imboccare quella via di cui non conosceva il punto di arrivo, né le importava saperlo.
Tornò alla realtà di colpo, con il cuore in gola e la sensazione fisica di un frullare di ali nello stomaco.
Senza esitazione, si diresse verso il portico, aprì la porta finestra e uscì fuori. L’aria frizzante le pizzicò il viso, l’inconfondibile profumo di pulito della neve solleticò le sue narici.
Udì un mormorio e si mise in ascolto: «Respira…»
La parola che Bruno non aveva osato pronunciare giunse a lei, trasportata dai soffici cristalli di neve.
«Respira…»
Natalì inclinò la testa offrendo il viso al cielo, inspirò profondamente e poi espirò.
Lo fece molte volte, non più meccanicamente ma con una consapevolezza nuova.
Forse era poca cosa, ma sentì che per il momento poteva bastare. 

§§§ 

Il tempo che non basta 
di
Daniela Brivio


Quella mattina Natalì realizzò che la sua vita era fatta di squilibri. Troppo tempo passato tra pannolini e capricci, troppo poco tra parole vere e sguardi adulti.
Questa presa di coscienza l’aveva fatta indugiare più a lungo del solito davanti allo specchio del bagno quella mattina. E mentre si sistemava i capelli in una treccia morbida, cercando di recuperare un aspetto meno disperato e vagamente femminile, aveva incominciato ad analizzare freddamente qual era la parte di lei che non c’era più e che non sarebbe ritornata molto presto.
Le domeniche pigre, per esempio: da quando c’erano i bambini - quattro, uno in fila all’altro - non solo non erano più pigre, ma non erano più neanche domeniche. Anche la scelta dell’orario in cui andare a dormire, o di svegliarsi, era di qualcun’altro. Per non parlare delle serate spensierate trascorse davanti alla tv abbracciata ad Edoardo. Utopia pura.
Passando un velo di crema sul viso si domandava se i suoi figli un giorno si sarebbero resi conto dell’annullamento fisico ed emotivo cui era sottoposta. Pochi giorni prima lo aveva chiesto a Edoardo, il quale con tenerezza e comprensione le aveva risposto: «Abbiamo avuto il coraggio di scegliere una famiglia numerosa, Natalì, quella che sognavamo a vent’anni nelle lente passeggiate al parco. Te lo ricordi, vero?»
Certo che se lo ricordava. Avevano trascorso interi pomeriggi a sognare e progettare la loro vita. Voli pindarici infiniti.
Ciò nonostante, aveva accolto con sopraffazione e un pizzico di angoscia la notizia di una nuova gravidanza. Non che non lo volesse quel figlio. Solo che ultimamente si sentiva come bloccata su un ottovolante, una giostra da cui non poteva scendere. E si era ritrovata a confessare: «Volevo solo avere più tempo, Edo. Pensare che tra qualche mese sarò di nuovo grossa come una balena e farò fatica a fare tutto mi manda ai matti.»
«Natalì? Ci sei?» aveva chiesto Edoardo dal salotto alle prese con Luca, i cui flebili vagiti le dicevano che a momenti sarebbero diventati urla strazianti di fame.
«Ora arrivo.» 
Ma non si era mossa da lì. Cominciava a pensare che quella giornata non sarebbe andata esattamente come l’aveva pianificata la sera prima. Lavatrici, pappe, compiti, liste della spesa e bla bla bla.
Ignorando completamente la richiesta di Edoardo, aveva preso il suo beauty-case e aveva incominciato a truccarsi. Un po’ di correttore sotto gli occhi le aveva regalato uno sguardo meno stanco in pochi secondi. Almeno ora riusciva a guardarsi.
Il pianto disperato di Luca - che singhiozzava sconsolato reclamando giustamente la sua fetta di amore e latte materno - stava mandando in crisi Edoardo. Era bravo in molte cose, ma non a gestire i pianti. Semplicemente andava nel panico. 
«Natalì, esci da quel bagno o spacco tutto
Era riuscita a irritarlo. Lo faceva spesso ultimamente, quasi a volerlo punire perché certe cose poteva farle lei soltanto e l’allattamento era una di quelle.
Si era annotata mentalmente il messaggio di scuse da scrivere su un post- it, una manciata di parole leggere da affidare a quello che era diventato il loro piccolo altare: lo specchio convesso di Ikea acquistato anni prima. Inutile per riflettersi davvero, certo – deformava ogni immagine, come fanno i sensi di colpa – ma era presto diventato ricettore delle loro debolezze e fragilità.
Aveva abbassato la maniglia della porta con la stessa rassegnazione che provava chiudendo un libro sapendo che il finale non sarebbe cambiato. Le era bastato guardare Edoardo negli occhi per comprendere che non era sola su quella barca, non lo era mai stata.
A volte litigavano. Negli anni le crepe dell’amore avevano incominciato a vedersi sull’intonaco bianco della loro relazione, ma non erano segni di fine. Erano più come nel Kintsugi giapponese, crepe che diventano parte della bellezza.
Del resto, non aveva mai immaginato la sua vita altri che con lui. Sin da quel lontanissimo giorno di gennaio in quel rifugio: cadeva la neve ed erano seduti allo stesso tavolo. Lui si era scusato per averla urtata sui campi da sci. L’aveva guardata negli occhi e aveva mantenuto lo sguardo dolcemente. Fino a ieri ero invisibile, aveva pensato Natalì, ora improvvisamente ho un contorno. Forse esisto.
Aveva preso Luca tra le braccia e gli aveva offerto il seno: gli occhietti chiusi e l’appagamento evidente le avevano gonfiato il cuore di amore materno color verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti cresce dove nessuno guarda, silenzioso e tenace, capace di custodire ogni fragile germoglio di vita.
Pochi minuti dopo Natalì aveva capito cosa fare quel giorno: avrebbe rallentato.
Avrebbe insegnato ai piccoli che quando ci si sente sopraffatti occorre dare ascolto al proprio corpo. Così si era alzata, aveva esplorato la sua libreria. I libri erano da sempre i suoi maestri di scuola e di vita senza tempo. Avrebbe letto, cercando un nuovo altrove

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Mia sorella è nata lì
di
Laura Beretta


Natalì, nata a Pasqua, non a Natale, deve il suo nome  alla sorpresa che il fratello trovò nell'uovo di Pasqua mentre lei veniva al mondo, ovvero un libro rappresentante una ballerina alla sbarra,  intitolato : “Mia sorella è nata lì”.
Come ogni compleanno, il 17 aprile, era tradizione per Natalì andare nella cioccolateria in cui era stato comperato il famoso uovo e anche quell'anno fece lo stesso.
Mentre attendeva che le portassero la cioccolata pensava a quanto avesse trasformato la sua vita negli ultimi dodici mesi.
Tutto iniziò con un deciso spacco tutto in maggio, a Verona. Si era regalata quel viaggio per assistere a dei concerti in Arena.
«Ero invisibile e  mi andava bene, ma a un certo punto non più!» 
Fu questa la motivazione che la spinse a lasciare un lavoro sicuro, che le piaceva, ma non era il suo, spiegò alla sua amica mentre camminavano lungo il Naviglio un pomeriggio di giugno.
Luglio fu il mese dedicato a immaginare... Cercando un nuovo altrove.
Un mattino di agosto, mentre faceva la chignon prima della  lezione di danza, lo specchio convesso in camera da letto le fece cadere lo sguardo sul  libro “Mia sorella è nata Lì”, poggiato da sempre come una reliquia sul comodino, che quel giorno sembrava domandarle: Cosa hai sempre voluto fare?
A settembre la commissione della scuola per diventare insegnanti di danza classica si convinse ad ammettere Natalì, anche se non  aveva i requisiti standard e ormai fuori età, riconoscendo la passione che l'aveva spinta verso quella direzione.
Per anni “volevo solo avere più tempo” era stato un mantra che si ripeteva per alleviare il dispiacere di non aver inseguito la strada verso cui sentiva essere chiamata, ma fu mentre compilava l'iscrizione alla scuola che comprese come la chiave fosse stata qualche mese prima: credere nella possibilità di una nuova vita.
Il primo ottobre iniziarono i corsi. Le spuntò un sorriso ripensando agli incubi che viveva  tutti i primi giorni di scuola, complici i professori,  spesso definiti  maestri di scuola e di vita senza tempo, ma per lei dei demoni! Le emozioni e le sensazioni di questo nuovo inizio erano sicuramente altre!
Verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti. Il colore e lo stato con cui da diverse stagioni Natali definiva l'amore. 
Quel novembre non fu diverso.
Dicembre trascorse con amici e parenti, tutti seduti allo stesso tavolo tra una festività e l'altra.
In gennaio, alla ripresa della scuola cadeva la neve. C'era una prima sessione di esami, ma lei si sentiva in pace.
Complice l'avvicinarsi di San Valentino e l'aver visto Piero  attraversare la strada, febbraio fece emergere le crepe dell'amore e Natalì si rese conto quanto le mancasse la relazione con un uomo.
Sapeva che per rimettersi in gioco in questo campo le occorreva il coraggio di scegliere, che arrivò a marzo a ridosso della primavera. Dopo una lunga gestazione partì un messaggio a Piero e nello stesso istante lei ricevette il medesimo messaggio da lui. Entrambi s'invitarono a incontrarsi.
Nel giorno del compleanno di Natalì era passato solo un mese dal primo appuntamento e da quando avevano iniziato a frequentarsi .
«Un mese sarà poco ma per noi sappiamo essere  già molto»  si dissero ridendo seduti in cioccolateria mentre scartavano  l'uovo di Pasqua che si erano regalati!

§§§
       
I ricordi del cuore
di
Giovanna Agata Lucenti


«Natalì, piccolina mia, non essere triste, ci vedremo presto, vedrai!»
Solo la nonna mi chiamava così, storpiando in maniera dolce il mio nome Natalina e io l’amavo anche per questo.
Mi ricordo che eravamo tutti seduti allo stesso tavolo e lei cercava di rincuorarmi, le dispiaceva vedermi così triste. Ma io volevo avere solo più tempo per farmi una ragione di quella lontananza che mi avrebbe privato della consueta vicinanza delle persone a me più care.
Avevamo abitato sempre con la nonna materna e la zia, e io trascorrevo più tempo con loro che in famiglia. Mi sentivo amata, coccolata e mi piaceva stare ad ascoltare i loro racconti, con davanti una bella tazza di caffelatte e biscotti.
La notizia del trasferimento di papà, impiegato delle Ferrovie dello Stato, era arrivata come un fulmine a ciel sereno, ricordo che cadeva la neve, fatto molto raro dalle mie parti e io non riuscivo a gioirne con gli altri miei compagni, pensavo solo che stavo lasciando la mia Catania per la sconosciuta città di Messina.
Era seguito un periodo denso di preparativi, durante il quale ero invisibile ai miei, sembravano proprio non accorgersi della mia angoscia al pensiero che avrei dovuto abbandonare la mia scuola, i miei compagni, le serate trascorse dalla nonna, insomma, tutte quelle abitudini che mi facevano stare bene.
Papà sapeva che per noi era un cambiamento radicale, ma aveva avuto il coraggio di scegliere di affrontare questo passo per la sua carriera e un aumento di stipendio che, con tre figli, non era da disdegnare.
E così, cercando un nuovo altrove, ci siamo stabiliti in una grande casa vicina alla stazione.
Del primo giorno nella nuova abitazione, rammento lo specchio convesso che troneggiava all’ingresso, riflettendo buona parte dei mobili antichi che vi si trovavano. Ricordo che ero molto arrabbiata e di avere pensato “ora spacco tutto” ma mi era bastato guardare i volti dei miei per calmarmi e ritornare a essere la bambina composta e giudiziosa vantata da tutti.
In fondo ero sempre stata molto brava a nascondere i miei veri sentimenti.
Cercai così di farmi piacere quella casa tanto grande da essere arredata solo a metà; il fatto positivo era che finalmente avevo una stanza tutta per me, mentre i miei due fratelli avrebbero dovuto condividere la loro. Mi sentivo regina di quel piccolo spazio che potevo arredare a modo mio. Ricordo ancora la mia grande soddisfazione nell’appendere alle pareti verde muschio i poster dei miei amati Beatles e Rolling Stones, insieme a immagini famose di John Kennedy, Martin Luther King e Gandhi, considerati da me dei veri e propri maestri di scuola e di vita senza tempo.
Frequentavo la quarta elementare, ma l’anno era già avviato da alcuni mesi, così io ero l’intrusa proveniente da un’altra città, oggetto di curiosità e risatine. Cose che non mi toccavano più di tanto, anche perché, dopo pochi giorni avevo legato con Maria, la mia compagna di banco, forse perché lei, con i suoi chiletti di troppo, era a sua volta oggetto di battutine e si sentiva molto vicina a me e alla mia “diversità urbana”.
Facevamo spesso i compiti insieme e le nostre famiglie avevano finito per frequentarsi.
Ma il giorno più felice per me e i miei fratelli era il sabato.
Subito dopo l’uscita da scuola e un veloce pranzo, ci preparavamo per andare alla stazione e salire sopra il treno che da Messina ci riportava a Catania. Durante il viaggio pregustavo già l’arrivo dalla nonna e la zia ed era come vivere un’avventura che mi portava verso i luoghi che amavo e gli affetti più cari.
Ricordo ancora in maniera intensa l’odore del mare mentre ci avvicinavamo alla stazione, la sagoma amica dell’Etna, il profumo di gelsomino che mi veniva incontro e io respiravo tutto questo avidamente, mentre con i miei fratelli, abbassando del tutto il finestrino del treno in corsa e lasciandoci investire dall’aria fredda, urlavamo: «Cataniaaa, arriviamo!», mentre i miei genitori ci guardavano sorridenti.
Non conoscevamo le crepe dell’amore, ci sembrava tutto perfetto, almeno fino a quando, il lunedì notte, facevamo ritorno a casa.
Per cinque lunghi anni la mia vita fu scandita così da sabati felici, pieni di aspettative, e tristi e sonnacchiosi lunedì mattina.
Nel frattempo la vita a Messina era diventata più accettabile e iniziavo ad apprezzarla, è lì che ho comprato il mio primo libro e ho fatto le prime passeggiate da sola.
Il sottobosco dei sentimenti è davvero molto più complesso di quanto sembri e ho imparato ad accettare i cambiamenti che la vita ti presenta, ma a distanza di tanti, tanti anni, non dimentico la sensazione mai più provata, di quella pura e incredibile felicità di ogni ritorno a casa.
È proprio vero che i veri ricordi, quelli che non si dimenticano, nascono dal cuore.

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Natalì
di 
Maria Grazia Conti


Il detective Marco Bianchi, in pensione da anni, trascorreva le sue giornate in un appartamento che odorava di libri antichi e caffè. Osservando il viavai frenetico della città, un pensiero lo tormentava, "volevo solo avere più tempo per risolvere quel caso", quello che gli era sfuggito vent'anni prima, un omicidio avvenuto durante una cena di beneficenza, in un lussuoso attico. Quel caso irrisolto era la sua ombra, il promemoria costante di un fallimento che non si era mai perdonato. Era un tarlo che gli rosicchiava l'anima, rendendo la sua pensione una condanna al rimpianto. La sua solitudine rifletteva quella di Natalì, la vittima. Anche lui, come lei, si era sentito un fantasma.
Mentre rovistava tra vecchi scatoloni, il suo sguardo si posò su una fotografia ingiallita. Un volto femminile, sorridente e malinconico, Natalì. Sempre cercando un nuovo altrove, appariva a tutti irrequieta. A ripensarci, capiva che la sua natura l'aveva resa una figura marginale. "Anch’io come lei ero invisibile, un’ombra, un fantasma", recriminò tra sé.
Osservando la foto, Marco notò un dettaglio che gli era passato inosservato, un piccolissimo segno sulla manica del vestito. Lo osservò con la lente d’ingrandimento, sembrava una lacrima, come le crepe dell'amore che lei aveva nascosto.
Le indagini avevano portato a un vicolo cieco, perché gli invitati si coprivano a vicenda. L'unico testimone attendibile era un anziano professore, un uomo saggio e sensibile, uno di quei maestri di scuola e di vita senza tempo. La sua testimonianza era sembrata però frammentaria, come se guardasse il mondo attraverso lo specchio convesso, la memoria che distorceva realtà e intenzioni. Marco si alzò di scatto, stringendo il telefono con forza. Non poteva più ignorare quel caso. Doveva avere il coraggio di scegliere, di affrontare il passato, sperando di trovare un indizio decisivo. Compose il numero e fissò un appuntamento con il vecchio professore, che per sua fortuna non era ancora passato a miglior vita.
L'incontro avvenne in un giardino silenzioso, immerso in un verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti. Il luogo era perfetto per rivelare verità nascoste. La sua pace contrastava con la tempesta interiore di Marco, ma era l'atmosfera ideale per abbassare le difese e scavare nella memoria. Il professore, vedendo la foto di Natalì, sospirò. 
«Vede, quel giorno cadeva la neve. Eravamo seduti allo stesso tavolo, e Natalì, poco prima di essere trovata morta, si è lasciata scappare una frase: Se non mi aiuti, io spacco tutto.»
Marco rimase in silenzio. All'inizio quelle parole gli erano sembrate solo uno sfogo. Ma ora, con gli occhi del detective che ha solo la verità come obiettivo, capì che quella frase era una minaccia a chi aveva più da perdere. 
Si chiese: «A chi si riferiva?»
Capì che c’era qualcuno con un segreto da nascondere, forse il marito. Il professore non aveva allora compreso la gravità della situazione. Gli si leggeva ora negli occhi un profondo rammarico, l'amara consapevolezza che la sua saggezza non era bastata a salvare una vita.
Marco, invece, vedeva tutto con una chiarezza schiacciante, grazie anche alle precedenti indagini. Natalì, disperata in un matrimonio infelice, aveva minacciato di esporre gli affari illeciti del marito se non le avesse concesso il divorzio. Era l'ultimo tentativo di liberarsi da un uomo creduto integro da tutti, ma in realtà violento e disonesto. Costui, intuendo la pericolosità della moglie, aveva già un piano. Quella minaccia, pronunciata di fronte a tanti, fu presa molto sul serio; con la complicità dell’amante, l’aveva uccisa per proteggere reputazione e relazione. La neve aveva coperto le tracce, rendendo il delitto perfetto. Il piccolo segno sull'abito di Natalì, quella lacrima indecifrabile, non era solo il simbolo delle sue sofferenze, ma il grido di dolore che nessuno aveva ascoltato. Le pedine sulla scacchiera si muovevano nella giusta direzione. Marco non era più un'ombra, ma un detective che aveva intuito la verità. Una piccola macchia sull'abito di Natalì aveva svelato un mistero durato quasi vent'anni, donando a un fantasma finalmente la sua pace.
Compose il numero della questura. La mano non tremava più per la rabbia, ma per un'adrenalina che non sentiva da anni. Con voce ferma, spiegò tutto al suo ex collega, il commissario De Luca.
«Riaprite il caso Natalì» disse. «Abbiamo la chiave di tutto.»
I giorni successivi furono un turbine di vecchi fascicoli, interrogatori e un inarrestabile lavoro di squadra. 
Con le nuove intuizioni e grazie a moderne tecnologie, il caso si riaprì. 
Il marito di Natalì, messo alle strette, crollò, confessando l'omicidio. Quella piccola macchia sull'abito era la traccia di un farmaco usato per addormentarla. Un'omissione rimasta in ombra per anni, sepolta dalla menzogna, era la luce che portava giustizia.
Marco non era più solo il pensionato che viveva nel rimpianto, ma un uomo che aveva finalmente trovato la pace, aveva ridato dignità a Natalì e onorato la promessa che si era fatto: non arrendersi di fronte al dolore, ma trasformarlo in riscatto.
 

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Vogliamo guardare insieme le copertine che portano i titoli coi quali avete giocato?

Eccole qui e se non avete letto nessuno di questi libri, beh, ordinateli. Non siete curiosi di conoscere queste storie?














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Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle