Inseguendo un sogno
di
Graziella Braghiroli
«Devo andarmene, altrimenti spacco tutto!»
Marta si ripeteva questa frase
come un mantra mentre chiudeva piano la porta di casa. Aveva infilato nello
zaino qualche vestito, un album da disegno pieno di schizzi e un biglietto per
Parigi comprato di nascosto due settimane prima.
Suo fratello Andrea studiava lì, architettura. I suoi genitori era molto
fieri di lui, mentre quando lei aveva detto che voleva studiare arte, dipingere
e vivere tra tele e colori, le avevano detto di svegliarsi e di trovare un
lavoro vero.
Così se ne era andata cercando un nuovo altrove.
«Ero invisibile per loro che si credono maestri di scuola e di vita senza
tempo, ma si dovranno ricredere.»
Arrivò a Parigi che albeggiava. Le
erano rimasti ancora pochi euro e si fece portare a casa di suo fratello, al
Quartiere Latino. Andrea la accolse sbalordito ma non la criticò. Le disse solo: «Convincerò mamma e papà a lasciarti qui, ma devi fare sul serio, Marta.
Devi avere il coraggio di scegliere.»
I primi giorni furono un vortice di parole incomprensibili, odore di
metropolitana e panini sbocconcellati sulle panchine dei giardini pubblici.
Dormiva su un materassino gonfiabile accanto alla scrivania di suo
fratello e passava le giornate a visitare musei, a cercare annunci di corsi
gratuiti o ateliers aperti e a disegnare ritratti nei bistrots.
Fu in uno di questi che conobbe Natalì, una donna sui cinquant’anni dai lunghi
capelli color rame, che l’aveva notata
mentre disegnava su un tovagliolino di carta.
«Non male» le aveva detto sedendosi di fronte a lei senza chiedere il
permesso. «Se vuoi imparare qualcosa, ti aspetto al mio studio, domani. 78, Rue
des Écoles, terzo piano.»
L’atelier di Natalì era un caos magnifico. Tele ovunque, cavalletti, odore
di trementina e sulla parete in fondo lo specchio convesso che inglobava tutta
la stanza. C’erano altri giovani come Marta, seduti alla stesso tavolo, pronti
ad accoglierla.
«Natalì non ti insegna solo a dipingere, ti costringe a guardarti dentro»
le dissero. «Se vuoi fare arte, dice, devi essere onesta con te stessa.»
All’inizio, Marta pensava che fosse tutta una posa, ma poi cominciò a capire
e quando una sua tela venne criticata davanti a tutti, non si sentì umiliata e invece di dire volevo solo avere
più tempo, accettò la critica e si sentì viva. Qualcuno la prendeva finalmente
sul serio.
Un giorno, Natalì la portò con sé a un’esposizione collettiva in un
centro culturale di periferia.
«Tu non esponi ancora» le disse «ma impara a guardare. Vedi questa tela? Verde
muschio, il sottobosco dei sentimenti.» aggiunse sfiorando il dipinto.
Marta vide un quadro enorme, senza cornice, pieno di colori, potente.
Sentì come se qualcosa la colpisse allo stomaco.
Quella notte dipinse fino all’alba. Mise sulla tela il volto di sua madre
che non la capiva, gli occhi severi di suo padre, la paura di non farcela e la speranza
di riuscire.
Il giorno dopo la portò a Natali.
«Guarda» le disse « lo chiamerò le crepe dell’amore.»
Natalì non disse una parola per cinque minuti. Poi si tolse gli occhiali
e la guardò.
«Finalmente» sussurrò.
Marta non divenne famosa ma, un mese dopo, partecipò alla sua prima
collettiva. Due persone si fermarono a lungo davanti al suo quadro e un’altra
le disse che l’aveva fatta piangere.
Quando uscì dalla mostra, cadeva la neve. Parigi era ancora la stessa:
caotica e indifferente, ma Marta camminava con un altro passo. Non sapeva ancora
dove sarebbe arrivata ma per la prima volta, non aveva più voglia di tornare
indietro.
§§§
Natalì e Giacomo, di nuovo insieme
di
Carmine Scavello
Natalì e Giacomo si erano conosciuti sui banchi
di scuola e da allora avevano deciso di vivere una vita insieme, promettendosi
eterno amore.
Il destino, però, voltò loro le spalle, ma Cupido, che ricuce i
vecchi legami amorosi interrotti, compì il miracolo di riannodare i fili e di
far squillare di nuovo quei due telefonini rimasti muti per così lungo tempo.
Ci fu un invito reciproco, contemporaneo, inaspettato, e inconsciamente tanto
desiderato, in quanto lo stupido orgoglio bloccava ogni tentativo di rompere il
ghiaccio.
Alla fine, tutto è bene ciò che finisce bene. I due
giovani, nel frattempo, non avevano cercato altri legami sentimentali. Era
scritto nel cielo che il loro amore non potesse dissolversi come una bolla di
sapone.
In seguito all’incontro organizzato da Cupido, i due
giovani innamorati si erano trovati seduti allo stesso tavolo del bar del
parco pubblico di cinque anni prima – data del loro ultimo incontro – per
ricucire le crepe dell’amore che li aveva visti protagonisti di un bel rapporto amoroso. Invece, purtroppo si erano lasciati con
l’amaro in bocca, cercando un altro altrove, dove ricominciare da
zero un’altra storia d’amore.
Giacomo si stava giustificando dicendo: «Mi dispiace
per quel che è accaduto; volevo solo avere più tempo, cosicché mi sono
allontanato da te e, quindi, per un po’ di tempo ero invisibile. Persino
lo specchio convesso si rifiutava di riflettere la mia immagine per
protesta nei miei confronti.»
Natalì, dopo l’ultimo incontro al bar di cinque anni
prima, si era detta: «Non mi interessa più nulla di Giacomo, spacco tutto ciò
che mi lega a lui.»
Sera dopo sera si riconciliò con sé stessa; cadde in un sonno
profondo e sognò che cadeva la neve, ma prima aveva fatto il presepe
con il verde muschio, che ricordava il sottobosco dei sentimenti. Mentre
sognava, era Natale e leggeva a tavola la letterina che scrisse al papà; gliela
consigliarono Vincenzo e Giovanni, i suoi maestri di scuola e di vita senza
tempo.
Al risveglio di quel sogno fantastico, si rese conto
che era arrivato il coraggio di scegliere.
Quindi, quando Cupido bussò alla sua porta, accettò
l’invito di riappacificarsi con Giacomo.
Ora erano lì felici di stare insieme
seduti a quello stesso tavolo, come se il tempo non fosse scorso inutilmente.
§§§
Il primo passo
di
Emanuela Carmelita Tomiato
Eccola, Natalì.
Saliva sulla bilancia, leggeva le cifre e ogni giorno il
numero aumentava di qualche etto. Si illudeva di fare la brava ma il risultato di
quel piccolo numero in crescita le dava strane emozioni. A volte pensava:
adesso spacco tutto, oggi dieta stretta; ma il più delle volte si sentiva disarmata
e in fondo abbattuta.
Anche lo specchio convesso, piantato sul marciapiede proprio
di fronte a casa sua, le restituiva un’immagine allargata di sé stessa, una
balena, enorme e grassa. Proprio come si sentiva.
Senza meta, a volte vagava per la strada cercando un nuovo
altrove, un posto libero dove stare senza occhi giudicanti e senza bilancia.
Cercava chi la potesse aiutare in questa impresa di
dimagrimento, le servivano dei maestri di scuola e di vita senza tempo, capaci
di andare a smuovere quel tasto sopito e nascosto nel suo cervello; quello che,
attivandosi purtroppo al contrario, le diceva sempre di mangiare, di
assaggiare, di ingozzarsi. E, invece di avere il coraggio di scegliere cosa
fosse più giusto per lei stessa, si ritrovava con gli amici, paffutelli pure
loro, tutti seduti allo stesso tavolo, in ogni stagione dell’anno.
E se anche fuori cadeva la neve, il motivo mangereccio c’era
sempre: lei partecipava spesso a pizzate o faceva abbuffate estive nei prati verde
muschio. Il sottobosco dei sentimenti e delle emozioni che germogliavano con la
pancia piena davano, il giorno dopo, una carrettata di rimorsi e di lacrime di
coccodrillo. Inconsolabili.
Ero invisibile, pensava. La gente non si preoccupava per lei,
anzi, la criticava per la sua stazza.
Volevo solo avere più tempo, si riprometteva ogni sera. Aveva
giusto il tempo per decidere della sua vita. Voleva cambiare in modo completo e
totale.
Aveva bisogno di attenzioni e cure, quelle che trasparivano
da tutte le crepe dell’amore, batoste che l’avevano segnata e ridotta così.
Dentro, giù nell’anima aveva scoperto che c’era la forza
utile alla sua rinascita.
E, a casa, aveva chiuso la porta del frigorifero, cominciando
da un gesto semplice per un percorso in salita, dove lei già aveva fatto il
primo passo.
§§§
Il cinquantesimo compleanno
di
Camilla Terso
Voleva solo più tempo per capire cosa le stesse succedendo.
Per Natalì era arrivato il momento più particolare per una donna: era il giorno
del suo cinquantesimo compleanno e avere mezzo secolo la spaventava. Sapeva che
gli anni che stavano arrivando erano quelli del tramonto, ma anche quelli della
saggezza, quelli in cui non si va per forza cercando un nuovo altrove. Anzi,
trovava rassicurante la quotidianità della giornata: un buon piatto di pasta,
un bel film, magari sul divano con una copertina di pile. Cose semplici, ma che
la facevano stare bene.
Cinquant'anni, una tappa con cui doveva fare i conti: con i
dolori in tutto il corpo, la stanchezza e la lentezza nel fare le cose. La
menopausa e tutto ciò che comportava. Faceva a botte con i continui sbalzi
d'umore e la rabbia, la stessa che le faceva dire, dentro di sé spacco
tutto. Odiava essere così rabbiosa, non si riconosceva più.
Quel giorno di dicembre, precisamente la vigilia di Natale,
Natalì si svegliò in un silenzio surreale e capì che cadeva la neve e la città
sembrava non volersi svegliare. Il motivo principale per cui aveva sempre
odiato il giorno del suo compleanno era perché faceva sempre molto freddo e
nessuno aveva voglia di festeggiare; inoltre erano tutti impegnati nella
ricerca degli ultimi regali. Infatti, non aveva organizzato nulla. Avrebbe
voluto nascere, come suo fratello più grande, in piena estate, ma anche in quel
caso il periodo non è del tutto favorevole per festeggiare un compleanno perché
la gente è sempre tutta al mare.
Quel 24 dicembre, Natalì, prima di farsi sommergere dagli
auguri, spense il cellulare perché voleva ripercorrere le tappe dei suoi
cinquant'anni. Ne approfittò per abbandonarsi in una nuvola fatta dal fumo
delle sue sigarette. La sua finta solitudine, quella mattina, le faceva comodo,
nel senso che poteva oziare nel letto per tutto il tempo. Non si era mai
sposata perché non ne aveva mai sentito la necessità. Negli anni si era
conquistata la libertà a caro prezzo e non voleva condividerla con nessuno e
tantomeno con un uomo. Era arrivata a questa conclusione dopo tutte le crepe
dell'amore che il suo cuore aveva accumulato nel tempo.
Natalì era una donna a cui la vita non aveva fatto sconti,
ma aveva sempre avuto il coraggio di scegliere anche andando contro tutti e
tutto, facendo scelte controcorrente, come trasferirsi in una città nuova e
grande come Roma. Aveva scelto di vivere della sua arte, esibendosi per strada.
Quando le capitava di fare un viaggio interiore, come quella mattina, seduta
accanto al presepe mentre si inebriava del profumo del verde muschio, si
ritrovò nel sottobosco dei sentimenti. I suoi. Ripensò alle varie fasi della
sua vita e, senza accorgersene, iniziò uno strano dialogo con le varie Natalì.
Come in uno specchio convesso, rivide la sua vita da tutte le angolazioni. Le
immaginava tutte sedute allo stesso tavolo.
Iniziò a chiacchierare con la piccola Natalì.
«Tu sei stata la più fortunata tra noi» le disse.
«Perché?» chiese con aria ingenua.
«Perché sei quella che ha vissuto i tempi migliori. Invece
colei che ha sofferto più di tutte noi è la Natalì adolescenziale» disse
guardandole tutte.
La ragazzina che ancora c'era in lei si sentì interpellata.
«Ha ragione. Io ero invisibile al mondo. Nessuno, per anni,
mi ha mai preso sul serio.»
«Poi, però, abbiamo recuperato, siamo stimate da tutte.
Abbiamo avuto dei bei giorni, abbiamo avuto la fortuna di provare delle
emozioni forti. Ci siamo laureate, abbiamo vissuto una bellissima storia
d'amore e soprattutto abbiamo avuto maestri di scuola e di vita senza tempo»
ribatté la Natalì adulta.
Poi scoppiò a ridere tra sé quando uno squillo del telefono
di casa la distolse dal suo dialogo interiore. Era la sua migliore amica che
con una scusa la portò a pranzo fuori, dove l'aspettavano tutte le persone che
le volevano bene, e capì che era il risultato di cinquant'anni spesi bene.
§§§
Tracce di vita perduta
di
Laura Scartabelli
Natalì.
Per me è sempre stato un nome assurdo. Natalie – alla
francese – sarebbe andato già meglio. Invece io ero Natalì con la i accentata
perché secondo i miei genitori, così scritto ricordava meglio la nascita di
Gesù. Fin qui tutto poteva anche avere un senso. L’assurdità derivava invece
dal fatto che i miei erano atei e, pertanto, non c’era alcun effettivo intento
di omaggiare nostro Signore. Lo scopo era, quindi, solo quello che con il
tempo ha definito la loro vita: stupire con gesti plateali senza mai avere, in
realtà, il coraggio di scegliere e soprattutto capire a che cosa dare davvero importanza.
Quando ero piccola c’era armonia fra di loro. Pian
piano, però, è come sparita nel nulla. E la ribellione dentro di me cresceva in
maniera esponenziale tantoché la frase che, sempre più spesso, attraversava i
miei pensieri era: ora spacco tutto.
Le loro anime erano simili ma avrebbero avuto bisogno
di specchiarsi l’una nell’altra. Per tanto tempo ho sperato che lo specchio
convesso che la mamma aveva comprato da quell’antiquario di nicchia, prima o
poi riflettesse ciò che avevano dentro in modo da far capire loro che dovevano
accogliersi e non respingersi. Io li osservavo mentre, ogni sera, seppur vicini
e seduti allo stesso tavolo accumulavano distanze sempre maggiori.
Ero arrivata al limite e non riuscivo più a
sopportare quell’atteggiamento che aveva la presunzione di poter ingannare la
vita così, con leggerezza. O, forse, non era neanche leggerezza ma solo il
travestimento delle crepe dell’amore, ormai insediate nei loro cuori.
Avevo da poco compiuto diciotto anni, per cui gli
scontri con i miei genitori erano quasi diventati una costante.
Volevo solo avere più tempo e, soprattutto, volevo farlo
con calma, delicatezza e raziocinio, ma quel giorno i miei nervi cedettero in
maniera irrimediabile e ciò che avevo dentro uscì senza modulazione e con lo
stesso fragore di un ordigno.
«Natalì, si può sapere perché hai sempre quell’aria
insofferente?» disse mio padre senza staccare gli occhi dal cellulare.
«Giusto, stavo per dirlo io» fece eco mia madre,
anche lei senza distogliere lo sguardo dall’apparecchio telefonico.
Non ci vidi più. Da tempo immemore ero invisibile ai
loro sguardi, occupati solo ad accrescere la levità della loro vita e, nonostante
ciò, avevano pure il coraggio di avanzare critiche nei miei confronti. Fu come
gettare benzina sul fuoco.
«Volete davvero sapere il perché della mia
insofferenza? Bene. Vi accontento subito. È da tempo che ci penso e mi sarebbe
piaciuto farlo con meno veemenza. Però nella vita non tutto accade nei tempi e
con le modalità che vogliamo.»
Entrambi alzarono gli occhi di scatto.
«Perché, papà, hai regalato quel mazzo enorme di rose
alla mamma per il suo compleanno?»
«Che razza di domanda è? Non capisco. Perché,
appunto, era il suo compleanno.»
«Certo. Festa comandata, rosa assicurata, eh?»
«Natalì, la tua strafottenza mi sta alterando.
Stai
sproloquiando senza una ragione.»
«Ne avrei centinaia e centinaia di ragioni. Ma non ti
accorgi, anzi, non vi accorgete che vi atteggiate a maestri di scuola e di vita
senza tempo mentre è proprio la vostra di vita che avrebbe bisogno di
insegnanti?»
«Spiegami meglio. In questo mondo moderno sono i
figli a dare un indirizzo alla vita dei genitori? Perché magari sono rimasto
indietro.»
Papà era addirittura sarcastico mentre la mamma,
silente, aveva abbassato gli occhi come chi sa di non essere più tanto al
sicuro.
«Non sei rimasto indietro, papà. E che con i tuoi
gesti plateali, forse e dico forse, puoi imbrogliare la mamma, non me.»
«Basta Natalì, esigo delle scuse.»
«Le scuse dovresti farle a te stesso visto che vai cercando
un nuovo altrove da non so più quanto tempo e, da mesi, direi che tu lo abbia
pure trovato, eppure continui a far credere al mondo di essere innamorato della
mamma.»
Papà tacque. Ma io non avevo ancora finito.
«E tu, mamma? Non hai niente da dire? Ti va bene
così? Vi sopportate da anni e la cosa più brutta è che avevate due anime
simili. Un sacrilegio, aver sprecato tutto così. L’anima unisce i cuori e li
porta nel futuro del mondo, dove chiunque possa ritrovarli. Con questo
potenziale, anche se diversi nel carattere e nei modi di pensare, avreste
potuto arrivare ovunque. Invece la vostra corsa è finita qui. Vi è chiaro
adesso il motivo della mia insofferenza?»
Mamma, sempre in silenzio, iniziò a piangere. Le
lacrime scendevano con la stessa velocità della vita che, ormai, aveva iniziato
a far perdere le sue tracce.
Guardai fuori dalla finestra. Cadeva la neve che, di
lì a poco, avrebbe coperto il muschio del bosco circostante e non solo. Avrebbe
sotterrato per sempre il loro verde muschio, il sottobosco dei sentimenti.
§§§
Frammenti
di
Cristina Bellavita
Cadeva la neve, fitta e abbondante, ammantando di bianco il piccolo
giardino rettangolare della sua abitazione.
Natalì pensò all’esagonale struttura cristallina dei fiocchi; maestri di
scuola e di vita senza tempo, le parvero testimoni silenziosi dell’eterno susseguirsi
dei cicli naturali delle stagioni.
Seduti allo stesso tavolo, lei e Bruno constatarono che le crepe
dell’amore erano divenute profondi crepacci, squarciando in modo irreversibile il
tessuto del loro cuore, non più di un colore rosso vivo ma verde muschio. Il
sottobosco dei sentimenti era stato divorato da un mostro che possedeva una
fame insaziabile.
La Depressione.
Immersi in un silenzio opprimente, fecero piazza pulita dello spezzatino
di vitello in men che non si dica, senza percepirne l’aroma né il gusto.
All’improvviso, Bruno esclamò: «Ero invisibile, talmente
invisibile che un giorno mi sono sorpreso a pensare: spacco tutto, così sarà
costretta a vedermi, a prendere atto che esisto. Non ho mai avuto il coraggio
di farlo, ma l’ho desiderato più volte.»
A Natalì, azzannata da un feroce senso di colpa nei suoi confronti, quelle
parole parvero aguzze come pietre. Appoggiò la forchetta sul bordo del piatto e
lo fissò attentamente, notando il solco profondo della ruga verticale fra le
sopracciglia, le occhiaie violacee e le grinze sottili all’angolo delle
palpebre.
Un guizzo di incredulità dilatò le pupille di Bruno, abituato da tempo ad
essere soltanto sfiorato dal suo sguardo, come se avesse perso consistenza.
Natalì spasimava dal bisogno di sentire qualsiasi cosa che non fosse quel
vuoto che la stritolava e scandagliò i ricordi nella speranza di rivivere per
un istante l’ebbrezza dei loro baci appassionati, il desiderio sprigionato dal tocco
delle sue mani e la voce dolce come il miele quando le sussurrava: «Ti amo così tanto!»
Fu l’ennesima sconfitta, nemmeno un’emozione accompagnò quei ricordi.
Natalì viveva nel buio di una perenne eclissi.
Mentre sminuzzava l’ultimo boccone di pane pensando ai mesi infiniti in
cui si era annidata nel suo bozzolo di dolore, esclamò: «Volevo solo avere più tempo.»
Bruno rimase sconvolto.
Erano stati tre anni d’inferno, nei quali aveva assistito al lento ma
inesorabile sgretolarsi della solida roccia sulla quale poggiava il loro amore,
teso la corda della propria pazienza fino a spezzarla, masticando sensi di
colpa, rabbia e sofferenza fino a quando, per non soccombere, aveva alzato bandiera
bianca.
Era diventato l’ombra di se stesso.
Natalì lo sapeva e proprio per questo non riusciva a guardarlo. Aggiunse,
trattenendo un singhiozzo: «Trovare il coraggio di scegliere, cercando un nuovo altrove, mi ha
lacerato. Mi sono persa, sfinita e prigioniera di un buio che ha spezzato ogni
mia volontà.»
Bruno avrebbe voluto prenderle la mano, in un istintivo gesto di
conforto, per dirle: «Respira…»
Il timore che lei si ritraesse lo aveva bloccato; aveva perduto la
capacità di capire quale fosse la cosa migliore da fare, in certi momenti. Con
tono accorato, esclamò: «Mi sono sentito così
inutile e impotente per non essere riuscito ad aiutarti!»
Lei sussurrò, mentre le dita torturavano la pellicina attorno alle unghie: «Lo so… Mi dispiace.»
Si alzarono da tavola, entrambi sconfitti. Bruno indossò giaccone e
cappello e si diresse alla porta di ingresso, osservando per l’ultima volta quella
casa che stava per lasciare definitivamente.
Prima di chiudere l’uscio, Natalì pronunciò un’ultima parola: «Grazie.»
Restò poi con le spalle appoggiate alla porta per diversi minuti,
svuotata. Chiuse gli occhi.
Nella sua mente, all’improvviso, frammenti di immagini nitidissime si incastrarono
formando un mosaico, catapultandola in una sorta di visione onirica.
Era in un luogo imprecisato, al volante della sua auto, e osservava lo
specchio convesso del retrovisore esterno nel quale era riflessa di spalle la
figura imponente di Bruno che si allontanava da lei, rimpicciolendo fino a
scomparire.
Al di là del parabrezza, davanti a sé, una vasta distesa di campi
innevati era tagliata in due da una strada lunga e dritta, dalla superficie scivolosa
e ghiacciata.
Senza pensare al rischio di sbandare e restare impantanata nella neve
fresca, premette l’acceleratore e l’auto si mise in moto per imboccare quella via
di cui non conosceva il punto di arrivo, né le importava saperlo.
Tornò alla realtà di colpo, con il cuore in gola e la sensazione fisica di
un frullare di ali nello stomaco.
Senza esitazione, si diresse verso il portico, aprì la porta finestra e
uscì fuori. L’aria frizzante le pizzicò
il viso, l’inconfondibile profumo di pulito della neve solleticò le sue narici.
Udì un mormorio e si mise in ascolto: «Respira…»
La parola che Bruno non aveva osato pronunciare giunse a lei, trasportata
dai soffici cristalli di neve.
«Respira…»
Natalì inclinò la testa offrendo il viso al cielo, inspirò profondamente e
poi espirò.
Lo fece molte volte, non più meccanicamente ma con una consapevolezza
nuova.
Forse era poca cosa, ma sentì che per il momento poteva bastare.
§§§
Il tempo che non basta
di
Daniela Brivio
Quella mattina Natalì realizzò che la sua vita era
fatta di squilibri. Troppo tempo passato tra pannolini e capricci, troppo poco
tra parole vere e sguardi adulti.
Questa presa di coscienza l’aveva fatta indugiare più
a lungo del solito davanti allo specchio del bagno quella mattina. E mentre si
sistemava i capelli in una treccia morbida, cercando di recuperare un aspetto
meno disperato e vagamente femminile, aveva incominciato ad analizzare
freddamente qual era la parte di lei che non c’era più e che non sarebbe
ritornata molto presto.
Le domeniche pigre, per esempio: da quando c’erano i
bambini - quattro, uno in fila all’altro - non solo non erano più pigre, ma non
erano più neanche domeniche. Anche la scelta dell’orario in cui andare a
dormire, o di svegliarsi, era di qualcun’altro. Per non parlare delle serate
spensierate trascorse davanti alla tv abbracciata ad Edoardo. Utopia pura.
Passando un velo di crema sul viso si domandava se i
suoi figli un giorno si sarebbero resi conto dell’annullamento fisico ed
emotivo cui era sottoposta. Pochi giorni prima lo aveva chiesto a Edoardo, il
quale con tenerezza e comprensione le aveva risposto: «Abbiamo avuto il
coraggio di scegliere una famiglia numerosa, Natalì, quella che sognavamo a
vent’anni nelle lente passeggiate al parco. Te lo ricordi, vero?»
Certo che se lo ricordava. Avevano trascorso interi
pomeriggi a sognare e progettare la loro vita. Voli pindarici infiniti.
Ciò nonostante, aveva accolto con sopraffazione e un
pizzico di angoscia la notizia di una nuova gravidanza. Non che non lo volesse
quel figlio. Solo che ultimamente si sentiva come bloccata su un ottovolante,
una giostra da cui non poteva scendere. E si era ritrovata a confessare: «Volevo
solo avere più tempo, Edo. Pensare che tra qualche mese sarò di nuovo grossa
come una balena e farò fatica a fare tutto mi manda ai matti.»
«Natalì? Ci sei?» aveva chiesto Edoardo dal salotto
alle prese con Luca, i cui flebili vagiti le dicevano che a momenti sarebbero
diventati urla strazianti di fame.
«Ora arrivo.»
Ma non si era mossa da lì. Cominciava a
pensare che quella giornata non sarebbe andata esattamente come l’aveva
pianificata la sera prima. Lavatrici, pappe, compiti, liste della spesa e bla
bla bla.
Ignorando completamente la richiesta di Edoardo,
aveva preso il suo beauty-case e aveva incominciato a truccarsi. Un po’ di
correttore sotto gli occhi le aveva regalato uno sguardo meno stanco in pochi
secondi. Almeno ora riusciva a guardarsi.
Il pianto disperato di Luca - che singhiozzava
sconsolato reclamando giustamente la sua fetta di amore e latte materno - stava
mandando in crisi Edoardo. Era bravo in molte cose, ma non a gestire i pianti.
Semplicemente andava nel panico.
«Natalì, esci da quel bagno o spacco tutto!»
Era riuscita a irritarlo. Lo faceva spesso
ultimamente, quasi a volerlo punire perché certe cose poteva farle lei soltanto
e l’allattamento era una di quelle.
Si era annotata mentalmente il messaggio di scuse da
scrivere su un post- it, una manciata di parole leggere da affidare a quello
che era diventato il loro piccolo altare: lo specchio convesso di Ikea acquistato
anni prima. Inutile per riflettersi davvero, certo – deformava ogni immagine,
come fanno i sensi di colpa – ma era presto diventato ricettore delle loro
debolezze e fragilità.
Aveva abbassato la maniglia della porta con la stessa
rassegnazione che provava chiudendo un libro sapendo che il finale non sarebbe
cambiato. Le era bastato guardare Edoardo negli occhi per comprendere che non
era sola su quella barca, non lo era mai stata.
A volte litigavano. Negli anni le crepe dell’amore
avevano incominciato a vedersi sull’intonaco bianco della loro relazione, ma
non erano segni di fine. Erano più come nel Kintsugi giapponese, crepe che
diventano parte della bellezza.
Del resto, non aveva mai immaginato la sua vita altri
che con lui. Sin da quel lontanissimo giorno di gennaio in quel rifugio: cadeva
la neve ed erano seduti allo stesso tavolo. Lui si era scusato per averla
urtata sui campi da sci. L’aveva guardata negli occhi e aveva mantenuto lo
sguardo dolcemente. Fino a ieri ero invisibile, aveva pensato Natalì, ora
improvvisamente ho un contorno. Forse esisto.
Aveva preso Luca tra le braccia e gli aveva offerto
il seno: gli occhietti chiusi e l’appagamento evidente le avevano gonfiato il
cuore di amore materno color verde muschio. Il sottobosco dei sentimenti cresce dove nessuno guarda, silenzioso e tenace, capace di custodire ogni
fragile germoglio di vita.
Pochi minuti dopo Natalì aveva capito cosa fare quel
giorno: avrebbe rallentato.
Avrebbe insegnato ai piccoli che quando ci si sente
sopraffatti occorre dare ascolto al proprio corpo. Così si era alzata, aveva
esplorato la sua libreria. I libri erano da sempre i suoi maestri di scuola e
di vita senza tempo. Avrebbe letto, cercando un nuovo altrove.
§§§
Mia sorella è nata lì
di
Laura Beretta
Natalì, nata a Pasqua, non a Natale, deve il suo nome alla sorpresa che il
fratello trovò nell'uovo di Pasqua mentre lei veniva al mondo, ovvero un libro
rappresentante una ballerina alla sbarra,
intitolato : “Mia sorella è nata lì”.
Come ogni compleanno, il 17 aprile,
era tradizione per Natalì andare nella cioccolateria in cui era stato comperato il
famoso uovo e anche quell'anno fece lo stesso.
Mentre attendeva che le portassero
la cioccolata pensava a quanto avesse
trasformato la sua vita negli ultimi dodici mesi.
Tutto iniziò con un deciso spacco
tutto in maggio, a Verona. Si era regalata quel viaggio per assistere a dei
concerti in Arena.
«Ero invisibile e mi andava bene, ma a un certo punto non
più!»
Fu questa la motivazione che la spinse a lasciare un lavoro sicuro,
che le piaceva, ma non era il suo, spiegò alla sua amica mentre camminavano lungo il Naviglio un
pomeriggio di giugno.
Luglio fu il mese dedicato a immaginare... Cercando un nuovo altrove.
Un mattino di agosto, mentre faceva
la chignon prima della lezione di danza, lo specchio convesso in camera da letto le fece cadere lo sguardo sul
libro “Mia sorella è nata Lì”, poggiato da sempre come una reliquia sul comodino, che quel
giorno sembrava domandarle: Cosa hai sempre voluto fare?
A settembre la commissione della
scuola per diventare insegnanti di danza classica si convinse ad ammettere
Natalì, anche se non aveva i requisiti
standard e ormai fuori età, riconoscendo la passione che l'aveva spinta verso
quella direzione.
Per anni “volevo solo avere più
tempo” era stato un mantra che si ripeteva per alleviare il dispiacere di non aver
inseguito la strada verso cui sentiva essere chiamata, ma fu mentre compilava l'iscrizione alla scuola che
comprese come la chiave fosse stata qualche mese prima: credere nella
possibilità di una nuova vita.
Il primo ottobre iniziarono i
corsi. Le spuntò un sorriso ripensando agli incubi che viveva tutti i primi giorni di scuola, complici i
professori, spesso definiti maestri di scuola e di vita senza tempo, ma per
lei dei demoni! Le emozioni e le sensazioni di questo nuovo inizio erano
sicuramente altre!
Verde muschio. Il sottobosco dei
sentimenti. Il colore e lo stato con cui da diverse stagioni Natali definiva
l'amore.
Quel novembre non fu diverso.
Dicembre trascorse con amici e
parenti, tutti seduti allo stesso tavolo tra una festività e l'altra.
In gennaio, alla ripresa della
scuola cadeva la neve. C'era una prima sessione di esami, ma lei si sentiva in
pace.
Complice l'avvicinarsi di San
Valentino e l'aver visto Piero
attraversare la strada, febbraio fece emergere le crepe dell'amore e
Natalì si rese conto quanto le mancasse la relazione con un uomo.
Sapeva che per rimettersi in gioco in questo campo le
occorreva il coraggio di scegliere, che arrivò a marzo a ridosso della
primavera. Dopo una lunga gestazione partì un messaggio a Piero e nello stesso
istante lei ricevette il medesimo messaggio da lui. Entrambi s'invitarono a incontrarsi.
Nel giorno del compleanno di Natalì era passato solo un mese dal primo appuntamento e da quando avevano iniziato a
frequentarsi .
«Un mese sarà poco ma per noi
sappiamo essere già molto» si dissero ridendo seduti in cioccolateria
mentre scartavano l'uovo di Pasqua che
si erano regalati!
§§§
I ricordi del cuore
di
Giovanna Agata Lucenti
«Natalì, piccolina mia, non essere triste, ci vedremo
presto, vedrai!»
Solo la nonna mi chiamava così, storpiando in maniera
dolce il mio nome Natalina e io l’amavo anche per questo.
Mi ricordo che eravamo tutti seduti allo stesso
tavolo e lei cercava di rincuorarmi, le dispiaceva vedermi così triste. Ma io volevo
avere solo più tempo per farmi una ragione di quella lontananza che mi avrebbe
privato della consueta vicinanza delle persone a me più care.
Avevamo abitato sempre con la nonna materna e la zia,
e io trascorrevo più tempo con loro che in famiglia. Mi sentivo amata,
coccolata e mi piaceva stare ad ascoltare i loro racconti, con davanti una
bella tazza di caffelatte e biscotti.
La notizia del trasferimento di papà, impiegato delle
Ferrovie dello Stato, era arrivata come un fulmine a ciel sereno, ricordo che cadeva
la neve, fatto molto raro dalle mie parti e io non riuscivo a gioirne con gli
altri miei compagni, pensavo solo che stavo lasciando la mia Catania per la
sconosciuta città di Messina.
Era seguito un periodo denso di preparativi, durante
il quale ero invisibile ai miei, sembravano proprio non accorgersi della mia
angoscia al pensiero che avrei dovuto abbandonare la mia scuola, i miei
compagni, le serate trascorse dalla nonna, insomma, tutte quelle abitudini che
mi facevano stare bene.
Papà sapeva che per noi era un cambiamento radicale,
ma aveva avuto il coraggio di scegliere di affrontare questo passo per la sua
carriera e un aumento di stipendio che, con tre figli, non era da disdegnare.
E così, cercando un nuovo altrove, ci siamo stabiliti
in una grande casa vicina alla stazione.
Del primo giorno nella nuova abitazione, rammento lo
specchio convesso che troneggiava all’ingresso, riflettendo buona parte dei
mobili antichi che vi si trovavano. Ricordo che ero molto arrabbiata e di avere
pensato “ora spacco tutto” ma mi era bastato guardare i volti dei miei per
calmarmi e ritornare a essere la bambina composta e giudiziosa vantata da
tutti.
In fondo ero sempre stata molto brava a nascondere i
miei veri sentimenti.
Cercai così di farmi piacere quella casa tanto grande
da essere arredata solo a metà; il fatto positivo era che finalmente avevo una
stanza tutta per me, mentre i miei due fratelli avrebbero dovuto condividere la
loro. Mi sentivo regina di quel piccolo spazio che potevo arredare a modo mio.
Ricordo ancora la mia grande soddisfazione nell’appendere alle pareti verde
muschio i poster dei miei amati Beatles e Rolling Stones, insieme a immagini
famose di John Kennedy, Martin Luther King e Gandhi, considerati da me dei veri
e propri maestri di scuola e di vita senza tempo.
Frequentavo la quarta elementare, ma l’anno era già
avviato da alcuni mesi, così io ero l’intrusa proveniente da un’altra città, oggetto
di curiosità e risatine. Cose che non mi toccavano più di tanto, anche perché,
dopo pochi giorni avevo legato con Maria, la mia compagna di banco, forse
perché lei, con i suoi chiletti di troppo, era a sua volta oggetto di battutine
e si sentiva molto vicina a me e alla mia “diversità urbana”.
Facevamo spesso i compiti insieme e le nostre
famiglie avevano finito per frequentarsi.
Ma il giorno più felice per me e i miei fratelli era
il sabato.
Subito dopo l’uscita da scuola e un veloce pranzo, ci
preparavamo per andare alla stazione e salire sopra il treno che da Messina ci
riportava a Catania. Durante il viaggio pregustavo già l’arrivo dalla nonna e
la zia ed era come vivere un’avventura che mi portava verso i luoghi che amavo
e gli affetti più cari.
Ricordo ancora in maniera intensa l’odore del mare
mentre ci avvicinavamo alla stazione, la sagoma amica dell’Etna, il profumo di
gelsomino che mi veniva incontro e io respiravo tutto questo avidamente, mentre
con i miei fratelli, abbassando del tutto il finestrino del treno in corsa e
lasciandoci investire dall’aria fredda, urlavamo: «Cataniaaa, arriviamo!»,
mentre i miei genitori ci guardavano sorridenti.
Non conoscevamo le crepe dell’amore, ci sembrava
tutto perfetto, almeno fino a quando, il lunedì notte, facevamo ritorno a casa.
Per cinque lunghi anni la mia vita fu scandita così
da sabati felici, pieni di aspettative, e tristi e sonnacchiosi lunedì mattina.
Nel frattempo la vita a Messina era diventata più
accettabile e iniziavo ad apprezzarla, è lì che ho comprato il mio primo libro
e ho fatto le prime passeggiate da sola.
Il sottobosco dei sentimenti è davvero molto più
complesso di quanto sembri e ho imparato ad accettare i cambiamenti che la vita
ti presenta, ma a distanza di tanti, tanti anni, non dimentico la sensazione
mai più provata, di quella pura e incredibile felicità di ogni ritorno a casa.
È proprio vero che i veri ricordi, quelli che non si
dimenticano, nascono dal cuore.
§§§
Natalì
di
Maria Grazia Conti
Il detective Marco Bianchi, in pensione da anni, trascorreva le sue
giornate in un appartamento che odorava di libri antichi e caffè. Osservando il
viavai frenetico della città, un pensiero lo tormentava, "volevo solo avere più
tempo per risolvere quel caso", quello che gli era sfuggito vent'anni prima, un
omicidio avvenuto durante una cena di beneficenza, in un lussuoso attico. Quel
caso irrisolto era la sua ombra, il promemoria costante di un fallimento che
non si era mai perdonato. Era un tarlo che gli rosicchiava l'anima, rendendo la
sua pensione una condanna al rimpianto. La sua solitudine rifletteva quella di Natalì,
la vittima. Anche lui, come lei, si era sentito un fantasma.
Mentre rovistava tra vecchi scatoloni, il suo sguardo si posò su una
fotografia ingiallita. Un volto femminile, sorridente e malinconico, Natalì. Sempre
cercando un nuovo altrove, appariva a tutti irrequieta. A ripensarci, capiva
che la sua natura l'aveva resa una figura marginale. "Anch’io come lei ero invisibile,
un’ombra, un fantasma", recriminò tra sé.
Osservando la foto, Marco notò un dettaglio che gli era passato
inosservato, un piccolissimo segno sulla manica del vestito. Lo osservò con la
lente d’ingrandimento, sembrava una lacrima, come le crepe dell'amore che lei
aveva nascosto.
Le indagini avevano portato a un vicolo cieco, perché gli invitati si
coprivano a vicenda. L'unico testimone attendibile era un anziano professore,
un uomo saggio e sensibile, uno di quei maestri di scuola e di vita senza tempo.
La sua testimonianza era sembrata però frammentaria, come se guardasse il mondo
attraverso lo specchio convesso, la memoria che distorceva realtà e intenzioni.
Marco si alzò di scatto, stringendo il telefono con forza. Non poteva più
ignorare quel caso. Doveva avere il coraggio di scegliere, di affrontare il
passato, sperando di trovare un indizio decisivo. Compose il numero e fissò un
appuntamento con il vecchio professore, che per sua fortuna non era ancora
passato a miglior vita.
L'incontro avvenne in un giardino silenzioso, immerso in un verde muschio.
Il sottobosco dei sentimenti. Il luogo
era perfetto per rivelare verità nascoste. La sua pace contrastava con la
tempesta interiore di Marco, ma era l'atmosfera ideale per abbassare le difese
e scavare nella memoria. Il professore, vedendo la foto di Natalì, sospirò.
«Vede,
quel giorno cadeva la neve. Eravamo seduti allo stesso tavolo, e Natalì, poco
prima di essere trovata morta, si è lasciata scappare una frase: Se non mi
aiuti, io spacco tutto.»
Marco rimase in silenzio. All'inizio quelle parole gli erano sembrate
solo uno sfogo. Ma ora, con gli occhi del detective che ha solo la verità come
obiettivo, capì che quella frase era una minaccia a chi aveva più da perdere.
Si chiese: «A chi si riferiva?»
Capì che c’era qualcuno con un
segreto da nascondere, forse il marito. Il professore non aveva allora compreso
la gravità della situazione. Gli si leggeva ora negli occhi un profondo
rammarico, l'amara consapevolezza che la sua saggezza non era bastata a salvare
una vita.
Marco, invece, vedeva tutto con una chiarezza schiacciante, grazie anche
alle precedenti indagini. Natalì, disperata in un matrimonio infelice, aveva
minacciato di esporre gli affari illeciti del marito se non le avesse concesso
il divorzio. Era l'ultimo tentativo di liberarsi da un uomo creduto integro da
tutti, ma in realtà violento e disonesto. Costui, intuendo la pericolosità
della moglie, aveva già un piano. Quella minaccia, pronunciata di fronte a
tanti, fu presa molto sul serio; con la complicità dell’amante, l’aveva uccisa
per proteggere reputazione e relazione. La neve aveva coperto le tracce,
rendendo il delitto perfetto. Il piccolo segno sull'abito di Natalì, quella lacrima
indecifrabile, non era solo il simbolo delle sue sofferenze, ma il grido di
dolore che nessuno aveva ascoltato. Le pedine sulla scacchiera si muovevano
nella giusta direzione. Marco non era più un'ombra, ma un detective che aveva
intuito la verità. Una piccola macchia sull'abito di Natalì aveva svelato un
mistero durato quasi vent'anni, donando a un fantasma finalmente la sua pace.
Compose il numero della questura. La mano non tremava più per la rabbia,
ma per un'adrenalina che non sentiva da anni. Con voce ferma, spiegò tutto al
suo ex collega, il commissario De Luca.
«Riaprite il caso Natalì» disse. «Abbiamo la chiave di tutto.»
I giorni successivi furono un turbine di vecchi fascicoli, interrogatori
e un inarrestabile lavoro di squadra.
Con le nuove intuizioni e grazie a
moderne tecnologie, il caso si riaprì.
Il marito di Natalì, messo alle strette,
crollò, confessando l'omicidio. Quella piccola macchia sull'abito era la
traccia di un farmaco usato per addormentarla. Un'omissione rimasta in ombra
per anni, sepolta dalla menzogna, era la luce che portava giustizia.
Marco non era più solo il pensionato che viveva nel rimpianto, ma un uomo
che aveva finalmente trovato la pace, aveva ridato dignità a Natalì e onorato
la promessa che si era fatto: non arrendersi di fronte al dolore, ma
trasformarlo in riscatto.
§§§
Vogliamo guardare insieme le copertine che portano i titoli coi quali avete giocato?
Eccole qui e se non avete letto nessuno di questi libri, beh, ordinateli. Non siete curiosi di conoscere queste storie?
§§§
I VINCITORI DELLA GARA DELL'ESTATE
1° CLASSIFICATO
MARIA GRAZIA CONTI
2° CLASSIFICATO
GRAZIELLA BRAGHIROLI
3° CLASSIFICATI (PARI MERITO)
MARIA RITA SANNA
TATIANA VANINI
MENZIONE SPECIALE
MAURA HARY