New York Movie (1939) - Hopper
Siamo arrivati alla terza prova della Fase 1 del Masterbook, al termine della quale le classifiche dei Gruppi A e B diventeranno definitive e quattro concorrenti abbandoneranno il gioco, per poi entrare nella Fase 2 che sarà rapida e intensa.
Ma torniamo a questa prova.
I concorrenti del gruppo A dovevano scrivere un racconto come se fossero dentro il quadro. Una storia che avesse al suo interno ciò che si vede nel dipinto, compresi i personaggi.
Di seguito potrete leggere i nove racconti ed esprimere in un commento firmato le vostre impressioni su quello che andrete a leggere. NON potrete votare perché in questa prova sarà solo la giuria tecnica a farlo, vista anche l'importanza di questa ultima votazione.
Però ci piace conoscere il vostro parere sui racconti.
Nella diretta di giovedì prossimo, 20 Marzo, dalla Pagina Facebook di Edizioni Convalle, scoprirete la paternità dei testi.
Buona lettura!
ELABORATO UNO
LA FORZA DI KELLY
Alcuni erano già seduti.
La platea si stava riempiendo. Mancava poco all’inizio dello spettacolo.
Kelly si era alzata di scatto e con passo insicuro andò verso l’uscita: un forte senso di nausea le era salito dallo stomaco. Non poteva aprire la bocca per dire: «per favore» o «mi scusi.»
Già immaginava i pensieri del pubblico seduto comodo: Che premura! Che maleducazione, signorina, non ha nemmeno chiesto il permesso per uscire dal posto! Guarda quella lì: se ne va via prima ancora di aver visto lo spettacolo?
Ma che cosa ne sa la gente?
Aveva accettato di partecipare alla prima a teatro solo perché uno dei suoi clienti le aveva regalato il biglietto. Uno dei tanti regali che riceveva.
Di certo, con le sue magre sostanze, non avrebbe mai potuto permetterselo.
Un posto nelle prime file costava molti dollari, troppo per il suo borsellino dove ce n’erano ben pochi, in banca poi il conto ondeggiava spesso sul rosso.
Mandava alla sua famiglia quasi tutto il suo stipendio senza spiegarne l’origine, nascondendo la verità.
Da qualche settimana la stanchezza e la nausea al mattino le avevano rivelato che aspettava un bambino; non poteva permettersi di andare dal dottore per scoprirlo né sapeva chi potesse essere il padre. Mille pensieri si erano subito impossessati della sua mente; il suo futuro e la vita della creatura che già era sbocciata dentro di lei si sarebbero rivelati difficili e complicati.
Ma avrebbe tenuto questo bambino, anche se sarebbe stata additata come ragazza madre e ben consapevole che nel 1930 questo avrebbe creato scandalo.
Appoggiata al muro, si premeva lo stomaco per cercare di attenuare il vomito che tentava di uscire. Sudava freddo e vedeva i contorni sbiaditi delle cose.
Avrebbe dovuto stendersi, ma lì intorno non c’era un divanetto. E poi, che cosa avrebbe detto la gente di lei?
La musica continuava a suonare leggera, le luci dei lampadari a breve avrebbero segnalato l’inizio della commedia spegnendosi.
Non se la sentiva proprio di tornare al suo posto. Lo stomaco continuava ad arrotolarsi ed era meglio stare vicino all’uscita.
Kelly si accorse di aver dimenticato la borsetta sulla poltroncina: magari delle caramelline... Doveva andare a recuperarla? Lo spettacolo stava per iniziare, meglio di no.
Chissà che cosa avrebbe pensato la gente di lei. Lanciò un urlo.
La platea si stava riempiendo. Mancava poco all’inizio dello spettacolo.
Kelly si era alzata di scatto e con passo insicuro andò verso l’uscita: un forte senso di nausea le era salito dallo stomaco. Non poteva aprire la bocca per dire: «per favore» o «mi scusi.»
Già immaginava i pensieri del pubblico seduto comodo: Che premura! Che maleducazione, signorina, non ha nemmeno chiesto il permesso per uscire dal posto! Guarda quella lì: se ne va via prima ancora di aver visto lo spettacolo?
Ma che cosa ne sa la gente?
Aveva accettato di partecipare alla prima a teatro solo perché uno dei suoi clienti le aveva regalato il biglietto. Uno dei tanti regali che riceveva.
Di certo, con le sue magre sostanze, non avrebbe mai potuto permetterselo.
Un posto nelle prime file costava molti dollari, troppo per il suo borsellino dove ce n’erano ben pochi, in banca poi il conto ondeggiava spesso sul rosso.
Mandava alla sua famiglia quasi tutto il suo stipendio senza spiegarne l’origine, nascondendo la verità.
Da qualche settimana la stanchezza e la nausea al mattino le avevano rivelato che aspettava un bambino; non poteva permettersi di andare dal dottore per scoprirlo né sapeva chi potesse essere il padre. Mille pensieri si erano subito impossessati della sua mente; il suo futuro e la vita della creatura che già era sbocciata dentro di lei si sarebbero rivelati difficili e complicati.
Ma avrebbe tenuto questo bambino, anche se sarebbe stata additata come ragazza madre e ben consapevole che nel 1930 questo avrebbe creato scandalo.
Appoggiata al muro, si premeva lo stomaco per cercare di attenuare il vomito che tentava di uscire. Sudava freddo e vedeva i contorni sbiaditi delle cose.
Avrebbe dovuto stendersi, ma lì intorno non c’era un divanetto. E poi, che cosa avrebbe detto la gente di lei?
La musica continuava a suonare leggera, le luci dei lampadari a breve avrebbero segnalato l’inizio della commedia spegnendosi.
Non se la sentiva proprio di tornare al suo posto. Lo stomaco continuava ad arrotolarsi ed era meglio stare vicino all’uscita.
Kelly si accorse di aver dimenticato la borsetta sulla poltroncina: magari delle caramelline... Doveva andare a recuperarla? Lo spettacolo stava per iniziare, meglio di no.
Chissà che cosa avrebbe pensato la gente di lei. Lanciò un urlo.
ELABORATO DUE
LA MASCHERA
I crampi non le davano tregua e la febbre le provocava dei tremori eppure doveva fingere di stare bene. Nessuno doveva scoprire il suo segreto. Era stata una decisione difficile, ma inesorabile: non poteva permettersi di perdere il lavoro. Fare la maschera in un cinema elegante l’aveva strappata dalla miseria in cui viveva fino poco tempo prima. La catena di montaggio, con la sua monotonia alienante e l'ambiente squallido, era ormai il ricordo di un'esistenza priva di speranza. Ora invece era guardata con ammirazione, soprattutto dagli uomini che, nel biglietto dello spettacolo, sentivano incluso anche il piacere di essere accompagnati da una ragazza così avvenente. La divisa color pervinca, all’ultima moda, indicava lo status symbol a cui poche ragazze, belle come lei, potevano aspirare.
Solo l’estremo pallore tradiva l’angoscia presente. Sorreggersi al muro era stato l’unico rimedio per non perdere l’equilibrio, a causa dei brividi di freddo e del dolore che le attanagliava le viscere, diramandosi per tutto il corpo.
Il lavoro richiedeva che stesse in piedi, era proibito dal regolamento sedersi in sala a godersi lo spettacolo. La sua vita era distante da quella degli spettatori anche dalla suddivisione dell’ambiente: a sinistra gli spettatori, a destra, sola, la maschera.
Al lancinante dolore fisico si aggiungeva il ricordo del sogno della notte precedente: fluttuante nell’aria, le sorrideva un paffuto pargoletto. A un tratto, uno zampillo di sangue aveva macchiato i riccioli biondi, mentre il corpicino piano piano si dileguava esanime nell’aria, risucchiato da un vortice nero di vento, che lo allontanava da lei, nonostante tendesse le manine per essere abbracciato.
Le era rimasto un nodo in gola, nella consapevolezza che quell’esserino non sarebbe mai più esistito.
Insieme al peso della colpa, avvertiva le conseguenze dolorose dell’operazione eseguita sul suo corpo senza troppe cautele.
Era però consapevole che quella era stata l’unica via d’uscita: single e assunta da poco, non si sarebbe potuta permettere una bocca da sfamare, pena la miseria.
Venne strappata dai suoi funerei pensieri dalla voce garbata di un signore che, esibendo il biglietto, chiedeva di essere accompagnato al proprio posto.
Si risvegliò da quella specie di incubo: il tono e lo sguardo dell’uomo erano gentili e dolci. Per la prima volta nella vita, qualcuno le si rivolgeva come fosse davvero una donna e non una serva o una preda.
Si sentì allora pervadere da una fiducia nuova, che le rese sopportabile la precedente disperazione.
ELABORATO TRE
MARY E PETER, UNITI PER LA VITA
Maria, ragazza lucana diciassettenne, dovette seguire i genitori per emigrare negli USA. La sua famiglia numerosa conduceva faticosamente un piccolo fondo agricolo, ma un debito con gli usurai l’opprimeva.
Un incendio doloso bruciò il
loro campo di grano già maturo; si aggiunsero un fulmine, che distrusse
casolare e fienile, e la grandine, che rovinò l’uliveto e il vigneto. Perciò,
divenne difficile vivere col capestro del debito. Presero una decisione dolorosa:
svendere le proprietà, onorare i debiti e unirsi agli altri compaesani, decisi
ad emigrare per incontrare gli amici partiti prima di loro in cerca di fortuna.
Maria, al paese, amoreggiava di nascosto con Pietro, un ragazzo di una famiglia confinante, nemica giurata per problemi di confine. Così, seguì a malincuore la famiglia perché il cuore batteva per Pietro e capiva di perderlo per sempre, sebbene la speranza la sorreggesse.
Giunti a New York, fecero la quarantena presso l’isola Ellis Island. Alla fine di quel periodo, tutta la famiglia poté lasciare quel luogo per inserirsi nella società americana. Proprio allora, Maria e Pietro, che era appena arrivato là in cerca di lei, si videro per pochi minuti e, poi, si persero le tracce.
Intanto Maria fu assunta come maschera in un cinema. Ogni qualvolta entrasse uno spettatore, in cuor suo, pensava che fosse Pietro e, quando era sola e pensierosa, al posto di controllo, la sua mente era impegnata a come rintracciarlo. Si rivolse alle forze di polizia, mostrando una foto, ma non ebbe risultato.
Anche Pietro stava facendo la stessa cosa, mostrando la foto di Maria a negozianti, tassisti, fattorini… ambulanti. Un amico gli disse che un annuncio cercava ragazze da impiegare come maschere: Maria, essendo avvenente, avrebbe risposto all’annuncio. Così fu. Pietro girò parecchi cinema, sperando in un miracolo; Maria mostrava la foto di Pietro agli spettatori abituali, finché qualcuno le disse di averlo visto in un altro cinema.
Per la prima volta Maria, ora Mary, cominciò a sperare. Dalla sua postazione non spostava mai lo sguardo dall’ingresso, aspettando che il destino compisse il suo miracolo. Frattanto, i giorni passavano e la fiducia cominciava a vacillare. Maria, ritornò la ragazza triste e pensierosa di sempre e fantasticava nell’immaginare in ogni volto quello di Pietro, ora Peter. Avvenne il miracolo sperato. Peter capitò proprio nel cinema di Maria ed ella lo scambiò per un avventore qualunque. Capì che non era un miraggio, quando Peter le disse: sono io amore mio.
Maria, al paese, amoreggiava di nascosto con Pietro, un ragazzo di una famiglia confinante, nemica giurata per problemi di confine. Così, seguì a malincuore la famiglia perché il cuore batteva per Pietro e capiva di perderlo per sempre, sebbene la speranza la sorreggesse.
Giunti a New York, fecero la quarantena presso l’isola Ellis Island. Alla fine di quel periodo, tutta la famiglia poté lasciare quel luogo per inserirsi nella società americana. Proprio allora, Maria e Pietro, che era appena arrivato là in cerca di lei, si videro per pochi minuti e, poi, si persero le tracce.
Intanto Maria fu assunta come maschera in un cinema. Ogni qualvolta entrasse uno spettatore, in cuor suo, pensava che fosse Pietro e, quando era sola e pensierosa, al posto di controllo, la sua mente era impegnata a come rintracciarlo. Si rivolse alle forze di polizia, mostrando una foto, ma non ebbe risultato.
Anche Pietro stava facendo la stessa cosa, mostrando la foto di Maria a negozianti, tassisti, fattorini… ambulanti. Un amico gli disse che un annuncio cercava ragazze da impiegare come maschere: Maria, essendo avvenente, avrebbe risposto all’annuncio. Così fu. Pietro girò parecchi cinema, sperando in un miracolo; Maria mostrava la foto di Pietro agli spettatori abituali, finché qualcuno le disse di averlo visto in un altro cinema.
Per la prima volta Maria, ora Mary, cominciò a sperare. Dalla sua postazione non spostava mai lo sguardo dall’ingresso, aspettando che il destino compisse il suo miracolo. Frattanto, i giorni passavano e la fiducia cominciava a vacillare. Maria, ritornò la ragazza triste e pensierosa di sempre e fantasticava nell’immaginare in ogni volto quello di Pietro, ora Peter. Avvenne il miracolo sperato. Peter capitò proprio nel cinema di Maria ed ella lo scambiò per un avventore qualunque. Capì che non era un miraggio, quando Peter le disse: sono io amore mio.
ELABORATO QUATTRO
BEAUTY FARM
Patatine ne avevo vendute, e pure caramelle gommose. Poi c'era stato il
buio. Avevo pensato a Giulia incinta. A me che guadagnavo due lire nella sala
dalle poltrone sempre più consunte. E pure a cosa avrebbero detto quei due tizi
seduti tra il pubblico, perché si capiva che non erano lì per il film.
Quel giorno proiettavano Titanic, ma Giulia io non l'avevo rapita, l'aveva fatto lei servendomi il caffè a fine turno, nel bar vicino al cinema, due anni prima.
Quando vedo quel film e la nave affonda sento sempre solo la musica dei violini, perché amo Giulia e penso a lei. Amo anche il mio carrello colorato strapieno di leccornie, e pulire la sala dei sogni a fine spettacolo.
Anche per gente come quei due che, dopo, erano venuti avanti e rimasti per me.
Stravaccati sulle sedute deserte poco dopo avrebbero goduto nel cambiarmi il destino, «qui ci viene una mega beauty farm, inglobiamo anche il bar di fianco», erano le parole che tenevano in serbo.
Non importava, tanto pure Giulia mi stava per dirottare la vita. Quello stesso giorno era venuta alla proiezione con quel damerino dai capelli tirati all'indietro e il vestito da due milioni, e io non avevo sentito solo i violini, stavolta; mentre il Titanic veniva inghiottito avevo visto anche la gente morire.
Anche lei aveva indossato gli abiti di quando ancora era ricca, gli ultimi suoi stracci eleganti. L'avevo vista andarsene verso l'ingresso, stare là pensierosa sotto la luce dell'applique, vicino ai drappi dell’ingresso, legati come l'avrei voluta vedere legata. Poi era tornata a sedere accanto a lui.
I due tizi, intanto, si erano stravaccati come fossero a casa loro.
Chissà di chi era quel figlio, se si era accorta da tempo che sarei rimasto un morto di fame e ne aveva cercato un altro. Mentre DiCaprio baciava la Winslet, io smettevo di credere che anche un poveraccio potesse avere l'amore. Del resto, lavoravo nel regno del buio e dei sogni, ma solo a pagamento, dei tendaggi pesanti; della moquette sulla quale se uno sviene e muore non fa nemmeno rumore.
Avrei perso il lavoro, avevano detto i due smargiassi. Chissenefrega, lei se ne andava col tizio proprio in quell'istante, lasciandomi il ricordo dei suoi capelli colore dell’oro.
Quello era anche un teatro, ci lavoravano anche i maghi. Il tempo di una nave che affonda e avevo perso la compagna e mio figlio.
Quel giorno proiettavano Titanic, ma Giulia io non l'avevo rapita, l'aveva fatto lei servendomi il caffè a fine turno, nel bar vicino al cinema, due anni prima.
Quando vedo quel film e la nave affonda sento sempre solo la musica dei violini, perché amo Giulia e penso a lei. Amo anche il mio carrello colorato strapieno di leccornie, e pulire la sala dei sogni a fine spettacolo.
Anche per gente come quei due che, dopo, erano venuti avanti e rimasti per me.
Stravaccati sulle sedute deserte poco dopo avrebbero goduto nel cambiarmi il destino, «qui ci viene una mega beauty farm, inglobiamo anche il bar di fianco», erano le parole che tenevano in serbo.
Non importava, tanto pure Giulia mi stava per dirottare la vita. Quello stesso giorno era venuta alla proiezione con quel damerino dai capelli tirati all'indietro e il vestito da due milioni, e io non avevo sentito solo i violini, stavolta; mentre il Titanic veniva inghiottito avevo visto anche la gente morire.
Anche lei aveva indossato gli abiti di quando ancora era ricca, gli ultimi suoi stracci eleganti. L'avevo vista andarsene verso l'ingresso, stare là pensierosa sotto la luce dell'applique, vicino ai drappi dell’ingresso, legati come l'avrei voluta vedere legata. Poi era tornata a sedere accanto a lui.
I due tizi, intanto, si erano stravaccati come fossero a casa loro.
Chissà di chi era quel figlio, se si era accorta da tempo che sarei rimasto un morto di fame e ne aveva cercato un altro. Mentre DiCaprio baciava la Winslet, io smettevo di credere che anche un poveraccio potesse avere l'amore. Del resto, lavoravo nel regno del buio e dei sogni, ma solo a pagamento, dei tendaggi pesanti; della moquette sulla quale se uno sviene e muore non fa nemmeno rumore.
Avrei perso il lavoro, avevano detto i due smargiassi. Chissenefrega, lei se ne andava col tizio proprio in quell'istante, lasciandomi il ricordo dei suoi capelli colore dell’oro.
Quello era anche un teatro, ci lavoravano anche i maghi. Il tempo di una nave che affonda e avevo perso la compagna e mio figlio.
ELABORATO CINQUE
L'ASSOLO DI MIRANDA GRAY
L’atmosfera del teatro mi accoglie, calda come un abbraccio. Dietro la
tenda di feltro rosso si cela il mio destino. Avrò il coraggio di salire quella
scala?
Ammiro affascinata l’ampia sala delle proiezioni: i soffitti alti e decorati, le morbide poltrone di velluto e i raffinati pavimenti a mosaico. Le pareti e gli arazzi scintillano sotto le luci soffuse dei lampadari.
Il profumo burroso del mais tostato si mescola alle note speziate dell’acqua di colonia degli uomini seduti in platea, mentre ripeto sottovoce le parole della canzone, fissandole nella mente.
La moquette attutisce i miei passi. Nessuno si è accorto della mia presenza; sono ancora in tempo per girare i tacchi e rinunciare.
Sento i risolini delle ragazze che si preparano e le immagino mentre si aggiustano il belletto.
Non voglio salire insieme a loro. Aspetterò qui, nell’atrio, e solo quando sarà il mio turno salirò nel camerino. Non ho intenzione di cambiarmi, né di spogliarmi.
Non capisco come lo sgambettare in abiti succinti potrebbe migliorare la mia voce.
Detesto quei tagli di capelli alla maschietta che vanno tanto di moda e le gonnelline che mettono tutto in mostra. Io voglio solo cantare.
La mia esibizione sarà diversa e unica.
L’abito blu che ho scelto per l’occasione, semplice, ma di classe, accarezza le forme senza essere volgare. Non ho bisogno di ostentare la mia femminilità, né di cercare di assomigliare a un uomo.
Sono Miranda Gray, la cantante.
Non sarà il mio corpo a determinare chi sono, ma la passione che arde dentro di me. Quel fuoco inarrestabile che mi ha spinto a sfidare la mia famiglia per inseguire un sogno.
Quando canto, sprigiono un’energia che rende tutto possibile.
All’interno della sala alcune poltrone sono già occupate da uomini in abiti eleganti. Il mio assolo, Notte di libertà, aprirà la serata.
All’ingresso vedo le persone che si accalcano per acquistare i biglietti.
Ci siamo.
Ho la bocca asciutta e mi tremano le mani, tra poco toccherà a me.
Le luci si accendono e la voce potente del presentatore irrompe nell’aria: «Signore e signori, preparatevi a essere incantati dalla meravigliosa voce della nostra stella della musica, la favolosa e unica Miranda Gray!»
Non c’è più tempo per i dubbi. Inspiro a fondo, raddrizzo le spalle e salgo le scale.
È il mio momento.
Ammiro affascinata l’ampia sala delle proiezioni: i soffitti alti e decorati, le morbide poltrone di velluto e i raffinati pavimenti a mosaico. Le pareti e gli arazzi scintillano sotto le luci soffuse dei lampadari.
Il profumo burroso del mais tostato si mescola alle note speziate dell’acqua di colonia degli uomini seduti in platea, mentre ripeto sottovoce le parole della canzone, fissandole nella mente.
La moquette attutisce i miei passi. Nessuno si è accorto della mia presenza; sono ancora in tempo per girare i tacchi e rinunciare.
Sento i risolini delle ragazze che si preparano e le immagino mentre si aggiustano il belletto.
Non voglio salire insieme a loro. Aspetterò qui, nell’atrio, e solo quando sarà il mio turno salirò nel camerino. Non ho intenzione di cambiarmi, né di spogliarmi.
Non capisco come lo sgambettare in abiti succinti potrebbe migliorare la mia voce.
Detesto quei tagli di capelli alla maschietta che vanno tanto di moda e le gonnelline che mettono tutto in mostra. Io voglio solo cantare.
La mia esibizione sarà diversa e unica.
L’abito blu che ho scelto per l’occasione, semplice, ma di classe, accarezza le forme senza essere volgare. Non ho bisogno di ostentare la mia femminilità, né di cercare di assomigliare a un uomo.
Sono Miranda Gray, la cantante.
Non sarà il mio corpo a determinare chi sono, ma la passione che arde dentro di me. Quel fuoco inarrestabile che mi ha spinto a sfidare la mia famiglia per inseguire un sogno.
Quando canto, sprigiono un’energia che rende tutto possibile.
All’interno della sala alcune poltrone sono già occupate da uomini in abiti eleganti. Il mio assolo, Notte di libertà, aprirà la serata.
All’ingresso vedo le persone che si accalcano per acquistare i biglietti.
Ci siamo.
Ho la bocca asciutta e mi tremano le mani, tra poco toccherà a me.
Le luci si accendono e la voce potente del presentatore irrompe nell’aria: «Signore e signori, preparatevi a essere incantati dalla meravigliosa voce della nostra stella della musica, la favolosa e unica Miranda Gray!»
Non c’è più tempo per i dubbi. Inspiro a fondo, raddrizzo le spalle e salgo le scale.
È il mio momento.
ELABORATO SEI
MAGNIFICA PRESENZA
Sapeva che sarebbe
arrivato un dopo...
A volte la vita ci fa sprofondare nella realtà e non riusciamo a concepire un futuro. È troppo ...il futuro.
Questo pensava Olga da quel 16 novembre che aveva segnato il confine tra il prima e il dopo.
Aveva trascorso gli ultimi mesi chiusa in casa, lontana da quella finestra.
Ogni volta che ci passava davanti, si scostava ed evitava di guardare fuori.
Eppure era stata la finestra da cui ammirava il cielo nelle notti estive; da quella respirava l'aria fresca prima di andare a dormire.
Era stata la finestra dove si affacciava per salutare sua figlia che guardava all'insù per un ultimo cenno con la mano.
Oggi era la finestra da cui...
Non aveva il coraggio di dirlo, di pronunciare quelle parole.
Non era riuscita a salvarla. Si sentiva come fosse caduta giù con lei.
E questo pensava tutte le sere, dopo aver accolto il pubblico che entrava in teatro. Sorrideva Olga, ci riusciva. Era gentile e accompagnava in sala il pubblico. Indossava la sua divisa: un completo pantaloni azzurro, con una banda laterale rossa. Olga era bionda e giovane, aveva un corpo snello ed elegante.
Aveva accettato un lavoro come maschera in un teatro della sua città.
Ironia della sorte! Già, come maschera. Era quella che avrebbe indossato tutte le sere.
Teneva la tenda di velluto rosso aperta e indicava con un gesto discreto, la direzione verso i palchetti. Poi attendeva la fine dello spettacolo, salutava chi usciva e chiudeva il teatro.
Una sera la sentì: una voce allegra e squillante. Era lei! La sua Maria!
Si voltò con le braccia aperte pronte a stringerla.
Una ragazza stava entrando sotto braccio ad un uomo e rideva.
Le porse il biglietto e Olga la guardò ammutolita.
Con voce tremante, lesse il numero della fila e del posto:
A volte la vita ci fa sprofondare nella realtà e non riusciamo a concepire un futuro. È troppo ...il futuro.
Questo pensava Olga da quel 16 novembre che aveva segnato il confine tra il prima e il dopo.
Aveva trascorso gli ultimi mesi chiusa in casa, lontana da quella finestra.
Ogni volta che ci passava davanti, si scostava ed evitava di guardare fuori.
Eppure era stata la finestra da cui ammirava il cielo nelle notti estive; da quella respirava l'aria fresca prima di andare a dormire.
Era stata la finestra dove si affacciava per salutare sua figlia che guardava all'insù per un ultimo cenno con la mano.
Oggi era la finestra da cui...
Non aveva il coraggio di dirlo, di pronunciare quelle parole.
Non era riuscita a salvarla. Si sentiva come fosse caduta giù con lei.
E questo pensava tutte le sere, dopo aver accolto il pubblico che entrava in teatro. Sorrideva Olga, ci riusciva. Era gentile e accompagnava in sala il pubblico. Indossava la sua divisa: un completo pantaloni azzurro, con una banda laterale rossa. Olga era bionda e giovane, aveva un corpo snello ed elegante.
Aveva accettato un lavoro come maschera in un teatro della sua città.
Ironia della sorte! Già, come maschera. Era quella che avrebbe indossato tutte le sere.
Teneva la tenda di velluto rosso aperta e indicava con un gesto discreto, la direzione verso i palchetti. Poi attendeva la fine dello spettacolo, salutava chi usciva e chiudeva il teatro.
Una sera la sentì: una voce allegra e squillante. Era lei! La sua Maria!
Si voltò con le braccia aperte pronte a stringerla.
Una ragazza stava entrando sotto braccio ad un uomo e rideva.
Le porse il biglietto e Olga la guardò ammutolita.
Con voce tremante, lesse il numero della fila e del posto:
- Prego, vi accompagno io.
Mentre saliva con loro, fu inondata da una scia di profumo. Lo stesso di sua figlia. Se ne inebriò e la vita riprese a scorrerle nelle vene.
Sembrava essere lì con lei, in un momento inaspettato, un attimo in mezzo a giornate grigie e tristi. Qualcosa l'aveva riportata da lei. Sapeva che ancora le era accanto.
Olga sorrise: avrebbe atteso l'uscita del pubblico insieme alla sua Maria.
Non poteva essere un banale caso, un vago sogno portato dal dolore.
Era lì, il suo dopo: una magnifica presenza.
Mentre saliva con loro, fu inondata da una scia di profumo. Lo stesso di sua figlia. Se ne inebriò e la vita riprese a scorrerle nelle vene.
Sembrava essere lì con lei, in un momento inaspettato, un attimo in mezzo a giornate grigie e tristi. Qualcosa l'aveva riportata da lei. Sapeva che ancora le era accanto.
Olga sorrise: avrebbe atteso l'uscita del pubblico insieme alla sua Maria.
Non poteva essere un banale caso, un vago sogno portato dal dolore.
Era lì, il suo dopo: una magnifica presenza.
ELABORATO SETTE
LA LUCE DELL'ALBA
LA LUCE DELL'ALBA
Tutti i giorni erano uguali. Stesso locale con
tre o quattro persone che guardavano una pellicola consunta come la colonna a lato
delle poltroncine.
Da anni facevo la maschera all’interno di quel piccolo cinema di periferia e durante le proiezioni davo libero sfogo ai miei pensieri.
Me ne stavo sempre appoggiata alla parete sotto una triade di luci aranciate, come il resto dell’illuminazione, sicuramente più adatte a un locale notturno che a un cinema. Ero sposata da vent’anni, senza figli e con un lavoro noioso da morire ma, nonostante ciò, ben retribuito.
Che vuoi di più? Mi sentivo spesso ripetere da mia madre e da mio marito.
Era vero. Avevo un lavoro, un marito paziente e gentile. Eppure quella vita mi stava spegnendo. Una cosa alla quale cercavo di non dare importanza, per esempio, era il fatto che da anni, io e mio marito, non avessimo più rapporti intimi. Alle mie richieste di contatto, peraltro sempre molto dimesse, rispondeva con lo stesso slogan: siamo vecchi, ormai, per queste cose. Abbiamo tanto altro da condividere.
E io pensavo che, sì, forse, aveva ragione. Ma poi la notte mi ritrovavo a cercare quel piacere da sola e quando si concretizzava, fra i denti, ripetevo che non avrei concluso la mia esistenza senza vibrare ancora e non solo di piacere sessuale, ma di vita, di colore, di luce. Cinquant’anni erano davvero troppo pochi per rimanere al buio. Eppure lasciavo scorrere il tempo accettando, senza opporre resistenza, quei giorni monocolori.
Ma il tempo è abile e ingannevole. Ti fa credere che non cambierà e, invece, muta senza preavviso. Infatti, quel giorno, mentre ero appoggiata alla stessa parete, qualcosa scosse il mio torpore. Fu come una bomba che scoppia all’improvviso, quando nemmeno sospetti che esista un pericolo simile.
In cima alle scale, che conducevano all’interno del cinema, apparvero due poliziotti e mi fecero cenno di uscire.
Mio marito era stato colto in flagrante mentre riscuoteva denaro all’interno di una casa di appuntamenti della quale risultava, se così si può dire, il principale gestore nonché parte attiva nello svolgimento delle prestazioni richieste all’interno della stessa.
Da un giorno all’altro ho cambiato vita, il tempo ha scelto per me lasciandomi prima il vuoto, poi la rabbia e, infine, il silenzio. E da quel silenzio, piano piano, è comparsa una luce. Una specie di nuova alba che, per sorgere, aspettava solo me.
Da anni facevo la maschera all’interno di quel piccolo cinema di periferia e durante le proiezioni davo libero sfogo ai miei pensieri.
Me ne stavo sempre appoggiata alla parete sotto una triade di luci aranciate, come il resto dell’illuminazione, sicuramente più adatte a un locale notturno che a un cinema. Ero sposata da vent’anni, senza figli e con un lavoro noioso da morire ma, nonostante ciò, ben retribuito.
Che vuoi di più? Mi sentivo spesso ripetere da mia madre e da mio marito.
Era vero. Avevo un lavoro, un marito paziente e gentile. Eppure quella vita mi stava spegnendo. Una cosa alla quale cercavo di non dare importanza, per esempio, era il fatto che da anni, io e mio marito, non avessimo più rapporti intimi. Alle mie richieste di contatto, peraltro sempre molto dimesse, rispondeva con lo stesso slogan: siamo vecchi, ormai, per queste cose. Abbiamo tanto altro da condividere.
E io pensavo che, sì, forse, aveva ragione. Ma poi la notte mi ritrovavo a cercare quel piacere da sola e quando si concretizzava, fra i denti, ripetevo che non avrei concluso la mia esistenza senza vibrare ancora e non solo di piacere sessuale, ma di vita, di colore, di luce. Cinquant’anni erano davvero troppo pochi per rimanere al buio. Eppure lasciavo scorrere il tempo accettando, senza opporre resistenza, quei giorni monocolori.
Ma il tempo è abile e ingannevole. Ti fa credere che non cambierà e, invece, muta senza preavviso. Infatti, quel giorno, mentre ero appoggiata alla stessa parete, qualcosa scosse il mio torpore. Fu come una bomba che scoppia all’improvviso, quando nemmeno sospetti che esista un pericolo simile.
In cima alle scale, che conducevano all’interno del cinema, apparvero due poliziotti e mi fecero cenno di uscire.
Mio marito era stato colto in flagrante mentre riscuoteva denaro all’interno di una casa di appuntamenti della quale risultava, se così si può dire, il principale gestore nonché parte attiva nello svolgimento delle prestazioni richieste all’interno della stessa.
Da un giorno all’altro ho cambiato vita, il tempo ha scelto per me lasciandomi prima il vuoto, poi la rabbia e, infine, il silenzio. E da quel silenzio, piano piano, è comparsa una luce. Una specie di nuova alba che, per sorgere, aspettava solo me.
ELABORATO OTTO
AL CINEMA TEATRO ODEON
Al Cinema Teatro Odeon, il venerdì pomeriggio, proiettano vecchie
pellicole, in bianco e nero. A nessuno interessa il titolo del film, né la
trama, né gli attori.
Al Cinema Teatro Odeon, il venerdì pomeriggio, ci sono pochi spettatori: tutti uomini, tutti ricchi, tutti vestiti di nero, seduti sulle poltrone della sala buia. Io sono l’unica donna.
Al Cinema Teatro Odeon io non mi siedo mai, sto in piedi nel corridoio giallo, illuminato dalle luci di servizio. In fondo al corridoio una scala verde porta alla cabina di proiezione. O almeno così pensa chi non sa. Io so dove porta veramente, quella scala.
Per venire al Cinema Teatro Odeon, oggi, ho messo un abito di mia nonna: un abito pantalone, blu elettrico, anni Trenta, i sandali neri col tacco a spillo, come li portava lei. L’acconciatura l’ho copiata da un suo ritratto. Era bionda. Così mi sono tinta, di biondo.
Il Cinema Teatro Odeon è ornato da colonne argentate, scolpite con volti di sfinge, lo sguardo quasi umano.
Attendo il segnale concordato. La pellicola si interromperà per poco, un uomo si alzerà dalla poltrona. Io, solo allora, salirò quelle scale verdi.
Pensavo fosse un lavoro come tanti. La libertà di avere ciò che desideravo. Ho la passione degli acquari, io, e dei pesci tropicali: quelli blu. Ho riempito di acquari una stanza di casa. Ora, quando entro in quella stanza, i pesci blu mi assalgono. Devo liberarmene, adesso che ho un piccolo pesce dentro al mio ventre. Un piccolo pesce che si spaventerebbe, davanti a tutti quei pesci blu in trappola.
All’inizio era un lavoro come tanti. Poi sono cominciate le minacce. Per questo oggi mi sono vestita come mia nonna. Se sono nei vestiti di nonna, se sono nel corpo di nonna, nessun uomo potrà più violare il mio corpo.
Ecco il segnale. Oggi ho paura, grido, non voglio salire. Si avvicina un uomo: è mio marito, mi ha sposata per farmi fare “il lavoro”, non per amore. Mi cinge le spalle. Vorrei gridare ancora, invece mi lascio accompagnare fuori.
Giovane donna si toglie la vita, gettandosi dal terzo piano della villa dove viveva con il marito. La coppia aveva appena trascorso un pomeriggio al cinema. Lei soffriva di disturbi psichiatrici. Era al terzo mese di gravidanza.
Se domani leggerete questo articolo, sui quotidiani, non credeteci! Non mi sarei uccisa, mai. Non ora. È che volevo smettere, e sapevo troppo.
Al Cinema Teatro Odeon, il venerdì pomeriggio, ci sono pochi spettatori: tutti uomini, tutti ricchi, tutti vestiti di nero, seduti sulle poltrone della sala buia. Io sono l’unica donna.
Al Cinema Teatro Odeon io non mi siedo mai, sto in piedi nel corridoio giallo, illuminato dalle luci di servizio. In fondo al corridoio una scala verde porta alla cabina di proiezione. O almeno così pensa chi non sa. Io so dove porta veramente, quella scala.
Per venire al Cinema Teatro Odeon, oggi, ho messo un abito di mia nonna: un abito pantalone, blu elettrico, anni Trenta, i sandali neri col tacco a spillo, come li portava lei. L’acconciatura l’ho copiata da un suo ritratto. Era bionda. Così mi sono tinta, di biondo.
Il Cinema Teatro Odeon è ornato da colonne argentate, scolpite con volti di sfinge, lo sguardo quasi umano.
Attendo il segnale concordato. La pellicola si interromperà per poco, un uomo si alzerà dalla poltrona. Io, solo allora, salirò quelle scale verdi.
Pensavo fosse un lavoro come tanti. La libertà di avere ciò che desideravo. Ho la passione degli acquari, io, e dei pesci tropicali: quelli blu. Ho riempito di acquari una stanza di casa. Ora, quando entro in quella stanza, i pesci blu mi assalgono. Devo liberarmene, adesso che ho un piccolo pesce dentro al mio ventre. Un piccolo pesce che si spaventerebbe, davanti a tutti quei pesci blu in trappola.
All’inizio era un lavoro come tanti. Poi sono cominciate le minacce. Per questo oggi mi sono vestita come mia nonna. Se sono nei vestiti di nonna, se sono nel corpo di nonna, nessun uomo potrà più violare il mio corpo.
Ecco il segnale. Oggi ho paura, grido, non voglio salire. Si avvicina un uomo: è mio marito, mi ha sposata per farmi fare “il lavoro”, non per amore. Mi cinge le spalle. Vorrei gridare ancora, invece mi lascio accompagnare fuori.
Giovane donna si toglie la vita, gettandosi dal terzo piano della villa dove viveva con il marito. La coppia aveva appena trascorso un pomeriggio al cinema. Lei soffriva di disturbi psichiatrici. Era al terzo mese di gravidanza.
Se domani leggerete questo articolo, sui quotidiani, non credeteci! Non mi sarei uccisa, mai. Non ora. È che volevo smettere, e sapevo troppo.
ELABORATO NOVE
MOVIMENTO N° 3
MOVIMENTO N° 3
Me ne sto appoggiata al muro dei
vinti con gli occhi bassi, non riesco a guardare questo palcoscenico mentre
riproduce la storia della vostra vita.
Il silenzio che mi circonda sovrasta gli applausi.
Vedo le loro mani muoversi, nascosta dietro uno dei serpenti di marmo che sorreggono questa illusione.
L'approvazione dilaga.
Il silenzio che mi circonda sovrasta gli applausi.
Vedo le loro mani muoversi, nascosta dietro uno dei serpenti di marmo che sorreggono questa illusione.
L'approvazione dilaga.
L'attrice protagonista dovrebbe
entrare a breve, inchinarsi, correggere con lacrime di gioia i calici colmi
d'orgoglio di amici e parenti ormai ebbri dall'idea di conoscere qualcuno di successo.
«La mia bambina!»
«Mia moglie!»
«La mia mamma!»
Li sento.
Vi sento.
Per voi un domani ci sarà solo se fallirò.
Mi consolo.
A voi consola?
Qualcuno in lontananza non sembra essere soddisfatto. Si avvicina.
«E' tutto pronto?»
«Si Igor»
Mi fa l'occhiolino mentre si allontana, lasciandomi lì, avvolta dalle risate degli altri, dai loro discorsi vuoti ai complimenti un po' sconci.
Non c'è invidia nel mio cuore, nemmeno cattiveria, vorrei per ognuno ciò che desidero per me.
Sono affari di lavoro, niente di personale. Lo fareste anche voi per tutti questi soldi.
Mi giustifico, parlando con le mie scarpe troppo eleganti.
Lo so che è arrivato il momento.
L'attrice protagonista sta entrando.
«Brava mamma!»
“Già” penso “ tua mamma è molto brava e fortunata ad avere una bella bimba come te”
Mi abbasso. Sotto le scale, dietro al palcoscenico, Igor aveva piazzato un marchingegno espolsivo composto da una miscela di tre liquidi: polisobutilene, RDX e etilesil sebacato.
Premo il pulsante.
Ho due minuti per uscire.
I miei tacchi passeggiano calmi verso la reception. Battono un tempo 4/4 che ricorda molto Mozart.
«Arrivederci!»
Sorrido. No non ci rivedremo più-
Per un attimo mi sembra di scorgere il volto della bimba, ricamato nei miei pensieri, assumere i miei lineamenti di bambina quando ancora suonavo il piano.
Queste mani non hanno mai perso la grazia di produrre suoni, penso.
Ho solo aumentato i decibel.
BANG!
«La mia bambina!»
«Mia moglie!»
«La mia mamma!»
Li sento.
Vi sento.
Per voi un domani ci sarà solo se fallirò.
Mi consolo.
A voi consola?
Qualcuno in lontananza non sembra essere soddisfatto. Si avvicina.
«E' tutto pronto?»
«Si Igor»
Mi fa l'occhiolino mentre si allontana, lasciandomi lì, avvolta dalle risate degli altri, dai loro discorsi vuoti ai complimenti un po' sconci.
Non c'è invidia nel mio cuore, nemmeno cattiveria, vorrei per ognuno ciò che desidero per me.
Sono affari di lavoro, niente di personale. Lo fareste anche voi per tutti questi soldi.
Mi giustifico, parlando con le mie scarpe troppo eleganti.
Lo so che è arrivato il momento.
L'attrice protagonista sta entrando.
«Brava mamma!»
“Già” penso “ tua mamma è molto brava e fortunata ad avere una bella bimba come te”
Mi abbasso. Sotto le scale, dietro al palcoscenico, Igor aveva piazzato un marchingegno espolsivo composto da una miscela di tre liquidi: polisobutilene, RDX e etilesil sebacato.
Premo il pulsante.
Ho due minuti per uscire.
I miei tacchi passeggiano calmi verso la reception. Battono un tempo 4/4 che ricorda molto Mozart.
«Arrivederci!»
Sorrido. No non ci rivedremo più-
Per un attimo mi sembra di scorgere il volto della bimba, ricamato nei miei pensieri, assumere i miei lineamenti di bambina quando ancora suonavo il piano.
Queste mani non hanno mai perso la grazia di produrre suoni, penso.
Ho solo aumentato i decibel.
BANG!
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle
Ciao a tutti! Anche se non ci sono voti da dare , mi piace esprimere le tre preferenze!
RispondiEliminaLe mie scelte sono:
1. Elaborato 6:Magnifica Presenza
2.Eleborato 3:Mary e Peter, uniti per la vita
3 Eleborato 5: L'assolo di Miranda Gray
Grazie a tutti i partecipanti per i racconti che ci state regalando e a Stefania per aver riproposto l'opportunità del Master book! A presto😊