E dopo aver giocato insieme ai miei amici scrittori, partendo da un incipit di un mio romanzo che avevo iniziato a scrivere un po' di tempo fa, voglio proporvi quello che era stato il mio personale sviluppo di Rosamarea, per continuare a scriverlo qui, per voi. Il mio regalo per l'estate.
R O S A M
A R E A
di
Stefania Convalle
Capitolo uno
"Come ti chiami?"
"Rosamarea."
"Siediti, Rosamarea. Non avere paura. Hai un bel nome, particolare, non
l’avevo mai sentito prima."
Si sedette a quel tavolo sorprendendosi con se stessa per ciò che stava
facendo.
Era entrata in quel locale per
rifugiarsi dal temporale improvviso. Infradiciata e molto contrariata, aveva
ordinato un tè caldo rassegnandosi di fronte all’imprevisto che le stava
facendo perdere parecchio tempo. Con un’occhiata nervosa all’orologio e una
all’agenda piena di appuntamenti, pensò con disappunto a quanto lavoro non
sarebbe riuscita a terminare.
Si abbandonò sulla sedia
cominciando a guardarsi intorno. Subito si sentì avvolgere da un calore
inaspettato. C’era una gradevole intimità in quella piccola sala da tè; pochi
tavoli di legno consunto, luci basse e colori caldi; la tazza fumante lì
davanti faceva il resto.
Guardò fuori e vide che il tempo non accennava a migliorare, ma non le
importava più come prima, stava bene.
Assaggiò il suo tè bollente mentre osservava le altre persone in quel
luogo così diverso da quelli che era solita frequentare. Intorno a sé nessuno aveva fretta, al contrario ognuno
sembrava assaporare quella tranquillità.
Si chiese come quelle persone
potessero essere tanto padrone del loro tempo mentre lei riusciva a fare a
malapena ciò che aveva minuziosamente programmato.
In un angolo vide una coppia parlare fitto fitto, stavano guardando delle
fotografie, sorridevano, sembravano felici, innamorati. Sentì un nodo in gola, le venne in mente il suo ultimo amore. Era ancora
innamorata di lui, sebbene fossero passati ormai mesi dall’ultima volta che
l’aveva visto, ma non riusciva a dimenticare. Si erano lasciati perché volevano
cose troppo diverse: lei una famiglia, lui soltanto trascorrere qualche bel
momento, senza nessun impegno. Da allora si era buttata nel lavoro, cercando di
occupare qualsiasi angolino della mente con altri pensieri che non fossero "lui". Distolse lo sguardo da quei
due, troppo dolore ancora pronto a riaffiorare.
Sorseggiava il tè, curiosando in
giro con lo sguardo finché vide in un angolo in penombra una donna seduta a un
tavolo. Sembrava molto vecchia, quasi eterea. Davanti a sé una tazza e una
teiera, pareva fosse lì da sempre; una candela accesa da una parte, un tappetino
rosso adagiato sul tavolo e un mazzo di
carte appoggiate sopra.
Non vedeva bene i suoi occhi, restavano in ombra. La colpì la calma che sembrava appartenerle, un senso di pace che emanava
da ogni parte del suo corpo. Fu subito attratta da quella figura; lei, così inquieta, così
infelice, cominciò a fissarla quasi
incantata.
Quando passò il cameriere, ordinò un altro tè e gli chiese: "Chi è quella donna? Sembra faccia parte del locale!"
Lui, mentre toglieva la tazza
ormai vuota per posarla sul vassoio,
guardò in direzione dell’anziana donna: "Chi, Bianca? è una vecchia
signora che viene qui da tanti anni, potrebbe essere anche una centenaria, a
giudicare dal tempo che frequenta questo posto! Se ne sta lì, ore e ore con le
sue carte, aspettando che qualcuno si sieda davanti a lei."
"Appunto" disse Rosamarea "mi chiedevo che ci facesse con quel mazzo di
carte, cerca qualcuno che faccia qualche partita con lei?"
Il ragazzo sorrise. "Partita a carte? Ma no! Lei le legge,
le carte, e non immagina quante persone vengano a trovarla regolarmente. Non si
fa pagare, pare sia ricca di famiglia. C’è un certo alone di mistero sulla sua
vita, nessuno ne sa molto."
Rosamarea parve sorpresa. Non
aveva mai avuto a che fare con cartomanti, seppure ne fosse sempre stata attratta. Nella sua
famiglia aleggiavano questi poteri divinatori: sua nonna leggeva i tarocchi e
sua madre era stata una sensitiva, faceva sogni premonitori, aveva avuto
qualche visione da bambina, possedeva sicuramente un potenziale paranormale che
però non aveva mai coltivato.
Il ragazzo si allontanò per
poi ricomparire con la nuova tazza di tè, aveva aggiunto un piccolo piatto
con dei biscotti, forse aveva capito che
la donna non aveva intenzione di andarsene in fretta.
"Ma scusa, spiegami come funziona, ci si avvicina, e poi?"
"…Ci si avvicina e basta, poi ci pensa lei."
Rosamarea rimase a guardarla, voleva provare ad andare da lei, ma non ne
aveva il coraggio.
Entrò una donna nella sala, il
volto triste, sembrava avesse pianto fino a pochi minuti prima. Dopo una rapida
occhiata, si diresse con passo svelto in quell’angolo misterioso. Scambiò due
parole con la cartomante e si sedette davanti a lei.
L’attenzione di Rosamarea
cadde sulle mani dell’anziana donna, riusciva a vederle benissimo, erano mani
vecchie, nodose, ma mescolavano quei tarocchi con una grazia tale da sembrare
una danza. Restò affascinata da quel rituale. La osservò stendere le carte
sul tavolo, studiarle e poi parlare con la donna davanti a lei; notò come la sensazione di tristezza profonda
che aveva visto nei suoi occhi quando era entrata, lasciò lentamente il posto a
uno sguardo più sereno, forse Bianca le
aveva dato qualche speranza riguardo a ciò che evidentemente la tormentava. Una parte di lei era scettica, ma un’altra parte sembrava che sentisse il
richiamo di quel tavolo, quasi fosse una calamita. La donna si alzò, ringraziò e
lasciò un pacchettino sul tavolo, sembrava un regalo.
Ora il posto era nuovamente
libero. Rosamarea sentiva quasi la nausea di fronte a quella sensazione
fortissima di voler andare, senza averne il coraggio. E poi, si chiese, cosa avrebbe voluto sapere, quale domanda avrebbe
posto. Forse gli avrebbe chiesto di lui?
Ma voleva veramente avere informazioni, notizie - non sapeva come definirle - su
quell’uomo che amava ancora, ma che non poteva avere? A cosa sarebbe servito? A
farla stare meglio oppure a farle perdere quel minimo equilibrio che aveva
raggiunto faticosamente in quei mesi, un equilibrio sudato, per poter continuare
a vivere senza di lui?
L’anziana donna,
all’improvviso, si voltò verso di lei, il suo
viso emerse dalla penombra, gli sguardi s’incrociarono. Fu allora che
Rosamarea si alzò, s’incamminò verso di lei e le si fermò di fronte.
"Come ti chiami?"
"Rosamarea"
"Siediti, Rosamarea."
Capitolo
due
Rosamarea si sedette. La sedia le sembrò
ricoperta di chiodi, tanta era la sua
tensione, ma poi cominciò a rilassarsi e si appoggiò allo schienale.
Bianca la guardava
sorridendole, aveva posato i tarocchi sul tavolo e si era versata una tazza di
tè. Tutti i suoi movimenti erano lenti e aggraziati.
Osservò il suo abito, una
tunica turchese di lino, molto semplice, le ricordava un abito di una donna
dell’India. Gli occhi erano nerissimi e vivi come non mai; i capelli lunghi
raccolti in una treccia. Si vedeva che era anziana, ma era difficile
attribuirle un’età. Alle mani portava un
grosso anello d’argento con incastonato un turchese.
Bianca posò la tazza e riprese le carte; da vicino si poteva vedere come esse
fossero vecchie e consumate, quasi lievitate per l’uso continuo; erano
grandi, ma stavano perfettamente tra le mani della donna che le aveva sparse
sul tappeto rosso per mescolarle. Dopo averle girate e rigirate, le raccolse
nuovamente e, composto il mazzo, riprese a mischiarle.
Rosamarea la guardava in silenzio, un
silenzio tranquillo, per nulla imbarazzato. La cartomante posò il mazzo
delicatamente sul tavolo.
"Dimmi,
Rosamarea, ti trovi bene nel tuo tailleur?"
Sorpresa da
quella domanda, guardò come si fosse vestita. Come sempre aveva indossato una
gonna e una giacca, era il suo abito da
lavoro, doveva porsi alla gente con cui veniva in contatto con un’aria manageriale; era sempre elegante
e in ordine, ma effettivamente c’era poco colore nei suoi abiti grigi, come del
resto nella sua vita.
"Fa parte del
mio lavoro. Che strana domanda, la sua!"
"Ti prego, non
mi dare del lei. Sai, Rosamarea,
questa usanza di dare del lei la trovo curiosa; se ci pensi bene, quando si
recitano le preghiere o quando si è disperati e ci si rivolge al proprio Dio,
non gli diamo certo del lei, ma un
confidenziale tu. E allora ho sempre
pensato che se non davo del lei a
Lui, perché mai lo avrei dovuto fare con le persone come me?"
"Interessante
punto di vista, non ci avevo mai pensato, in effetti. Ti chiami Bianca, vero?
Me l’ha detto il cameriere."
"Sì, Bianca, mi
chiamo così... Per voi."
"Hai un nome
d’arte?” Rispose Rosamarea con un tono canzonatorio.
Bianca posò le
carte sul tavolo. Con un sorriso le
disse: "Credo che tu non sia ancora pronta per farti leggere i tarocchi da me."
Si alzò
dalla sedia, raccolse le carte
riponendole in una telo leggerissimo bianco dove notò le iniziali di un nome
ricamate con del filo rosso, lo infilò
in una borsa di tessuto cangiante e prima di allontanarsi aggiunse,
facendole una carezza sulla guancia: "Ti aspetto. E comunque non hai risposto
alla mia domanda."
Rosamarea rimase sbigottita da quella
reazione. E anche un po’ contrariata. In fondo era una vecchia donna che
leggeva le carte, la giudicò altezzosa. Si sentì improvvisamente una stupida a
essersi seduta a quel tavolo.
Si alzò di
scatto, si sistemò gli abiti, prese la sua valigetta e guardò fuori. Aveva
smesso di piovere. Uscì dal locale per tornare al lavoro.
Capitolo
tre
Entrò nell’ufficio di pessimo umore, gettò
con un gesto di stizza la borsa sulla scrivania facendo cadere il portaritratti
che aveva il posto d'onore sul tavolo.
C’era la foto di suo figlio, un bellissimo ragazzo, la fotocopia del padre che
se l'era data a gambe quando aveva scoperto la gravidanza. Erano passati
venticinque anni, ma quando pensava a quella storia, aveva voglia di mettersi
in cerca dell’uomo per dirgli finalmente ciò che pensava di lui, cosa che non
era riuscita a fare a quel tempo per la
sua giovane età; ma ora, a quarantacinque anni, sarebbe riuscita
a trovare le giuste parole per farlo
sentire un mezzo uomo.
Sistemò la foto
di Marco e cercò le sigarette nella borsa.
Andò nell’ufficio a fianco, bussò sulla
porta semiaperta e una voce la invitò a entrare.
Emma stava
lavorando al computer, ma appena diede un'occhiata alla collega, capì che aveva
bisogno di sfogarsi.
"Che ti succede?
Hai un'espressione da day after!"
Rosamarea entrò
e si allungò su una poltrona, si accese la sigaretta tirando boccate nervose. Si considerò fortunata
di avere come collega Emma, sua grande amica. Erano in simbiosi perfetta, si capivano da uno sguardo e sapevano che
l'una era per l'altra.
"Allora? Dimmi!"
"Giornata
pessima. Appuntamenti senza concludere niente. Poi il diluvio, mi sono bagnata
dalla testa ai piedi e, piccolo particolare, stamattina ero riuscita ad andare
dal parrucchiere! Va beh, lasciamo perdere. Comunque ero fradicia e mi sono
catapultata dentro un locale, sai, in quella vietta dietro il Duomo, in centro."
"Sì, lo conosco,
ci vado ogni tanto a fare colazione, hanno dei croissant ottimi!"
"Lascia perdere
i croissant! Hai mai visto la cartomante?"
"Cartomante? No,
perché, c’è una cartomante?"
"A giudicare da
ciò che mi ha detto il cameriere, fa parte dell’arredamento. Insomma, non so
che mi sia preso, ma a un certo punto mi è venuta una voglia irrefrenabile di
andare da lei. E così l’ho fatto."
"Ma dai, ma
veramente?"
"…Sì…."
Emma
si era avvicinata sempre di più all’amica, spostando coi piedi la
poltrona con le rotelle sulla quale era seduta. Ora era proprio di fronte a lei,
tutta protesa in avanti per sentire meglio.
"Non le avrai
chiesto di Massimo!"
"Volevo, anzi,
veramente non so cosa volevo, ero confusa. Comunque comincia a mischiare le
carte, poi all’improvviso si rifiuta di leggermele!"
"E perché?"
"Si dev’essere
risentita per qualcosa che ho detto, le ho chiesto se quello che usava fosse un
nome d’arte." Rispose con una risata.
"Strano però…."
"Comunque mi ha fatto
sentire una stupida" continuò, spegnendo la sigaretta nel portacenere e
riducendo il mozzicone in poltiglia "non credo che mi vedrà più. Mi sento già
meglio, come sempre dopo aver parlato con te! Che fai stasera? Sei libera?"
Emma nel
frattempo aveva guidato la sedia
tornando alla scrivania.
"Stasera esco
con Fulvio, andiamo a mangiare una pizza." "Cerca ancora di
conquistarti?” Le disse con uno sguardo d’intesa.
"Eh sì, ma che
vuoi, almeno mi distoglie dal pensiero di chi sai."
Emma, Rosamarea.
Due amiche, due donne in cerca ancora dell’amore, quello che ti avvolge,
travolge e stravolge.
Nonostante le
batoste delle vita, ci credevano ancora.
Rosamarea si
preparò a trascorrere una serata da sola. Raccolse le sue cose e si diresse
verso casa.
Capitolo
quattro
Camminare verso casa, quella sera, non le
parve affatto piacevole. Non aveva voglia di tornare e
ritrovarsi ancora da sola, un'altra serata da affrontare con tutto il
peso dei suoi pensieri. Quando inseriva le chiavi nella serratura e apriva la
porta, la prima cosa che avvertiva era il vuoto; era strano per
lei che considerava un nido il suo appartamento, l'aveva coccolato nei minimi
particolari, creando un luogo caldo, colorato, accogliente. Aveva sempre amato
la sua casa, era il suo rifugio; ogni
volta che entrava, ritrovava il suo ambiente: gli ocra alle pareti, i mobili
antichi mischiati ad altri orientali, le candele, i tappeti, tutto aveva un
senso in quell'appartamento, un'armonia perfetta.
Ma da quando era finita con
Massimo, quella casa, era diventata una prigione.
In effetti lui
non aveva mai messo piede lì dentro, sembrava averne paura, come se quel gesto
potesse rappresentare l'ingresso nella vita di coppia che rifuggiva.
Però c'era tanto di lui. I quadri che le
aveva donato, le foto dove erano raffigurati
insieme in cornici appoggiate su mensole piene di libri, quel volumetto di poesie che le aveva regalato al
loro primo incontro; tante piccole cose che le ricordavano i momenti con lui.
Non riusciva
proprio a dimenticarlo.
Pensò a quanto
fossero strani gli uomini! Insieme avevano fatto l'amore con una passione senza
limiti, ma lui non aveva voluto entrare nel suo mondo di tutti i giorni.
Un passo dopo l'altro percorreva la solita
strada. Salutava i negozianti che la conoscevano mentre si accingevano, data
l’ora, a chiudere le serrande; guardava i palazzi lungo il corso, sbirciava
attraverso le finestre aperte, cogliendo, con un velo di malinconia, attimi di
vita familiare altrui.
L'aria era
quella tipica dopo il temporale, l’odore della pioggia sull’asfalto le giungeva
alle narici, il cielo era uno spettacolo, nuvole rosa tinte dal sole al
tramonto in un cielo rischiarato. Le giornate si stavano allungando in quella
primavera ai suoi esordi.
A un tratto si fermò, guardò l’orologio,
erano le sette. Pensò che forse non era troppo tardi. Senza farsi troppe
domande, si diresse verso il centro, voleva tornare al Caffè, voleva parlare
con la cartomante.
Il passo divenne
sempre più frettoloso, aveva paura di non trovarla più. Spalancò la porta ed
entrò, gettando subito lo sguardo nell’angolo dove era seduta Bianca quel
pomeriggio.
La vide. Era lì.
A grandi passi
decisi andò verso di lei, neppure si sedette e le parlò come se non potesse
aspettare un minuto di più: "Non mi piace il
mio tailleur, no! Non ci sto affatto bene, ma è quello che la vita mi ha
proposto e io l’ho dovuto indossare! Non sempre si può scegliere!"
Bianca la guardò,
per niente stupita.
"Calmati,
Rosamarea, siediti…"
Si guardarono per un lungo istante in
silenzio. Poi Rosamarea tirò un grande sospiro, spostò la sedia e si sedette
davanti a lei, posò la borsa per terra
abbandonandosi allo schienale.
Appoggiò le mani sul tavolo, una sopra l'altra. Bianca vi posò sopra le sue,
quasi ad avvolgerle, e per Rosamarea iniziò un viaggio che non avrebbe mai
dimenticato.
Romes si accese l’ennesima sigaretta della
giornata, accortocciò il pacchetto ormai vuoto e lo gettò sul tavolo di cucina.
L'inquietudine
lo divorava ogni giorno sempre di più in una vita che non sapeva dargli uno
scopo per alzarsi alla mattina.
Viveva da solo,
in un appartamento spoglio, ai muri i
segni e i chiodi a cui erano appesi dei quadri che non c’erano più;
molti libri accatastati ovunque; sul tavolo del soggiorno, un computer perennemente acceso che
rappresentava il suo contatto col mondo esterno; in camera un materasso per terra,
mobili non certamente scelti da lui,
ereditati da non sapeva chi, ma che teneva per la svogliatezza di dare
un carattere a quella che era la sua
tana, dove correva a rifugiarsi appena terminata l’incombenza lavorativa.
Era un uomo solo, Romes, ormai
quarantenne, affascinante senza esserne consapevole, occhi verdi da pantera
ferita, alto e fiero, possente, ma fragile nelle emozioni che teneva ben lontane dal cuore.
Diffidava della
gente. Ma non era sempre stato così. Nella sua vita c'era un prima e c'era un dopo, un evento che ne segnava il confine. C'era un Romes prima e un Romes dopo, dopo quel pomeriggio maledetto che l'aveva segnato per
sempre.
Era cresciuto in
una famiglia benestante. Il padre, di origine spagnola, era stato un medico
affermato; la madre si era dedicata ai figli mentre il marito era stato assente la
maggior parte del tempo, totalmente assorbito dalla carriera.
Una famiglia
come tante, con un equilibrio doveroso per andare avanti nel miglior modo
possibile.
Ma quel pomeriggio di tanti anni fa, lui
aveva scoperto qualcosa che l'aveva messo di fronte a una terribile realtà,
difficile, anzi, impossibile da accettare.
Aveva fatto la
valigia in un attimo ed era andato via di casa, senza lasciare il tempo a chi
l'aveva mortalmente deluso di dare una spiegazione a ciò che lui aveva visto.
Ma poi c'era una spiegazione?
Romes guardò fuori dalla finestra. Il
temporale era passato. Decise di uscire per andare a comprare le sigarette.
S'infilò i
jeans, una camicia, il giubbotto e uscì.
Camminò per un
po', l'aria era frizzante e piacevole. Si trovò nei pressi del centro senza
nemmeno sapere come. Vide un Caffè ed entrò per bere un aperitivo, l'ora era
quella giusta.
Andò al banco per ordinare, ma poi si
sentì avvolto da un'atmosfera piacevole, avvolgente, a cui non era abituato. Si
guardò intorno e vide che c'erano dei tavolini in una piccola sala dove potersi
sedere e godersi il suo cocktail.
Entrò e il suo
sguardo corse in direzione di Bianca che aveva le mani poggiate su quelle di
Rosamarea.
L'anziana donna
lo guardò meravigliata, pensò che quell'uomo non doveva essere già lì, non ora,
non aveva ancora preparato Rosamarea a questo incontro che qualcuno aveva
programmato per loro. Qualcuno di molto speciale.
L'imprevisto
mise in moto rapidi pensieri. Aveva Rosamarea davanti a sé e quell’uomo che non doveva andarsene prima
che lei avesse terminato il suo compito.
La mente
cominciò a viaggiarle velocemente, ma non era difficile per Bianca.
Uno sguardo a
Romes, uno sguardo alla donna cui teneva le mani fredde e tremanti, e uno
dentro la sua mente ad aspettare un
segnale, un suggerimento, un comando.
Capitolo sei
Rosamarea si era rilassata. Quel contatto
fisico attraverso le mani di Bianca, le aveva trasmesso molta serenità.
Senza aspettare
che fosse lei a chiederglielo, Bianca prese il mazzo di tarocchi e cominciò a
mescolarli lentamente sotto lo sguardo affascinato di Rosamarea, infine lo posò
sul tappetino rosso.
"Dimmi, cosa
vuoi sapere?"
"Ho quasi paura
a chiedertelo, non ho mai fatto una cosa del genere."
"Cosa c’è che in
questo momento ti turba? Forse l'amore?"
"Sì…"
"Taglia il
mazzo, Rosamarea."
Lei, quasi con timore, si avvicinò alle
carte e fece come le aveva detto l'anziana donna. Posò la parte delle carte che
aveva alzato e mise le mani in grembo, pronta ad aspettare il responso. I suoi occhi tradivano mille aspettative.
Bianca girò il
mucchietto di carte per vedere l'esito: l'Appeso fu quello che vide.
"Vedi, questa
carta al taglio, già mi dice che tu sei in una posizione di stallo; l’Appeso, come vedi, sta a testa in giù, le mani legate dietro la
schiena, questo mi dice che in questo momento tutto è fermo, ma non
necessariamente è da leggere in chiave negativa, può essere solo un momento in cui ti si
spinge a riflettere sulla questione amorosa o a guardarla da un punto di vista
diverso."
Bianca prese la
metà del mazzo e iniziò a stendere le carte sul tavolo. Davanti agli occhi di
Rosamarea, prese forma uno spettacolo di colori, simboli, le carte sembrava
quasi parlassero. E infatti parlavano, parlavano a colei che le doveva
interpretare.
"Hai chiuso una
storia da poco, vero? È stato un uomo
che ti ha fatto molto soffrire, ma non è stato vano, ricordalo. L'esperienza
che hai avuto con lui aveva un compito preciso, perché ricordati sempre: niente
accade per caso."
Rosamarea ebbe un sussulto nel sentire
parlare di Massimo come se lui non dovesse più tornare, in fondo ci sperava
ancora.
Bianca si
accorse di quel turbamento.
"Guardami, non
devi essere triste per questo amore finito. Ciò che conta è che sia stato amore e non solo per te, anche per lui.
Questa esperienza è stata importante per te, la definirei una specie di
insegnamento per affrontare un nuovo amore che sta per arrivare. La storia che
hai avuto, ed è conclusa, ha avuto il compito di traghettarti verso quello che
sarà un grande amore, ma non facile, anzi, il contrario. L'uomo che
incontrerai, e accadrà prima di quanto tu creda, ha sofferto molto, è diffidente verso tutto
l’universo femminile. Ma tu dovrai persistere, perché il vostro è un incontro
del destino.”
Rosamarea era avvolta da quelle parole,
spaventata dalla propettiva di trovare un uomo ancora più difficile di Massimo,
ma attratta da tutto il resto. In fondo le piacevano gli uomini complicati,
sembrava quasi li andasse a cercare con il lanternino, come le diceva sempre
Emma, la sua amica.
"Ma dimmi
qualcosa di lui, dove lo incontrerò, per esempio."
"Guarda questa
carta, è l'Imperatore, simboleggia un
uomo di un certo temperamento, con una forte personalità; accanto a lui
c’è l'Eremita, e questo mi dice che è un uomo solo. L'incontro sarà casuale."
Bianca cominciò
a raccogliere tutte le carte, le ripose nel telo apposito e fece per alzarsi.
"Ora devo
andare, ma ti aspetto, voglio che tu torni quando l'avrai incontrato."
Le sorrise mentre si avviava verso
l'uscita. D'un tratto si voltò e aggiunse: "Non
temere, lo riconoscerai: nel tuo nome c’è scritto il suo."
Rosamarea rimase
senza parole. La guardò mentre si allontanava camminando verso il tavolo dove
era ancora seduto Romes col suo aperitivo.
Bianca gli passò
accanto e lo guardò. Lui non se ne accorse immerso nel suo mondo di pensieri
bui.
Rosamarea
raccolse le sue cose, sistemò la sedia su cui era seduta. Era a un passo
dall'uomo quando il suo cellulare squillò. Il rumore catturò l’attenzione di
Romes che per istinto sollevò lo sguardo in direzione della donna intenta a
rovistare nella borsa alla ricerca del telefono.
Erano a pochi
centimetri l'uno dall'altra, lui seduto al suo tavolo, lei in piedi. Finalmente
lo trovò e rispose, ma nello stesso momento i suoi occhi incrociarono quelli di
lui.
Occhi da pantera
ferita.
Si dice che
se un uomo guarda
una donna per otto secondi consecutivi al primo impatto, sia colpo di
fulmine.
Lui non riusciva
a smettere di guardarla.
E la seguì con
lo sguardo mentre lei si allontanava verso l'uscita chiacchierando al telefono.
Capitolo
sette
I soliti gesti meccanici accompagnarono il
suo ingresso
nell' appartamento. Tutto
uguale, dentro e fuori, in un mondo polveroso come la sua anima.
Romes si
richiuse la porta alle spalle, accese la luce e andò subito ad avviare il
computer, la sua irrinunciabile compagnia. Nel frattempo si spogliò, buttò i
vestiti su quel letto triste come lui, decise di farsi una doccia e rimase a
lungo sotto l’acqua che scorreva sul
corpo statuario. L’immagine di quella donna non aveva ancora abbandonato
la sua mente, non capiva come mai fosse rimasto tanto colpito da lei, ma
sentiva una strana attrazione come se ci fosse stato nei suoi occhi qualcosa di
familiare.
Afferrò un asciugamano e ci si avvolse, si
guardò allo specchio, ma l’immagine che gli ritornava era quella di un uomo
spento.
Lui viveva
perché doveva vivere. Da quel giorno in cui il suo mondo era crollato, la sua
vita emotiva ne era uscita distrutta e non era
più stato capace di ritrovare la
strada della serenità. L'amore, per lui, era una brutta parola, senza senso,
qualcosa da cui fuggire. Quando sentiva il desiderio di una donna, non era
difficile trovare compagnia per qualche notte; sapeva come fare per rubare un
po’ di attenzione e procurarsi una manciata di passione. Dava solo il
corpo, in quei momenti, e lo dava in maniera animale, ma le emozioni le lasciava chiuse in qualche
cassetto di cui aveva gettato via la chiave nell’oceano profondo del suo
cervello.
Odiava le donne.
Odiava l’amore. Odiava se stesso.
Sistemò con cura il pizzetto che
circondava la sua bocca, diede uno
sguardo al cranio rasato per verificare se necessitasse di un ritocco, un ultimo
fuggevole sguardo nello specchio e s'infilò un pigiama.
Prima di sedersi davanti al computer, si
preparò qualcosa da mangiare, definiva il suo modo di cucinare da campo, per far capire che sapeva come
non morire di fame, ma le sue capacità si fermavano all'essenziale.
La sigaretta non
poteva mancare e con quella tra le dita, si sedette sulla sedia davanti alla
sua compagnia, quello schermo freddo che gli rimandava una luce tale da rendere
il suo volto come quello di un alieno.
Le sue dita cominciarono a percorrere la
tastiera per iniziare il solito giro rituale tra i siti. Prima un'occhiata
alla casella di posta, ma non trovò che
la solita pubblicità, non aveva amici che gli scrivessero. Alla fine approdò
nella solita chat dove poteva scambiare due chiacchiere frivole con qualcuno di
cui non conosceva il volto, né la storia, né il cuore.
Il fumo delle sigarette era illuminato
dalla luce dello schermo e i suoi occhi sembravano più verdi in quel gioco di
riflessi.
Quando la noia
ebbe il sopravvento, si alzò, spense tutto e si buttò sul letto sfatto, ma appena chiuse gli occhi il viso di quella
donna gli tornò alla mente. Rivide i
suoi gesti nel cercare quel telefono che squillava dalla sua borsetta, i
capelli lunghi e scuri che le coprivano
leggermente il viso, ma aveva visto i suoi occhi nocciola, occhi vivi e
magnetici.
Ricordò anche
la voce che aveva sentito mentre parlava
al cellullare, una voce calda e avvolgente.
Si stupì con se
stesso di tutti questi dettagli che gli stavano tornando alla mente, in fondo
era stata questione di qualche minuto, eppure non riusciva a non pensarci.
Si chiese chi
potesse essere, se fosse passata di lì per caso, se fosse una cliente abituale,
e si augurò che fosse vera l'ultima ipotesi: tornare in quel locale era l'unica
speranza di rivederla, di conoscerla.
La voleva. Ma
perché?
La sua risposta
fu semplice e l'unica che riusciva a darsi: era una donna che l'aveva eccitato
e come un animale, lui ora la desiderava e la voleva possedere.
Decise che il
giorno dopo sarebbe tornato in quel Caffè.
Aveva deciso di
cercarla.
Capitolo
otto
Si svegliò nel pieno della notte, madido
di sudore. Cercò l'interruttore della luce a tentoni, nel buio. Romes si
mise a sedere sul letto, il battito del
cuore era accelerato, il respiro affannoso. Si rese conto che stava capitando
di nuovo, quel malessere che gli faceva pensare di essere a un passo da un infarto.
La paura cominciò a farsi strada nella sua mente innescando una serie di pensieri che non
facevano altro che aumentare il suo stato d'ansia. S'immaginò morente in quel
letto, da solo, senza che nessuno potesse soccorrerlo.
Pensò, anche perché non era la prima volta
che succedeva, che doveva reagire subito, prima che il panico prendesse il
sopravvento.
Doveva
assolutamente distogliere il pensiero dall’angoscia che sentiva crescere dentro
di sé. Si sforzò di alzarsi in piedi, una vertigine lo assalì, ma resistette e
rasentando il muro, raggiunse il bagno dove aprì il rubinetto dell’acqua fredda
per bagnarsi il viso, i polsi. Si guardò
allo specchio ed ebbe pietà di se stesso, pensò che non voleva più vivere così.
I pensieri divennero pericolosamente cupi
e il suo istinto di sopravvivenza lo spinse a vestirsi e uscire nel cuore della
notte per camminare e sfogare nel movimento fisico
l' inquietudine che si stava
impadronendo di lui.
L'aria fredda lo investì dritto in faccia ed ebbe quasi un sussulto. Guardò a destra
e poi a sinistra, senza vedere anima viva in giro. Così scelse una direzione a caso, in fondo non gli importava dove andasse, cominciò a
camminare lungo il marciapiede.
Le mani in
tasca, il bavero del suo giaccone alzato, procedeva senza meta cercando di non
pensare a niente.
Arrivò nella grande piazza principale,
deserta alle due del mattino. Si sedette su una panchina e rimase lì, la testa
fra le mani, isolato dal mondo.
"Ti senti male?
Hai bisogno di aiuto?"
Romes sussultò
nel sentire quella voce. Alzò la testa di scatto e vide un'anziana donna
davanti a lui. Lo guardava con dolcezza e sembrava preoccupata.
Si sorprese di
quella presenza a notte fonda e ancora di più del fatto che gli si fosse
rivolta in quel modo.
"No, grazie. Sto
bene."
"Ti dispiace se
mi siedo un po’ qui? Sai, soffro d’insonnia e mi capita di uscire a fare
quattro passi anche a quest'ora della notte."
"Non è molto
prudente."
"Ma che vuoi
che possa accadere a una povera vecchia come me…"
La guardò meglio
ed ebbe la sensazione di averla già vista, ma non riusciva a ricordare dove.
"Ma per caso ci
conosciamo?"
"Non mi
sembra."
"Eppure mi
sembra di averla già incontrata."
"Forse ci siamo
conosciuti in un'altra vita."
"Un'altra vita?
Non credo! Sono già stufo di questa, figuriamoci se credo ad altre vite! No,
no, per carità!"
Rimasero in
silenzio per un po’.
Romes provò una strana sensazione, si
sentiva rassicurato da quella presenza, ma allo stesso tempo c'era qualcosa che
lo allontanava da lei; non c’era imbarazzo in quello stare muti, come se non
servissero le parole tra loro.
Il freddo della
notte cominciò a farsi sentire sulle mani non protette dagli abiti. Lui cercò
una sigaretta nelle tasche, se ne accese una e respirò profondamente il fumo
del primo tiro, procurandosi un colpo di tosse. Istintivamente si portò una mano al centro
del petto, si ricordò della sua paura di poco prima, quella che l'aveva
attanagliato in camera sua quando
pensava che stesse per avere un arresto cardiaco. Senza rendersene conto,
cominciò a massaggiare quel punto con movimenti circolari della mano, come se
avesse un peso da sciogliere.
La donna lo guardò immobile fino a quando posò una mano sulle
sue, fermandolo in quel ripetere compulsivo.
"Stai tranquillo,
non stai per morire."
Romes s'irrigidì
all’istante a quel contatto fisico. La guardò negli occhi per un attimo con
un'espressione interrogativa e infastidita.
"Ma chi sei, che
vuoi da me!"
Si alzò
contrariato liberandosi da quella mano che aveva giudicato invadente.
"Non voglio
niente, figurati, volevo solo rassicurarti, ti ho visto impaurito!"
"Sono solo fatti
miei."
Le voltò le
spalle e s'incamminò verso casa.
Bianca invece
rimase a guardarlo, seduta sulla panchina, fino a quando lui svoltò dietro un
angolo e scomparve dalla sua vista.
Ricominciò un
giorno come tanti altri. Rosamarea, Romes, Bianca.
Rosamarea, dopo la visita alla cartomante,
aveva passato la serata a casa ripensando alle parole di quella strana donna.
Si sentiva triste per ciò che le aveva detto riguardo a Massimo, quell'uomo era
ancora nei suoi pensieri e sognava che lui capisse di amarla e che tornasse come
nel più romantico dei film, ma si disse che queste cose accadono solo nei film,
appunto, e che forse avrebbe fatto meglio a fare il funerale a quell'amore;
allo stesso tempo era in uno stato di eccitazione riguardo
questo nuovo amore che, pare, sarebbe dovuto arrivare, anche se non capiva se
si stava attaccando a questo miraggio per cercare di allontanarsi dal pensiero
di Massimo.
Non ce la faceva
proprio a stare in casa. Dopo il lavoro andò a spasso per il centro ed entrò
nella sua libreria preferita.
Romes non andò a lavorare, era stanco e
sfinito per la notte passata fuori di casa a camminare, l'incontro con Bianca
l'aveva innervosito ancora di più. Se ne stava sdraiato sul letto, senza fare
niente, abbandonato nel nulla. Squillò il cellulare, decise di rispondere
malvolentieri, era una delle donne che lo cercava ogni tanto, ma lui non aveva
voglia di niente, tanto meno di passare del tempo facendo del sesso che, in
fondo, avvertiva ormai come un'esperienza sterile che cominciava a farlo
sentire ancora più solo di quanto si sentisse già. Si alzò a fatica, si
trascinò in cucina, il frigo pareva il Deserto dei Tartari, s'infilò addosso
qualcosa e uscì, gli balenò anche l'idea di passare dalla libreria del centro
per trascorrere del tempo in un posto tra i pochi che rusciva a farlo stare
bene.
Bianca, come ogni giorno si era recata al
Cafè, aveva ricevuto le persone che venivano a chiederle consigli, ma la sua
mente era rivolta a loro. Aveva poco tempo per realizzare il suo compito, quel
tempo che le era stato concesso. Romes era arrivato troppo presto sulla strada
di Rosamarea e la sua preoccupazione era che non si sarebbero più trovati.
Decise di dare
una spinta al destino, ma si chiese come potesse fare. Prese le sue cose e andò
via di lì, voleva riposare a casa, farsi venire un'idea: già, un'idea… E l'idea
arrivò. Arrivata nel suo appartamento, si sedette nell'angolo che aveva adibito
alla meditazione, di fronte a una parete nuda, predispose tutto e incominciò a
concentrarsi muovere gli eventi nella direzione che desiderava.
Aveva visualizzato
la libreria del centro: li avrebbe diretti là.
Rosamarea vagava in quella libreria del
centro, respirava le parole di tutte quelle storie che la circondavano e che
sembravano chiamarla dagli scaffali. Ci andava spesso e passava ore e ore lì
dentro per riempire i pensieri di altro che non fosse quel vuoto opprimente.
Si fermò a
sfogliare un romanzo quando avvertì gli occhi di Romes adagiarsi su di lei,
alzò lo sguardo e lo vide.
Si fissarono per
un istante sospeso nel nulla. Le sorrise in un modo particolare che apparteneva
solo a lui, quasi come a prendersi gioco di lei.
Anche la donna
sorrise e un po’ imbarazzata tornò ad accarezzare quel libro, ma sentiva le sue
occhiate che le procuravano uno strano piacere.
Il suono del
cellulare interruppe quel gioco tra i due, lei notò il fastidio con il quale
Romes rispose al telefono, sembrava
parlasse con una donna.
"Ecco!" Pensò "Un altro seduttore."
Delusa si
diresse verso la cassa. Lui, di spalle, il cellulare ancora all’orecchio,
sembrava non ascoltare chi gli parlava, ma la cercava con gli occhi e quando la
vide in fila ad aspettare il suo turno per pagare, prese un libro; dopo aver frugato le mani in tasca alla
ricerca di una penna, ne chiese una a un commesso e scrisse qualcosa sul retro
di quella copertina.
Rosamarea, nel
frattempo, pagò e uscì.
L'aria del
centro era piena di fermento e di primavera, e lì udì alle sue spalle, chiara
e nitida, la sua voce per la prima volta.
“Scusa!"
Sorpresa, si
voltò verso di lui.
"Non prendermi
per pazzo, ma ho visto che sfogliavi questo volumetto… Posso regalartelo?"
Glielo porse e
notò che le sue mani grandi e forti con quel pacchetto in mano. Non sapeva che
fare, non le era mai accaduta una cosa del genere.
"Accettalo,
dai!"
Un po’
impacciata, lo prese e le dita si sfiorarono.
Senza dire una
parola, lei si allontanò.
Confusa,
turbata, non sapeva come sentirsi, camminò in fretta verso casa e alla sera,
affondata sul divano, sfoglio il libro: poesie d'amore di Hikmet. La copertina,
in bianco e nero, raffigurava un uomo e una donna in un bacio appassionato.
Quando lo aprì, vide la scritta: "Vuoi scappare con me?" e poi un numero di
telefono.
"Ma chi è questo
matto?!" Fu la prima cosa che pensò, ma
non potè fare a meno di sorridere.
Quella notte non riuscì a dormire.
Continuava a ripensare a quell'incontro, a quegli occhi verdi e indecifrabili;
si rigirò nel letto mentre continuava a ripetersi lasciaperderelasciaperderelasciaperdere…
Un altro fuori di testa."
Alla mattina,
però, con una tazza di caffè tra le mani, prese quel libro e aprendolo a caso, "il più bello dei mari è quello che non navigammo" la investì dritto al petto.
Prese il
telefono, compose il numero.
La sua voce. "Pronto"
La voce di
Rosamarea: "Non ti ho detto nemmeno grazie."
Capitolo undici
Finalmente uno
spiraglio. Un po’ di luce dentro quei due cuori sofferenti, anche se per motivi
molto diversi.
La telefonata
aveva sorpreso e, allo stesso tempo, reso euforico Romes che per la prima
volta, dopo anni e anni, aveva sentito il suo cuore accelerare il battito
per un motivo diverso che non fossero i
suoi attacchi di ansia.
Rosamarea si
scoprì a sorridere mentre camminava verso l'ufficio, quando scorse Massimo, sì,
il suo Massimo seduto al tavolino di un
bar a fare colazione. Tripla botta al cuore! Non lo vedeva da mesi,
sembrava essere in forma, stava per andare a salutarlo, ma una donna uscì dal
bar e gli sedette accanto. Si inchiodò come se i suoi piedi fossero
improvvisamente incollati a terra, incapaci di muovere un passo.
Senti salire
lacrime, rabbia, dolore, tutto quello che aveva curato come se fosse una
malattia. Nella sua testa solo il pensiero che avesse un'altra donna, che
l'avesse già dimenticata, archiviata. Fu Emma a salvarla, passava di lì con la
macchina per andare in ufficio, la fece salire e si allontanarono in fretta.
In ufficio
lavorarono ben poco… Rosamarea le raccontò dell'incontro in libreria con l'uomo
misterioso, della telefonata, dell'euforia e poi della botta al cuore nel
rivedere Massimo e il sentirsi precipitare di nuovo. Emma l'ascoltò senza
parlare, a volte le parole non servono; era dispiaciuto per l'amica che,
proprio quando era apparso un nuovo uomo nella sua vita, era inciampata in quel mezzo incontro che
l'aveva rigettata indietro in un attimo.
"Senti, Rose”
Emma era abituata a chiamarla così "perché non approfitti di quella proposta che ti ha fatto il capo, te ne vai per
qualche settimana in Spagna a seguire
l'ufficio nuovo, ti allontani da qui, ti distrai: non pensi che sia un'opportunità
da cogliere? Tuo figlio non c’è e non torna a breve, giusto? E quindi sei
libera! Vai, Rose, può solo farti bene allontanarti da qui."
Rosamarea
l'ascoltava come un'automa, non si era ancora ripresa, ma pensò che forse Emma
aveva ragione, doveva cambiare aria.
Sarebbe partita.
Nella sua testa, Romes non c'era già più.
E lui… Lui
aspettò una nuova chiamata che non arrivò. Lo spiraglio del cuore si richiuse
in fretta. Si disse che quella donna era come tutte le altre. Eppure la cercò
ancora, senza trovarla. Quando di stare per diventare pazzo e gli attacchi di
ansia si erano moltiplicati, facendo uno sforzo enorme, decise di concedersi
una vacanza per capire se, un posto diverso, potesse essergli d’aiuto. Prese la
macchina, l'aereo era troppo per lui, e guidò fino alle coste spagnole.
Capitolo dodici
Romes la guardò
senza parlare, dritto davanti a lei,
elegante nel suo abito di lino blu, le mani in tasca, lo sguardo fisso dentro
gli occhi di Rosamarea, occhi che le chiedevano il permesso di entrare nella
stanza.
Nessuno dei due parlava, lo avevano fatto
tutta la sera senza usare le parole.
Poche ore prima
l'aveva vista seduta su un divano della
hall di quel magnifico hotel dove aveva deciso di andare per allontanarsi da
tutto. Mai avrebbe potuto immaginare di ritrovare proprio lì, a centinaia di
chilometri da casa, quella donna che aveva cercato di incontrare di nuovo,
tornando in quel Caffè e nella libreria per almeno un paio di mesi, senza
riuscirci mai.
La sua preda.
L'aveva osservata mentre sorseggiava il
suo cocktail, da sola. Non le si era avvicinato, ma non aveva distolto lo
sguardo nemmeno per un attimo e alla fine lei se n'era accorta. Erano rimasti a
lungo a fissarsi, lui dal banco del bar, lei su quel divano bianco.
"Me lo addebiti
alla camera 17 , grazie."
Ora Romes sapeva
dove trovarla, l'aveva sentita parlare col barman.
L'aveva guardata
mentre si dirigeva all’ascensore. Aveva atteso qualche minuto prima di salire.
Rosamarea aveva una mano sulla maniglia
della porta semiaperta e una sullo stipite. Sembravano incatenati dallo
sguardo, un momento quasi irreale di cui entrambi si rendevano conto, ma al
quale non sapevano opporsi.
Fu lui a muoversi per primo, lei vide come
al rallentatore la mano di quell'uomo che andava a posarsi sulla sua spalla
seminuda. Al solo tocco di quelle dita, avvertì un brivido percorrerle tutto il
corpo e socchiuse gli occhi. L'atmosfera sembrava appartenere a un altro tempo,
ma non era possibile opporsi a quella forza magnetica che entrambi percepivano.
Lui fece un passo avanti e si avvicinò alla bocca di Rosamarea. Le sfiorò
appena le labbra, mentre le dita della mano affondavano dentro i capelli
sciolti sulle spalle; l'avvicinò a sé e
per qualche istante rimasero così, finché
la baciò con tutta la passione che aveva sentito esplodere dentro il suo
corpo.
Senza staccarsi
da lei, si mosse in avanti per entrare e si chiuse la porta alle spalle.
Non le era mai capitata una cosa simile,
si rese conto che non riusciva a pensare. Sentiva la lingua di quell'uomo
sulle labbra, nella bocca, avida, come se volesse divorarla. Si
sentiva stordita nel provare quelle
sensazioni forti. Si rese conto che erano indietreggiati fino ad arrivare
al letto, a piedi scalzi salì su quel materasso
poggiato su una base di legno; lui fece
lo stesso senza abbandonare la presa, non era possibile, si sentiva come un
animale che non poteva mollare la preda.
Le dita di Romes
erano sui piccoli bottoni del vestito di Rosamarea, li stava slacciando uno a
uno, sfiorando il seno di lei, fino a quando la veste scivolò lungo quei
fianchi morbidi svelando la quasi totale nudità della donna.
L'impeto di
Romes si fece sempre più strada, la voleva e la voleva subito.
Il rumore di qualcuno che bussava alla
porta la fece uscire di colpo da quello stato di trance, lo fermò e per un
istante si guardarono. Rosamarea cercò di muoversi, ma lui non la lasciava
andare; all’insistenza del cameriere che aveva bussato di nuovo, lei si
divincolò, si rimise il vestito e andò ad aprire; cercò nel portafoglio qualche
spicciolo per dargli la mancia, ritirò il vassoio e richiuse la porta. Romes
era ancora lì, nella medesima posizione, ma lei non lo raggiunse e rimase in
silenzio a osservare la tazza di caffè che aveva ordinato. L'imbarazzo era
palpabile.
Senza dire una parola, lui si voltò verso
la donna, le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio: "…Non mi scappi…" e con
una espressione indecifrabile si avviò
alla porta.
Lo seguì con lo
sguardo, lo osservò nella sua camminata lenta e apparentemente sicura, vide la
sua mano posarsi sulla maniglia della porta mentre l'apriva e usciva,
richiudendola alla sue spalle.
Si fermò a
pensare che stava per fare l'amore con un uomo di cui non conosceva neppure
il nome.
Capitolo tredici
Notte insonne. Lei, camera 17, ma lui?
Rosamarea non lo sapeva, ma anche se avesse conosciuto il numero della stanza
di quell’uomo misterioso, non avrebbe certo preso alcuna iniziativa. La
situazione surreale che l’aveva investita poco tempo prima, l’aveva completamente stordita e, in
parte, spaventata.
La prima cosa che pensò di fare appena Romes
aveva lasciato la stanza, era stata quella di telefonare a Emma per raccontarle
tutto, come sempre. Compose il numero con mani tremanti e la paura di non
ricevere risposta, ma il semplice pronto dell’amica
le fece tirare un sospiro di sollievo. Le raccontò in ogni minimo particolare
l’accaduto, riuscendo a ritrovare la calma ad ogni minuto che passava.
Emma aveva anche cercato di scherzare,
sdrammatizzando un po’.
"Capitasse a me,
una volta nella vita, uno sconosciuto
strafighissimo alla porta che mi bacia con passione!"
"Non scherzare,
Emma! Ma ti rendi conto che ho fatto entrare uno sconosciuto? Cosa sarebbe
potuto accadere se non fosse arrivato il cameriere?"
"Beh,
sconosciuto proprio no! Era l’uomo della libreria, giusto? Hai il suo numero di
telefono… Piuttosto c’è da chiedersi come sia capitato lì, in Spagna, proprio
nel tuo albergo: coincidenza? O c’è dell’altro? Questa è la domanda
inquietante."
"Ora però mi
spaventi! E se fosse un pazzo?"
Già, un pazzo.
Romes si era
rintanato nella sua camera numero 101, in bilico tra eccitazione e delusione,
ma sicuro di avere in pugno quella donna che l’aveva così destabilizzato. Si
guardava allo specchio di una stanza arredata con eleganza, d’altronde era un
hotel di lusso, e cercava nel suo sguardo l’ombra di un’emozione che gli
parlasse di qualcosa di diverso rispetto alle solite conquiste prive di
sentimento alle quali era abituato.
Si sentiva strano, avrebbe voluto avere un amico al quale rivolgersi per scambiare due parole, ma non ne aveva, la
solitudine era una sua precisa scelta e la sfiducia nell’essere umano era
diventata la sua parola d’ordine.
Non riusciva a
concepire la possibilità di vivere diversamente da come, ormai, era abituato a
fare da anni e anni. Uscì sul piccolo balcone che si affacciava sul mare, aveva
voglia di una sigaretta che fumò aspirandola come se fosse l’ultima concessa
prima del plotone d’esecuzione. La brezza marina s’insinuava tra i vestiti
dandogli la sensazione di essere vivo, ma la corazza era troppo dura perché
quel leggero vento potesse riuscire ad arrivare a toccare le ossa spezzate
dalla vita.
Si soffermò a
pensare all’incredibile caso di aver ritrovato proprio lì, a migliaia di chilometri da casa, quella donna
che lo aveva quasi ossessionato negli ultimi tempi e della quale aveva perso
tracce e speranze di ritrovarla. Pensò che la vita fosse davvero strana, ma
altamente spaventosa se solo ci si ferma a pensare a come possa essere in
grado di giocare con l’esistenza delle persone, come se si vivesse su un’enorme
scacchiera; chi era, lui, un pedone che presto sarebbe stato mangiato? Oppure
un cavallo, di sicuro imbizzarrito? E lei, forse la regina che si può muovere
in tutte le direzioni? Sentiva i suoi
pensieri già pronti per partire per la tangente e portarlo chissà dove, di
sicuro in mezzo alle sue paure. Eppure quella sera si percepiva più forte del
solito, più risoluto, e il profumo della pelle di Rosamarea stava tornando
prepotente a invadere le sue narici. Spense la sigaretta sotto le scarpe nere e
lucide, gli piaceva essere elegante quando partiva per le sue conquiste. Ma
quella sera qualcosa era andato storto, e non era riuscito a concludere. La partita era ancora aperta, ma se lei se ne fosse
andata prima che arrivasse il mattino? Non si sarebbe fatto sorprendere da
quella ipotesi. Avrebbe gironzolato nella hall, in fondo non aveva voglia di
dormire, l’avrebbe aspettata fino al sorgere del nuovo giorno, non mancava poi troppo tempo
all’alba. Non se la sarebbe lasciata sfuggire un’altra volta. No.
Uscì dalla
camera e si diresse al bar del piano terra, era aperto tutta la notte e un
bicchiere di whisky gli avrebbe fatto compagnia.
L’alba lo colse appisolato
su un divano, la calma di quelle ore fu interrotta dall’arrivo del personale al
cambio del turno, poteva sentire il rumore di tazze e tazzine, il profumo dei
primi caffè per gli addetti al lavori e l’arrivo dei fornitori con scatole
dalle quali fuoriusciva l’odore invitante di brioche appena sfornate.
Si avvicinò alla
sala pronta di tutto punto per le colazioni, e mentre si stiracchiava la vide
scendere dalle scale. Riposata e bella come una mareggiata d’autunno, la guardò
con un sorriso che non sapeva bene quale direzione prendere, esattamente come
lui in quel momento: lasciarsi andare oppure no a quelle sconosciute sensazioni che si
facevano strada dentro di lui?
Rosamarea,
quando lo vide, rimase immobile, anche lei sospesa tra paura e la voglia di
scoprire di più.
“È tutta la notte che ti aspetto…” Le porse la
mano, aperta, invitante, accogliente, aiutandola a scendere gli ultimi gradini.
Lei non potè fare a meno di sorridere. "Chi sei?"
Capitolo quattordici
Si
può tornare a sognare? Rosamarea si
stava facendo questa domanda mentre tornava a casa, dopo aver trascorso del
tempo con Romes, un uomo che la inquietava, ma che sapeva coinvolgerla con quei
suoi modi romantici che pensava non potessero appartenere più a nessuno.
Aveva afferrato
quella mano tesa che l’aveva condotta al tavolo dove avevano fatto colazione
insieme con un po’ d’imbarazzo, ma lui era stato bravo a metterla a suo agio
evitando di parlare della sera precedente, di quel bacio sulla porta e di
quella passione che sembrava essere esplosa tra i due. Lo osservava, tra un
caffè e del pane spalmato di burro e marmellata; lui aveva continuato a
servirsi di tutte le prelibatezze offerte dal buffet, sembrava volesse
prolungare quella colazione all’infinito.
La giornata di
sole prometteva mare e calore, la proposta di trascorrere insieme altro tempo
arrivò da quell’uomo misterioso, ma lei era lì per lavorare e quando declinò l’invito
a fare una passeggiata sulla spiaggia, lui parve deluso e contrariato. Un’ombra
di diffidenza si appropriò dei suoi occhi, la cosa non sfuggì a Rosamarea che
tornò a chiedersi se fosse un bene approfondire la conoscenza con lui.
“Rose, posso
chiamarti così?”
Il sorriso della
donna gli fece capire che le piaceva, forse era riuscito ad aprire qualche
porta, ma doveva stare bene attento che non si richiudessero tutte insieme
lasciandolo di nuovo a bocca asciutta. Era riuscito ad aprirsi un varco, ma lei
non era come le donne che era solito frequentare, pronte a cadere ai suoi piedi
nel tempo di qualche boccata delle sue sigarette. Rose era una roccaforte e se
la notte prima era stata vicina a un cedimento, era quasi stata sua,
ora sembrava tornata in sé e non sarebbe stato facile ritrovare quel momento di
follia.
Ma non era nel
suo carattere arrendersi, almeno per quanto riguardava l’universo femminile e
solo quello, perché per il resto la sua vita era un mezzo disastro. Non si
arrese. Le chiese se alla sera sarebbe stato possibile cenare insieme, pensò a come
il cibo potesse diventare una buona scusa per rivedersi, ma lei gli comunicò
che sarebbe partita la sera stessa, dopo gli appuntamenti in programma.
“Possiamo
rivederci in città, se vuoi”, insistette lui.
Rosemarea lo
guardò senza rispondere. Sentì lo stomaco ribaltarsi, era l’emozione, una
strana emozione che stava prendendo il sopravvento, la voglia di osare, ma allo
stesso tempo la paura di sbagliare di nuovo. Senza pensarci due volte frugò
nella sua borsa mentre lui la guardava con curiosità, non capiva cosa stesse
cercando. Si sorprese quando vide che lei aveva estratto quel piccolo libro che
le aveva regalato, la seguì con lo sguardo mentre si sedeva su un divanetto e, dopo aver chiesto una penna alla reception, si era messa a scrivere qualcosa
sulla prima pagina, per poi richiudere in fretta e dopo aver indugiato per
qualche attimo, porgerglielo con un sorriso.
“Prendilo.”
Romes lo
afferrò, ma quando fece per aprirlo, lei lo bloccò invitandolo a leggere più tardi
quello che aveva scritto.
Un bacio leggero
sulla guancia che lei sentì ruvida di barba e se ne andò. Romes rimase
immobile, con il libro in mano, a seguire quella camminata. Di spalle,
meravigliose spalle che non sembravano dirgli addio, ma solo arriverci.
E adesso Rose,
sì, le piaceva essere chiamata così, Rose tornava a casa con un’eccitazione che
le invadeva la testa, sorrideva e pensava che era stata una pazzia scrivergli
quella frase. Una pazzia alla quale non aveva saputo resistere.
Stasera, questo il mio indirizzo. Ti
aspetto.
Capitolo quindici
Apri la porta,
uomo sconosciuto. Non so ancora come ti chiami, ma quello che ho visto nei tuoi
occhi è qualcosa di selvaggio che sembra venire da lontano.
Piove. Un
temporale estivo inaspettato. Guardo dalla finestra per vederti arrivare, ma
verrai? Ecco, ti ho scorto nel traffico, hai posteggiato l’auto e sei sceso, ho
colto la tua impazienza quando ti sono cadute le chiavi per terra nella fretta
di chiudere.
Piove, piove
talmente tanto che non riesco a capire cosa tu abbia in mano, forse un
pacchetto e dei fiori, li proteggi con la mano mentre corri verso il cancello
di casa mia. Il cuore ha accelerato il battito, è l’emozione: quanto ti ho
aspettato, uomo senza nome.
Respiro
profondamente, ma voglio godere di questa sensazione, voglio memorizzare ogni
attimo insieme. Non sappiamo se ci sarà un poi,
ma che importa… Mi hanno insegnato che ciò che conta è vivere il presente,
troppe volte il futuro mi ha inghiottita senza neppure essere arrivato.
Stai salendo,
quasi non ci credo. Mi guardo allo specchio accanto alla porta, gli occhi
ridono. Ridono e non pensano.
Non voglio
pensare. Non voglio pensare. Non voglio pensare.
Socchiudo la
porta, entra da solo, uomo misterioso.
Mi hai vista, mi
hai vista in fondo al corridoio, appoggiata allo stipite della porta della mia
camera da letto. Hai posato quello che hai portato sul cassettone, all’ingresso,
lo hai fatto senza distogliere lo sguardo da me.
Ti ho sorriso e
ora stai camminando, ti fermi a un passo, parla solo la musica, il rumore della
pioggia, la corrente che scorre tra noi anche senza toccarci.
Quanto desiderio
nei tuoi occhi!
Non possiamo
resistere un minuto di più, la tua mano è tra i miei capelli, sento le tue dita
sulla mia nuca, socchiudo gli occhi e le labbra, voglio che mi baci…
E lo fai, come
sai farlo tu, come nella camera d’albergo.
Ti prendo per
mano e mi avvicino al letto, mi siedo e tu accanto fai scorrere la mano su
quella piccola fila di bottoni che m’imprigionano e lentamente, tanto
lentamente da farmi ubriacare d’attesa, mi liberi. I tuoi occhi dolci e selvaggi
mi spogliano insieme alle tue mani.
Sto per perdermi.
Sono un mare, per te.
Amami, uomo che
viene dal nulla, amami questa notte come non hai amato mai.
...
ehhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh insommaaaaaaa Stefania mi lasci sempre a bocca aperta e a cuore palpitante, bellissimooooooooooo stupendo romantico da morire mi piaceeeeeeeeeeeeee e mi piacerebbe anche il Seguito.........
RispondiEliminaGrazie, Giovanna:-))) allora ci lavoro e vado avanti :-))))
EliminaMamma mia. ....letto d'un fiato e voglio il seguito. ...un uomo che ti regala il libro che vorresti con quella dedica è da seguire subito. ..romantico! Bravissima come sempre Stefania. ...e adesso aspetto altri capitoli.
RispondiEliminaChe pathos. ....atmosfera romantica ed un personaggio ambiguo che regala gesti antichi come il porgere la mano per accompagnare la discesa degli ultimi gradini della sua dama. Un capolavoro. ....
RispondiEliminaChe storia fantastica. Ma cos'è può Rosamarea fidarsi di Ramos? Intuito femminile o angelo custode? Tutto bello romantico e sentimentale. Mi piace la storia di Ramos
RispondiEliminaMaria Rita
Voto il testo n 12 bellissimo
RispondiEliminaPer votare devi entrare nel numero 239 del blog, quello della gara:-)
EliminaMitica Rosamarea!!! :);)
RispondiEliminaPer quel che conosco Rosamarea sono certa che ci riserverà delle sorprese... Altrimenti che Rosamarea sarebbe? ������
RispondiEliminaLa storia si fa interessante. ..e leggermente "hard"...bello....ci sta scappando un romanzo niente male. Attendo il seguito. ...come sempre cara Stefania sai come conquistare i lettori. Brava!
RispondiEliminaVoto il testo numero 14, di Carla Pozzi.
RispondiElimina