Una bella notizia :-D
Ho appena saputo che un mio racconto (tratto dalla raccolta "Dentro l'amore") è stato premiato al concorso LeggiadraMente, organizzato dall'associazione
Carta e Penna di Torino:
Menzione d'onore
Non è salito sul podio, ma dai, sono contenta ugualmente :-D
Eccolo qui!
Scritto dopo una mini vacanza a Firenze, nel 2011, dopo aver posato per un ritratto di strada :-)
La foto ha immortalato l'evento;-)
IL RITRATTISTA
di
Stefania Convalle
Mi siedo.
La piazza mi guarda e anche lui, il
pittore, colui che si accinge a ritrarmi.
Prende la sua matita carboncino e
la passa su una carta vetrata, mi fa venire in mente la lama di un rasoio e il
gesto del barbiere per affilarla.
Mi sento indifesa di fronte a quel
gesto come se gli avessi offerto il collo e gli avessi detto – mordimi pure – E
se lo facesse davvero?
Siedo, lo devo guardare – così mi
ha detto – ma all’inizio faccio fatica a farlo, mi sento come una donna che sta
per essere spogliata per la prima volta dal suo uomo. Lui mi spoglia con gli
occhi, ma non gli interessa il corpo, gli interessa l’anima.
Mi chiede che faccio nella vita –
scrivo – è la mia risposta.
Sento il carboncino scivolare sul
foglio, non vedo cosa fa, ma so che sta scavando nei miei occhi e mi sento nuda.
Mi dice – hai il tratto della
scrittrice – Mi sta lusingando, lo so, ma quando i nostri sguardi sono fissi
uno nell’altro, sento che ne è catturato.
“Quanto fuoco, sotto la cenere!”
Non rispondo, gli sorrido.
I movimenti della mano si fanno
frenetici, prende la gomma e cancella qualcosa. Indugia sui miei occhi: – Quanta
luce! – Ma non rispondo di nuovo. Mi limito a sorridere.
Non riesce a smettere, la matita
corre e m’insegue nei tratti, mi vuole e poco importa se ormai ha superato
tutti i tempi canonici di un ritratto in strada.
Non parla più, sento solo il suo
sguardo appoggiato su di me, leggero come quella matita e profondo come un blu
cobalto.
“Mi fermo qui.”
“Posso guardare?”
Sono emozionata. Mi alzo e guardo
il ritratto. La mia bocca. I miei occhi parlano da quel foglio.
Rimango a fissare il ritratto, mi
ha dipinta più giovane, con qualche particolare che non ritrovo in me, ma lui
mi spiega che il ritratto non è una fotografia, è come ti vede il pittore.
Arrotola il cartoncino e me lo
consegna. Mi dispiace andarmene e
indugio. Lui lo capisce: “Se non hai fretta, possiamo fare due passi, ti mostro
qualche angolo di Firenze poco conosciuto.” Sorpresa gli rispondo: “Sì!”
Ripone tutte le sue cose, chiude il cavalletto, piega gli sgabelli che
sono serviti a entrambi durante il ritratto e affida il tutto a un collega,
lì come lui, negli assolati pomeriggi estivi ad aspettare i clienti nella
piazza del Duomo. Cominciamo a camminare e presto ci infiliamo dentro dei
vicoli che ci allontanano dalle vie principali del centro. Immediatamente si
percepisce una quiete che placa la mente, l’ombra creata dai palazzi
ravvicinati attenua l’afa che nella piazza, in pieno sole, era diventata
faticosa da sopportare.
Camminiamo in silenzio ed è una
sensazione nuova per me. Lui è uno sconosciuto, ma non sento il bisogno di
riempire quel momento con delle parole, mi sento a mio agio e tranquilla.
Arriviamo nei pressi dell’Arno, ci
sediamo sul prato che costeggia il fiume e da lì ammiriamo il Ponte Vecchio, un
nuovo punto di vista, diverso dal classico a cui si è abituati. Ci sediamo su
un muretto.
“Da qui vedere il tramonto è tutta
un’altra cosa. Come ti chiami?”
“Valentina.”
“Nick.”
Aspettiamo il tramonto e lo
ammiriamo in quello scorcio da cartolina, mentre tutto sembra ammorbidirsi in
quella luce più morbida e calda.
Tutto mi pare strano, ma non mi
faccio troppe domande, mi godo quell’attimo di pace a fianco di un uomo mai
visto prima, ma così vicino a me.
All’improvviso mi indica un abbaino
che si affaccia sul fiume.
“Abito lì.”
“Accidenti! Mica male!”
“Sto per partire. Domani, per la
precisione. Starò via qualche mese. Cerco qualcuno che badi ai miei fiori. Tu
sei una scrittrice, ti va di stare a casa mia fino a quando tornerò? Ti assicuro che è un luogo dove
l’ispirazione t’investirà. In cambio dovrai solo occuparti delle mie piante, le
vedi? Su quel terrazzo…”
Rimango sorpresa da quella
proposta. Per un attimo mi sfiora l’idea che sia un pazzo, ma siccome sono
pazza anch’io, accetto. In fondo non ho nessuno a casa che mi aspetta. Sono
libera.
Non penso a niente. Lui pare
contento della mia decisione e sorride.
“Vieni, ti mostro la casa.”
Ci riportiamo sulla strada e
raggiungiamo il palazzo dove abita. Un palazzo antico, malmesso, ma dignitoso e
fascinoso nella sua decadenza.
Saliamo le scale fino all’ultimo
piano dove c’è la sua porta, l’unica del pianerottolo. Sembra quasi di andare
in un solaio. Mi attraversano mille pensieri – E se fosse un maniaco? Avrò
fatto male a venire fino a qui? – Ho paura e penso che dovrei voltarmi e
andarmene in fretta, ma qualcosa mi trattiene.
Apre la porta. La luce investe i
miei occhi, un lucernaio rimanda gli ultimi raggi di sole del tramonto. Mi
aspettavo un corridoio e invece sono in una serra. Enorme. Calda. Umida. Mi
gira la testa, lui m’invita a sedermi, recupera una sedia. Mi porge un
bicchiere d’acqua fresca. Bevo e guardo attraverso il vetro del bicchiere.
Credevo si riferisse a pochi fiori di cui occuparmi, ma mi rendo conto che è
molto di più, qualcosa di incredibile. Accende uno stereo e la stanza si
riempie della musica di Mozart. Mi fa cenno di seguirlo e mi conduce verso
l’altra parte della casa. Ora tutto appare più normale, un unico spazio
arredato in qualche modo, ma pur sempre qualcosa che assomigli a un
appartamento.
“Sei turbata dalla mia serra?”
“…Diciamo che non me
l’aspettavo… è insolito…”
“Adoro i fiori, le piante, ciò di
cui è capace la natura. Lo so che questa casa è un po’ particolare: hai
cambiato idea? Vuoi rinunciare a seguire i miei fiori?”
“…No… Anche se per un attimo l’ho
pensato.”
Mi sorride e mi tende la mano, io
la prendo e mi lascio condurre al tavolo dove m’invita a sedermi mentre lui si
appresta a preparare qualcosa per cenare insieme. Lo osservo e mi accorgo della
sua giovinezza, quella che è dentro i gesti, gli occhi, l’entusiasmo che si ha
nel preparare un piatto di spaghetti al pomodoro fresco. Quasi non vedo più le
rughe del suo viso che mi avevano fatto collocare la sua età intorno al mezzo
secolo o qualcosa in più. Mentre apparecchia la tavola dal piano di marmo, come una vecchia cucina
toscana, mi versa del vino e mi chiede di brindare al suo viaggio imminente.
“Dove vai, posso chiedertelo?”
“Sono un mercante, vado a scovare
l’artigiano vero in Oriente.”
“Credevo fossi un pittore.”
“Faccio ritratti in strada, mi
piace osservare le persone ed entrare nei loro sguardi mentre li ritraggo; mi
piace vedere le titubanze quando si avvicinano,
hanno quasi paura che qualcuno indaghi troppo dietro la maschera… Perché
il ritrattista vede quello che c’è dietro, lo sai?”
Sorride sornione mentre me lo dice.
“E cosa hai scoperto di me?”
“…Che non indossi maschere e che
sei perfetta per i miei fiori che vogliono solo mani candide.”
Arrossisco. Mi alzo e mi affaccio
all’abbaino che mi aveva indicato dall’Arno; vedo di nuovo il Ponte Vecchio da
una prospettiva ulteriormente diversa. La vista è bellissima e credo abbia
ragione: l’ispirazione si impadronirà di me.
Dopo cena mi dà le istruzioni per
prendermi cura della serra come se si trattasse di una figlia. Mi lascia il suo
numero di telefono e, mentre prepara i bagagli, mi avvisa che alla mattina
partirà molto presto e che sarà meglio salutarsi ora.
Credo di essere pazza,
all’improvviso mi rendo conto che sto prendendo un impegno da cui non potrò
scappare e non so quando tornerà. Glielo chiedo, ma lui risponde solo con un
laconico “tornerò”.
E sia. Sia quel che sia.
Al mattino mi alzo, lui è già
partito, inizio questa strana esperienza e comincio a eseguire le istruzioni
che mi ha lasciato. Devo impegnarmi, non
ho mai avuto un talento per il giardinaggio e ho paura di non essere capace di
mantenere in vita quel polmone verde in una soffitta fiorentina.
I giorni trascorrono, uno dopo
l’altro. Mi godo questa strana parentesi della mia vita in cui mi divido tra
fiori, computer per scrivere, pochi passi fuori per la spesa e per scambiare
due parole con qualcuno. E poi di nuovo nella soffitta, perché di questo si
tratta, una soffitta adibita a serra e ad abitazione. Per qualche istante mi
sento quasi Anna Frank, ma lei era condannata, io posso fuggire.
Fuggire. Mi accorgo che dopo
qualche settimana è un pensiero che mi coglie spesso. Non ho notizie di lui.
Potrebbe anche essere morto, non lo saprei. Non so quando tornerà, tra un mese,
tra un giorno, tra un’ora, mai. Sento che comincio ad essere preda dell’ansia.
Cammino nella serra e guardo le piante, i fiori, li guardo sotto una luce
nuova, vorrei capire chi è quell’uomo e perché ha scelto me per questo compito.
Osservo i colori dei petali, le forme, il verde delle foglie, c’è un messaggio
in mezzo a tutto questo, lo so, lo sento, lo posso avvertire sulla pelle perché
i brividi mi stanno dicendo che c’è del vero in quello che sto pensando. Un
messaggio, ma quale e per chi? Non certo
per me che mi ha vista una manciata di ore.
Non trovo niente, so che è lì,
sotto i miei occhi, ma non lo vedo, non lo metto a fuoco.
Esco, altrimenti impazzisco. Torno
alla piazza dove l’ho conosciuto. Ci sono i suoi amici. Indugio, ma poi decido
di chiedere qualche informazione su Nick. Sembra che nessuno sappia niente,
oppure nessuno vuole parlare. Sono evasivi, poche parole, niente di più di
quello che so. Delusa, mi avvio verso casa quando una donna sulla porta del suo
negozio mi fa cenno di avvicinarmi.
“Che vuoi sapere di Nicola?”
“Qualsiasi cosa.”
“Perché?”
Non so rispondere. Non so se posso
dire cosa sto facendo a casa sua. Cerco velocemente di trovare un motivo valido
per le mie domande.
“Perché mi aveva fatto un ritratto e vorrei commissionargliene un altro.”
La donna mi guarda dritto negli
occhi e capisco che non mi crede.
“Ti ha affidato i suoi fiori?”
La domanda mi disorienta. Non
rispondo, ma il mio silenzio parla da solo.
“Entra.”
Mi conduce nel retro del negozio.
Si mette a rovistare tra scatole e fogli, fino a quando trova una lettera. La
apre e me la fa leggere.
“Lo sai quanto tenga ai miei fiori, sono l’unica cosa
che mi rimane di lei, ma senza di lei non so vivere. Tengo in vita la serra per
avere l’illusione di toccare ciò che ha toccato, di sentire i profumi del suo
profumo. Non so quanto possa reggere. L’altro giorno mi sono detto che se
dovessi nascere oggi, da cosa ricomincerei? Azzerare il passato, i ricordi, i
dolori, anche i momenti belli, sì, anche quelli, perché sono la causa di questo
senso di mancanza di lei. Voglio andarmene, non so ancora se solo da questa
città o da questa vita, ma voglio lasciarmi tutto alle spalle. Aspetterò il
momento giusto, aspetterò l’impossibile, che il destino mi faccia incontrare
una donna che mi ricordi lei e che si prenda cura di quell’amore; lo so, è una
pazzia la mia, qualcosa che difficilmente accadrà, ma credo che questa donna
arriverà perché mi verrà mandata e io la riconoscerò.”
Alzo lo sguardo, incontro gli occhi
della donna pieni di lacrime.
“Ma di chi parla Nicola, chi è la
donna della serra?”
“Nostra figlia. Noi due non siamo
più insieme da tanti anni e Anna era rimasta con lui, innamorata di quel luogo
dove ha voluto creare quella serra che ha curato fino all’ultimo con un amore
inesauribile per ogni forma di vita.”
Mentre la donna continua a parlare
ricordo il particolare della cena con lui, quella luce che avevo colto nei suoi
occhi, quell’amore ed entusiasmo per la vita. Non mi sembrava un uomo disperato.
Glielo dico, ma lei mi risponde che probabilmente era euforico perché sapeva di essere libero;
ora che aveva trovato la donna che cercava, alla quale affidare la serra, lui
poteva andarsene, forse a morire.
Sono sconvolta. Mi sento impigliata
in una rete da cui non so come liberarmi. Ricordo di avere il numero di
telefono, quello che mi ha lasciato prima di partire, lo dico alla donna,
glielo mostro, lei lo guarda e abbassa gli occhi.
“E' il mio.”
Senza via d’uscita. Ecco come mi
sento. Imprigionata in un compito affidatomi da un uomo che forse non tornerà
più. Cerco la soluzione, mi sento responsabile per quella presunta eredità che
mi ha lasciato. Vago per la città e poi
mi ritrovo seduta lungo l’Arno, dove mi aveva condotta e da dove mi aveva mostrato
quell’abbaino. Le ore passano lente, come il fiume davanti a me. Non so che
fare. Potrei fregarmene e andarmene, consegnare le chiavi alla donna del
negozio e che ci pensi lei a quei fiori…. Ma non riesco, sento quasi di avere
un impegno morale verso quell’uomo. In fondo, lui mi ha affidato la cosa più
cara che avesse, ha scelto me.
E' sera ormai, ma non mi decido a tornare in
quella casa. Guardo l’abbaino e vedo la
finestra illuminata. C’è qualcuno. Il cuore accelera il battito, ho paura, non
so se è lui o chi altro, ma vado, devo andare a vedere.
Cammino sempre più velocemente, mi
accorgo che ho cominciato a correre, salgo le scale due gradini alla volta, ma
mi devo fermare, non sono più così giovane e mi chiedo come Nick abbia potuto vedere in
me, una donna della sua età, qualcosa
che gli ricordasse la figlia. Arrivo sul pianerottolo, la porta è socchiusa. Mi
fermo un attimo e cerco di essere razionale, potrebbe essere un ladro, devo
essere prudente. Mentre rifletto, eccolo, apre la porta e mi guarda.
“Mi sembrava di aver sentito
qualcuno arrivare… Ciao…”
Sono sollevata, è lui, è vivo, è
tornato. Lo osservo e ora sì, la scorgo quell’inquietudine che gli sta mordendo
l’anima. Entro.
“Tu le assomigli tanto, lo sai?”
Sono ammutolita. Mi chiede se può
abbracciarmi.
“Certo che puoi.”
Il nostro abbraccio dura
un’eternità, mi avvolge, sento il suo corpo di uomo maturo e quasi mi vergogno
per le emozioni che mi suscita perché in quel momento per lui è come se io
fossi la figlia.
“Non sono lei, lo sai vero?”
“Sì, lo so, ma hai il suo candore.”
Scioglie l’abbraccio e un po’ mi
dispiace. Mi fa i complimenti per come ho seguito la serra, ora ritrovo il suo
sorriso, anche se, è vero, è pieno di malinconia.
“Sono contenta che tu sia tornato.
Davvero.”
Il cerchio si chiude e si chiude
con una nuova cena, come al mio arrivo, solo che adesso lui sa che io so e io
so cosa gli attraversa l’anima. Questa volta i suoi gesti sono stanchi, come se
non ce l’avesse fatta a farla finita e fosse rassegnato a vivere nel suo dolore,
con la sua serra. Gli spaghetti non hanno lo stesso sapore della volta
prima, sono pieni di amarezza e di
solitudine.
Mi alzo, lo conosco appena, ma non
riesco a vederlo così. Prendo una bottiglia di vino, la apro. Il rumore del
turacciolo che esce dal collo della bottiglia richiama la sua attenzione, gli
sorrido, verso il vino nel suo bicchiere. Lo invito a un brindisi. Questa volta
sono io a proporlo. Ci guardiamo, i bicchieri allegri di vino rosso, lo guardo
dritto negli occhi:
“A noi due, alla vita che apre
nuove porte quando stavamo per gettare la spugna…”
Lui solleva lo sguardo e sembra che
mi veda per la prima volta. So che mi sta vedendo in una nuova luce, non come quando gli ricordavo
sua figlia. Me ne accorgo da una scintilla diversa, c’è curiosità verso
di me.
“Hai voglia di andare a fare due
passi? La serata è bella, fresca, voglio sapere di te.”
“Sì, andiamo.”
Mi prende per mano e questa volta
sento le sue toccare quelle di una
donna, una donna nuova.
Una vita nuova.
Un racconto struggente, che ti prende e ti affascina. Sai catturare l'attenzione del lettore.
RispondiEliminaSi scioglie l'anima nel leggerti. Grazie
Grazie mille, Agnese! :-))))
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