Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

venerdì 21 ottobre 2022

Numero 414 - Masterbook Testi Fase 2 Girone B per il voto popolare - 21 Ottobre 2022

Dean Corwell


Il Masterbook procede a gonfie vele!

Ieri, 20 Ottobre, nella diretta sulla Pagina Facebook di Edizioni Convalle, ho svelato i nomi degli autori dei testi della fase 2 - Girone A che passano alla Fase 3.

Stefano Buzzi (Giuria tecnica)
Giuliana Degl'innocenti (Giuria Tecnica)
Barbara Romano (Giuria Tecnica)
Laura Tarchetti (Voto popolare)

Ho letto, inoltre, gli 8 elaborati (composti da due prove ciascuno) dei concorrenti del GIRONE B.

3 concorrenti hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica e passano alla FASE 3. I loro nomi verranno svelati nella diretta di giovedì 27 ottobre.

Ma per gli altri 5 ancora è possibile rientrare nel gioco grazie al vostro voto.

Questa volta i testi che troverete, sono due per ogni concorrente. 

L'autore in gara doveva scrivere un racconto "Dentro il dipinto", cioè una storia che comprendesse la scena del dipinto, in linea anche con l'epoca raffigurata. E poi doveva scrivere una lettera di scuse. 
Queste erano le due prove e voi, giuria popolare, dovrete scegliere il vostro concorrente preferito valutando entrambi gli scritti per ognuno. 

Mi raccomando, conto sulla vostra serietà e attenzione nella valutazione!


Il concorrente che riceverà più voti rientrerà in gara.
Dovrete esprimere il vostro voto in un commento a questo numero del blog, all'interno del blog stesso.
Potrete esprimere una sola preferenza scrivendo: voto il concorrente NUMERO... 
Mettete il vostro nome e cognome nel commento, non sono graditi i commenti anonimi.
Se volete scrivere anche la motivazione, all'autore farà piacere, anche se non sapete a chi appartiene il testo (ma lo saprete in un secondo tempo).

I testi verranno postati in questo numero senza il mio intervento, nessuna correzione verrà da me apportata. Tutti i testi saranno qui riportati esattamente come mi sono arrivati.
Comincio quindi a postare qui di seguito i 5 testi che potrete votare.

CONCORRENTE NUMERO DUE

Racconto
La stanza segreta

 

Il signor Lester William rientrò un giorno prima del previsto.
La battuta di caccia alla volpe era stata sospesa per un brutto incidente al conte Winslow.
Sapeva che in casa non avrebbe trovato la servitù, ma non era un problema.
Era giusto che anche loro godessero di qualche giorno di riposo.
Quando il custode gli disse che anche la nuova cameriera, la signorina Ruth, era rientrata in anticipo, ne fu molto sorpreso e anche un po’ preoccupato.
Quella ragazza gli piaceva molto, lavorava bene, ma aveva un grosso difetto: era curiosa, troppo curiosa.
Dopo averla cercata ovunque capì che i suoi timori, purtroppo, erano fondati.
Poteva essere solo lì, nella vecchia stanza sul retro, la stanza in cui potevano entrare solo lui e la vecchia signora Crayton che lo aveva visto nascere.
Senza fare rumore aprì lentamente la porta.
La signorina Ruth era lì, seduta su uno sgabello, rivolta verso la piccola libreria.
Alla sua sinistra, appoggiati a terra, c’erano sei volumi, un altro era un po’ più distante.  In grembo teneva un altro libro.
Il signor Lester capì dalla copertina che era proprio quello che non avrebbe mai dovuto leggere.
Forse non era troppo tardi.
“Signorina Ruth, cosa sta facendo?” le disse, cercando di non far trapelare la sua rabbia.
La signorina Ruth lentamente si girò.
Le gote imporporate la rendevano più bella di quanto la ricordasse.  
Dal suo sguardo il signor Lester capì che ora anche la giovane cameriera sapeva.
Non c’era però in lei nessun timore, nessuna paura, nessun disgusto verso di lui.
“Mi scusi signor Lester, ma io dovevo sapere e ora” disse.
Il suono lontano di un telefono la interruppe.
“Lo lasci suonare signorina Ruth. Mi dica invece, ora che lo ha scoperto, cosa ha intenzione di fare?”
“Io, signor Lester” rispose Ruth con un filo di voce” l’ho sempre immaginato. Anzi no, dentro di me l’ho sempre saputo e il mio desiderio più grande sarebbe quello di diventare la sua”.
Si fermò di nuovo.
“No”, disse, portando la mano verso la tasca del grembiule” Marco, mi dispiace, ma non posso proprio andare avanti. Devo rispondere. È l’asilo, lo riconosco dalla suoneria. Federico mi sembrava strano questa mattina. Devo andare a prenderlo e di certo non posso presentarmi dalle suore vestita da cameriera inglese di inizio Novecento. Vado a cambiarmi. Tu metti via i libri e cerca di fare qualcosa qui in garage. Non vedi che è da ridipingere? E questo contenitore in terracotta di tua zia? Non voglio più vederlo qui”.
Anna uscì di corsa. Marco non ebbe il tempo di replicare.
Si levò la giacca e gli stivali da caccia e iniziò a sistemare i libri.
Guardò il vaso della zia Adele.
Sarebbe stato perfetto in una bottega di Casablanca.
Anna assomigliava a Ingrid Bergman, lui era conosciuto come il Bogart della Lomellina.
Non poteva sprecare una giornata di ferie a sistemare il garage.
Iniziò a pensare al nuovo copione.
Lavorandoci sodo poteva essere già pronto per quella sera.
 

 Lettera di scuse
Mompracem
 
Filippo, piccolo mio, immagino la tua sorpresa e il tuo stupore quando hai ricevuto questa lettera dallo zio Enrico.
Come non capirti?
Quando me ne sono andato due anni fa, gli zii ti hanno detto che ero stato chiamato per portare a termine una missione molto importante.
Lo so che tu hai fatto finta di crederci, ma che hai sempre pensato che io fossi volato in cielo come la mamma.
Gli zii me lo hanno detto, lo sai?
Per loro sei come un libro aperto e, quando possono, mi fanno sapere sempre tutto di te.
So che sei bravo a scuola, che ti comporti sempre bene, che non fai mai nulla per farli arrabbiare e che sei molto maturo per la tua età.
Proprio per questo motivo, tesoro mio, ho deciso di correre questo rischio e di scriverti questa lettera per provare a spiegarti cosa è successo in questi anni.
Volevo, innanzitutto, scusarmi con te se non ho avuto il coraggio di dirti di persona cosa è successo alla mamma.
Posso solo giustificarmi con il fatto che eri troppo piccolo e che non credevo lo potessi capire.
Mi dispiace molto che tu lo abbia scoperto in quel modo, e che io non potessi essere lì con te a cercare di spiegartelo.
I tuoi zii, in fondo, non ti hanno detto una bugia.   È vero che sono partito per una missione.
Non è vero, però, che sono partito per Mompracem per aiutare Sandokan a fare giustizia.
No, son sempre rimasto qui, vicino a te.
Perché, cucciolo mio, voglio che tu sappia che, per combattere le ingiustizie, non serve andare lontano. 
Le ingiustizie ci sono anche qui e la mamma si è sacrificata per cercare di lasciare a te e alle nuove generazioni un mondo migliore.
Io ho capito troppo tardi cosa voleva fare e, purtroppo, quando è successo, non ero lì per aiutarla.
Forse, se ci fossi stato anche io quel giorno, le cose non sarebbero andate a finire così.
I poliziotti non le avrebbero sparato o sarei morto io al posto suo.
Ora è arrivato il mio turno di compiere un gesto rivoluzionario.
Filippo, piccolo mio, se stai leggendo questa lettera, significa che anche questa volta hanno vinto i cattivi.
La realtà, purtroppo, non è come uno sceneggiato televisivo.
Non è vero che i buoni vincono sempre.
Ti prego, ora non piangere.
E, soprattutto, non ascoltare quello che diranno di me alla televisione o che sentirai dai tuoi amici.
Sappi che il tempo ci darà ragione e sii sempre orgoglioso della forza e del coraggio di mamma e papà.
Sii un bravo bambino come sei ora, e continua a dare ascolto agli zii.
Loro sanno tutto. Quando lo vorrai, ti spiegheranno meglio tutto quello che non sono riuscito a scriverti.
Ricorda solo che ti ho sempre voluto bene e che non è passato un giorno della mia vita senza che io ti pensassi.
Piccolo mio, scusami se non sono riuscito a dimostrartelo.
Spero riuscirai a perdonarmi.
Il tuo papà.


CONCORRENTE NUMERO TRE

Racconto
Come una favola

 ‹‹Ti prego, posso restare solo un altro po’?››.
 L’accorata richiesta si ripeteva tutte le volte che Marta saliva nel solaio della grande casa a scoprire quelli che lei riteneva essere i suoi tesori nascosti.
Quel luogo così buio, impolverato e dalle pareti ammuffite era il suo regno e racchiudeva un grande e inestimabile tesoro: i libri!
Tanti, innumerevoli, di ogni dimensione e colore, accatastati a ogni angolo, a terra, sui ripiani, a formare pile, ora basse, ora alte e Marta smarriva il suo sguardo come davanti al più immenso degli orizzonti.
Il tempo trascorso nel vecchio solaio sembrava non essere soggetto a nessuna legge naturale, e lei si sentiva così, come quei libri che nessuno voleva, ripudiati perché non ritenuti degni di figurare nelle stanze eleganti della casa, relegati in una soffitta perché ci si vergognava della loro esistenza.
Da quando era morta la mamma, solo in quel luogo ritrovava un po’ di sollievo al grande dolore che la sua assenza le procurava, lì tutto parlava di lei; molti oggetti che lei giornalmente usava o che arredavano la sua stanza, erano stati racchiusi in quella parte della casa dimenticata da tutti. Le piaceva sfiorare tutto ciò che vi si trovava perché le sembrava di stabilire un contatto con la madre. Le mancava tanto la sua dolcezza e le svogliate carezze che il padre ogni tanto le dava non riuscivano ad arrivarle al cuore.
L’uomo si era risposato, ma la matrigna non si era mai occupata di lei se non per emarginarla il più possibile dalla loro vita, d’indole chiusa e fredda, sembrava provare fastidio quando si trovava in presenza della ragazza, come se costituisse un intralcio alla serenità ordinata della sua vita. Non aveva avuto figli e occupava il tempo organizzando feste e viaggi che portavano la coppia a trascorrere molto tempo lontano da casa e così facendo, fra padre e figlia, si era scavato un solco sempre più profondo.
 Marta, dopo avere ricevuto solo le basi di un’istruzione a dir poco superficiale, era relegata in quella casa con la sola compagnia delle due anziane governanti che l’avevano vista nascere.
Quel giorno, la matrigna, di ritorno da uno dei tanti viaggi, l’aveva seguita nel solaio e in silenzio, aveva sbirciato dalla porta socchiusa la ragazza che si muoveva sicura fra tutte quelle cianfrusaglie e i libri vecchi e malandati. Le sembrava così diversa dalla ragazza chiusa e fredda che era abituata a vedere nella casa, quasi danzava da un punto all’altro del solaio e dopo avere sfiorato in maniera quasi religiosa i libri che sceglieva, si era seduta sul tappeto per sfogliarli con evidente piacere.
Le sembrava di vederla per la prima volta, chissà perché non si era mai soffermata a pensare alla grande solitudine di quella ragazza, solo in apparenza appagata di tutto.
Così quando Marta implorando le aveva chiesto: ‹‹Posso restare ancora un po'?››,
lei, per tutta risposta, le si era seduta vicino non badando alla polvere e le aveva chiesto: ‹‹Cosa leggi?››.
 
 
Lettera di scuse

Napoli, 23 novembre 1912
 
Caro Salvatore, non avrei mai voluto scrivere questa lettera.
Non puoi nemmeno immaginare quanto mi costi quello che sto per dirti ma non posso fare altrimenti. Non riuscirei nemmeno più a guardarmi allo specchio.
In questo momento sarai già al porto e già immagino la faccia che farai quando mio fratello Nico ti recapiterà questa lettera. Mi sento stringere il cuore e quasi mi manca il fiato ma non ho scelta, cerca di capirmi!
Abbiamo per tanto tempo fantasticato e pensato a questo momento e in un attimo è crollato tutto. Lo so che ti sentirai tradito e penserai che questo viaggio adesso non ha più senso, ma non devi assolutamente rinunciare al tuo futuro. Potrai iniziare una nuova vita e chissà, se un giorno ci sarà ancora posto per me nel tuo cuore e potrai ritornare, mi troverai ancora qui ad aspettarti. O forse sarebbe meglio che tu mi dimenticassi per sempre. Ci sarà tanto mare fra di noi e chissà cosa ci riserva il futuro…
Nel pomeriggio la mamma si è di nuovo aggravata e mia sorella mi guardava senza avere il coraggio di dirmi di restare. Aveva visto la mia valigia pronta nel retro della cucina, sapeva che ti avrei raggiunto e poi lei avrebbe spiegato tutto ai miei genitori.
Si sarebbero infuriati ma poi piano piano se ne sarebbero fatti una ragione, una bocca in meno da sfamare. Ma il suo sguardo non ho potuto fare a meno di notarlo. Mi sono sentita sconfitta, senza via d’uscita e in un attimo ho capito che la mia sarebbe stata una fuga, una vile fuga. Non potevo fare ricadere il peso di quella grama esistenza nelle gracili spalle di mia sorella o di mio padre sempre a spaccarsi la schiena per portare un soldo a casa o di Nico, così piccolo da non potere capire perché da un momento all’altro la sua cara Ninetta non fosse più a casa, si sarebbe sentito abbandonato senza ragione.
Come sarei potuta venire da te, abbracciarti e salire su quella nave, senza pensare a ciò che avrei lasciato? Avevo rinchiuso in quella valigia, oltre ai miei poveri vestiti, tanta speranza, tanto amore, l’amore per te c’è sempre e ti seguirà anche oltre l’oceano, ma la speranza, il mio futuro e quello della mia famiglia sono tutte cose ancora da costruire…
Perdonami Salvatore, perdonami quando sarai da solo nella tua cabina e magari al buio penserai di essere stato abbandonato e avrai voglia di piangere, perdonami quando arrivando vedrai le luci di quella nuova terra e ti sentirai stringere il cuore pensando a ciò che hai lasciato.
Scusami ma non ce l’ho fatta.
Ti amo e ti amerò per sempre, la tua Ninetta.


CONCORRENTE NUMERO QUATTRO

Racconto

Tu sei

 

Si era tagliata i capelli.
Li aveva voluti corti, da mettere dietro alle orecchie.
E non le interessavano tutte le urlate che suo padre continuava a farle, che non era femminile, che conciata così non avrebbe mai trovato un marito, che sarebbe stata lo zimbello di tutta Parigi.
Ma a Parigi quasi tutte le ragazze, e anche le donne, avevano deciso di tagliarsi i capelli.
Basta con quelle acconciature complicate! E basta con quegli abiti enormi, con le crinoline sotto.
Valerie restava ferma nella sua idea di progresso: indossava abiti eleganti, certo, ma non molto lunghi. Voleva vedere le scarpe e tenere scoperta la caviglia, come dettava la moda del momento.
«É una vergogna!» mormoravano le vecchie bacchettone e gli uomini attempati.
Molti gridavano allo scandalo: non avevano ancora capito che la figura della donna era pronta a cambiare e il suo orizzonte si stava allargando.
Le disuguaglianze di genere, le restrizioni e i divieti cominciavano a stare stretti a buona parte del mondo femminile, creando soffocamento e spirito di ribellione.
Anche Valerie era venuta in contatto con quest’aria di novità e aveva assunto nuovi comportamenti.
Usciva spesso da sola, montava a cavallo a cavalcioni, entrava nei bistrot senza essere accompagnata, maneggiava il denaro come un uomo.
E poi comprava libri e libri e libri. Di argomenti diversi, ma soprattutto quelli di emancipazione femminile.
«Non ti permetto più di uscire, tu sei donna e devi stare a casa» le disse il padre, quasi urlando, «e non mi interessano le nuove teorie e la nuova moda; starai qui, in casa. Non rispondere e non ti permettere di discutere.»
Valerie ebbe un motto di stizza, diede un colpo di tacco sul pavimento.
«Rimango in casa solo perché devo obbedirti. Hai ragione: io sono donna, ma non riuscirai mai a frenare la fantasia che mi porta ad essere libera e lontana da qui. Ho cervello, cuore e sentimenti, come gli uomini. Né più, né meno. Anche se, in questo momento, non so quanto cervello, cuore e sentimenti tu abbia verso di me.»
Lanciando a terra il tovagliolo, Valerie se ne andò senza il permesso del padre, sbattendo forte la porta.
Eccola, in una vita segregata, chiusa nel salottino. Sola.
Non poteva nemmeno andare alle scuderie o a casa di Marie, l’amica del cuore.
Quando la madre andava a vedere se avesse bisogno di qualcosa, la trovava seduta sui libri, con il volto pallido per la mancanza di sole e di aria aperta, ma con l’occhio sereno.
Sollevava appena lo sguardo. Stava bene lei, dentro le storie, il suo regno. Niente e nessuno avrebbe spezzato le ali che quei libri le stavano forgiando.
Lo sguardo svelava conquista, una nuova libertà. Valerie girava le pagine.
Tu sei donna, non mollare.
Solo la madre sapeva che Valerie aveva una corrispondenza fitta con le attiviste per l’emancipazione della donna. Parigi era piena di donne così.
Presto il mondo sarebbe cambiato, come la sua vita. Se lo sentiva.

Lettera di scuse

Non so che cosa scrivere. Non mi vengono le parole.
Ho solo un groppo alla gola che mi stringe e non mi fa parlare.
Non posso più vivere con questo senso di colpa che mi attanaglia, di giorno e di notte.
Senti, Claudia, io lo so che sono esagerata nelle parole. Ho commesso un errore, uno.
Ti chiedo di ascoltarmi, perché ho bisogno di chiarire bene le cose con te.
Partendo dal fatto che la nostra amicizia è nata quando eravamo piccole, è durata tanti anni ed è cresciuta nel tempo, credo che l’episodio successo tra noi possa essere superato e addirittura catalogato come un “incidente di percorso”.
È vero, mi avevi detto di tenere per me il dolce segreto che custodivi nel tuo grembo.
Io ho resistito per qualche giorno, poi ho iniziato a raccontarlo alle amicizie che abbiamo in comune, con tanta semplicità, senza parole sbagliate né con giudizi.
Credimi, non era una mormorazione.
Sei rimasta molto offesa. Mi hai urlato addosso, hai detto che sono stata una “rana dalla bocca larga”, che dovevo farmi i fatti miei, che avresti chiuso con me per sempre.
E così hai fatto: zero chiamate, no messaggi, niente di niente.
Ero contenta che avessi detto dell’arrivo del bebè a me, per prima, prima ancora che alla tua famiglia. E pensavo che fosse un evento talmente eccezionale che non poteva essere tenuto nascosto. Ma mi sbagliavo…
Solo ora mi rendo conto che ho infranto il segreto, ho superato il muro della tua privacy.
Insomma, ho esagerato, e non avrei dovuto.
Non ti ho rispettata e ho sbagliato.
Mi auguro che capirai che sto parlando con il cuore.
Ho le mani che tremano sui tasti. Le mie scuse sono vere, ma lascio a te la facoltà di decidere se accettarle.
Fammi sapere che cosa sceglierai. Stare senza la tua amicizia mi sta facendo vivere giorni tristi e vuoti. Tanti mi hanno consigliato di chiederti scusa e lo sto facendo.
Credo capirai il mio stato d’animo. Mi annullo. Mi svuoto per lasciare spazio alla tua decisione. Resto in attesa. Se vorrai, io ci sarò, ancora. Ci tengo.
Questo scritto ha il compito di arrivare al tuo cuore per dirti: scusami.
Lascialo aperto, dipende da te.


CONCORRENTE NUMERO SETTE 

Racconto

La forza delle parole


«Figliola, perché sei qui?  È notte fonda e dovresti essere a letto a riposare. La nostra piccola biblioteca non mi sembra il luogo più opportuno da frequentare a quest’ora, non trovi?»
«Padre, non volevo svegliarvi, mi dispiace. Spostando questi libri, devo aver fatto troppo rumore.»
«Non mi interessano le tue scuse. Vorrei solo sapere che cosa stai facendo.»
«Non c’è molto da dire. Spesso, nelle notti infinite e silenziose, vengo qui, mi siedo su questo piccolo sgabello, mentre il freddo mi avvolge con delicatezza. Leggo i vostri libri e scrivo su vecchi e logori quaderni le mie storie, tutte quelle che non riesco e non posso raccontare fuori da queste mura. Io e le mie sorelle minori amiamo questa stanza. È un luogo magico dove possiamo perderci tra le parole e le nostre fantasie.»
«Figlia mia, ma di che cosa stai parlando? Vuoi dirmi che anche le tue sorelle vengono qui durante la notte? Se la tua povera madre fosse ancora in vita riuscirebbe a farti ragionare. Il mondo non è nei libri. Sì, è vero, ho voluto che imparaste a leggere e che la cultura vi arricchisse. Ma tu e anche le tue sorelle state crescendo e presto troverete un marito con il quale costruirete una vostra vita. I libri e la scrittura non servono. Voi dovete solo imparare a ricamare, a governare la casa e a essere premurose con i figli che nasceranno dal vostro grembo. Nella vita non c’è posto per sciocche fantasie. Da quanto tempo va avanti questa storia?»
«Padre, vi sto deludendo. Mi dispiace. Ma la vita in questa angusta canonica non è per noi. Ogni giorno, apriamo le finestre e davanti a nostri occhi c’è solo il cimitero del villaggio con il suo grigiore quasi soffocante, invece di prati verdi e fiori colorati, come dovrebbe essere il giardino della vita. Dalla morte di nostra madre tutto è cambiato, pur vivendo insieme, voi vi siete allontanato da noi. E così, a differenza di nostro fratello e delle nostre sorelle maggiori, noi tre abbiamo trovato un luogo dove la fantasia ci ha donato speranza per una vita futura.»
«Sapevo che prima o poi saremo arrivati a inutili discussioni. Tua madre mi aveva avvisato. Presto tutte voi andrete in collegio e vi dimenticherete di queste bizzarre idee. Sono sicuro che lì troverete quel rigore necessario per una donna. Non ho certo voglia e tempo di discutere di queste mie decisioni. Vai subito in camera tua.»
«Il collegio non cambierà la ricchezza della mia anima e di quella delle mie sorelle. Userò sempre le mie parole per parlare al femminile, per raccontare al mondo che anche noi donne esistiamo. Nei miei racconti dovrò usare uno pseudonimo? Ebbene lo farò. Ma sarà sempre ciò che scrivo che il mondo leggerà e quando la società sarà pronta userò il mio nome. Non mi vergognerò mai di essere me stessa e il chiudermi in un collegio non mi farà cambiare idea.
Io sono: Charlotte Brontë.»
 
Lettera di scuse
La luce nel buio
 

Cara Ginevra,
se stai leggendo questa mia lettera è perché io sono morta.
Quell’uomo, che non è degno di essere chiamato con il suo nome, che ho amato e odiato in quest’ultimo anno della mia vita, ha deciso che dovevo morire, portando così noi due a separarci per sempre.
Se in quel piccolo cassetto hai trovato queste mie pagine, nascoste nella manica del tuo vecchio pigiama, è perché non ho avuto la forza di correre da te e urlare a squarciagola la mia paura.
Scusami per il dolore che stai provando in questo momento nel leggere le mie parole. Scusami per non aver chiesto aiuto, quando ne avevo avuto l’occasione e averti fatto soffrire ogni giorno pensando a me.
Cara sorella, scusami se invece di abbracciarti, ti ho voltato le spalle, allontanandomi da te sempre più.
Quello che credevo fosse amore stava annebbiando i miei pensieri, travolgendomi sempre più verso un’oscurità dalla quale non sono riuscita a trovare una via d’uscita, e portando, così, la luce della mia vita a spegnersi.
Sapevo che sarei morta. Era solo una questione di tempo. Un giorno o l’altro. I mesi sono passati, mentre io, nel mio silenzio, ho solo intrapreso il cammino verso la mia fine.   Mentre lui mi prendeva la testa, picchiandola contro il muro, mentre stringeva con forza le mie mani, schiacciandole tra le ante di un armadio o mentre mi lasciava su un freddo pavimento, come non fossi più una persona, mi sono resa conto che la luce della vita mi stava abbandonando e in quei momenti ho anche iniziato a capire che ti avrei lasciata per sempre. Ma ho continuato a camminare con lui Non ho avuto la forza di fermarmi.
Cara Ginevra, sorella maggiore, come ti ho sempre chiamata, che sei stata abbracciata a me nel corpo di nostra madre, la cui nascita ci ha divise solo per qualche minuto, ti chiedo di uscire dalla porta di quella casa, dove il dolore e la paura hanno preso il posto dell’amore, se mai è esistito.
Piangi, urla, tira fuori tutta la rabbia per quello che ci ha fatto quell’uomo. Ma, appena sarai pronta, gira la testa dall’altra parte e cerca la luce. È la luce della felicità, dell’amore e della vita. Non far sì che il buio che mi ha travolta, si impossessi anche della tua vita.
Io ho perso la luce, ma tu ritrovala e tienila stretta a te con forza, uniscila al tuo cuore e vivi ogni giorno, ogni momento, ogni istante anche per me.
La tua amata sorella minore.


CONCORRENTE NUMERO OTTO

Racconto
Colui che m'insegnò a leggere


Ero solo una ragazzina quando conobbi il conte, e da subito mi suscitò un senso di timore e di imbarazzo, ma allo stesso tempo, ne rimasi molto affascinata.  Mio padre, che da tempo cercava lavoro, prese servizio presso la sua tenuta come maggiordomo. Poco più tardi anche mia madre entrò a far parte della servitù, così ci trasferimmo nelle stanze sotterranee del palazzo.  Bastò il suo senso del dovere, molto lincio, per farsi nominare cameriera personale della contessa. Io non fui da meno e diventai la compagna di giochi della loro amata figlia. La contessina. Ricordo che possedeva una moltitudine di giochi, ma stranamente non ne ero attratta, né tanto meno gelosa, forse perché avevo qualche anno in più, invece provavo una grande invidia per i suoi studi e per avere un precettore che le insegnava ogni tipo di disciplina. Desideravo ardentemente avere tra le mie mani i suoi libri, ne ero rapita. Quelle poche volte che mi ero trovata a prenderne uno in mano, avevo provato una forte emozione, anzi, più di una, erano tante e tutte insieme. Naturalmente io appartenevo alla plebe, gente ignorante che doveva rimanere tale, perciò i libri non erano cosa per me. Inutile dire che non sarei stata in grado di farne uso, ero analfabeta, eppure mi richiamavano a loro.
Dopo qualche mese di vita nel palazzo sapevo i segreti delle sue stanze, infatti ero a conoscenza di una cantina sommersa di libri: diventò il mio rifugio per molto tempo. Mi recavo in quello scantinato umido ogni volta che potevo, soprattutto di notte. Adoravo accarezzarli, sentire il profumo che la carta emanava e il fruscio che provocava il voltare delle pagine.
Una calda notte d’estate, come tante altre, sgattaiolai fuori dal letto e ci ritornai  per trovare un po' di sollievo e riprovare la piacevole sensazione che mi davano i libri. Come al solito mi sedetti sul pavimento in pietra e mi circondai della loro compagnia. All’improvviso dei passi dall’andatura pesante mi spaventarono. Era il conte. Mi nascosi tra la vecchia libreria e una specie di giara trattenendo il fiato e ritirando la pancia in dentro, non servì a nulla: lui mi vide. Con gli occhi bassi e un inchino, come mi aveva insegnato fino allo svenimento mia madre, lo salutai, cercando di scappare via. Lui prendendomi per il braccio mi tirò a sé.
«Vieni qui ragazzina. Dove credi di andare?» disse con tono arrabbiato.
«Io, io, veramente…» risposi quasi piangendo.
«Chi sei e che ci fai nella mia cantina?»
«Mi chiamo Emily e sono figlia del maggiordomo e della cameriera della contessa. Mi piacciono i vostri libri» gli risposi tutto in un fiato.
«Mi fa piacere. Allora leggimi qualcosa!» mi disse sedendosi con me sul pavimento.
 «Veramente… non so leggere» risposi con imbarazzo.
Così, quel buon uomo, venne a trovarmi tutte le notti in quella cantina e mi insegnò a leggere e a scrivere. Ecco come sono diventata una penna famosa.

 

Lettera di scuse


Maggio, 1960


Mia cara Rebecca, ti scrivo da questo posto dove il tempo sembra essersi fermato. Sono circondata da continue risate forzate e discorsi insensati.
Quando sono venuta “ad abitare” qui, o meglio quando tuo padre mi ha rinchiuso, tu eri piccola e giustamente non ricordi molto. Sinceramente lo spero. Mi auguro che la tua memoria di bimba sia troppo labile così da non potere ricordare i miei errori ancor peggio i miei gesti inconsulti. Purtroppo, però, sono cosciente che i bambini hanno ricordi fotografici e questo non va a mio vantaggio. Dopo tanto tempo sento il bisogno di raccontarti la mia versione della storia e di chiederti scusa di molte cose.
Ho vissuto un’infanzia molto felice. Essendo figlia unica i miei genitori mi hanno cresciuto nella bambagia, evitandomi ogni tipo di dolore e dispiacere, ciò è durato fino all’età adulta. Ero un vaso di ceramica che al primo urto si è rotto. Infatti dopo la morte della mia mamma, anticipata da una lunga malattia, il mio cervello iniziò a fare brutti scherzi, così da farmi vedere e sentire cose irreali. In principio nessuno dette peso alle mie défaillance e alle affermazioni insensate che uscivano dalla mia bocca.
In seguito le cose peggiorarono e tutti dicevano che erano solo capricci di una donna rimasta bambina e che un buon marito mi avrebbe messo in riga. Così mi presentarono tuo padre.  Dopo solo pochi mesi ci sposammo, nonostante la vita matrimoniale le mie turbe aumentarono. “Vedrai, con un figlio cambierà tutto” mi dicevano. Non molto tempo dopo sei arrivata tu. Credimi amore mio sei stata il dono più bello che la vita mi abbia fatto. I primi anni sono andati bene, però, poi “i mostri” che abitavano nella mia testa tornarono. Nonostante le molteplici cure a cui mi sia sottoposta, incominciai a parlare con interlocutori immaginari e coinvolgere anche te nei “nostri discorsi”. Così, per il tuo bene, tuo padre prese la decisione di portarmi in questo posto dimenticato da Dio e odiato dagli uomini.
Nei miei pochi attimi di lucidità, quelli che i farmaci mi lasciano, ti penso sempre, spesso sono io a richiederli per non farlo. Per non sentire quel dolore che mi lacera dentro. Le pilloline magiche, così le chiamo io, mandano via i miei persecutori: i sensi di colpa.
Approfitto di questo sprazzo di connessione con la realtà per chiederti perdono per non essere stata “la tua mamma”. Per non averti mai accompagnata a scuola, alle feste di compleanno, a comprare un vestito. Perdonami per non averti mai aspettata quando rientravi la tarda notte e per non averti fatto una ramanzina. Soprattutto per non esserci oggi in quella chiesa. Di sicuro sarai bellissima con quel abito bianco. Sappi che io con il cuore sono vicino a te e sono certa che sarai una brava mamma perché sei cresciuta lontano da me.
Ora che il dolore si fa troppo forte da sopportare, meglio spegnere il cervello con una delle mie pillole magiche.
Con amore
La tua mamma.

E ORA VOTATE VOTATE VOTATE!

Si può votare fino alle 

ore 12 di giovedì  27 ottobre 2022

 

Qui di seguito i testi dei 3 concorrenti che hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica.

NON SONO SOGGETTI A VOTAZIONE, ma se dopo aver espresso il vostro voto relativamente ai concorrenti in ballottaggio, volete esprimere un commento anche sui testi che sono  già passati alla fase 3, potete farlo in un commento: gli autori ne saranno felici!


CONCORRENTE NUMERO UNO

Racconto

L'attesa

Presi servizio a quattordici anni, in quella casa severa come il suo proprietario. Villa di pietra, con l'edera che ne copriva i muri, in mezzo al paese eppure discosta e lui, silenzioso, con lo sguardo sottile di chi si aspetta solo delusioni dal prossimo. Aveva vent'anni più di me e mi intimoriva almeno quanto mi attraeva.
Nei pomeriggi usciva per i suoi affari, io pulivo e cucinavo. C'era una stanza particolare che amava.  Essenziale, col pavimento di cotto rosso, un'anfora in un angolo e, incassata nella parete, una libreria. La sera, si sedeva sull'unica poltrona, prendeva un volume e alla luce di una lampada leggeva, per ore, assorto. In quei momenti  un vago sorriso ne ammorbidiva i tratti.
Avevo cura di quella stanza. In ginocchio, di fronte alla libreria, prendevo quegli scrigni di parole e sogni e li spolveravo. Li tenevo accanto a me, accarezzandoli, per poi riordinarli come lui li aveva lasciati. Più il tempo passava e più diventavano preziosi. Mi incantavo a guardarli, ne sfogliavo le pagine, passando leggera le dita su quei segni a me preclusi, ma che a lui davano gioia.
Un pomeriggio, mi sorprese a terra, con un libro aperto, altri al mio fianco. Un istante cristallizzato nel tempo. Lo guardavo intimorita di quella che poteva essere la sua reazione. Il silenzio durò ere, poi sottovoce mi chiese se sapessi leggere. Scossi il capo: ero solo una serva, c'era stata la guerra e la scuola non l'avevo conosciuta.
Mi lasciò sola, ma da quella sera, ogni volta che si ritirava nella stanza, leggeva ad alta voce.
Divenne un appuntamento atteso.
Mi avvicinavo alla soglia per ascoltare, un passo avanti ogni volta, la distanza che si accorciava, finché comparve una sedia accanto alla poltrona. Cercai e trovai il coraggio di occuparla e, quando lo feci, con pazienza e delicatezza, mi consegnò le chiavi delle porte di mille vite. Indicava le parole, le leggeva, me le spiegava. I libri diventarono un ponte tra di noi, potevamo attraversarlo da due lati opposti e incontrarci nel mezzo.
Scoprii che non era severo e distante, ma ritroso. Come gli scritti che amava e che mi appassionavano, possedeva un cuore di inchiostro, fluido e netto, ma che si poteva sbavare e rovinare con poco. Aveva un'anima di carta, fragile, ma che poteva tagliare. Troppe volte era stata stropicciata, strappata, ora era protetta da una corazza rigida e spessa. Lui era come un libro: stava nel mondo chiuso e misterioso, ma a chi si accostava col giusto garbo, si apriva e donava l'immensità.
Quando padroneggiai la lettura, una volta sistemate le incombenze domestiche, tornavo a inginocchiarmi con un volume in mano e lo attendevo. Al rientro mi trovava così e sorrideva.
 
Dopo anni e una seconda guerra, i libri sono aumentati, hanno conquistato altre stanze. Lui non c'è più, ma io continuo a sedere qui, sul pavimento, in attesa, leggendo a voce alta per chiunque voglia oltrepassare la soglia di questa dimora, divenuta biblioteca.
 

Lettera di scuse

Ciao Giulia,
immagino la tua sorpresa per questa mia.
Ci vediamo tre volte a settimana, messaggi quotidiani, ti starai chiedendo da dove viene il bisogno di scriverti.
È presto detto: settimana scorsa mi hai detto di sentirti fortunata ad avermi come amica. Mi hai ringraziata.
Non merito le tue parole, verso di te ho mancato. Da questo nasce la lettera: per chiederti perdono.
Avrei potuto dirtelo a voce, ho scelto un foglio un po' vigliacco; ci metterò verità.
Potevo telefonarti, ma le parole corrono; ho preferito la lentezza della scrittura, per pesare ciò che dico.
In questo momento ho scoperto perché sia così difficile chiedere scusa. Per farlo, in modo onesto, dobbiamo accettare i nostri errori, vederci fallaci. È uno sforzo doloroso, perché ora, devo ammettere le mie colpe, senza sconti, attenuanti o giustificazioni. Ti chiedo scusa per quello che ho fatto io, nulla viene da un'azione tua.
Perdonami se, a volte, quando mi chiami, ho la tentazione di non rispondere. Sarebbe facile dirti, poi, che ero nei casini e tu mi crederesti senza problemi, perché sai come vivo.
Perdonami se, quando chiudo la telefonata sono contenta di averti parlato: dovrei esserlo da subito, non a posteriori, quasi complimentandomi con me stessa per la mia assidua presenza.
Perdonami se mi capita, senza mostrarlo, di arrabbiarmi per certe cose che mi racconti. Succede, sì, perché vorrei la tua allegria, la tua leggerezza, per sollevare il macigno che in certi momenti mi schiaccia. Solo in seguito capisco che hai bisogno di quello sfogo, che amicizia significa essere anche cassa di risonanza per l'altro.
Perdonami se, vivendo una situazione simile alla mia, ma oggettivamente peggiore, quando mi racconti qualcosa che non va, io ti capisco, con te lo affronto, ma sotto sotto mi consolo. Mi sento fortunata nella sfortuna, meno debole e quindi abbastanza forte per sostenerti. Non dovrei sentirmi così, solo esserci.
Perdonami se, quando mi dici che vorresti fare un'associazione di mamme, per supportare chi vive la nostra condizione, ti dico sì, facciamolo, ma poi penso che tanto sono solo parole e che, comunque, non ho tempo o energie da spendere in un simile progetto.
Perdonami per questa lettera, questa confessione non cercata, queste scuse non richieste.
Ti sto facendo male per cose di cui, credo, non avevi idea. Egoisticamente lo sto facendo per me, buttandoti addosso tutto questo.
Ti prometto di essere migliore. Di non cercare la semplicità di un consenso, tacendo ciò che penso, per rifuggire le tensioni. Cercherò di parlare di più, di svelarmi di più, di dirti anche basta, di prendermi un momento. Magari non ti sentirai più così fortunata ad avermi come amica, ma troverai in me un'amicizia migliore, consapevole dei limiti.
Scusami, infine, se non straccio questa lettera, ma la invio.
Ne accetterò le conseguenze.
Per me sei importante, tanto da scusarmi e consegnarmi così, imperfetta, complicata.
La tua amica, se ancora lo vorrai.


CONCORRENTE NUMERO CINQUE

 Racconto   

Il segreto (1933)


È notte fonda e io sono ancora qui, in mezzo ai miei libri e giornali sparpagliati dovunque. E pensare che tutto è iniziato come un gioco!
Quando Eleanor ha per caso dato un’occhiata ai miei scritti, dimenticati in camera sua, è rimasta folgorata ed è stato allora che ha voluto conoscermi. Ero lì per dare una mano alla governante a sistemare il guardaroba: nelle riparazioni mi destreggio bene, ma l’ago e il filo non sono nulla rispetto alla penna. Ho cominciato così a scrivere discorsi per altri.
Quanta fatica però per emergere dalla povertà e riuscire a studiare! Sono costretta a lavorare nell’ombra, a scrivere senza che i cosiddetti benpensanti ne abbiano sentore, infatti non accetterebbero l’idea che tante  belle parole di importanti uomini pubblici siano  opera di una giovane donna.  Rintanata in un modesto scantinato, sono tuttavia felice di dare vita ai discorsi che metterò in bocca ai vari personaggi politici. Alla loro consegna sono sempre stata costretta a vestirmi da uomo, rinunciando ai miei semplici abitini neri, sobri, ma molto femminili.  Copro i capelli biondi con un berretto, la cui visiera nasconde in parte la mia delicata carnagione.
Le mie guance sempre arrossate indicano la pressione a cui sono sottoposta ogni giorno. Devo infatti cucire in fretta, con competenza e senza errori, i discorsi che mi commissionano. Da qui la continua necessità di libri, alla ricerca di dettagli, ispirazioni e notizie corrette e inconfutabili.
Finora nessuno, eccetto Eleanor e Delano, è a conoscenza di chi io sia.
Pur dietro alle quinte, sto combattendo una battaglia che  vuole essere un grido di emancipazione di tutte le donne che seguiranno il mio esempio. Oggi si pretende la donna subalterna all’uomo, mentre la sua intelligenza deve potersi esprimere in tutte le sue potenzialità e senza pregiudizi.
Rileggendo alcuni passaggi dell’ultimo mio discorso, mi sento quasi incredula, ma orgogliosa: l’ho scritto proprio io!
…Lasciate dunque che io esprima tutta la mia ferma convinzione che quanto dobbiamo soprattutto temere è di lasciarci vincere dalla paura, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasformare una ritirata in un’avanzata…
La mia versatilità linguistica è frutto della passione per i libri, senza i quali non sarei arrivata fin qui, e non avrei neppure acquisito il  background, che mi ha permesso  di sognare in grande e di non arrendermi di fronte alle difficoltà.
Mi sento stanca, sono già le tre: devo andare a riposarmi, ormai il discorso che Delano pronuncerà il quattro di marzo, all’inaugurazione del suo mandato, è completo. Sono emozionata, anche perché dopo l’investitura lui mi presenterà ufficialmente alla stampa, alla quale mi mostrerò per quello che sono, una donna, forse fin troppo giovane, ma considerata perspicace e intelligente. Anche se le difficoltà continueranno a persistere, questo sarà un primo passo per la valorizzazione delle capacità femminili.
Non mi resta che frenare l’ansia dell’attesa, quando sarò presentata come collaboratrice nello staff di Franklin Delano Roosevelt, nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America.


Lettera di scuse

10 ottobre 2022

Carissima,
È trascorso qualche anno dall’ultima volta in cui ci siamo parlate, eppure non è passato giorno senza che io non ricordassi il tuo sguardo da cerbiatto ferito, ma pieno di dignità, quando mi hai affrontato per chiedermi perché mi fossi comportata così nei tuoi confronti. In quell’occasione, mentendo, negai ogni responsabilità.
Ricordo la rabbia quando seppi che il Preside ti aveva nominato docente nei Corsi abilitanti per i docenti della cattedra più prestigiosa, quella di latino e greco nei licei classici. Aveva scelto te e non me, l’insegnante più preparata della scuola, almeno così mi ritenevo.
Mi ero vendicata dell’affronto, mettendo in giro la voce che il preside fosse stato sedotto da te, che gli avevi concesso i tuoi favori in cambio della nomina.  Avevo finto di sussurrarlo, ma avevo sbandierato ai quattro venti che l’incarico era stato per così dire “pagato” in natura. D’altra parte tu eri una bella donna e che il tuo fascino avesse fatto breccia nel cuore di quel vecchio donnaiolo era più che credibile.
La calunnia è sotterranea e serpeggia silenziosa, ma tu ne sei venuta a conoscenza subito e mi hai chiesto spiegazioni. All’invidia aggiungo un’altra mia colpa: la codardia. Avrei potuto riscattarmi, metterla sullo scherzo o chiederti scusa, ma non ne sono stata capace.
Oggi mi vergogno della mia bassezza e anche se capisco che le mie parole non modificheranno il tuo giudizio su di me, né ridurranno la gravità di ciò che ho fatto, ti chiedo scusa.
È tardi, è vero, ma ho avuto bisogno di tempo per capire ciò che vale nella vita. Solo ora infatti mi sono resa conto di essere piena di vanità e  narcisismo, uniche colonne della mia esistenza. Sono stata sempre alla ricerca di lodi, ammirazione e complimenti. Allora non capivo che cosa tu avessi in più rispetto a me, visto che, cieca com’ero nella mia presunzione, ero convinta di essere un pozzo di scienza e che questo bastasse a considerarmi un’insegnante perfetta. Tu possedevi invece umanità, empatia, capacità di perdonare i ragazzi, di valorizzarli e sostenerli. Altro che la mia sterile, eruditissima cultura!
È tardi – ripeto - avrei dovuto scriverti subito questa lettera e non macchiare la luminosa immagine di serietà e stima che fino allora ti aveva circondato, ma avvertivo una certa riluttanza, mista a vergogna, che mi ha sempre frenato. Oggi però, ho deciso: non ce la faccio più a vivere con questo rimorso, che è stata la punizione che mi ha perseguitato senza tregua.
Maria Grazia, ti chiedo di accettare le mie sincere scuse e di darmi un segno di perdono.
Non ti biasimo se mi manderai al diavolo e strapperai la mia lettera.  Sappi però che, a prescindere dalla tua risposta, quest’esperienza ha operato in me un profondo cambiamento, facendomi capire che la cultura da sola è sterile e non è sufficiente a fare di un insegnante un buon educatore.
Con tutta la mia stima.
                                            La tua collega Franca Filippi.


CONCORRENTE NUMERO SEI

Racconto
Il viaggio


Chicago, 14 febbraio 1929

Quanto tempo era passato? Un mese, un anno, una vita? Difficile dare un riferimento temporale alla mia prigionia.
Chissà che aspetto avevo. In quella stanza dalle pareti umide e scrostate, non c’erano mai stati specchi. Solo libri, moltissimi libri polverosi, poi diventati unici compagni di un viaggio che non sapevo né dove mi avrebbe condotta né, tantomeno, quanto sarebbe durato.
Da quasi dieci anni, negli Stati Uniti, era stata approvata la legge sul proibizionismo che vietava la produzione, vendita e trasporto di alcolici e questo, purtroppo, aveva contribuito all’aumento di tutte quelle attività criminose - legate al traffico delle armi e contrabbando di bevande alcoliche - appartenenti alla mafia che controllava la città.
Ricordo che, quel giorno, a Chicago faceva molto freddo e il cielo era di un colore grigio intenso e opprimente, quasi mi volesse mettere in guardia su quello che mi aspettava.
Fui avvolta da una sorta di panico che non riuscivo a comprendere e che cercai di ignorare, anche perché era il giorno di San Valentino e, quella stessa sera, Boris sarebbe venuto a chiedere la mia mano.
Eppure, quel cielo continuava a entrare dentro di me con la furia di un animale selvaggio mentre divora la sua preda.
Verso le 10:00, uscii per andare a fare la spesa. All’altezza del 2122 di North Clark Street, una Cadillac nera con quattro persone a volto scoperto, si fermò davanti al garage del “Smc Cartage Company” e fece fuoco con ripetute scariche di mitragliatrice.
Ero la testimone scomoda di quella che - molto tempo dopo - seppi essere stata definita come la strage di San Valentino a opera di due gang mafiose e rivali.
Potevano uccidermi, invece mi sequestrarono.
Da allora, sono vissuta in una stanza con la sola compagnia dei libri. Con loro ho imparato a dare un senso al viaggio che stavo facendo. A cercare un orizzonte dove sentirmi viva. Non ho mai pianto, né urlato. Se ero rassegnata? No. Non ci rassegna mai quando ti batte il cuore. E quei libri ne erano artefici e testimoni.
«Buongiorno Evelyn. Ti ho portato i vestiti puliti.»
«Buongiorno. Grazie.»
Non sapevo come si chiamasse il più giovane dei miei carcerieri e nemmeno che volto avesse. Ma la sua voce era gentile. Erano già diverse mattine che veniva sempre lui a portarmi i viveri e ogni volta, prima di uscire, mi diceva sempre la stessa frase: fuori c’è il sole, Evelyn.
Quella mattina, entrando, pronunciò il mio nome con un filo di voce. Io mi voltai e, con il libro ancora fra le mani, abbozzai un timido sorriso. Fuori c’è il sole… oggi sarà una bella giornata.
Mi porse la mano e, con delicatezza, mi invitò a uscire dalla stanza. Rimasi immobile sulla soglia per un tempo sufficiente a sentire la porta che si chiudeva alle mie spalle e, un attimo dopo… lo sparo di una pistola.
Il viaggio era finito e fuori, quel giorno, c’era un sole bellissimo.
 
 
Lettera di scuse
Quel giorno
 
A Giovanni, mio figlio.
È sempre stato difficile per me chiedere scusa. A pensarci bene, credo di non aver mai conosciuto il reale significato di questa parola.
Scusa, scusate, perdonatemi… mi sembravano vocaboli non collocabili in nessun contesto della mia quotidianità. Tua nonna aveva sempre diretto la mia vita con il filo invisibile di un burattinaio e, come una pioggia acida, era riuscita piano piano e senza che me ne rendessi conto, a sgretolare la mia vita per preservare il suo senso di possesso. Non è pertanto difficile capire il motivo per cui – una tale terminologia - non fosse parte attiva nel mio vocabolario.
Alzare le mani con tua madre era l’unico modo che avevo per sentirmi vivo, uomo e padrone di me stesso, facendo emergere quella rabbia che, inconsapevole, giaceva in fondo alla mia anima.
Senza saperlo, mi ero inaridito.
Eppure, quel giorno, la gestualità aggressiva verso di lei sembrò arretrare. Non aveva firmato il contratto che avrebbe cambiato la tua, le nostre vite e io, quella volta, non ero stato capace di alzare neanche un dito per farla ragionare.
Nonostante ciò, mentre il visionatore - che si era occupato del tuo ingaggio in quella prestigiosa squadra di calcio - se ne andava da casa nostra, avvertii come una mancanza d’aria che, però, lasciai svanire come fosse una nuvola di fumo di consistenza ed effluvio appena percettibili.
Tu hai visto sfumare il desiderio di diventare calciatore nella tua squadra del cuore, mentre io… ho lasciato che l’aria si facesse sempre più rarefatta, senza cercare ossigeno. Alla fine, l’aria è finita.
Sarebbe bastato poco per far diventare quel giorno, il più importante della tua vita. Invece, sono rimasto inerme e incapace di impormi per regalarti il futuro che meritavi.
Quante volte ho ripensato a quel giorno. Ma non te l’ho mai detto.
Tuttavia, l’amore trova sempre una fessura dalla quale passare per raggiungere i cuori prosciugati. Come il mio.
Da quel piccolo buco ho fatto passare quello che restava di me. Piccoli frammenti di calore che poco alla volta mi hanno scaldato il cuore, accorciando le distanze che, nel tempo, si erano create fra di noi. Purtroppo, però, non sono mai riuscito a chiederti scusa per quel desiderio infranto.
Scusami, per quel battito del cuore che non ho avuto e che non sono riuscito a recuperare.
Scusami, per la solitudine, la tristezza e la rabbia nelle quali ti ho a lungo lasciato.
Scusami, per le parole non dette o pronunciate fuori luogo.
E scusami anche se, mio malgrado, ho lasciato questa terra in un momento in cui, invece, avrei tanto voluto restare con te. Un momento che, forse, avrebbe dato un’impronta diversa al mio passaggio su questa vita terrena.
Al viaggio dell’amore attraverso quella fessura, ho chiesto però di raggiungere i tuoi sogni e parlarti di me. Ha accettato.
Ti sento dentro, come tutti i baci e gli abbracci che non ti ho mai dato.
Tuo padre.


ATTENZIONE

Nella diretta di giovedì 27 ottobre alle 21, nella Pagina Facebook di Edizioni Convalle, svelerò i nomi degli autori dei testi del GIRONE B - FASE 2 (questo girone). 

Avremo così tutti gli otto i nomi che accedono alla Fase 3 che si preannuncia difficilissima! Ma vi spiegherò tutto nella diretta del 27.

Complimenti a tutti i partecipanti! 

Il Masterbook prosegue e rimarrà un solo vincitore, ma ci saremo tutti divertiti condividendo la stessa passione: Scrivere!




Alla prossima 

dalla vostra 

Stefania Convalle




 

 


 

22 commenti:

  1. Voto il concorrente numero 3 (tre)

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  2. Mi sono piaciuti i testi del concorrente numero due. Luca Togni.

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  3. Complimenti anche ai tre già "passati": bei racconti!🤗

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  4. Questa settimana il mio voto va al numero tre! Sia nel racconto , che nella lettera mi ha conquistato : la delicatezza, la sensibilità e soprattutto l'umanità dei personaggi! I due testi mi fanno risuonare in testa la canzone di Mengoni: 'Credo negli esseri umani!". Complimenti a tutti e una menzione speciale al concorrente n.2 che , con il suo originale racconto, ci ha fatto ha fatto divertire!!!

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  5. Voto il concorrente n. 3. Marta Martello

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  6. Do il mio voto al racconto n.3. per la delicatezza nel tratteggio dei personaggi e la capacità di creare una atmosfera di palpabile sensibilità .

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  7. Voto il concorrente numero 4. Doriana

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  8. Voto il concorrente numero 4. Enza

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  9. Voto il concorrente nr due, durante la lettura del racconto sembrava proprio di essere nel dipinto, inoltre molto interessante, curioso ed inaspettato il collegamento col presente .

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  10. Mi sono piaciuti i racconti del concorrente numero 2. Anna

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  11. Voto l'originalità del/della concorrente numero due.

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  12. Complimenti a tutti!! Voto il racconto numero 4 . Tommaso

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  13. Scelgo gli elaborati nr 7 perché in entrambi ho rilevato un bel messaggio di speranza che va oltre i luoghi comuni dettati dall'ignoranza fino ad arrivare persino oltre la morte. Complimenti.

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  14. Voto il concorrente numero 2. Mi è piaciuta la svolta inaspettata del racconto che lo rende molto originale. La lettera mi ha commossa. Comunque, complimenti a tutti per i bei racconti!

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  15. Sono rimasta colpita dal racconto numero 4. Nicoletta

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  16. Voto il concorrente numero 2, per l'idea originale (e la trovata del telefono)

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  17. Voto il concorrente n.7, amo C. Bronte. Emanuela

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  18. Sono Elena Mazza e voto il nr. 4

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  19. Scelgo il testo e la lettera di scuse del concorrente n.4; Giuseppe

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  20. Il mio voto va al brano 4: mi piace che, da un'immagine di un'epoca lontana, lo scrittore abbia parlato di un argomento ancora così attuale come i diritti delle donne. Girl Power! Federica Biraghi

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  21. Voto il concorrente n.7

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