Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

sabato 18 aprile 2020

Numero 321 - Droghiamoci di scrittura - 18 Aprile 2020



Qualche giorno fa, nella Pagina di Edizioni Convalle su Facebook, ho condotto una diretta sull'argomento della scrittura. Per chi se la fosse persa, questo il link:

https://www.facebook.com/1139624746135543/videos/238223137323717/

Al termine della diretta ho lanciato una sfida a tutti coloro che hanno voglia di mettersi in gioco con la propria creatività: scrivere un breve racconto ispirato dal famoso quadro di Manet.

Di seguito, i racconti di chi si è cimentato in questo esperimento.


Anna Arosio

Chissà se lo vedi. Di solito non notiamo mai ciò che è sotto il nostro naso.
Forse se la smettessi di fissare la mia scollatura, potresti accorgerti. L'ho messo apposta. Devi capire.
Possibile che solo il fiore rosso che ho scelto di appuntare sul mio vestito ti interessi?
Sei lì, a un passo da me, e niente. Non vuoi notarlo. Preferisci ignorare la verità. Ancora?
Sono incredula. Mi si accende uno sguardo quasi ebete mentre un istinto improvviso mi fa stringere forte il bordo del banco. Freddo e bianco marmo. Rigido. Come noi.
In mezzo a questo bar pieno di persone, vorrei scagliarti contro una bottiglia! Allora, Jacques! Mi guardi?
Lo inclino alla luce, dorato e sfacciato. Non me l'hai regalato tu. Dai, chiedimelo! Forza...
Ti si arrossa un poco il viso, giusto attorno al naso, e per un istante il tuo cilindro sembra scivolare in avanti.
Che te ne sia finalmente reso conto?
Non ci sei più tu a cingermi, neppure il candido braccio che ti mostra la prova del mio tradimento.
Allunghi una mano verso di me ma subito la arresti. Il coraggio manca a tutti e due.
E intanto piovono sulle nostre teste migliaia di parole tutte assieme.
Un ronzio che sale e cresce sempre più.
Una specie di silenzio che sa di vita.
Sulle nostre teste, piovono queste parole senza senso.
Come una cascata infinita.

§§§§§§§

Carmine Scavello

Guardando il quadro di Manet “Il bar delle Folies-Bergère”, mi è venuto in mente il seguente racconto ambientato nell'antica osteria del mio paese natio. L’osteria era il bar di allora; lì si consumava prevalentemente vino sfuso. I clienti, pur avendolo prodotto dalle proprie vigne, si recavano nell'unica osteria per stare in compagnia degli amici e fare baldoria, senza i carabinieri di turno: le mogli che li controllavano a vista per limitare il consumo di vino. Quegli uomini, legati ai lavori agricoli, già durante la giornata, ingurgitavano gran quantità di vino per lenire la fatica e il sudore; l’acqua, secondo loro, faceva crescere solo le rane. Le malattie del fegato, legate all’uso smoderato dell’assunzione di alcool, abbassavano l’età media di quegli uomini.

Nell'osteria il clima era euforico: si alzava il gomito e, poi, si cominciava a cantare a squarciagola canzoni popolari o legate alle serenate; inoltre, troppi segreti venivano spifferati al vento. L’ostessa donna Carmela, involontariamente, veniva a conoscenza dei loro fatti personali e di come andavano gli affari di famiglia. Quindi, si metteva in guardia e chiamava le mogli per saldare il conto del marito, quando capiva che c’erano state in casa delle entrate. A quel tempo, gli uomini lavoravano in campagna dalla mattina alla sera e delegavano alle consorti la conduzione economica della famiglia.
L’ostessa era analfabeta; segnava sul muro il consumo di vino di ciascun cliente con una tacca per ogni litro di vino. I muri erano segnati a zone come delle carte geografiche; a ciascun avventore era riservato il proprio pezzettino di muro. Donna Carmela non ammetteva litigi o turpiloquio sguaiato nel suo locale; invitava i litiganti a risolvere i propri problemi di relazione fuori del locale per salvaguardare l’onorabilità e il buon nome dell’osteria.
Un giorno, una ragazza di nome Rosina si recò a saldare il conto di suo padre. Donna Carmela la condusse presso il pezzetto di muro riservato a suo papà e contò insieme a lei le tacchette – una tacchetta, un litro di vino - scritte con un carboncino: il loro numero era abbastanza alto. Rosina si azzardò a mettere in dubbio la sua memoria, indicando un pezzetto di muro meno segnato; donna Carmela la bloccò subito dicendole: «Questo è il conto di Giuseppe; quest’altro di Nicola; quest’altro ancora di Battista… Questo è di tuo padre Francesco; se metti in dubbio la mia parola, quella è la porta; di' a tuo padre di non mettere più piede nella mia osteria.» Era certa che lei non l’avrebbe fatto per non scontrarsi col genitore.
Donna Carmela era una donna molto furba; riusciva a prendere in giro la clientela con uno stratagemma. Rimase colpita dalla parabola delle Nozze di Cana e dall'esplosione di gioia degli invitati alla cerimonia, che rimasero perplessi della bontà del vino alla fine della cerimonia e non all’inizio, quando i riflessi e il gusto sono buoni. Ella, per prendere in giro la clientela, aveva escogitato un espediente molto funzionale; forniva i primi e gli ultimi litri di vino di eccellente qualità, spillati da una botticella del tutto uguale a quella normalmente usata per confondere le idee.
I clienti all’inizio erano soddisfatti al massimo di quel vino che definivano buono come il marsala; poi, durante la serata, Donna Carmela cambiava tattica: forniva un vinello di qualità più scarsa; tanto non se ne accorgeva più nessuno; il punto di saturazione era superato, per cui il gusto non faceva più effetto. Verso la chiusura del locale cambiava rotta e forniva il vino di inizio serata per lasciare in bocca un sapore che fosse ricordato fino all'indomani.

Basta un quadro per rinfrescare la memoria! L’arte ha il potere di appagare lo spirito attraverso la bellezza, di suscitare emozioni e di risvegliare i ricordi.

§§§§§§§

Enrica Recalcati

Un bar aux Folies Bergère di Edouard Manet (1882)

Ho in mente due parole: amore e speranza.  Sophie di fronte a me beve e parla.  Parla, beve e contratta.  Mi chiedo quanto guadagnerà stasera, e quante volte, per quel denaro, abbia dovuto allargare le gambe.  Dietro di me c’è Hélène, una collega.  Sta cercando di vendere un cocktail creato da lei, un buon bicchiere, ma il cliente preferisce champagne. Tanta gente seduta, altri in piedi coi calici pieni. Tutti eleganti perché alle Follies ci vanno i ricchi. Me ne sto dietro questo banco di marmo, stanca, colle gambe flaccide, il respiro strozzato, nel corsetto che è una galera.  Aspetto finisca anche questa serata, che il locale diventi un tempio vuoto, così, come una vestale, potrò pulire e tornarmene a casa. Amore mio, tesoro bello, fra poco bacerò il tuo viso, e annusando il profumo dei tuoi riccioli d’oro, chiuderò gli occhi. Dormiremo insieme per sognare nuovi orizzonti.

§§§§§§§

Valter Manunza

 Al caffè

Mi siedo sempre al tavolo vicino alla finestra, il primo di fronte al banco. Mi piace guardare il mondo fuori che passa dietro al vetro, e quello dentro, riflesso sull’enorme specchio alle spalle della barista, una bella ragazza con i capelli raccolti e una giacca blu su una t-shirt bianca, che ogni tanto quando si gira per fare i caffè si abbandona a una smorfia pensando di non essere vista. Ordino un cappuccino con molta schiuma e un po’ di polvere di cacao perché il freddo mi è entrato nelle ossa.
Di fronte a me e alle mie spalle, una ragazza con un tè e un piatto di pasticcini secchi, due alla marmellata - credo di arancio - e due al cioccolato. Ha il nord e il sud. Capelli di grano quando il sole picchia forte e gli occhi neri del mare profondo. Sorseggia piano con lo sguardo al telefono.
Al tavolo accanto a lei, sotto lespositore dei caffè,  un anziano che legge il giornale. Ha il viso stanco e il maglione un po' sporco, ma ha gli occhi curiosi. Al muro è appesa una lavagna col menù del giorno per il pranzo veloce. È scritto come fosse un imperativo. Come se fosse il piatto a essere veloce e non chi lo mangia.
Ma ormai va così. Dicembre dovrebbe essere un mese pigro, silenzioso, con le poche giornate chiare di sole e aria pulita fatte per godere di un ritmo lento; e le lunghe, buie giornate fredde e umide dietro una finestra a guardare lultima foglia che cade con la copertina.
Fuori dalla finestra invece mille nevrosi si incrociano come quando a biliardo  fai il colpo che spacca  e i colori esplodono da una parte allaltra, ognuna dietro ai propri regali, le proprie cene, pranzi, impegni.
Piove. Una pioggia leggera, improvvisa. Fuori passa una signora elegante con un impermeabile beige che si apre di lato dietro un colpo di vento, una paio di stivali di cuoio sopra un pantalone attillato marrone scuro. Non ha lombrello e sta col collo un po' proteso in avanti, quasi servisse a ripararsi; la mano destra sopra  gli occhi stretti a fessura,  come a guardare lontano, oltre.
Un ragazzo in piedi sul ciglio del marciapiede sotto un ombrello rosso sta parlando con una ragazza dentro una macchina bianca sullaltro lato della strada col finestrino abbassato per metà, e un furgone passa in mezzo e interrompe occhi e parole.
Le luci verdi della farmacia di fronte riflesse sullasfalto bagnato.
C'è odore di caffè tostato e caldo. La vedo entrare alle mie spalle non visto, come ogni giorno. Si siede, alza gli occhi e fa un cenno al cameriere con le labbra sottili,  io la guardo disarmato e pare che lei oggi mi veda riflesso allo specchio mentre si gira verso la finestra, verso larcipelago di gocce colorate e luminose sul vetro. E sorride.

§§§§§§§

Silvana Da Roit

Cinquecento passi.
Ricordo più schiene che sorrisi. Non perché le persone non mi sorridessero, ero io a non manifestare disponibilità, a non aprirmi o anche solo rivelarmi, a non credere e cedere fino in fondo a quella sorta di lusinga.
Eppure, cercavo l'approvazione di tutti, indistintamente. Cambiavo forma e sembianze, limavo, attutivo, stracciona con gli straccioni, ingenua con gli ingenui, ma sempre tenendo un basso profilo, rasentando l’invisibilità. Un'ombra non patisce se la si calpesta.
Se qualcuno riusciva a imbottigliarmi in una definizione, una categoria benché benevola, ero pronta ad assottigliarmi e uscire dalle sbarre di quella prigione, lasciando che pensasse di me quel che voleva, non ero io. O perlomeno non ero solo quello. Lasciavo credere che quell'aspetto fosse portante, che avessero colto la pasta di cui ero fatta e in cambio di quella approvazione, minuto riconoscimento, riacquistavo un'effimera libertà, la consapevolezza di appartenermi in tutti gli altri tasselli ancora celati.
Ho amato le schiene anche e soprattutto quando si allontanavano da me, con intima commiserazione per quella perdita, ma già predisposta a scordarmene un po'. Solo un ultimo sguardo, conscia che fosse l'ultimo. Era sancito dai miei cromosomi, scritto nel destino, camminare spoglia per essere libera. Pur sapendolo, le ho amate come non mai nel momento del distacco, senza rimpianti, accuse, nel giusto tentativo di non svilire un vissuto che un secondo prima chiamavo nostro.
Avrei voluto che anche mio padre andasse via di schiena.
Mi comunicarono la sua morte in una mattina livida, senza preamboli. Non sapevo fosse ricoverato, i figli dei separati non godevano di tali diritti. Mi avviai all'obitorio senza la compagnia di un adulto, d'altronde chi si prendeva cura di me non era abbastanza forte neppure per sé e, mostrando un distacco apparente, contai i passi, cinquecento più o meno.
Lo vidi in faccia. Come si possono scordare ciglia bionde, palpebre che ti illudi possano riaprirsi e poi preghi che no, non si riaprano, perché non vuoi che ti veda persa, incapace a vivere, non vuoi infliggere questo ulteriore dolore.
L'inverno era cominciato presto, cumuli di neve sporca iniziavano a ghiacciare indifferenti al mio rabbrividire; con la punta del piede provai a saggiarne la consistenza e poi via, come la lama di un coltello, a praticare fori. Più i buchi si allargavano, più la disperazione diventava rabbia, allora un calcio ad affondare nel vuoto, un altro e un altro ancora, fino a sfinirmi.
Avrei preferito che mio padre andasse via di schiena.
Qualche giorno dopo il funerale, ritornando da scuola, trovai un suo biglietto tra la posta. Una busta con indirizzo e francobollo, un cartoncino bianco con poche parole scarabocchiate in fretta, un grido d'aiuto, un bisogno di vicinanza disatteso. Mi chiedeva perché non andassi a trovarlo.
Non c'erano più cumuli di neve su cui sfogare la rabbia, ero abitata dal niente.
Quanto può essere lunga un'agonia?
Cinquecento passi, da casa mia, all'ospedale.

§§§§§§§

Tiziana Mazza

La disperazione negli occhi

 Carlo


Mi hanno licenziato.
Ho quarantacinque anni, dopo vent'anni di onorato lavoro, l'azienda mi ha dato il benservito. Proprio come Rita, dopo dieci anni di fedele fidanzamento, mi ha mollato: «Ho trentacinque anni, voglio sposarmi e avere dei figli, non posso aspettare che ti rimetti in piedi, se mai ci riuscirai; il mio orologio biologico non ha più tempo. Il capo si è innamorato di me, ho deciso di accettare la sua proposta di matrimonio. Mi spiace, Carlo, ti auguro buona fortuna.»
Cin Cin, e che ti vada di traverso. Una bella sbornia, ecco cosa mi ci vuole, una sbronza colossale per dimenticare questo mondo schifoso. Guarda quanta gente che si diverte! Che cosa avete da festeggiare? Ah Ah Ah, poveri illusi, non sapete quanto tutto sia effimero. Qualcuno disse, non ricordo chi, che siamo nati per soffrire. Maledetto uccellaccio del malaugurio! E allora io brindo a voi, stronzi allegri, e che la profezia vi colpisca!
Trangugio il liquido forte tutto d’un fiato, mi brucia la gola. Questo locale è una bolgia, il brusio di sottofondo mi ferisce le orecchie. Le bocche, atteggiate a risate sguaiate, mi colpiscono le retine in modo doloroso. Le immagini sono tutte sfuocate, solo una appare nitida. In fondo al locale, dietro al bancone, una donna guarda con lo sguardo assente verso la sala che rigurgita di gente volgare. Il suo corpo è lì, ma lo spirito è molto lontano. Ha l'aria sofferente, lo dicono i suoi occhi, e gli occhi sono lo specchio dell'anima.

Maria

Che ci faccio qui?
Ho appena seppellito mio figlio, il mio dolce, piccolo bambino. Solo nove anni e tanta voglia di vivere. Sento ancora lo stridio dei freni e la voce lamentosa di quel vecchio: «Non l'ho visto, non l'ho visto!»
Ora lui è in galera e io agli arresti domiciliari dentro una gabbia invisibile che mi avvolge e mi stritola togliendomi il respiro.
Che cos'hanno da ridere quei bifolchi? Non lo sanno che Giulio è morto? Mi fa male la testa, non sopporto più di stare in mezzo alla gente, questo rumore fastidioso mi fodera le orecchie e mi frastorna come una sbornia. Vorrei prendere un martello e fracassarlo sui denti di tutti questi idioti che sorridono mettendoli in bella mostra. Tutti, tranne uno. Quel signore seduto in disparte in compagnia di una bottiglia di whisky ha la bocca serrata, ma i suoi occhi parlano e dicono più delle parole.

 Carlo

Sono le 2:00.
Che strano silenzio, se ne sono andati tutti, la bottiglia è vuota e la testa rimbomba di cattivi pensieri. È rimasta solo la donna del bar. Ha occhi magnetici e sta venendo verso di me, vorrà cacciarmi anche lei. Resto seduto, dovrà usare le brutte maniere: io non mi muovo da qui. Voglio affogare in un mare di whisky e non svegliarmi più.
La mano resta tesa davanti a me, in un muto invito ad alzarmi: Prendila, aggrappati a me, insieme riusciremo a raggiungere la riva.
Le labbra non si sono mosse ma i suoi occhi hanno parlato con la mia anima.

§§§§§§§

Claudia Gabrieli


SUZANNE

Il treno corre veloce.
Lenti, al finestrino,
si srotolano i miei cupi ricordi di un triste passato.
Musica e calici di champagne che scorrono a fiumi,
sembrano gettarsi nello specchio di quella sfarzosa sala.
Folies Bergère, Rue la Fayette.

Inizia lo spettacolo,
comincia la nuova vita di Suzanne.
Servo bevande e compagnia d'amore,
non appartengo a questo mondo elegante.

Lo specchio riflette la mia immagine, 
in un abito che non è mio.
Quel cilindro nero, segno di agiatezza,
un uomo di fronte a me, mi squadra, mi spoglia,
ha appena comprato il mio corpo per un pugno di soldi.
Catturo negli sguardi la compassione
di clienti eleganti e ciarlieri.
Su quelle fruttiere colme di arance
cade il mio sguardo triste, rassegnato.
Quel frutto arancione, il colore del vizio,
guardo il calice dei fiori, sgomenta,
il segno della mia sconfitta,
dono dell'uomo che ha comprato la mia compagnia,
la mia resa a un mondo corrotto.

Sono stanca.
Sprofondo nell'abisso,
il mio corpo urla dolore, anela pace,
mi assale il buio.
Serve un atto di coraggio,
ed ecco la voglia improvvisa,
ritrovarsi.
Pace in fondo all'anima,
libera da oscure catene,
per troppo tempo hanno sottratto la quiete.
Uscita dal tunnel oscuro,
finalmente vedo la luce.

Sto tornando a casa.

§§§§§§§

Luigi Besana

Domicilio coatto

Scrivo semplicemente su questi fogli di carta, così lievi da perdersi nell'aria.
Tu sai, apparivano misteriosi i sentieri nel chiarore dei giorni d'inverno. Viaggiavo nel profumo dei tuoi capelli dove nascevano i sogni. 
Tutto questo succedeva prima del silenzio.

Sono un volume oscuro, una vecchia valigia nella penombra. Identifico il quadrato opaco della finestra attraverso i giorni e le notti. Immagino il cielo oltre il soffitto, distinguo le tue labbra simili a una luna. Tu, vieni a visitarmi nei segni dispersi della sera, hai un piede nel buio, cancelli le tracce, sigilli le fessure. Sulla pelle un raggio di luce ti fa trasparente, bruci i miei occhi come una folata di vento. Spargi una polvere incolore, incolli le mie membra sull'orlo delle crepe, senza rimorso e perdono. Vivo tutto questo nei sogni divenuti incomprensibili come le mosche sui vetri. Mi assalgono fin dal mattino quando apro le finestre e soltanto per amore di un caffè non ritorno a dormire.

Oggi è lieve il ricordo di te. Trasparenza di pensiero, desiderio di rivivere. Seguo il navigare delle nuvole, spingendomi con cautela fino al bar. Il solo rimasto aperto, al servizio di questa struttura dove risiedo. Per il tuo bene, mi hanno assicurato. Qui è possibile incontrare, di sfuggita, qualcuno fra i tavoli dove cadono le ombre. La mia voce risuona trattenuta dalla maschera di me stesso e il vuoto di memoria. Mi capita di perdere il filo della mia vita al gemito del labbro con poche gocce di caffè. Poi all'improvviso, ho messo a fuoco l'immagine alla luce delle lampadine e del tuo sguardo che mi seguiva nello specchio. Sei arrivata così inaspettata! I tuoi occhi mi guardano indecisi dall'ovale perfetto del volto. Scusami, non t’avvicinare, la letizia è più bella quando si aspetta, c'è un dolce timore nell'incertezza. No, non t'avvicinare, perché dovresti farlo? Ogni cosa splende come una stella da lontano, si può ammirare e amare come un quadro…
Ho tracciato il tuo viso nel mio cuore, il quaderno segreto che apro nei sogni.
Forse tornerò a vederti domani, per un caffè.

§§§§§§§

Angela Giovanna Amico

Fiori



Sono in posa per Monsieur Édouard Manet, per il suo quadro, forse l'ultimo... Mi aspetto una ricompensa generosa. 
Chissà perché ha voluto ritrarre proprio me, nonostante tutte quelle belle dame alle sue spalle, cosa cerca un pittore in una figlia di contadini, con le guance da bambina e gli occhi di una gazza spaventata, che ha trovato un lavoro in un mondo che non le appartiene, che vive in una soffitta ammobiliata, nella periferia silenziosa.
Nascondo le mani dietro il bancone, non voglio che si accorga di quanto siano rovinate, non voglio che dipinga le dita arrossate. Vorrei un bel ritratto, che mi faccia sembrare bella, vorrei che un giorno il bambino che porto in grembo lo possa vedere e che possa pensare che ero giovane e graziosa, quando lavoravo nel Caffè più famoso di Parigi, e la gente faceva la fila e mi dava la mancia. Chissà se il pittore lo vede, questo bambino, se si è accorto che il bustino mi sta un po' troppo stretto. Mi chiedo se quel pennello che intinge di continuo nel colore nero sulla tavolozza, lo stia usando per il mio vestito o per i miei occhi, vuoti come un pozzo.
Si avvicina un signore con il cappello, sembra voglia ordinare qualcosa, chiede il permesso al pittore che non si scompone, non gli risponde nemmeno. L'uomo mi osserva, forse voleva solo guardarmi da vicino, forse non credeva che fossi abbastanza piacente da meritare un ritratto.
Vorrei dirgli: «Allora, gentile Signore, ti decidi a ordinare? Sì, proprio tu, che mi fissi e ti lisci i baffi con le dita, sto aspettando i tuoi comodi! Sii galante con la dama vestita di raso bianco che ti aspetta al tavolo, ma guarda che sta già civettando con un altro, mentre tu qui mi esamini muto. Lei è abituata a quelli come te, borghesi col colletto inamidato e le scarpe lucide. Lei, giovane e bella, è una falena notturna, se la osservi bene, ti accorgerai che ha le ali inzuppate di alcool e i guanti logori. La brucerai in una sola notte, forse in cambio di un altro bicchiere al bar delle Folies-Bergère. Verrà qui ad affogare nella folla la sua delusione, come quelle che non hanno più sogni come me, che non hanno più voglia di sperare.»
Io avevo il mio Pierre, mi aveva giurato amore, era bello il mio Pierre. Al banco chiedeva solo la birra Bass Pale Ale66, e ne beveva fino a scoppiare... Uscito dal locale il mese scorso si è infilato sotto un carro. E io adesso cosa me ne faccio delle sue promesse... ti porto via, ci sposeremo, sei la più bella… cosa me ne faccio del suo bambino. Io che non ho mai avuto le ali, eppure volavo, io che adesso nascondo questa ferita nel petto con i fiori che questo vecchio pittore mi ha regalato.
«Eppure non sarà il tuo bel viso, caro Signore, che la gente ricorderà. Tu sarai solo un'ombra impressa sulla tela, una pennellata sullo sfondo catturata un istante prima che te ne andassi, senza ordinare. Perché io sono l'unico bocciolo in questo quadro, l'unico fiore non reciso, e in me germoglia la vita.»

§§§§§§§

Donatella Soldano

Occupi metà del mio schermo. Per scrivere ho bisogno di guardarti e per poterti guardare devo scrivere su metà del mio schermo, questa cosa la trovo strana, stasera. Stai occupando metà dei miei sensi e piano piano cominci a guardarmi anche tu. Hai occhi così veri. Assomigli persino a qualcuno che ho conosciuto. Hai il mento grassoccio e occhi annoiati. Uno sguardo che trafigge ma non vede. Non so se sei bella, amica mia. Ti guardo ma forse anche io non ti vedo. Sguardo acquoso, sorriso mozzato. Davanti a te c'è che chi scruta la vita con un piccolo binocolo per vedere più da vicino chissà quali cose lontane. Tu, invece, forse vedi lontano, già molto lontano con quel tuo sguardo a me così vicino. I tuoi piccoli orecchini, gocce di neve appese, mi danno tristezza. Il tuo naso ha un'ombra che si allunga fino alle tue labbra gonfie di silenzio.
Sì, ecco cosa mi colpisce di te: il silenzio mesto dell'anima. Tu non stai urlando, nemmeno parlando,  non stai ascoltando e nemmeno vivendo. Prigioniera dietro un banco che sembra proteggerti da un mondo pieno di voci e caffé. Una frangia  bionda sopra sopracciglia nere. È costruita solo per l'apparenza. Ma la tua anima è bruna, amica mia, come  quest'arco scuro che ti si stende sopra gli occhi. Tutto in te grida, io non appartengo a questo posto. Io sono altro. Sono altrove. Vedi quegli archi in fondo? È giorno, fuori, ma tu sei immersa in un brusìo fumoso. Non hai  voglia di scappare, di fuggire davanti a una realtà che non è la tua? Hai sì e no sedici anni e velluto pesante addosso per farti apparire una signora. Io ti vedo triste, distante e isolata. Ma non sola. Non lo sei mai stata in compagnia dei tuoi sogni, delle tue paure e delle tue speranze. Sei immersa in un mondo che non ti appartiene ma che ti trattiene con cristallo e liquore. Ti vedo triste ma almeno tu sei libera di esistere nei secoli. Io sicuramente non ci sarò più quando invece questi tuoi occhi di vernice saranno ancora aperti su un mondo di carta. Io però, rispetto a te, questa libertà ce l'ho. Morire e non essere più guardata. Mi dici per favore cosa si prova a essere guardati, osservati da spettatori sconosciuti, per secoli, secoli e secoli. Tu sei immortale e questo ti rende più reale di me. Più forte di ogni forma di vita destinata prima o poi a spegnersi. Tu ci sarai ancora, sempre lì, con la tua frangetta falsa e le tue sopracciglia vere. Forse con tanta voglia di uscire dal tuo banco e respirare un po' di quel ritaglio d'aria che intravedo perché è lì, pennellato. Eppure sei più libera tu, con quello spizzico d'aria, lì in fondo, che io rinchiusa in questo corpo. In questa stanza, in questa casa, in questa strada che non si staccherà mai verso il cielo. Io sarò il vuoto e tu sarai sempre il pieno. Quanto rumore hai nella tua sala. Lo vedo il rumore del tuo mondo. È un suono che si vede con gli occhi e non vibra. Io vivo in un mondo che ha suoni che gli altri non vedono. Sono urla di un dolore antico che ho dentro e che non fa rumore.
Tu non invecchi, sai? Incredibile!  Eri già lì  quando ancora io non muovevo un passo, e sarai sempre lì. Ci rimarrai. Posata sulla tua tela, anche quando io ormai diventerò immobile sulla mia. Proprio incredibile! Non smetterei mai di guardarti. E mi sembra di vederti sorridere.    


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Fioralba Focardi


                                                               Bar di famiglia
La prima volta che ho varcato la soglia del locale che mio babbo aveva preso insieme a mio zio, avevo dodici anni, e mi ha subito affascinata.
Il bar si trovava in via Romana, vicino a Porta Romana, ovviamente andavo a scuola e non potevo stare dietro al banco, ma appena potevo ci andavo e lì, grazie a mio zio, ho imparato tante cose.
Lui lavorava nel settore da sempre ed era veramente bravo, mi ha insegnato la macinatura, a pressare la polvere, a montare il latte creando una schiuma soffice per un cappuccino perfetto. A essere gentile con i clienti, senza che loro prendessero troppa confidenza. I frequentatori del bar erano persone del rione, lavoratori che in quella zona avevano le botteghe, turisti. Una miscellanea di personalità incredibili, molti li ricordo ancora per la loro carica di simpatia e soprattutto di umanità.
C’era il falegname Nello, arrivava la mattina alle 7 e chiedeva un vin santo, per cominciare. Lavorava il legno da vero artigiano; simpatico, alla sera raccontava tanti aneddoti tra vin santi e bicchieri di vino, poi tornava a casa con la sua bicicletta, che a suo dire sapeva la strada.
Poi c’erano i doratori, mi affascinava come inserissero le foglie d’oro sugli oggetti, un giorno sono stata da loro per due ore dopo la scuola, per guardare come facevano. Una volta a casa mi sono cimentata su anellini di plastica con i fogli argentati della cioccolata. Dividevo l’argento dalla pellicola sotto e poi con la colla li inserivo, per me era importante capire come funzionavano le cose.
Il più simpatico di tutti era un restauratore, sembrava vecchio come i mobili che aveva in bottega, raccontava sempre tanti aneddoti divertenti sulle persone che aveva conosciuto. Quando mi sono sposata tredici anni dopo, è da lui che ho comprato il baule dove ho riposto il corredo. In verità me lo ha regalato, prese una cifra irrisoria perché io insistevo nel volerlo pagare, caro il mio Barbetti, aveva l’intelligenza acuta e un cuore grande.
Quante persone ho conosciuto, ero un po’ la mascotte di tutti, anche del proprietario del cinema di fronte al bar, ogni tanto mi faceva entrare gratis quando c’erano film che mi piacevano.
È stato in quel periodo che ho imparato tanto a osservare le persone, a non valutarle per l’aspetto ma per ciò che avevano da insegnarti. Molti erano già anziani allora, e nella situazione in cui ci ritroviamo oggi, penso di essere stata fortunata ad aver conosciuto le loro storie, quelle storie che oggi, ahimè, stiamo perdendo per un mostro subdolo senza pietà.

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Costanza Trotti


In piedi, davanti allo specchio pensava, anzi sognava nei pensieri degli altri. Ascoltava l'insieme di voci che animavano i discorsi e una parola catturava la sua solitudine. 
Rosa, poteva essere il nome della donna amata, il colore di una parete dipinta di fresco, il fiocco legato a una culla, ma ecco che lei coglieva il profumo del fiore che saliva ai suoi ricordi. Bello e austero, ricco di corolle arricciate, delicato pastello di luce che ripiegava sullo stelo col passare dei giorni, senza risentimenti nei confronti del tempo. 
La presenza al mondo di una rosa non conta gli attimi di vita, quando dalla terra viene strappata continua a sospirare con il cuore tra le mani, a sorridere nel vaso al centro della sala, a segnare le pagine di un diario che sfoglierà domani i segreti più preziosi.

§§§§§§§

Karmen Tomiato


«Sapevo che vi avrei incontrata» le dissi guardandola.
Lei trasalì appena, portandosi la mano verso il prezioso pendente legato al collo da un vellutino nero; le sue guance ebbero un lieve rossore.
Entravo sempre in quel bistrot: ieri era abbastanza affollato. Sentivo un chiacchiericcio in sottofondo, mescolato al leggero tintinnare di tazzine e bicchieri.
Sopra a tutto questo, rimasi colpito dalla luce dello sguardo di lei, che era lì, ferma, quasi immobile, mi fissava, in attesa. Negli occhi aveva una luce unica, che usciva dai suoi e raggiungeva i miei.
«Non vi conosco, signore» mi rispose un attimo dopo.
«Vero, scusatemi… Mi chiamo Philippe, e voi?» mi presentai così, togliendomi in fretta il cilindro. Le porsi la mano, lei mi offrì la sua; prendendola con tenerezza, la avvicinai per darle un lieve bacio.
Lei ritrasse veloce la mano: il mio tocco bruciava? Le avevo dato fastidio?
Tornò a toccarsi il pendente e con imbarazzo abbassò gli occhi.
«Sono stato inopportuno, vi chiedo scusa se vi ho turbata» le dissi, mi accorsi di balbettare un pochino e di avere un tono di voce poco sicuro. Il coraggio mi venne a mancare, mi sentivo turbato dentro.
Cosa mi stava succedendo? Questa donna con i suoi occhi così profondi e i suoi dolci gesti stava già prendendo possesso del mio cuore. Mi ritrovai a sospirare, pensando che avrei voluto sapere il suo nome, a tutti i costi! 

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Maria Rita Sanna

Andrea

«Ragazza, cosa fai ancora qui? Cosa è stato dei tuoi propositi?»
«Non so. Mi sembra crudele abbandonare i miei cari.»
«E quindi? Non è, forse, crudele farti lavorare in questo locale, nella notte? Queste sono ore di riposo per chi, come te, lavora duro di giorno. Fino a qualche tempo fa, trascorrevi questo tempo studiando, andavi a scuola la mattina, aiutavi la mamma e la notte fino a tardi tenevi libri e quaderni in mano. Sognavi.»
«Sì, era bello sognare. Ma non c’è più tempo per queste frivolezze. Il mio posto è qui. Ora vattene, non parlarmi più, non mi distrarre.»
«No, cara, non me ne vado. Aspetta, come ti chiami? Ninna? Ah, no, sei Nenna! È così che ti chiamano, gli altri. Ma tu, come vorresti ti chiamassero?»
«Andrea, io sono Andrea. I miei genitori hanno voluto questo nome maschile…»
«Esatto! Perché sei la primogenita, si aspettavano un maschio, lo volevano; però, pazienza, sei nata femmina, ti hanno dato comunque il nome maschile. Nonostante questo, ti piace, ti fa sentire importante. Chiamati, allora, ripeti chi sei.»
«Vattene, ho detto! Chi sei tu? Mi stai importunando con i tuoi discorsi.»
«Brava, Andrea, arrabbiati perché è questo che voglio! Io sono la tua coscienza. Sono la parte di te soppressa dal volere altrui. Io sono la tenacia, la forza, e tante altre cose che tu, Nenna, rinneghi.»
«Non è vero! Ho il coraggio, il potere e…»
«Il coraggio di ubbidire, il potere di dominare i tuoi impulsi! No, Andrea, tu sei femmina, come la determinazione, la caparbia, l’astuzia. La libertà!»
«Tu, dici di essere la mia coscienza, ma perché ti vedo come un uomo?»

«Io sono i tuoi sentimenti. In questo momento sono l’amore. Scappa, Andrea, amati, abbi cura di te.»

§§§§§§§




Elisa Giovene

Il bar delle Folies – Bergère


Bianchi merletti,
a cornice d’abito scuro,
fiori, malizioso ornamento
del suo giovane seno.
Al collo, prezioso cammeo,
lo sguardo ad attender
oltre il bancone,
avventori di nobili stirpe.
Suzon, nella sala affollata,
ne guarda l’andare
delle più sfrenate follie.
Nel silenzio di ogni avventore,
ne percepisce l’afflato
la triste presenza,

della sua solitudine.

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Giulia Landini

La nonna


«Mamma, perché nonna è così triste in questo disegno?»
Guardo mia figlia, sembra un’adulta a volte e mi chiedo se continuerà a crescere così velocemente. 
Chissà se mia madre immaginava che sarei stata un genitore così, da adulta, se anche lei mi ha tenuta una volta per mano come faccio io adesso con Sofia e si è interrogata su come sarei diventata.
Mi chiedo se anch’io ho mai cercato mia madre dentro quel quadro con la stessa vorace curiosità di mia figlia o se davo così per scontato che stesse alla parete, fosse parte dell’arredamento e della nostra vita, da non farmi cruccio rispetto a cosa rappresentasse.
Chi l’avrà ritratta? A chi avrà mostrato quella tristezza di cui non mi ero mai accorta?
Forse doveva saltare una generazione, la nostra famiglia, perché qualcuno cercasse qualcosa dentro di lei e risposte.
È così perfetta nel suo vestito da lavoratrice blu, stretta dal corsetto.
A guardarla sembra al bancone di una nave, una di quelle sfarzose da crociera, mentre, insieme ai suoi sogni di bambina, sta affondando. Credo appartenga a un periodo della sua giovinezza a Parigi, prima che si innamorasse di mio padre, un italiano, che riuscì a strapparla alla sua “Ville de l’amour”.
Questa casa è la sua Francia, tutto quello che ha lasciato solo fisicamente, ma mai con la testa e il cuore. Solo oggi forse mi accorgo di quanto le possa essere pesato vivere in Italia, lontana dalla sua famiglia, vedere i propri genitori ogni anno per venti giorni in estate. Non credo che l’avessi sentito questo amore: ha lasciato tutto per me e mio padre.
Le porcellane francesi sulla credenza, l’argenteria, il sapone di Marsiglia con cui lavava i panni, tutto parlava di chi era, ma io me ne ero mai accorta?
«Mamma! Non mi hai mai raccontato la storia del quadro in salotto.»
«In salotto? Ma che dici?» La sento urlare dall’altra stanza, routine ormai consolidata dai suoi problemi di udito.
Arriva da noi vestita della sua vestaglia da casa azzurra, ancora bella nei suoi capelli grigi e sempre dolce come era da giovane.
«Quel quadro? Sai chi l’ha comprato? Tuo padre, disse che il pittore aveva catturato qualcosa nel mio sguardo di cui solo chi mi amava si accorgeva.»
«Sembravi infelice.»
«Lo ero, non mi piaceva quel posto, c’erano sempre uomini che con la scusa di bere facevano battutine e cercavano di avvicinarsi a me. Ho sofferto molto.»
«E papà?»
«Papà vide il pittore che dipingeva, comprò una copia del quadro e me la regalò la sera stessa che mi ritrasse. Lo guardai stupita, mi sembrava uno strano modo di manifestarmi interesse. Mi lasciò il regalo e non disse nulla, nemmeno se l’indomani sarebbe tornato. Lo aspettai quasi un mese fino a dimenticarlo, finché un pomeriggio ricomparve. Mi disse in modo stentato che non conosceva il francese, si occupava del commercio di stoffe tra Italia e Francia, ma per un po’ non sarebbe tornato per concentrarsi sui mercati italiani. Mi propose di seguirlo a Firenze e io accettai. Due anni dopo sei arrivata tu e non sono più stata infelice nemmeno un giorno, con lui accanto. Vorrei che tuo padre fosse ancora qui per potertelo raccontare.»
«Ci ha amate tanto tutte e due, mamma.»
«Ci ha amate tanto tutte e due.»
Mia figlia ci guarda entrambe sorridente, prende per mano anche la nonna e comincia a parlare di tutt’altro; ma una certezza prende corpo dentro di me: non scorderò mai lo sguardo che ci siamo scambiate io e mia madre, complici di quell’amore solo nostro, pieno di non detti e della mancanza infinita di papà. 


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Floriana Naso

Il bar delle Folies-Bergère
Édouard Manet, realizzato nel 1881-1882

Monsieur Édouard Manet brandiva il bastone da passeggio con la destra. Il cappello a cilindro ben calcato sulla nuca ne sfilava l’ovale già ben disegnato. Il completo in stile Regency della sera resisteva alla moda, già orientata verso il tait. La cravatta nera di seta legata stretta al collo rappresentava il tocco di classe dell’alta borghesia e benché lui ne facesse parte la sopportava con dolenza. I cicalecci delle dame imbellettate, e finte come le parrucche settecentesche, lo indisponevano non meno di quanto facessero i consorti con le loro inutili teorie sui nefasti cambiamenti che avrebbe portato, negli anni avvenire, la rivoluzione industriale.
Mentre allo specchio si allisciava i baffi folti e spioventi, pizzicati tra pollice e indice, ripensava a quanto era stato difficile convivere tutta la vita con un’etichetta che aveva sempre cercato di rinnegare.
Infatti, la sua indole di spirito ribelle si era manifestata sin dalla giovane età, nonostante Édouard fosse nato in una famiglia parigina molto agiata. Suo padre era un giudice famoso e avrebbe voluto che il suo rampollo seguisse la carriera medesima.  Quando, invece, quest’ultimo, cominciò a esternare la volontà di dedicarsi all’arte e iscriversi all’ École des beaux-arts, il padre subì un affronto e lo costrinse, per dispetto, a imbarcarsi su una nave. Durante la sua permanenza a bordo, un anno o poco più, Édouard capì che la sua vocazione era proprio quella di diventare pittore e al suo ritorno andò a studiare arte presso l’atelier di Thomas Couture.
A quel punto la sua carriera d’artista prese il via, ma raggiunse il successo solo grazie a parigini ricchi e influenti conosciuti durante le mostre.
Quindi, l’impegno assiduo di Manet nel mantenere le pubbliche relazioni lo vedeva da anni protagonista di serate mondane, proprio come quella abituale al bistrò Folies-Bergére.
Il caffè-concerto di Parigi, a pochi passi da rue la Fayette, era un ritrovo molto popolare tra la società perbenista parigina, che lì amava rilassarsi assistendo ai concerti e bevendo champagne e liquori, i quali erano sfoggiati, in gran varietà, sul bancone marmoreo dinnanzi all’ingresso.
Di solito Manet preferiva svagarsi con una bottiglia di Bass Pale Ale66, una qualità speciale di birra inglese, molto in auge a quei tempi. Adorava sorbirla a piccoli sorsi, osservando, attraverso lo specchio appeso davanti al bancone, i suoi colleghi artisti flirtare con orde scalpitanti di donzelle smaniose di attenzioni.
Tuttavia, Edgar Degas, Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Alfred Sisley, Paul Cézanne, (con i quali, manco a dirlo, non correva buon sangue) non erano gli unici a inseguire madamigelle conservatrici; Manet era, infatti, un donnaiolo incallito, malgrado la sifilide lo stesse consumando da mesi. Nutriva per il gentil sesso una passione sfrenata, a tal punto da corteggiare sfacciatamente persino mademoiselle Suzon, alla quale aveva appena donato una rosa gialla splendente, che, sorretta da un calice di cristallo finissimo, dava bella mostra di sé sul bancone del bar, proprio accanto a un caspò ricolmo di arance. L’arancione sanguigno degli agrumi esposti richiamava quello apparso sulle gote della ragazza, subito dopo aver ricevuto il cadeaux.
Sebbene ella fosse una semplice inserviente del locale già da un paio d’anni, indossava una divisa elegante che ne raffinava la figura. Il corpetto nero di velluto le illuminava l’incarnato, altrimenti troppo spento; mentre il fastoso colletto cereo ricamato le impreziosiva il décolleté tanto quanto il ricercato cameo che portava legato al collo con un collarino di seta. L’ultimo tocco très chic consisteva in un malizioso bouquet di fiori di campo cucito all’altezza del seno. Il gonnellone in taffetà cinerea, infine, concludeva degnamente la mise.
Suzon portava i capelli pettinati à la chien, la cui nuance di colore si accostava perfettamente al braccialetto d’oro ostentato al polso sinistro.
Erano proprio tutti quei dettagli borghesi, in netto contrasto con il ruolo della ragazza, a sedurre Manet. Egli s’affascinava anche nel cogliere l’impercettibile allure d’indolenza che Suzon manifestava attraverso il linguaggio del corpo. I palmi appoggiati sul bancone e le palpebre lievemente pesanti esprimevano l’insofferenza che provava nell’attesa di servire il cliente, ma non solo. Manet era convinto che la fanciulla mal sopportasse, proprio come lui, i mormorii petulanti degli avventori del locale e lo starnazzare irrequieto delle giovani promesse spose. O forse, chissà, avrebbe preferito trovarsi al loro livello e sfidarle a colpi di stile.
In ogni caso, tanto bastò a Manet per considerarla una musa, una creatura di carattere, poco incline ad adattarsi con deferenza al ruolo che il destino le aveva affibbiato. Quindi decise che quella sera sarebbe diventata immortale, saggiando la spiritualità del pennello di un grande artista com’era il proprio.
Nacque così, nel 1882, l’ultima opera del grande Manet intitolata "Il bar delle Folies-Bergère". Un trionfo di emozioni suggestive che sarebbero state ricordate per sempre.

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Venerina Gabriele

Elodie distolse lo sguardo da Pierre. Una profonda tristezza mista a vergogna trapelava sul suo giovane volto. La sua usuale spavalderia non resse  di fronte agli occhi seri e minacciosi dell’uomo davanti a lei. Nel suo corpetto di velluto nero attillato e impreziosito da pizzi e volant, esibiva la sua innata sensualità di giovane provinciale. Il cameo trattenuto da un nastrino di velluto e un mazzolino di fiori colorati impreziosivano la profonda scollatura. Stava rassettando in bellavista sulla fruttiera i mandarini grossi e succosi, pervenuti direttamente dalla Sicilia, quando lo aveva visto arrivare. Avanzava verso di lei facendosi largo fra l’intricato groviglio di tavoli e abiti struscianti di signore ingioiellate e imbellettate, che godevano di quell’ozio borghese scambiando sguardi civettuoli e maliziosi con cavalieri in doppiopetto in cerca di avventure galanti. Il cuore le balzò in petto. Cercò di frenare le lacrime che prepotentemente facevano capolino fra le ciglia, mentre il viso si tingeva di porpora. Si appoggiò al bordo del piano di marmo sul quale, allineate in bellavista, bottiglie di birra condividevano lo spazio sul bancone, con whisky e champagne. Un silenzio irreale era sceso fra i due e, anche se il salone illuminato a giorno  e il frastuono degli avventori sovrastava ogni cosa, era come se una bolla di silenzio li avesse racchiusi per proteggerli nella loro segreta e intima angoscia. La voce alterata di Pierre la scosse, riportandola alla realtà
«Come hai potuto farci questo? Perché te ne sei andata? Ti abbiamo cercata dappertutto, pensavamo ti fosse successo qualcosa e di non rivederti più»  Pierre si fermò e con voce alterata, alzando il tono continuò.  «Sono arrivato a Parigi due giorni fa per concludere un affare e parlando della tua scomparsa a una vecchia conoscenza, mi ha riferito che ti aveva vista qui, in questo locale, e che lavori come cameriera prestando altri servizi che non voglio neanche nominare. Come hai potuto disonorare così la tua famiglia? Mi fai pena!»
Elodie, per la prima volta dopo mesi, tremante e spaventata, si chiese cosa ci facesse lei in quel posto, in quella bolgia parigina che ostentava ricchezza e trasgressioni. Aveva tradito le proprie origini e adesso era lì Pierre, suo fratello,  a ricordarle il suo passato di giovane nobildonna di campagna e il suo presente sudicio di immoralità. Sarebbe voluta sprofondare. A un tratto dentro di lei si sgretolò un mondo fatto di illusioni. Si fece coraggio e lo guardò dritto negli occhi.
«Portami via di qui» disse con un filo di voce supplichevole.
«Ti avrei portata via di peso e contro la tua volontà anche se non me lo avessi chiesto» le rispose il fratello con tono grave ma che tradiva la commozione.
Elodie venne fuori dall’angolo bar e lo abbracciò, lacrime di gratitudine bagnavano il suo bel viso. Aveva creduto di aver trovato la libertà e l’amore fuori dalla gabbia dorata di casa sua e aveva seguito l'amante contro la volontà di suo padre che le aveva vietato di vedere quello squattrinato arrivista. Parigi, la bella vita, gli sfarzi si erano tramutati ben presto in un incubo. Il giovane del quale si era infatuata l’aveva abbandonata al suo destino. Era troppa le vergogna per poter tornare dalla sua famiglia ed era caduta per necessità nello squallore che aveva infangato il suo corpo e la sua anima. Adesso si sentiva come sgravata da grossi pesi. Tornava a casa, era felice come non accadeva da tanto tempo, ormai. Avvertiva una leggerezza quasi infantile stretta fra le braccia di Pierre. 
Mai come in quel momento  amò con tutta se stessa la vita.

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Giuliana Degl'Innocenti

Il sentimento non si spegne con la volontà 

Oggi, per una pura fatalità, mi è capitato di entrare in quel bar in cui mi recai assieme a te per prendere un caffè. Pioveva, la giornata era livida, sebbene estiva, mentre quel giorno c’era il sole e l’aria primaverile risplendeva radiosa. È stato un attimo e ho rivisto tutta la scena, persino la collocazione che avevi tu e quella che avevo io allora. Ho consumato in fretta e dopo aver pagato mi sono guardata un po’ attorno, alla ricerca di qualche particolare che mi agevolasse nel mettere a fuoco altri dettagli di quello sparuto quanto forse per te inutile ricordo, ma non ho trovato niente. Solo una profonda amarezza. Poi sono uscita stringendo l’ombrello e la ventiquattrore, con un nodo di malinconia in gola.
Non sono ancora riuscita a dimenticarti.
Rabbia, tristezza e impotenza.
Non devo chiedermi il perché né pensarti troppo ma allo stesso tempo non bruciare tutto. Giusto? 
E come faccio?!
Ho commesso tanti errori: primo tra tutti l’incapacità di mantenermi indifferente, poi l’incapacità a  vincere la mia timidezza e infine l’inettitudine a staccarmi dai miei sogni.
Insomma sono stata un fallimento totale.
Comunque se avessi la possibilità di farlo, ti direi che, nel mio cuore, non mi eri indifferente allora e non lo sei neppure adesso. Solo questo.
Una confidenza inutile, lo so, che non cambia di una virgola l’algida “perfezione” della “corretta”  realtà dell’ordine delle cose accadute.
E ancora una volta ho perso io.

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Elena Caio


I PASSI FALSI DI CLAUDETTE

«Ehi tu, ragazzino, ti puoi spostare? Non mi senti? Spostati, per favore!»
«Claudette, guarda che non può sentirti, lo sai!»
«Peccato, spero sempre di vedere il Tamigi da quella finestra.»
«È da quando hanno costruito il palazzo di fronte, settant’anni fa che non vediamo più il fiume.»
«Io ancora non capisco perché ci abbiano portati qui. Noi siamo parigini, non inglesi! Almeno fossimo andati alla Tate o alla National Gallery. Nossignore, siamo finiti qui alla Courtauld Gallery, buona solo per studenti delle Cotswolds in visita scolastica!»
Monsieur  Fournier, riflesso nello specchio del dipinto con il suo cilindro e i baffi ormai fuori moda, pensò che dopo tutti questi anni Claudette non si era ancora rassegnata a vivere all’interno di un quadro. Lei non era come gli altri, ci finì un pomeriggio di marzo quando il cielo di Parigi era plumbeo e denso di  pioggia e nulla lasciava presagire un finale così inaspettato.
Nel febbraio del 1882 Claudette fu attirata da un annuncio davanti alla porta del caffè delle Folies-Bèrger: un pittore famoso, un certo Édouard Manet, noto negli ambienti  della Parigi bene stava cercando una modella. La paga, nell'annuncio, sembrava buona e e come extra il pittore avrebbe anche regalato un abito di alta sartoria. La ragazza prese l’indirizzo e passò subito dallo studio, attratta più dal regalo importante che dal denaro. Con la sua fisicità e un abito elegante forse l’avrebbero scambiata per una donna di classe della nobiltà parigina.
Manet rimase incantato dal suo viso, trovava interessante quello sguardo ingenuo, un po’ triste e quella smorfia imbronciata. Certo, con l’abito elegante Claudette poteva somigliare a una dama della borghesia ma le sue movenze, i gesti grossolani, tradivano le origini provinciali da contadinotta bretone.
La ragazza trascorse due giorni nello studio del pittore. Per scaramanzia non la fece avvicinare alla tela, neanche a fine dipinto. Per questa ragione Claudette se ne andò furente, sbattendo la porta dello studio. Lasciò sul tavolo la busta con i soldi portandosi goffamente sotto braccio l’abito con tutti gli accessori. Manet sorrise beffardo pensando che quel carattere indomito e orgoglioso avrebbe dovuto essere immortalato.
Trascorsero le settimane e Claudette se ne andava in giro per la città  con il suo unico abito signorile a specchiarsi e a rimirarsi nelle vetrine. D’un tratto si imbatté in una galleria d’arte, spinse lo sguardo verso l’interno su un quadro dall’apparenza banale: un bancone di un bar, alcune bottiglie, un’alzata portafrutta ricolma e un grande specchio dove si riflettevano gli avventori. Era un’immagine che conosceva bene.
Dal riverbero della vetrina offuscata dalla pioggia scorse la sagoma di un uomo dietro di lei. Ebbe un po’ paura ma lo sconosciuto le sussurrò con voce calda e suadente: «Claudette, entra.» Non si voltò, fu presa da un misto di eccitazione e smarrimento e si diresse verso l’interno. Sentì l’uomo alle sue spalle sorridere. 
«No, non nel negozio.» 
Si bloccò mentre stava già spingendo la maniglia. Senza girarsi gli chiese incuriosita: «E dove allora?»
«Nel quadro, Claudette, devi entrare nel quadro.»


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Giovanna Agata Lucenti

A LUCI SPENTE


Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non so spiegarmi cosa quella sera abbia attirato il mio sguardo su quell'uomo.
All'interno del bar dove lavoravo, in pieno svolgimento dello spettacolo delle Folies-Bergère, si era riversata una innumerevole folla ciarlante e rumorosa; i vestiti variopinti delle signore e i relativi accompagnatori avevano invaso i piccoli tavoli sparsi nella sala e, in men che non si dica, la confusione sembrò regnare sovrana.
La musica si mescolava al tintinnare di bottiglie e di bicchieri e alle risate fragorose di certe signore che erano tutto, meno che altolocate…
Eppure, la mia attenzione si era soffermata su quell'uomo dall'aria distratta e persa nel vuoto.
L’eleganza ricercata lo distingueva dalla folla e i suoi modi gentili, quando mi aveva chiesto di servirgli un bicchiere di champagne De Serigny, me lo avevano reso subito simpatico. Mi piaceva il suo modo distaccato di guardare ciò che gli stava attorno, e il sorriso che ogni tanto mi rivolgeva mentre beveva dal suo calice aveva il potere di farmi arrossire.
Strano uomo, pensavo, era riuscito a focalizzare la mia attenzione. Mentre servivo gli altri avventori, erano i suoi occhi che cercavo e mi sorpresi di vederli mutevoli come può esserlo il mare, ora calmo e un attimo dopo in preda al vento della tempesta.
Non mi era sfuggito nemmeno l’impercettibile fremito delle sue mani mentre fumava, o quando con aria assorta accarezzava ogni tanto i preziosi gemelli del polsino.
A un tratto, forse richiamato dai miei occhi, aveva ricambiato il mio sguardo e io, come se fossi stata scoperta a fare chissà cosa, avevo distolto l’attenzione imbarazzata, facendo finta di mettere a posto alcuni bicchieri.
«Quanti anni ha?» mi chiese all'improvviso.
«Venticinque.»
«Qual è il suo nome?»
«Annette.»
«Le piace lavorare qui, Annette?»
«Sì, non mi lamento.»
«A che ora finisce?»
Annette, a questa domanda, ebbe un attimo d’esitazione ma quasi senza accorgersene rispose: «Fra qualche ora, verso le due…»
«Allora… A dopo, Annette!»
Finito lo champagne, aveva pagato, si era sfilato la camelia che aveva all'occhiello della giacca, porgendola con un sorriso indefinibile ad Annette, ed era uscito.
La ragazza, per tutto il resto della serata, non pensò ad altro che a quello strano uomo.
Non sapeva nemmeno il suo nome e, nonostante questo, aveva accettato di vederlo alla fine del lavoro.
Si era sorpresa più volte a guardare l’orologio della sala, come impaziente, ma che le capitava? Se avesse avuto solo un po' di sale in zucca, all'uscita non si sarebbe certo fatta vedere, ma dopo un po' era lì ad attraversare la strada per andargli incontro.
L’aveva appena conosciuto, eppure sapeva che da quell'uomo, non avrebbe mai ricevuto alcun male.
Le si affiancò silenzioso senza una parola, gli occhi persi nel silenzio della strada.
«Vuole essere accompagnata a casa o preferisce prima passeggiare lungo la Senna? La serata è davvero bella e il tepore della primavera inizia a farsi sentire.»
«No, non ho nessuno che mi aspetti a casa, dopo tante ore chiusa tra frastuono e fumo, faccio volentieri due passi.»
«Sa, anche a mia figlia piaceva passeggiare lungo il fiume…»
E il suo sguardo si era nuovamente allontanato, perdendosi chissà dove. Poi riprese: «Lei le assomiglia molto, l'ho pensato subito appena l'ho vista.»
Si era acceso una sigaretta e appoggiandosi all'umida ringhiera che dava sul fiume, sembrava nuovamente assorto in chissà quali pensieri o ricordi. Io mi sentii quasi diventare invisibile, spettatrice silenziosa di qualcosa che non potevo capire.
Continuavo a subire il fascino di quell'uomo, del quale mi accorgevo di non sapere neanche il nome, volevo solo restargli accanto, avvertivo il suo disperato bisogno di non essere solo.
«Ancora un po' e l'accompagnerò a casa, Annette. Mi piace sentirla vicino, la sua presenza discreta, il suo sapere ascoltare anche il mio silenzio… Tutto questo è un grande dono per me.»
Allora capii che anche lui non aveva nessuna fretta di ritornare in una casa solitaria e fredda e continuai a camminargli accanto.

La luna spargeva i suoi riflessi nell'acqua e sembrava spiare i nostri passi nella notte.

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Elisabetta Motta

Ti porterò per mano

Ti porterò per mano in campi sconfinati
fino a toccare l’orizzonte.

Ti porterò per mano a solcare le onde
di un mare a volte dolce, a volte in tempesta,
fino a raggiungere cieli azzurri e infiniti.

Ti porterò per mano a prendere le stelle
in un oceano di emozioni.

Ti porterò per mano nel mio cuore, porto sicuro.
E da lì non te ne andrai più via,
perché scoprirai cos’è il vero amore.


Ti porterò per mano, sempre, anima mia.





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