Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

giovedì 27 agosto 2020

Numero 347 - George Simenon, Tre camere a Manhattan - 27 Agosto 2020



Ho letto questo romanzo insieme alle autrici che frequentano il mio laboratorio di scrittura ed è stata una bellissima esperienza di lettura condivisa. La lettura risale a un paio di mesi fa e quando si legge tanto come me, sia per lavoro sia per diletto, è solo la buona letteratura (celebre o no) a restare dentro. 
Pensavo proprio a questo, oggi. 
Sempre più spesso l'attenzione mi cade sui vari gruppi di lettura che nascono come funghi su Facebook (e questo è un bene, intendiamoci), ma dai commenti osservo che sempre più persone divorano romanzi comuni, diciamo così, e quando si trovano per le mani un'opera della letteratura dichiarano di trovarle pesanti, ridondanti e di non riuscire a proseguire. La cosa mi lascia molto perplessa. 
Sia chiaro: ognuno legge ciò che vuole e merita rispetto, ma non sarà che si sta perdendo la qualità nella letteratura in questa massa di opere pubblicate - a volte, purtroppo non proprio belle, diciamo così - e alla fine non si è più capaci di apprezzare la vera e buona scrittura? D'altronde, se in Italia escono non so quante mai opere al giorno (sembra che tutti abbiano un romanzo nel cassetto) è anche intuibile che solo una piccola percentuale sia degna di nota, in quanto gli scrittori - gli artisti - non sono certo la maggior parte di chi pubblica.
Detto questo, credo che nutrire il cervello con opere che sono entrate nella letteratura sia una scelta importante per affinare il proprio palato. 
Come dire... Non accontentiamoci della mediocrità. Questo lo penso in ogni campo della vita, e anche nella letteratura. 
Personalmente cerco di nutrirmi di belle opere che trovo nella grande letteratura, ovviamente, ma anche nelle opere di autori contemporanei o no che non hanno avuto la fortuna di arrivare al grande pubblico. Leggere la letteratura di alto livello è anche un ottimo mezzo per riconoscere le opere di valore tra quelle degli autori esordienti ed emergenti. 
Per me, un'opera che si possa definire tale, è quella che in primis è scritta perfettamente, che - ancora più importante - non sia un clone di nessuno o di una corrente, e che resti nel cuore e nella testa anche dopo tanto tempo.
Le belle cose non le dimentichi, non passano e vanno.
"Tre camere a Manhattan" non passa e va. A distanza di qualche mese ne avverto ancora l'eco, quando ci penso.
Una storia semplice, tutto sommato. Un uomo, una donna, New York, l'amore.
Detto così, quanti libri potremmo trovare con questi elementi? Ma come dico sempre, la storia è secondaria. Ciò che conta è la mano che scrive, è la capacità dello scrittore, è l'arte.

Kay Miller e François Combe s'incontrano in un bar di New York e cominciano a camminare nella notte, si raccontano; entrambi malati di solitudine, ognuno con un passato fallimentare alle spalle, sia in amore che nella professione, non riescono più a separarsi. Camminano, camminano, fanno di una stanza in un hotel qualsiasi la loro tana. Si studiano e un passo dopo l'altro s'innamorano. Se all'inizio sembra essere solo sesso e passione, si ritrovano col tempo a capire di amarsi davvero. In mezzo, luoghi, camere, comparse che con i loro piccoli ruoli contribuiscono a fare chiarezza nei loro rispettivi cuori.
E la paura. La paura di perdere quell'isola trovata nella metropoli. Come dimenticare la pagina in cui François Combe esce dalla camera d'albergo, cercando una boccata d'ossigeno dopo ore e ore, giorni, insieme a Key, per poi farsi prendere dal panico appena fuori, per la paura che tornando lei possa essersene andata...

Kay continuava a dormire. La guardò - aveva il labbro inferiore un po' gonfio, come sempre - e sorrise con un'aria di vaga condiscendenza. Era chiaro che quella donna aveva occupato uno spazio nella sua vita. Che senso aveva pretendere di misurare fin d'ora l'entità di tale spazio?
Se non avesse temuto di svegliarla, le avrebbe posato un bacio tenero e indulgente sulla fronte.
«Torno subito» scrisse in fretta su una pagina del suo taccuino, che poi strappò e mise sul portasigarette.
E anche questo lo fece sorridere, perché, mettendolo lì, era sicuro che lei avrebbe trovato il messaggio.
Appena uscito sul pianerottolo caricò la pipa, e prima di accenderla premette il pulsante di chiamata dell'ascensore.
Passò davanti al bureau senza fermarsi, si piantò sul marciapiede e respirò a pieni polmoni.
Fu quasi sul punto di sospirare: «Finalmente!»
E Dio solo sa se ebbe la tentazione di non tornare...
Dopo qualche passo si fermò, poi fece ancora pochi metri.
A un tratto fu colto d'ansia, come uno che senta di avere dimenticato qualcosa di importante ma non ricordi che cosa.
Si fermò di nuovo, proprio all'angolo di Broadway, e alla vista delle luci spente e dei marciapiedi inutilmente larghi si sentì raggelare.
Che cosa avrebbe fatto se, al ritorno, avesse trovato la camera vuota?
Quell'idea gli era appena balenata che già lo faceva star male, e lo gettava in un tale stato di smarrimento e di panico che si voltò bruscamente per assicurarsi che nessuno stesse uscendo dall'albergo.
Qualche istante dopo, sulla porta del Lotus, vuotò la pipa che scottava ancora battendola contro il tacco.
«Ottavo piano, per favore» disse alla ragazza dell'ascensore che lo aveva appena accompagnato giù.
E si rasserenò solo quando vide che Kay stava ancora dormendo e che nella camera non c'era niente di cambiato. 

Non sapeva se lei lo avesse visto uscire e subito dopo rientrare. Quell'istante gli provocò un'emozione così profonda e così sottile che non osò parlargliene. Mentre si spogliava , e anche mentre scivolava sotto le lenzuola, Kay sembrava addormentata.
E sembrava dormire anche quando cercò il suo corpo per rannicchiarvisi contro.
Non aprì gli occhi. Appena un battito delle palpebre, senza scoprire le pupille, che gli ricordò il battito d'ali di un uccello troppo pesante per poter spiccare il volo.
Pesante, e lontana, anche la voce, che gli diceva senza biasimo, senza tristezza, senza un'ombra di malinconia:
«Hai cercato di andartene, vero?»

Quanta eleganza, quanta maestria nello stile di Simenon. Leggendolo s'impara a scrivere. 
Un romanzo che respira l'aria di un'America dell'immediato dopoguerra. Le strade di New York, quanto fascino in quelle passeggiate notturne. E la solitudine umana. Siamo tutti soli al mondo, eppure certi incontri possono cambiare la vita e farci di nuovo respirare la profondità dell'amore.

"Tre camere a Manhattan", un romanzo che non si dimentica, che resta nel cuore e nella testa.

Una curiosità: la storia tra i protagonisti è ispirata ai primi incontri clandestini tra lo stesso Simenon e la segretaria Denyse Ouimet. I due saranno dapprima amanti, poi si sposeranno per poi divorziare.
Nel 1965 uscì il film tratto dal romanzo, Key fu interpretata da Annie Girardot.

Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle








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