Ieri, 15 dicembre 2022, si è concluso il primo Masterbook.
Qualche mese fa mi era venuta questa idea, di creare un Premio Letterario un po' diverso - a eliminazione - attraverso varie Fasi e Prove diverse da quello che si è abituati a vedere.
Qualche mese fa mi era venuta questa idea, di creare un Premio Letterario un po' diverso - a eliminazione - attraverso varie Fasi e Prove diverse da quello che si è abituati a vedere.
Il risultato è stato eccellente: tanti partecipanti che si sono messi in gioco; tanto pubblico che ha partecipato anche al voto popolare; una bella condivisione tra le tante persone che amano scrivere e leggere. Il tutto in una bella atmosfera di competizione sportiva.
Desidero, dunque, ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa nuova mia iniziativa.
Un ringraziamento particolare alla Giuria tecnica, che ieri sera è stata rivelata ed era composta dal mio Team di collaboratrici: Cinzia Baroni, Silvana Da Roit, Tania Mignani, Tiziana Mazza e Maria Rita Sanna. Con estrema dedizione e serietà hanno impiegato tanto del loro tempo per leggere, rileggere e scegliere - a volte con difficoltà - i testi, e quindi i concorrenti da mandare avanti. Hanno investito anche i personali sentimenti ed emozioni, con un grande senso di responsabilità. Sono davvero speciali e le ringrazio.
La mia menzione d'onore va a
BARBARA ROMANO
per il suo percorso all'interno del Masterbook
e per la penna talentuosa.
I risultati finali GIURIA TECNICA
1° Classificata
Tatiana Vanini
2° Classificato
Stefano Buzzi
3° Classificata
Giuliana Degl'Innocenti
4° Classificata
Laura Tarchetti
Risultato finale VOTO POPOLARE
L'incipit che ha ottenuto più preferenze è stato quello di
Tatiana Vanini
Complimenti alla vincitrice e a tutti gli altri finalisti, arrivare in finale in una competizione così strutturata è un ottimo risultato del quale andare orgogliosi!
In questo Blog riporterò i quattro racconti finalisti, nella loro interezza.
Uno alla volta perché sono lunghi e quindi meglio dare uno spazio singolo a ognuno.
Procederò in ordine di classifica e quindi ecco a voi il racconto vincitore.
I MAZA PREVAT
di
TATIANA VANINI
Capitolo uno
Anno Domini 1706
Non so cosa mi abbia spinta a
tornare, a lasciare il mio rifugio e le altre donne, per essere qui, oggi, al
paese. Sono consapevole che non è sicuro, eppure ne ho sentita la voglia, la
chiamata, come se fosse necessaria la mia presenza.
Un anno di esilio forzato, in cattività, di continue fughe tra una cascina malandata e un alpeggio vuoto, tra una grotta fredda e una stalla di fortuna, oppure un prezioso pavimento davanti al camino di chi, coraggioso, per una notte ti apre le porte. Questi eventi hanno cambiato e offuscato me, ma i ricordi sono netti e chiari.
Le strade, fatte di ciottoli, sono
quelle di prima, forse più sporche, con la neve che si scioglie e rende tutto
bagnato. Le case, strette le une alle altre, a sostegno, per contenere il
calore dei magri fuochi all’interno, hanno gli usci sbarrati. Sembra un paese
fantasma. No, mi sbaglio, è un abitato in attesa. Di cosa?
Le campane della chiesa risuonano,
spezzano il silenzio e mi indicano la via. L’edificio del culto è un po’
discosto dal paese, non al suo interno, ma defilato a margine. È una
caratteristica dei luoghi di qui: da una parte la vita umana, unita e stretta
intorno alle botteghe; più in là il divino, raggiungibile solo camminando per
una strada precisa, separato eppure sempre visibile.
O siamo noi a essere sempre sotto i suoi occhi?
È rispetto, questo mettere le chiese da sole, metafora del viaggio da compiere per arrivare alla perfezione di chi rappresentano, o è timore e diffidenza?
Prima dei fatti di cui sono stata testimone e vittima, vi avrei risposto che era un modo per onorare Dio: scegliere il luogo più bello, in alto, con la vista migliore, o più tranquillo, sereno. Raggiungere la chiesa era un lasciarsi alle spalle le preoccupazioni, per riunirsi con gioia e cantare al Signore, ma ora tutto questo non c’è più.
Le campane continuano a scandire i loro rintocchi. Mi avvio, non direttamente, no, i miei zoccoli sui ciottoli farebbero rumore, amplificato dalle mura delle case. Passo tra le piante, gli arbusti, i piccoli campi a margine, memore della mia condizione, avvezza al pericolo, dimentica della pace.
Nel prato antistante la chiesa, dove in un’altra vita si faceva festa insieme, la neve è bucata da spazi vuoti, neri, di legni bruciati.
Ho i brividi. Non per il freddo, a quello sono abituata, lo accolgo con gratitudine, perché l’alternativa non sarebbe meglio, ma per la consapevolezza di quello che rappresentano quegli sfregi nel manto immacolato.
Più vicina, trovo riparo dietro un’edicola, al suo interno una scena della Passione. Faccio una smorfia, mi sembra quanto mai indicata. Lo so bene quanto stiamo soffrendo e da quando.
Non riesco a credere alle mie orecchie. Sotto lo scampanio disperato che proviene dal campanile, sento chiare le voci di un canto femminile, di tante donne, accompagnate dalle note profonde degli uomini e, non mi sbaglio, le note dell’organo.
Sgrano gli occhi, mi pizzico incredula. I canti sono stati tra le prime cose vietate, negate. La musica dell’organo, zittita subito dopo. Non più modi di ringraziare, ma simboli di superbia, di orgoglio. Solo fedeli penitenti, consapevoli della loro fallibilità, supplici, questo dovevamo essere: certi del castigo, immeritevoli del premio, ubbidienti per tentare un’ammenda.
Le note dello strumento sono sgraziate, lo percepisco anche attraverso il muro di pietra e suono che le accompagna. Incerte, graffiano più che accarezzare. La polvere depositata nelle canne, la mancanza di cure nel tempo del non utilizzo, fanno boccheggiare l’organo, come qualcuno ormai annegato che spezzi il pelo dell’acqua e azzanni l’aria. È una musica violenta, come il canto che è rabbioso, urlato. Non c’è armonia, non c’è felicità, solo rancore.
Immagino le teste non più chine, ma sollevate, orgogliose. Le bocche aperte a testimoniare il diritto di essere. Uomini che avevano ancora un po’ di libertà, insieme a donne oppresse e guardate con sospetto. Cosa sta succedendo in questa chiesa, cosa ha scatenato quest’inno alla ribellione?
D’improvviso il portone si spalanca e il suono si riversa fuori, irruente. Mi aspetto di vedere la gente correre, folle, ma rimango delusa.
Il canto si spegne, come se fosse volato via, mentre le code della melodia si abbassano e scompaiono. Anche le campane si sono zittite, me ne rendo conto solo ora.
Un anno di esilio forzato, in cattività, di continue fughe tra una cascina malandata e un alpeggio vuoto, tra una grotta fredda e una stalla di fortuna, oppure un prezioso pavimento davanti al camino di chi, coraggioso, per una notte ti apre le porte. Questi eventi hanno cambiato e offuscato me, ma i ricordi sono netti e chiari.
O siamo noi a essere sempre sotto i suoi occhi?
È rispetto, questo mettere le chiese da sole, metafora del viaggio da compiere per arrivare alla perfezione di chi rappresentano, o è timore e diffidenza?
Prima dei fatti di cui sono stata testimone e vittima, vi avrei risposto che era un modo per onorare Dio: scegliere il luogo più bello, in alto, con la vista migliore, o più tranquillo, sereno. Raggiungere la chiesa era un lasciarsi alle spalle le preoccupazioni, per riunirsi con gioia e cantare al Signore, ma ora tutto questo non c’è più.
Le campane continuano a scandire i loro rintocchi. Mi avvio, non direttamente, no, i miei zoccoli sui ciottoli farebbero rumore, amplificato dalle mura delle case. Passo tra le piante, gli arbusti, i piccoli campi a margine, memore della mia condizione, avvezza al pericolo, dimentica della pace.
Nel prato antistante la chiesa, dove in un’altra vita si faceva festa insieme, la neve è bucata da spazi vuoti, neri, di legni bruciati.
Ho i brividi. Non per il freddo, a quello sono abituata, lo accolgo con gratitudine, perché l’alternativa non sarebbe meglio, ma per la consapevolezza di quello che rappresentano quegli sfregi nel manto immacolato.
Più vicina, trovo riparo dietro un’edicola, al suo interno una scena della Passione. Faccio una smorfia, mi sembra quanto mai indicata. Lo so bene quanto stiamo soffrendo e da quando.
Non riesco a credere alle mie orecchie. Sotto lo scampanio disperato che proviene dal campanile, sento chiare le voci di un canto femminile, di tante donne, accompagnate dalle note profonde degli uomini e, non mi sbaglio, le note dell’organo.
Sgrano gli occhi, mi pizzico incredula. I canti sono stati tra le prime cose vietate, negate. La musica dell’organo, zittita subito dopo. Non più modi di ringraziare, ma simboli di superbia, di orgoglio. Solo fedeli penitenti, consapevoli della loro fallibilità, supplici, questo dovevamo essere: certi del castigo, immeritevoli del premio, ubbidienti per tentare un’ammenda.
Le note dello strumento sono sgraziate, lo percepisco anche attraverso il muro di pietra e suono che le accompagna. Incerte, graffiano più che accarezzare. La polvere depositata nelle canne, la mancanza di cure nel tempo del non utilizzo, fanno boccheggiare l’organo, come qualcuno ormai annegato che spezzi il pelo dell’acqua e azzanni l’aria. È una musica violenta, come il canto che è rabbioso, urlato. Non c’è armonia, non c’è felicità, solo rancore.
Immagino le teste non più chine, ma sollevate, orgogliose. Le bocche aperte a testimoniare il diritto di essere. Uomini che avevano ancora un po’ di libertà, insieme a donne oppresse e guardate con sospetto. Cosa sta succedendo in questa chiesa, cosa ha scatenato quest’inno alla ribellione?
D’improvviso il portone si spalanca e il suono si riversa fuori, irruente. Mi aspetto di vedere la gente correre, folle, ma rimango delusa.
Il canto si spegne, come se fosse volato via, mentre le code della melodia si abbassano e scompaiono. Anche le campane si sono zittite, me ne rendo conto solo ora.
Questo silenzio è peggio.
Prima, nel suono, avvertivo una scelta, una posizione ancora da prendere. Ora è
qualcosa di terribile. Non una minaccia, ma una decisione. Ferma. Ineluttabile.
Un mormorio raggiunge l’ingresso con le prime persone. Vestite di nero, rigorose, le donne avanzano e recitano la prima parte del rosario: «Ave, Maria, grátia plena.»
Dietro vengono gli uomini, abiti scuri senza scampo, recitando la seconda strofa: «Sancta Maria, Mater Dei…»
Guardano avanti e camminano. Mi chiedo dove vadano, quando lo sguardo viene richiamato al portone, dal quale esce la portantina della Madonna, quella usata per le processioni, quando potevamo farle. Sostenuta da otto uomini, divisi in quattro gruppi di due a reggere le barre, giunge nella grigia giornata di marzo. Non c’è la statua delle Vergine sopra, ma una figura distesa, bloccata da corde che l’avvolgono e girano sotto la portantina.
Mi sporgo, incurante, per cercare di capire chi sia. Non temo di essere vista, sono tutti così concentrati e tesi al misterioso obiettivo, che la mia presenza non riveste importanza.
Sono i capelli biondi, così chiari da essere prossimi al bianco, a dirmi chi è il prigioniero: è l’inquisitore, l’angelo freddo e insensibile, impossibile da imitare e accontentare, che ha gelato le anime bruciando i nostri corpi.
Gira il volto verso di me, i suoi occhi castani, di un colore così caldo, ma capaci di tanto sorprendente disprezzo, sembrano fissarsi nei miei.
Mi accusa, quello sguardo, lo fa dal primo giorno e io, di nuovo, senza motivo e senza comprendere, mi ritraggo facendo un passo indietro.
Il corteo si allontana, come una
freccia scoccata dall’arco che può solo raggiungere la sua meta, portando via
l’inquisitore domato.
Non so dove vogliano andare, che cosa abbiano intenzione di fare.
Li seguo. Devo sapere e, mentre cammino, il pensiero va indietro negli anni, riavvolge le immagini veloce, per rallentare in quel preciso giorno, quando tutto è cambiato. Una morte aveva chiuso un capitolo e un arrivo ne aveva iniziato un altro, del tutto diverso.
Anno Domini 1703
L’orto ha bisogno di cure, come e
più delle persone. Ci vuole attenzione, ma anche equilibrio: gli dai tutto, gli
dai tanto e non produce nulla; te ne scordi un giorno e subito i fiori si
seccano, le pianticelle avvizziscono, i germogli muoiono. È un gioco di
pazienza e tenacia, un affare sporco, lo dimostrano le mie mani piene di terra,
con le mezzelune delle unghie nere.
Mi guardo intorno nel giardino delle piante officinali. Questo, coltivo, riprendendo e mantenendo vivo il lavoro di mio padre, del nonno, della famiglia. Siamo una stirpe di erboristi, farmacisti. Siamo i curatori, le persone a cui i paesani si affidano per stare bene. Per loro, averci qui, nella piccola realtà del paese di Laino, è un vanto da sbandierare di fronte agli abitanti dei paesi limitrofi che, quando ne hanno necessità, sono costretti a fare strada e raggiungerci, perché da loro nessuno pratica l’arte, conosce la scienza e la natura.
«Caterina, Caterina, dove sei con la tua bella testolina?»
Pietro, la sua voce mi riporta indietro dalla strada dei pensieri che stavo percorrendo.
«Sono qui, a contemplare le mie mani e a disperarmi su come farle tornare pulite.»
«Ah, sei proprio una brava erborista, se ti perdi dietro a un problema così banale. A cosa servono i saponi alla lavanda che produci, se non ti puliscono dalla semplice terra? Comunque, ti sei dimenticata, vero?»
Lo fisso. Appoggiato con le braccia al basso muretto che divide l’orto dalla strada, ha i capelli perennemente spettinati, scuri e ribelli; le dita lunghe, perfette per suonare l’organo la domenica, quando suo padre gli lascerà il posto da maestro del coro, si muovono irrequiete. Mi restituisce lo sguardo, occhi chiari, in altri altrettanto limpidi.
«Certo che no e questa tua mancanza di fiducia in me, mi spezza il cuore.»
Ride.
«Tu non lo hai un cuore, solo pestello e mortaio. Va bene, visto che la tua memoria funziona a dovere, me ne vado e ti saluto. Non fare tardi, ma viste le tue attuali condizioni, direi che sei già in ritardo.»
Corre via, con gli zoccoli che sbatacchiano sulla strada al ritmo della sua risata e io resto qui, a domandarmi dove va, se dovrei andarci pure io, cosa sa lui che non ricordo. Accidenti alla mia testa impegnata in misure e quantità, erbe secche e nuove.
«Caterina, ma cosa fai ancora così conciata! Sarà qui a momenti, dovresti già essere in piazza, o almeno sulla via.»
«Enza, ma di che parli?»
«Del nuovo parroco, sciocca. Sbrigati, non vorrai essere l’unica a mancare al suo arrivo. Mövess tusa, muoviti ragazza!»
Mi era del tutto passato di mente. Il mese scorso il nostro amato prete, don Gaetano, si è spento all’incredibile età di ottant’anni. Molti, qui in paese, sono stati battezzati e accompagnati nell’ultimo viaggio da lui; tutti gli altri, come me, conoscevano una sola figura spirituale, la sua, da sempre. Perderlo è stato un freddo bagno di consapevolezza della morte e i giorni dopo il funerale sono stati un concentrato di incertezze. Le funzioni le celebrava il prete del vicino paese di Pellio, ma non erano né regolari né con gli orari di prima. Oggi avremo un nuovo parroco, non posso mancare al primo saluto.
Rientro in casa e la trovo vuota: di certo mio padre, con il nonno, è già uscito. Mi avranno anche avvisata, ma con l’attenzione altrove avrò perso saluto e richiamo.
Un cambio d’abito veloce, una sciacquata a mani, viso e collo e sono di corsa sulla strada. Trafelata, arrivo all’appuntamento, dove si è raccolto tutto il paese, intorno a un carretto già fermo. Ho ancora in mano il fazzoletto, col quale dovrei coprirmi la testa, e invece i miei capelli lunghi e sciolti mi volano dietro le spalle sussultando a ogni passo.
Nessuno nota il mio arrivo per nulla sobrio e inappuntabile, tranne una persona, che svetta sulla folla per altezza e prestanza. Biondo, serio, vestito di una tonaca del colore delle ali dei corvi dove il colletto bianco sembra vibrare nella sua tonalità pura, dove la luce del sole lo accende.
Il rumore dei miei passi lo ha distratto dalla gente festante. Subito i suoi occhi si puntano su di me, scuri, accusatori. È un muto rimprovero quello che mi riversa addosso, eppure non potrebbe essere più potente e diretto di un insulto gridato.
Il fiato mi si spezza, il passo incespica e mi fermo, poi indietreggio, colpita da un timore irrazionale, da un senso di colpa spropositato.
Non vedo calore, né amore, non avverto la gioia di essere in un posto nuovo tra paesani felici, per portare la parola del Signore, il conforto della fede. In un istante percepisco il suo rigore, la rettitudine, la distanza. Ho appena infranto la sua idea di perfezione terrena.
Non è un inizio di buon auspicio. Non so che il peggio deve ancora arrivare, ma ne avrò un assaggio nella prima messa, che si svolge poco dopo l’arrivo.
La chiesa è stata pulita da cima a fondo da noi donne, le più creative poi si sono prodigate in addobbi floreali dai mille colori e profumi. I petali setosi sono lucenti, sgargianti e rendono allegro l’ambiente raccolto, delle dimensioni appena bastanti ad accogliere la comunità. Il nostro organo, di certo l’arredo più bello e prezioso, emette una melodia incantevole sotto la guida del padre di Pietro. Il gruppo corale sta facendo del suo meglio, regalando una delizia per le orecchie, eppure, quando l’officiante prende la parola, il volto a stento maschera un’espressione di disgusto: «Vanità. Esteriorità. Superbia. Mancanza di controllo, di disciplina, di timor di Dio.»
Non ho mai sentito una tale apertura. Non un saluto, neppure il suo nome. Le prime parole sono un elenco di peccati.
«Quando ho ricevuto il mandato per venire nella vostra parrocchia, mi avevano detto che avrei potuto incappare in alcuni problemi legati alla fede e al decoro, ma mai la mia immaginazione avrebbe potuto arrivare a tanto. Dov’è la purezza, la modestia, il pentimento di un animo contrito? Qui vedo iniquità, sfarzo e spreco. Fiori che non servono a lodare il Signore, ma a graziare i vostri occhi. Bocche che innalzano inni alla propria bravura, di donne e di uomini insieme, non pudicamente separati. Musica, estratta da uno strumento costoso, che toglie forza alle opere di bene e inorgoglisce. Giovani ragazze che corrono, a capo scoperto, affannate, senza modestia o timore, prive del giusto accompagnamento ed esempio.»
È per me, l’ultimo rimprovero: nessun dubbio. Ad aggiungere forza alla certezza c’è il suo sguardo, che mi ha cercata, braccata, attraverso la navata, finché mi ha trovata e inchiodata alla mia colpa.
«Peccato, una pericolosa deriva della fede che sono chiamato a fermare prima che divenga eresia. Troverò altro? Prego di no, ma non chiuderò gli occhi, sappiatelo. Ho un ufficio: lo compirò. Ho un dovere: lo rispetterò. Sono Padre Giorgio, inquisitore per grazia di Dio e Santa volontà di Papa Clemente XI. Affidatevi, lasciatevi guidare e, forse, riuscirete ancora a salvarvi.»
Abituati alla dolcezza di don Gaetano, ai cortesi rabbuffi ai nostri comportamenti più che a vere e proprie prediche, coi discorsi che si attorcigliavano e perdevano, soprattutto negli ultimi anni, rimaniamo sgomenti di tale veemenza. Talmente sorpresi da dimenticarci di abbassare la testa, lo fissiamo con sguardi perplessi, guadagnando nuove sferzate verbali.
«Non avete un po’ di decenza! La imparerete. Che il coro si sciolga, uomini andate a sedervi. Donne, togliete i fiori e accumulateli fuori. Subito!»
Il primo fuoco è divampato. Mentre i fiori bruciano, torcendosi, i nostri cuori sprofondano nel petto, chiudendo la gioia in una stanza buia, inaccessibile. Non è possibile che padre Giorgio sia giunto da noi per caso, per veggenza da parte del Papa... Qualcuno ci ha denunciati.
Non siamo un paese modello, ci sono piccoli problemi, incomprensioni e litigi, ma non manca mai una parola di conciliazione, una mano che si tende nel momento del bisogno. Siamo uniti e nelle difficoltà di una zona montana che non perdona l’errore e la leggerezza; la nostra coesione ci ha sempre portato fuori dalle tormente, in una relativa serenità.
«Come San Giorgio schiacciò il drago, trafiggendolo con la sua lancia, io vi purificherò dal diavolo. Che Dio abbia misericordia di voi.»
Con queste parole, di promessa e sentenza, torniamo a casa. Annullati i sorrisi, i passi baldanzosi si fanno pesanti.
Senza accordarsi, quasi rispondendo a una muta richiesta di sostegno, Pietro e suo padre, il maestro Alfredo, Enza la sarta e Angela la levatrice, entrano uno alla volta nella nostra bottega, dove ho aiutato mio padre a condurre il nonno, incerto sulle gambe, subito dopo la strana messa.
Seduti intorno al tavolo, Carlo, il più anziano tra quelle quattro mura, prende la parola con voce limpida e pensiero lucido: «Lo sentite?»
«Cosa papà? Non sento nulla.»
«Esatto. Un giorno che avrebbe dovuto essere di festa, è silenzioso come un cimitero di notte. Siamo tornati a casa, spaventati come topi nel rifugio. Alcuni sono qui; di certo altri, come noi, saranno insieme e parleranno. Le menti più semplici non faranno altro che aumentare le paure. I vigliacchi, con l’astuzia che li contraddistingue, non ci metteranno molto ad andare dove tira il vento, dove c’è minor rischio, ora di domani mattina saranno alle spalle dell’inquisitore, a recitare preghiere e farsi delatori a comando. I dotati di ingegno devono invece prepararsi e prendere decisioni.»
Pietro scuote la testa e si intromette nel discorso: «Nonno, non posso pensare che ci sia da aver timore. Quel prete è inquietante, rigido, ma secondo me è tutto parole, buono a bruciare qualche fiore e basta. Siamo una comunità unita, numerosa, che mai può fare uno da solo, anche se ha l’autorità del Papa? Anzi, tempo un mese e vedrai che lo avremo conquistato e la domenica canterà meglio e più degli altri.»
«Sei giovane e sciocco, ottimista per natura. Quello ha il carisma dei profeti. Ti metteresti mai davanti a un cavallo imbizzarrito?»
«No, certo, ma che c’entra? Correrei via.»
«L’inquisitore vede solo colpa e peccato. I suoi occhi hanno così tanto rimirato il divino che nulla qui gli sembrerà adatto. Non vedrà bontà, né ragione, andrà per la sua strada e dietro lascerà macerie. Non di pietra, ma di carne.»
Ascolto mio nonno, le mani strette in grembo. È saggio, ha vissuto, ha sempre avuto uno sguardo acuto sulle cose, vede avanti, dove nessuno di noi può nemmeno immaginare di andare e, sopra ogni cosa, conosce l’animo degli uomini.
Alfredo lo interroga: «Cosa consigli?»
«Due cose: proteggere le donne e prepararci a chiedere aiuto. Dobbiamo entrare nello specifico. Angela, mi spiace, ma il tuo mestiere ti espone.»
«Carlo, che intendi? Sono sempre stata una buona cristiana. Aiuto le donne a far nascere i bambini, cosa c’è di maligno in questo?»
«C’è che a volte i parti vanno male: muoiono i bambini, a volte le madri, altre volte entrambi. La gioia della nascita viene spazzata via dal dolore della perdita e si cerca un colpevole. Non dirmi che non hai mai dovuto difenderti da accuse!»
«Sì, a volte si dicono parole grosse, ma è la disperazione a parlare. Non posso tutto, ma offro il mio meglio. Si accetta la volontà di Dio e si va avanti, come è sempre stato.»
«La disperazione diventerà denuncia e non sarai una donna che ha fatto il possibile, ma un strega serva del demonio, che ha sacrificato delle vite a Satana.»
Parole spaventose, che suscitano scenari di torture, processi e roghi. Qui siamo stati al riparo, ma voci terribili sono giunte da lontano e anche noi conosciamo le azioni dell’inquisizione.
«Cosa pretendi, Carlo? Che mi neghi? Che mi nasconda, la prossima volta che una donna entra in travaglio e il marito mi chiama? Sono una levatrice, come mia madre e sua madre prima di lei. È l’unica cosa che so fare. Mi ricorda ciò che sono e ciò che è la mia famiglia, proprio come voi che siete erboristi. Andrò avanti. Che il prete si muova come crede, non mi spaventerà, non mi piegherà, perché non faccio nulla di male.»
Fiera, coraggiosa, leale. Angela è questo e altro ancora, un’amica sincera, una donna di cuore. Mi viene istintivo abbracciarla, farle sentire la mia vicinanza. Sono parole che mi riscaldano, le sue, ma quelle che pronuncia il nonno subito dopo mi ghiacciano.
Un mormorio raggiunge l’ingresso con le prime persone. Vestite di nero, rigorose, le donne avanzano e recitano la prima parte del rosario: «Ave, Maria, grátia plena.»
Dietro vengono gli uomini, abiti scuri senza scampo, recitando la seconda strofa: «Sancta Maria, Mater Dei…»
Guardano avanti e camminano. Mi chiedo dove vadano, quando lo sguardo viene richiamato al portone, dal quale esce la portantina della Madonna, quella usata per le processioni, quando potevamo farle. Sostenuta da otto uomini, divisi in quattro gruppi di due a reggere le barre, giunge nella grigia giornata di marzo. Non c’è la statua delle Vergine sopra, ma una figura distesa, bloccata da corde che l’avvolgono e girano sotto la portantina.
Mi sporgo, incurante, per cercare di capire chi sia. Non temo di essere vista, sono tutti così concentrati e tesi al misterioso obiettivo, che la mia presenza non riveste importanza.
Sono i capelli biondi, così chiari da essere prossimi al bianco, a dirmi chi è il prigioniero: è l’inquisitore, l’angelo freddo e insensibile, impossibile da imitare e accontentare, che ha gelato le anime bruciando i nostri corpi.
Gira il volto verso di me, i suoi occhi castani, di un colore così caldo, ma capaci di tanto sorprendente disprezzo, sembrano fissarsi nei miei.
Mi accusa, quello sguardo, lo fa dal primo giorno e io, di nuovo, senza motivo e senza comprendere, mi ritraggo facendo un passo indietro.
Non so dove vogliano andare, che cosa abbiano intenzione di fare.
Li seguo. Devo sapere e, mentre cammino, il pensiero va indietro negli anni, riavvolge le immagini veloce, per rallentare in quel preciso giorno, quando tutto è cambiato. Una morte aveva chiuso un capitolo e un arrivo ne aveva iniziato un altro, del tutto diverso.
Capitolo due
Mi guardo intorno nel giardino delle piante officinali. Questo, coltivo, riprendendo e mantenendo vivo il lavoro di mio padre, del nonno, della famiglia. Siamo una stirpe di erboristi, farmacisti. Siamo i curatori, le persone a cui i paesani si affidano per stare bene. Per loro, averci qui, nella piccola realtà del paese di Laino, è un vanto da sbandierare di fronte agli abitanti dei paesi limitrofi che, quando ne hanno necessità, sono costretti a fare strada e raggiungerci, perché da loro nessuno pratica l’arte, conosce la scienza e la natura.
«Caterina, Caterina, dove sei con la tua bella testolina?»
Pietro, la sua voce mi riporta indietro dalla strada dei pensieri che stavo percorrendo.
«Sono qui, a contemplare le mie mani e a disperarmi su come farle tornare pulite.»
«Ah, sei proprio una brava erborista, se ti perdi dietro a un problema così banale. A cosa servono i saponi alla lavanda che produci, se non ti puliscono dalla semplice terra? Comunque, ti sei dimenticata, vero?»
Lo fisso. Appoggiato con le braccia al basso muretto che divide l’orto dalla strada, ha i capelli perennemente spettinati, scuri e ribelli; le dita lunghe, perfette per suonare l’organo la domenica, quando suo padre gli lascerà il posto da maestro del coro, si muovono irrequiete. Mi restituisce lo sguardo, occhi chiari, in altri altrettanto limpidi.
«Certo che no e questa tua mancanza di fiducia in me, mi spezza il cuore.»
Ride.
«Tu non lo hai un cuore, solo pestello e mortaio. Va bene, visto che la tua memoria funziona a dovere, me ne vado e ti saluto. Non fare tardi, ma viste le tue attuali condizioni, direi che sei già in ritardo.»
Corre via, con gli zoccoli che sbatacchiano sulla strada al ritmo della sua risata e io resto qui, a domandarmi dove va, se dovrei andarci pure io, cosa sa lui che non ricordo. Accidenti alla mia testa impegnata in misure e quantità, erbe secche e nuove.
«Caterina, ma cosa fai ancora così conciata! Sarà qui a momenti, dovresti già essere in piazza, o almeno sulla via.»
«Enza, ma di che parli?»
«Del nuovo parroco, sciocca. Sbrigati, non vorrai essere l’unica a mancare al suo arrivo. Mövess tusa, muoviti ragazza!»
Mi era del tutto passato di mente. Il mese scorso il nostro amato prete, don Gaetano, si è spento all’incredibile età di ottant’anni. Molti, qui in paese, sono stati battezzati e accompagnati nell’ultimo viaggio da lui; tutti gli altri, come me, conoscevano una sola figura spirituale, la sua, da sempre. Perderlo è stato un freddo bagno di consapevolezza della morte e i giorni dopo il funerale sono stati un concentrato di incertezze. Le funzioni le celebrava il prete del vicino paese di Pellio, ma non erano né regolari né con gli orari di prima. Oggi avremo un nuovo parroco, non posso mancare al primo saluto.
Rientro in casa e la trovo vuota: di certo mio padre, con il nonno, è già uscito. Mi avranno anche avvisata, ma con l’attenzione altrove avrò perso saluto e richiamo.
Un cambio d’abito veloce, una sciacquata a mani, viso e collo e sono di corsa sulla strada. Trafelata, arrivo all’appuntamento, dove si è raccolto tutto il paese, intorno a un carretto già fermo. Ho ancora in mano il fazzoletto, col quale dovrei coprirmi la testa, e invece i miei capelli lunghi e sciolti mi volano dietro le spalle sussultando a ogni passo.
Nessuno nota il mio arrivo per nulla sobrio e inappuntabile, tranne una persona, che svetta sulla folla per altezza e prestanza. Biondo, serio, vestito di una tonaca del colore delle ali dei corvi dove il colletto bianco sembra vibrare nella sua tonalità pura, dove la luce del sole lo accende.
Il rumore dei miei passi lo ha distratto dalla gente festante. Subito i suoi occhi si puntano su di me, scuri, accusatori. È un muto rimprovero quello che mi riversa addosso, eppure non potrebbe essere più potente e diretto di un insulto gridato.
Il fiato mi si spezza, il passo incespica e mi fermo, poi indietreggio, colpita da un timore irrazionale, da un senso di colpa spropositato.
Non vedo calore, né amore, non avverto la gioia di essere in un posto nuovo tra paesani felici, per portare la parola del Signore, il conforto della fede. In un istante percepisco il suo rigore, la rettitudine, la distanza. Ho appena infranto la sua idea di perfezione terrena.
Non è un inizio di buon auspicio. Non so che il peggio deve ancora arrivare, ma ne avrò un assaggio nella prima messa, che si svolge poco dopo l’arrivo.
La chiesa è stata pulita da cima a fondo da noi donne, le più creative poi si sono prodigate in addobbi floreali dai mille colori e profumi. I petali setosi sono lucenti, sgargianti e rendono allegro l’ambiente raccolto, delle dimensioni appena bastanti ad accogliere la comunità. Il nostro organo, di certo l’arredo più bello e prezioso, emette una melodia incantevole sotto la guida del padre di Pietro. Il gruppo corale sta facendo del suo meglio, regalando una delizia per le orecchie, eppure, quando l’officiante prende la parola, il volto a stento maschera un’espressione di disgusto: «Vanità. Esteriorità. Superbia. Mancanza di controllo, di disciplina, di timor di Dio.»
Non ho mai sentito una tale apertura. Non un saluto, neppure il suo nome. Le prime parole sono un elenco di peccati.
«Quando ho ricevuto il mandato per venire nella vostra parrocchia, mi avevano detto che avrei potuto incappare in alcuni problemi legati alla fede e al decoro, ma mai la mia immaginazione avrebbe potuto arrivare a tanto. Dov’è la purezza, la modestia, il pentimento di un animo contrito? Qui vedo iniquità, sfarzo e spreco. Fiori che non servono a lodare il Signore, ma a graziare i vostri occhi. Bocche che innalzano inni alla propria bravura, di donne e di uomini insieme, non pudicamente separati. Musica, estratta da uno strumento costoso, che toglie forza alle opere di bene e inorgoglisce. Giovani ragazze che corrono, a capo scoperto, affannate, senza modestia o timore, prive del giusto accompagnamento ed esempio.»
È per me, l’ultimo rimprovero: nessun dubbio. Ad aggiungere forza alla certezza c’è il suo sguardo, che mi ha cercata, braccata, attraverso la navata, finché mi ha trovata e inchiodata alla mia colpa.
«Peccato, una pericolosa deriva della fede che sono chiamato a fermare prima che divenga eresia. Troverò altro? Prego di no, ma non chiuderò gli occhi, sappiatelo. Ho un ufficio: lo compirò. Ho un dovere: lo rispetterò. Sono Padre Giorgio, inquisitore per grazia di Dio e Santa volontà di Papa Clemente XI. Affidatevi, lasciatevi guidare e, forse, riuscirete ancora a salvarvi.»
Abituati alla dolcezza di don Gaetano, ai cortesi rabbuffi ai nostri comportamenti più che a vere e proprie prediche, coi discorsi che si attorcigliavano e perdevano, soprattutto negli ultimi anni, rimaniamo sgomenti di tale veemenza. Talmente sorpresi da dimenticarci di abbassare la testa, lo fissiamo con sguardi perplessi, guadagnando nuove sferzate verbali.
«Non avete un po’ di decenza! La imparerete. Che il coro si sciolga, uomini andate a sedervi. Donne, togliete i fiori e accumulateli fuori. Subito!»
Il primo fuoco è divampato. Mentre i fiori bruciano, torcendosi, i nostri cuori sprofondano nel petto, chiudendo la gioia in una stanza buia, inaccessibile. Non è possibile che padre Giorgio sia giunto da noi per caso, per veggenza da parte del Papa... Qualcuno ci ha denunciati.
Non siamo un paese modello, ci sono piccoli problemi, incomprensioni e litigi, ma non manca mai una parola di conciliazione, una mano che si tende nel momento del bisogno. Siamo uniti e nelle difficoltà di una zona montana che non perdona l’errore e la leggerezza; la nostra coesione ci ha sempre portato fuori dalle tormente, in una relativa serenità.
«Come San Giorgio schiacciò il drago, trafiggendolo con la sua lancia, io vi purificherò dal diavolo. Che Dio abbia misericordia di voi.»
Con queste parole, di promessa e sentenza, torniamo a casa. Annullati i sorrisi, i passi baldanzosi si fanno pesanti.
Senza accordarsi, quasi rispondendo a una muta richiesta di sostegno, Pietro e suo padre, il maestro Alfredo, Enza la sarta e Angela la levatrice, entrano uno alla volta nella nostra bottega, dove ho aiutato mio padre a condurre il nonno, incerto sulle gambe, subito dopo la strana messa.
Seduti intorno al tavolo, Carlo, il più anziano tra quelle quattro mura, prende la parola con voce limpida e pensiero lucido: «Lo sentite?»
«Cosa papà? Non sento nulla.»
«Esatto. Un giorno che avrebbe dovuto essere di festa, è silenzioso come un cimitero di notte. Siamo tornati a casa, spaventati come topi nel rifugio. Alcuni sono qui; di certo altri, come noi, saranno insieme e parleranno. Le menti più semplici non faranno altro che aumentare le paure. I vigliacchi, con l’astuzia che li contraddistingue, non ci metteranno molto ad andare dove tira il vento, dove c’è minor rischio, ora di domani mattina saranno alle spalle dell’inquisitore, a recitare preghiere e farsi delatori a comando. I dotati di ingegno devono invece prepararsi e prendere decisioni.»
Pietro scuote la testa e si intromette nel discorso: «Nonno, non posso pensare che ci sia da aver timore. Quel prete è inquietante, rigido, ma secondo me è tutto parole, buono a bruciare qualche fiore e basta. Siamo una comunità unita, numerosa, che mai può fare uno da solo, anche se ha l’autorità del Papa? Anzi, tempo un mese e vedrai che lo avremo conquistato e la domenica canterà meglio e più degli altri.»
«Sei giovane e sciocco, ottimista per natura. Quello ha il carisma dei profeti. Ti metteresti mai davanti a un cavallo imbizzarrito?»
«No, certo, ma che c’entra? Correrei via.»
«L’inquisitore vede solo colpa e peccato. I suoi occhi hanno così tanto rimirato il divino che nulla qui gli sembrerà adatto. Non vedrà bontà, né ragione, andrà per la sua strada e dietro lascerà macerie. Non di pietra, ma di carne.»
Ascolto mio nonno, le mani strette in grembo. È saggio, ha vissuto, ha sempre avuto uno sguardo acuto sulle cose, vede avanti, dove nessuno di noi può nemmeno immaginare di andare e, sopra ogni cosa, conosce l’animo degli uomini.
Alfredo lo interroga: «Cosa consigli?»
«Due cose: proteggere le donne e prepararci a chiedere aiuto. Dobbiamo entrare nello specifico. Angela, mi spiace, ma il tuo mestiere ti espone.»
«Carlo, che intendi? Sono sempre stata una buona cristiana. Aiuto le donne a far nascere i bambini, cosa c’è di maligno in questo?»
«C’è che a volte i parti vanno male: muoiono i bambini, a volte le madri, altre volte entrambi. La gioia della nascita viene spazzata via dal dolore della perdita e si cerca un colpevole. Non dirmi che non hai mai dovuto difenderti da accuse!»
«Sì, a volte si dicono parole grosse, ma è la disperazione a parlare. Non posso tutto, ma offro il mio meglio. Si accetta la volontà di Dio e si va avanti, come è sempre stato.»
«La disperazione diventerà denuncia e non sarai una donna che ha fatto il possibile, ma un strega serva del demonio, che ha sacrificato delle vite a Satana.»
Parole spaventose, che suscitano scenari di torture, processi e roghi. Qui siamo stati al riparo, ma voci terribili sono giunte da lontano e anche noi conosciamo le azioni dell’inquisizione.
«Cosa pretendi, Carlo? Che mi neghi? Che mi nasconda, la prossima volta che una donna entra in travaglio e il marito mi chiama? Sono una levatrice, come mia madre e sua madre prima di lei. È l’unica cosa che so fare. Mi ricorda ciò che sono e ciò che è la mia famiglia, proprio come voi che siete erboristi. Andrò avanti. Che il prete si muova come crede, non mi spaventerà, non mi piegherà, perché non faccio nulla di male.»
Fiera, coraggiosa, leale. Angela è questo e altro ancora, un’amica sincera, una donna di cuore. Mi viene istintivo abbracciarla, farle sentire la mia vicinanza. Sono parole che mi riscaldano, le sue, ma quelle che pronuncia il nonno subito dopo mi ghiacciano.
«E sarai tra
le prime a cadere. Pensa, ragazza, ragiona. Da morta non servirai a nessuno. Non
posso obbligarti, ma prometti che ci mediterai, che quando le cose si
metteranno male, non rinuncerai alla fuga.»
«Papà, perché dici quando e non se?»
«Perché è già successo e capiterà ancora. Perché l’uomo è un lupo tra gli uomini e le donne sono prede. Per questo ora parleremo di Caterina.»
Lo guardo. Scuoto la testa.
«Papà, perché dici quando e non se?»
«Perché è già successo e capiterà ancora. Perché l’uomo è un lupo tra gli uomini e le donne sono prede. Per questo ora parleremo di Caterina.»
Lo guardo. Scuoto la testa.
«Io?
Curo le erbe dell’orto come mi ha insegnato papà, preparo oli, pomate, polveri
sotto la tua supervisione, faccio saponette e profumi portando avanti la
memoria di mamma. Non c’è niente di cattivo in questo. Sì, sono più ribelle e
libera rispetto alle mie coetanee, mi avete abituata alla curiosità, istruita e
continuate a farlo, ma di sicuro il prete non può trovare il demonio in questo.»
«In un mondo migliore, certo, nipote mia. Nel mondo di domani forse, ma oggi no. Sei troppo.»
«Troppo? Nonno, dai, mi fai ridere. Che significa troppo?»
«Troppo intelligente, sapiente, giovane, bella. Non scuotere la testa. Anche la bellezza può essere una colpa, tentazione per chi non si domina, per chi vorrebbe, ma non può. Retaggio di Eva che ci ha condannati a perdere l’Eden. Irraggiungibile lei, presenti voi, le sue figlie: siete quelle che pagano.»
«Che fate allora, la nascondete in cantina? L’ha già vista il prete biondo, ho riconosciuto lo sguardo: l’ha segnata. Quindi?»
Carlo ascolta le parole di Enza e risponde: «Da oggi, per tutti e se viene qui l’inquisitore, perché questo è, non un prete qualunque, Caterina farà solo saponi. Basta profumi, basta anche saponette vezzose, alla camomilla, lavanda, rose o altro. Saponi semplici, magari grezzi, ma umili. Non ti azzardare a prendere mortaio e pestello: tu non fai medicamenti, non dai consigli, dimentica di sapere riconoscere i numeri e di leggere. Ti leghi i capelli, li copri con un fazzoletto nero ogni volta che metti piede fuori di casa e solo se tuo padre ti accompagna, o Enza che, coi vantaggi dell’età, può essere considerata degna di preservare la tua virtù. Pietro, se la vedi per strada, al massimo ti levi il cappello, non la chiami, la saluti solo con un cenno del capo, o non fai proprio nulla. Capito?»
«Sì» diciamo attoniti, ma il nonno non ha finito.
«Se le cose si mettono al peggio, le donne devono prepararsi a scappare. Il luogo migliore credo sia la zocca, sopra Schignano. È scomoda da raggiungere, abbastanza lontana da qui, perfetta come rifugio.»
Finita la riunione, ci lasciamo così, mesti e silenziosi, preoccupati, ma con un piano stabilito, da seguire. Non mi sento di condividerlo appieno, di certo anche altri come Pietro e Angela hanno delle perplessità, ma il nonno ha parlato e da sempre la sua è l’unica voce che si ascolta.
L’ingenuità, l’inesperienza, mi fa essere speranzosa, mi chiude lo sguardo tacitando la ragione. Se una cosa non l’hai provata non la capisci, non la insegni, non la sai prevedere.
Ho imparato.
Il sospetto ha sostituito l’unione
tra i paesani. Se prima litigavi col vicino, magari ci facevi a pugni, gli
urlavi contro, chiedevi a qualcuno di decidere chi avesse ragione. Adesso lo
denunci come eretico o dici a tutti che sua moglie è una strega e che ti ha
fatto il malocchio. Ha fatto così il sindaco, quando la cataratta gli ha
offuscato lo sguardo: ha accusato una ragazza molto più giovane di lui di
averlo maledetto, dopo che si era rifiutata di diventare la sua seconda moglie.
I canti che accompagnavano il lavoro al pascolo o nei campi sono finiti. Non manca chi sente una canzone e, per mettersi al riparo e farsi vedere puro, corre dall’inquisitore a raccontare di riunioni nei boschi, di balli senza vestiti sotto le stelle. Si cercano i colpevoli, no, le colpevoli e le si trova, indicando un neo sulla pelle, magari vicino al seno o sulla coscia, simbolo del bacio del diavolo durante amplessi schifosi.
Le messe vengono iniziate con controlli accurati. Se non si nota una riga scura sotto i polsini delle camice, ai lati del collo, sopra le ginocchia, significa che si sono toccate parti impure durante la pulizia. Si viene puniti, tradotti in stanze sotto la canonica. Gli uomini ne escono con qualche colpo, un’ammenda, l’ammissione della colpa e la richiesta di perdono. Le donne, con i piedi rotti, le gambe spezzate, le dita schiacciate.
Angela è morta.
La moglie del fabbro è spirata nel tentativo di far uscire il secondo bambino di un parto gemellare prematuro e inaspettato, portando con sé il figlio. Il fratello, nato prima, era comunque troppo piccolo per sopravvivere: dopo un paio di giorni li ha seguiti ovunque vadano gli innocenti nell’ultimo viaggio.
La levatrice si è presa la colpa e ha subito uno dei tanti processi farsa, dove l’imputata non può parlare, non ha nessuno che la difenda e può solo ascoltare mentre viene illustrata alle persone la sua collusione col demonio, dove una moglie devota e due bambini sono stati sacrificati per ottenere bellezza e fortuna.
Angela è stata bruciata.
Ha pensato di aiutare, di non abbandonare. Ha creduto che le cose non potessero andare così male, che nessuno sano di mente sarebbe arrivato a tanto, che la comunità che le si è sempre stretta accanto con affetto e gratitudine l’avrebbe protetta. Ha sperato che uno, non potesse valere come molti.
Angela è stata la prima.
Ottantasei donne, diciannove uomini, sarà il conteggio finale, ma lo saprò dopo, perché quando lei è stata presa, io sono scappata, insieme a poche altre, per raggiungere Schignano e salire alla zocca.
È andata bene per un po’, poi la peste chiamata Giorgio è dilagata oltre Laino, ha infettato altri paesi e non è sfuggita la comunità sempre più nutrita di donne che stava là.
Sono arrivati, improvvisi come un temporale, come solo in montagna sanno arrivare in fretta. Non tutti però sono stati contagiati dalla follia, le persone buone ci sono sempre, in ogni situazione e nelle difficoltà le riconosci. Ci hanno avvertite, in tante siamo scappate disperdendoci. Altre stanche, sono rimaste.
Sono state prese.
Bruciate.
Prima accendevi un fuoco e l’aria si profumava di pino.
Ora accendi un rogo e l’aria puzza, si fa spessa, serra la gola, scende nei polmoni e resta lì, a ricordarti la colpa dell’omicidio o di essere ancora viva.
Rimarrà nella storia il fatto della zocca. Un giorno le cambieranno nome, sarà la Zoca di Strii, la conca delle streghe.
È tempo di tornare al momento presente, a seguire una processione che porta un uomo legato.
Anno Domini 1706
Ho rivissuto gli anni passati,
percorso gli eventi. Sono passata di nuovo attraverso il fuoco dei roghi, i
sentieri delle fughe. Mio nonno, nel discorso di quel primo giorno, mi aveva
detto che ero bella. Adesso non lo so, non ho modo di saperlo. Le privazioni
sono state tante, quelli che porto non sono gli abiti che avevo, non sono
nemmeno miei, e le loro condizioni lasciano a desiderare. Mi coprono e tanto
basta. Non ho voglia di scoprire come sono diventata. Essere ancora qui, a
seguire questa giornata che reca in sé un portento, positivo o negativo, è l’unica
cosa che conta.
Ho capito dove stanno andando le persone col loro carico.
Sono diretti all’orrido sull’Ino, il fiume che, passando per il paese, gli dà il nome: Laino, là dove passa il fiume Ino.
Non capisco. Perché andare in quel posto? Eppure la via che hanno imboccato conduce lì senza dubbio.
È luogo di burroni, di scarpate. Nei secoli il fiume si è ridotto, ma un tempo doveva essere forte e molto più veloce. Ha inciso il terreno, con pazienza la pietra ha ceduto il passo alla sua tenacia e si è formato lo stretto canale, dalle rive scoscese, che chiamiamo orrido. È una gola buia, umida, profonda. Fa paura a guardarla dal basso, dall’acqua verso l’alto. Terrorizza rimirare il fondo, un salto verso l’abisso, il fiume e le rocce che affiorano.
La processione si ferma prima del ponte che scavalca il vuoto e conduce ai pascoli alti.
I portatori si liberano del carico.
Da dove sono non vedo quello che fanno, la portantina poggia a terra e la mole delle persone intorno mi preclude lo sguardo.
Non si è mai fermato il rosario, hanno scandito i loro passi con le preghiere che ora sono sottofondo per tutto quello che hanno deciso di fare.
Cerco e trovo una posizione migliore per seguire la scena, restando comunque isolata rispetto al gruppo. È da sola che lo vedo, lo scopo e l’epilogo di questo viaggio, ma non credo che avere accanto qualcuno diminuirebbe l’impatto della scena.
Alcuni uomini sollevano l’inquisitore e lo gettano nel vuoto.
Senza esitazioni, un gesto fluido, consapevole e definitivo.
Urla, padre Giorgio, vorrei tapparmi le orecchie, ma sono pesanti le mie braccia. Troppo presto il grido si interrompe, di colpo.
Finiscono anche le orazioni e c’è solo un vago rumore d’acqua che sale dal basso, si rinforza sulle pareti dell’orrido e porta tra noi un mormorio indifferente.
Due persone si staccano dal gruppo e si dirigono verso di me.
Sono uomini, ma solo quando sono abbastanza vicini li riconosco. Loro al contrario devono essere stati coscienti della mia presenza, perché si muovono sicuri. Mio padre e Pietro.
Mi abbracciano e mi conducono verso casa. Altri andranno a dire alle donne nascoste di tornare: è finita la caccia alle streghe con la cacciata del diavolo. Non colui che sono state accusate di adorare, ma quello umano, biondo, che nella promessa di salvarci ci ha uccise.
Pian piano è tornata la normalità
nel paese e in quelli che hanno contratto la stessa follia. I delatori, colpevoli quanto l’inquisitore, ai
miei occhi, se ne sono andati. Alcuni hanno chiesto perdono prima, altri hanno
fatto i bagagli nella notte e semplicemente non ci sono stati più.
Eppure qualcuno non ha capito, non ha imparato e ha riprovato a far nascere un nuovo orrore.
Dopo un paio di mesi è giunto un altro prete. Non si sa da dove, non si sa chi lo ha chiamato, perché noi eravamo soddisfatti delle messe irregolari e delle prediche distratte di don Franco, che arrivava da Pellio quando poteva e se si ricordava.
L’uomo del Papa ha chiesto notizie di padre Giorgio, dove fosse, dichiarando di essere venuto per aiutarlo nella sua missione di fede, contro l’eresia e soprattutto il dilagare della stregoneria, dopo i preoccupanti rapporti ricevuti.
Non ci sono stati rosari né tempo perso. Gli uomini hanno mostrato a questo nuovo inquisitore dov’era finito il precedente. Un trattamento poco rispettoso, ma definitivo, chiara espressione del nostro pensiero riguardo alla loro gestione della fede. Non mi ricordo come si chiamasse, o forse non ha fatto nemmeno in tempo a dircelo.
Non ne sono arrivati altri.
Noi montanari siamo come i monti che ci circondano. Solidi, avvezzi alle asperità. Duri, ma capaci di insospettabili gentilezze. Diversi dagli altri, abituati alla solitudine. A volte buoni, a volte cattivi. Sappiamo sopportare, non ci piacciono i cambiamenti e ci adattiamo con il tempo. Siamo lenti anche nel prendere decisioni, ponderiamo e meditiamo, molti scambiano questa lentezza per stupidità e ci sottovalutano. A un tratto agiamo, e siamo come una valanga: inarrestabili e severi.
Non perdoniamo, ricordiamo e andiamo avanti.
Le vicende dolorose che ci hanno segnati e il loro finale ci ha fatto guadagnare un soprannome di paese. Ora siamo i maza prevat, gli ammazza preti.
Con noi non si scherza, ci considerano un po’ matti, forse hanno ragione, ma ci lasciano in pace.
Ora voglio solo vivere.
«In un mondo migliore, certo, nipote mia. Nel mondo di domani forse, ma oggi no. Sei troppo.»
«Troppo? Nonno, dai, mi fai ridere. Che significa troppo?»
«Troppo intelligente, sapiente, giovane, bella. Non scuotere la testa. Anche la bellezza può essere una colpa, tentazione per chi non si domina, per chi vorrebbe, ma non può. Retaggio di Eva che ci ha condannati a perdere l’Eden. Irraggiungibile lei, presenti voi, le sue figlie: siete quelle che pagano.»
«Che fate allora, la nascondete in cantina? L’ha già vista il prete biondo, ho riconosciuto lo sguardo: l’ha segnata. Quindi?»
Carlo ascolta le parole di Enza e risponde: «Da oggi, per tutti e se viene qui l’inquisitore, perché questo è, non un prete qualunque, Caterina farà solo saponi. Basta profumi, basta anche saponette vezzose, alla camomilla, lavanda, rose o altro. Saponi semplici, magari grezzi, ma umili. Non ti azzardare a prendere mortaio e pestello: tu non fai medicamenti, non dai consigli, dimentica di sapere riconoscere i numeri e di leggere. Ti leghi i capelli, li copri con un fazzoletto nero ogni volta che metti piede fuori di casa e solo se tuo padre ti accompagna, o Enza che, coi vantaggi dell’età, può essere considerata degna di preservare la tua virtù. Pietro, se la vedi per strada, al massimo ti levi il cappello, non la chiami, la saluti solo con un cenno del capo, o non fai proprio nulla. Capito?»
«Sì» diciamo attoniti, ma il nonno non ha finito.
«Se le cose si mettono al peggio, le donne devono prepararsi a scappare. Il luogo migliore credo sia la zocca, sopra Schignano. È scomoda da raggiungere, abbastanza lontana da qui, perfetta come rifugio.»
Finita la riunione, ci lasciamo così, mesti e silenziosi, preoccupati, ma con un piano stabilito, da seguire. Non mi sento di condividerlo appieno, di certo anche altri come Pietro e Angela hanno delle perplessità, ma il nonno ha parlato e da sempre la sua è l’unica voce che si ascolta.
L’ingenuità, l’inesperienza, mi fa essere speranzosa, mi chiude lo sguardo tacitando la ragione. Se una cosa non l’hai provata non la capisci, non la insegni, non la sai prevedere.
I canti che accompagnavano il lavoro al pascolo o nei campi sono finiti. Non manca chi sente una canzone e, per mettersi al riparo e farsi vedere puro, corre dall’inquisitore a raccontare di riunioni nei boschi, di balli senza vestiti sotto le stelle. Si cercano i colpevoli, no, le colpevoli e le si trova, indicando un neo sulla pelle, magari vicino al seno o sulla coscia, simbolo del bacio del diavolo durante amplessi schifosi.
Le messe vengono iniziate con controlli accurati. Se non si nota una riga scura sotto i polsini delle camice, ai lati del collo, sopra le ginocchia, significa che si sono toccate parti impure durante la pulizia. Si viene puniti, tradotti in stanze sotto la canonica. Gli uomini ne escono con qualche colpo, un’ammenda, l’ammissione della colpa e la richiesta di perdono. Le donne, con i piedi rotti, le gambe spezzate, le dita schiacciate.
Angela è morta.
La moglie del fabbro è spirata nel tentativo di far uscire il secondo bambino di un parto gemellare prematuro e inaspettato, portando con sé il figlio. Il fratello, nato prima, era comunque troppo piccolo per sopravvivere: dopo un paio di giorni li ha seguiti ovunque vadano gli innocenti nell’ultimo viaggio.
La levatrice si è presa la colpa e ha subito uno dei tanti processi farsa, dove l’imputata non può parlare, non ha nessuno che la difenda e può solo ascoltare mentre viene illustrata alle persone la sua collusione col demonio, dove una moglie devota e due bambini sono stati sacrificati per ottenere bellezza e fortuna.
Angela è stata bruciata.
Ha pensato di aiutare, di non abbandonare. Ha creduto che le cose non potessero andare così male, che nessuno sano di mente sarebbe arrivato a tanto, che la comunità che le si è sempre stretta accanto con affetto e gratitudine l’avrebbe protetta. Ha sperato che uno, non potesse valere come molti.
Angela è stata la prima.
Ottantasei donne, diciannove uomini, sarà il conteggio finale, ma lo saprò dopo, perché quando lei è stata presa, io sono scappata, insieme a poche altre, per raggiungere Schignano e salire alla zocca.
È andata bene per un po’, poi la peste chiamata Giorgio è dilagata oltre Laino, ha infettato altri paesi e non è sfuggita la comunità sempre più nutrita di donne che stava là.
Sono arrivati, improvvisi come un temporale, come solo in montagna sanno arrivare in fretta. Non tutti però sono stati contagiati dalla follia, le persone buone ci sono sempre, in ogni situazione e nelle difficoltà le riconosci. Ci hanno avvertite, in tante siamo scappate disperdendoci. Altre stanche, sono rimaste.
Sono state prese.
Bruciate.
Prima accendevi un fuoco e l’aria si profumava di pino.
Ora accendi un rogo e l’aria puzza, si fa spessa, serra la gola, scende nei polmoni e resta lì, a ricordarti la colpa dell’omicidio o di essere ancora viva.
Rimarrà nella storia il fatto della zocca. Un giorno le cambieranno nome, sarà la Zoca di Strii, la conca delle streghe.
È tempo di tornare al momento presente, a seguire una processione che porta un uomo legato.
Capitolo tre
Ho capito dove stanno andando le persone col loro carico.
Sono diretti all’orrido sull’Ino, il fiume che, passando per il paese, gli dà il nome: Laino, là dove passa il fiume Ino.
Non capisco. Perché andare in quel posto? Eppure la via che hanno imboccato conduce lì senza dubbio.
È luogo di burroni, di scarpate. Nei secoli il fiume si è ridotto, ma un tempo doveva essere forte e molto più veloce. Ha inciso il terreno, con pazienza la pietra ha ceduto il passo alla sua tenacia e si è formato lo stretto canale, dalle rive scoscese, che chiamiamo orrido. È una gola buia, umida, profonda. Fa paura a guardarla dal basso, dall’acqua verso l’alto. Terrorizza rimirare il fondo, un salto verso l’abisso, il fiume e le rocce che affiorano.
La processione si ferma prima del ponte che scavalca il vuoto e conduce ai pascoli alti.
I portatori si liberano del carico.
Da dove sono non vedo quello che fanno, la portantina poggia a terra e la mole delle persone intorno mi preclude lo sguardo.
Non si è mai fermato il rosario, hanno scandito i loro passi con le preghiere che ora sono sottofondo per tutto quello che hanno deciso di fare.
Cerco e trovo una posizione migliore per seguire la scena, restando comunque isolata rispetto al gruppo. È da sola che lo vedo, lo scopo e l’epilogo di questo viaggio, ma non credo che avere accanto qualcuno diminuirebbe l’impatto della scena.
Alcuni uomini sollevano l’inquisitore e lo gettano nel vuoto.
Senza esitazioni, un gesto fluido, consapevole e definitivo.
Urla, padre Giorgio, vorrei tapparmi le orecchie, ma sono pesanti le mie braccia. Troppo presto il grido si interrompe, di colpo.
Finiscono anche le orazioni e c’è solo un vago rumore d’acqua che sale dal basso, si rinforza sulle pareti dell’orrido e porta tra noi un mormorio indifferente.
Due persone si staccano dal gruppo e si dirigono verso di me.
Sono uomini, ma solo quando sono abbastanza vicini li riconosco. Loro al contrario devono essere stati coscienti della mia presenza, perché si muovono sicuri. Mio padre e Pietro.
Mi abbracciano e mi conducono verso casa. Altri andranno a dire alle donne nascoste di tornare: è finita la caccia alle streghe con la cacciata del diavolo. Non colui che sono state accusate di adorare, ma quello umano, biondo, che nella promessa di salvarci ci ha uccise.
Eppure qualcuno non ha capito, non ha imparato e ha riprovato a far nascere un nuovo orrore.
Dopo un paio di mesi è giunto un altro prete. Non si sa da dove, non si sa chi lo ha chiamato, perché noi eravamo soddisfatti delle messe irregolari e delle prediche distratte di don Franco, che arrivava da Pellio quando poteva e se si ricordava.
L’uomo del Papa ha chiesto notizie di padre Giorgio, dove fosse, dichiarando di essere venuto per aiutarlo nella sua missione di fede, contro l’eresia e soprattutto il dilagare della stregoneria, dopo i preoccupanti rapporti ricevuti.
Non ci sono stati rosari né tempo perso. Gli uomini hanno mostrato a questo nuovo inquisitore dov’era finito il precedente. Un trattamento poco rispettoso, ma definitivo, chiara espressione del nostro pensiero riguardo alla loro gestione della fede. Non mi ricordo come si chiamasse, o forse non ha fatto nemmeno in tempo a dircelo.
Non ne sono arrivati altri.
Noi montanari siamo come i monti che ci circondano. Solidi, avvezzi alle asperità. Duri, ma capaci di insospettabili gentilezze. Diversi dagli altri, abituati alla solitudine. A volte buoni, a volte cattivi. Sappiamo sopportare, non ci piacciono i cambiamenti e ci adattiamo con il tempo. Siamo lenti anche nel prendere decisioni, ponderiamo e meditiamo, molti scambiano questa lentezza per stupidità e ci sottovalutano. A un tratto agiamo, e siamo come una valanga: inarrestabili e severi.
Non perdoniamo, ricordiamo e andiamo avanti.
Le vicende dolorose che ci hanno segnati e il loro finale ci ha fatto guadagnare un soprannome di paese. Ora siamo i maza prevat, gli ammazza preti.
Con noi non si scherza, ci considerano un po’ matti, forse hanno ragione, ma ci lasciano in pace.
Ora voglio solo vivere.
Sono Caterina,
l’erborista di Laino, il paese dei maza prevat.
The end
Che dire, cara Tatiana... Brava!
dalla vostra
Stefania Convalle
Racconto dell'incredibile pathos che ci trasporta dentro la storia di una vita così lontana da immaginare quasi che non sia esistita. Invece Caterina/Tatiana ci ricorda che il dolore e il coraggio hanno origini lontane. Complimenti alla vincitrice
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