Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

domenica 18 dicembre 2022

Numero 421 - Masterbook, leggiamo insieme il racconto secondo classificato - 18 Dicembre 2022


 

Oggi ci occupiamo del secondo classificato al primo Masterbook della storia. Come sapete si è appena concluso. 
Riporto quanto già detto in proposito nel precedente numero del blog (il 420) dove ho postato il racconto vincitore, in caso non abbiate letto. Insomma, è lo stesso "cappello" ;-)

Qualche mese fa mi era venuta questa idea, di creare un Premio Letterario un po' diverso - a eliminazione - attraverso varie Fasi e Prove diverse da quello che si è abituati a vedere.
Il risultato è stato eccellente: tanti partecipanti che si sono messi in gioco; tanto pubblico che ha partecipato anche al voto popolare; una bella condivisione tra le tante persone che amano scrivere e leggere. Il tutto in una bella atmosfera di competizione sportiva.
Desidero, dunque, ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa nuova mia iniziativa. 
Un ringraziamento particolare alla Giuria tecnica, composta dal mio Team di collaboratrici: Cinzia Baroni, Silvana Da Roit, Tania Mignani, Tiziana Mazza e Maria Rita Sanna. Con estrema dedizione e serietà hanno impiegato tanto del loro tempo per leggere, rileggere e scegliere - a volte con difficoltà - i testi, e quindi i concorrenti da mandare avanti. Hanno investito anche i personali sentimenti ed emozioni, con un grande senso di responsabilità. Sono davvero speciali e le ringrazio.
 
La mia menzione d'onore va a 
BARBARA ROMANO
per il suo percorso all'interno del Masterbook 
e per la penna talentuosa.
 
 
I risultati finali GIURIA TECNICA
 
 1° Classificata
Tatiana Vanini
 
2° Classificato
Stefano Buzzi
 
3° Classificata
Giuliana Degl'Innocenti
 
4° Classificata
Laura Tarchetti
 

Risultato finale VOTO POPOLARE
 
L'incipit che ha ottenuto più preferenze è stato quello di 
Tatiana Vanini
 
Complimenti alla vincitrice e a tutti gli altri finalisti, arrivare in finale in una competizione così strutturata è un ottimo risultato del quale andare orgogliosi!
 
In questo Blog riporterò i quattro racconti finalisti, nella loro interezza.
Li posterò uno alla volta perché sono lunghi e quindi meglio dare uno spazio singolo a ognuno.
Procederò in ordine di classifica e quindi ecco a voi, oggi,  il racconto secondo classificato.

LA SOLITUDINE NON È PER GLI ESSERI UMANI

 di

Stefano Buzzi


Uno. Cazzate

 

Anche oggi la sveglia suona alle cinque.
Anche oggi non serve per svegliarmi, ma solo per farmi capire che è ora di alzarsi e mettersi in moto per andare al lavoro.
Da un po' di tempo a questa parte non dormo, passo la notte a girarmi e rigirarmi nel letto avvolta nell’abbraccio dei fantasmi che occupano la mia mente. Proprio così: il lavoro che vorrei cambiare a tutti i costi, la biopsia di mio padre, la ribellione adolescenziale di Martina e, dulcis in fundo, Carlo.
Allungo il braccio e interrompo la suoneria pensando che è davvero assurda come situazione: nemmeno un pensiero per me, per la mia vita. Mi preoccupo per gli altri e offro ore di sonno come se fossi un distributore di energia.
Prego attaccatevi, ricaricatevi, succhiatemi quanto volete. Cazzate, sono stufa.
Mi volto verso Carlo che dorme beato, scorgo un mezzo sorriso sulle labbra che mi fa innervosire. Per lui è tutto tranquillo, per lui non ci sono problemi. A volte mi piacerebbe riuscire a prendere la vita come lui, ma poi penso che ridere come un matto davanti a un vecchio film di Stanlio e Ollio non può essere la soluzione. Dice che la vita è una sola e che non ci si può fare schiacciare da quello che succede. Io lo schiaccerei sotto un treno quando fa il paladino del benessere mentale e quando si erge a filosofo da quattro soldi.
Resto qualche secondo a osservarlo, ci vedo almeno mezza vita trascorsa al suo fianco. Siamo sposati da venticinque anni e stiamo insieme da trenta. Una relazione normale, serena, di quelle che si potrebbero leggere nel manuale della coppia perfetta, anche se di perfetto alla fine non ha niente. Come può essere giusta una vita senza intoppi? Mai un litigio serio e mai una crepa nel nostro rapporto. Cazzate anche queste, io dentro ho una voragine.
Ecco perché mi manda in bestia il suo sorriso stampato nel sonno: possibile che non si renda conto che non sono per niente felice di noi? Possibile non sentire il peso dei trent'anni insieme gravare sulle spalle e, peggio ancora, sull'anima?
Vorrei lasciarlo, ma per lasciarlo serve il coraggio e io non sono in grado neanche di voltare le spalle a un lavoro che non mi piace e che mi costringe a fare il bilancio della mia esistenza ogni volta che il sole inizia a far intuire il suo arrivo. Ogni mattina, come oggi, come ieri e come domani.
Decido che il momento dell’autoanalisi è finito, mi alzo.
Passo dalla camera di Martina e mi assicuro che dorma: la osservo macchiando tutto l'amore che sento per lei con due gocce di risentimento, dopotutto è anche lei a tenermi inchiodata in questa casa. Cazzate, e siamo a tre nel giro di venti minuti.
Vado in bagno e lo specchio, anche oggi, mi restituisce il volto di una donna che si sente la regina degli alibi, oltre che una pessima madre per i pensieri appena fatti davanti alla figlia avvolta nelle coperte. Passiamo la vita a cercare scuse per la nostra insoddisfazione quando basterebbe guardarci in faccia con lealtà e avere le palle di puntarci il dito contro.
Alle cinque e mezza esco.
Scendo al bar che c'è in fondo alla via e prendo il caffè. La mattina presto è la cartina tornasole delle persone: è raro vederle cantare felici di essere già fuori dal letto. Il dovere che vince sul volere.
Eppure a me piace, specie d'inverno, quando le strade sono ancora sommerse dal buio della notte che resta aggrappata al giorno che avanza. Mi piacciono le luci delle macchine che si incrociano e che vanno trasportando ognuna una storia. Adoro il silenzio del parcheggio quando arrivo al lavoro, quando ancora nessuna macchina si è imbucata alla festa. Arrivare così presto, ed essere la prima, mi fa sentire importante. Mi fa credere che la banca sia mia.
Ma sono solo cazzate. Vorrei con tutta me stessa restare a letto e, per Dio, dormire. Vorrei essere lontano duemila chilometri da questo edificio in cui tutte le mattine faccio le pulizie prima dell'apertura, vorrei non dover rendere conto alla famiglia, a me stessa, e poi vorrei che le mie giornate crogiolassero sotto il sole. Vorrei una vita senza il condizionale.
Pochi minuti dopo arriva Sergio, il mio collega. È lui il vero motivo di tanta fretta per arrivare qui, è lui l'unica cosa che mi piace davvero della mia giornata. Ogni mattina ci diamo appuntamento almeno venti minuti prima di iniziare il turno. Salgo sulla sua macchina e ci appartiamo nel parcheggio per i pullman che c’è appena girato l’angolo. È un ragazzo straordinario che vive in un mondo tutto suo, un mondo nel quale adoro immergermi ogni giorno per fuggire dai miei demoni. Ci entro lasciandomi andare tra le sue braccia e restando ad ascoltarlo incantata. Non abbiamo una relazione, tra noi non è mai successo niente in quel senso. Una volta soltanto ci siamo dati un mezzo bacio ed entrambi abbiamo convenuto che è stata una cazzata. Un apostrofo superfluo per il nostro rapporto. Stiamo bene quando siamo insieme. È la persona che meglio mi conosce al mondo – dopo mio padre – e quella che più mi comprende e mi capisce. Inoltre, soprattutto, è l'unico individuo a cui non posso raccontare storie. Posso mentire a me stessa e riuscire a cavarmela, ma non posso farlo con lui: dev'essere l'incarnazione della mia coscienza. Vivrei volentieri con Sergio, da amica, o comunque da persone che stanno bene insieme, senza per forza dover mettere un’etichetta al loro rapporto. Ogni tanto tra le sue fantasie con le quali mi rapisce, propone di rubare un po' di soldi in banca e poi scappare. Dice che potremmo fare come in quella serie TV spagnola, e allora si nomina professore e mi chiede col nome di quale città vorrei essere chiamata. Puntualmente non so rispondere, non mi sento legata a nessun luogo in particolare. Lui ride e io penso che è meglio ridere per La casa di carta che per Stanlio e Ollio. Sergio batte Carlo anche nelle sciocchezze.
Quando mancano cinque minuti all'inizio del turno mi suona il telefono. Emergo dalle braccia del collega e frugo nella borsa: mio padre. Cazzo, mio padre. Mi chiede se allora questo pomeriggio lo accompagno io al consulto col medico, gli dico di sì. Poi guardo Sergio negli occhi e non mi serve parlare.
 

Due. Cazzo
 
 «Tre mesi?»
«Sì, così ha detto l'oncologo.»
«Cazzo.»
«L’ho detto anch'io quando abbiamo abbandonato lo studio medico.»
«E adesso, che si fa?»
E adesso per te sarà facile, penso, butti su un film comico e te la spassi in poltrona.
In realtà Carlo sembra molto dispiaciuto, quindi non me la sento di rovesciargli addosso tutto il mio dolore.
Sono passati due giorni dal consulto, quarantotto ore in cui ho tenuto la drammatica notizia tutta per me e per mio padre. Ce lo siamo promessi, o meglio, sono io che ho promesso a lui, fin dalla prima visita, che qualunque diagnosi fosse arrivata avrebbe dovuto conoscerla. Abbiamo sempre criticato quelli che per proteggere il malato omettono di dire la gravità della situazione. Non so se sia giusto o sbagliato, noi abbiamo deciso così: onnipotenti davanti al nostro destino.
L'ha presa bene. Chissà, forse se lo aspettava. Certo, magari non proprio tre mesi, ma mio padre sembra sereno. 
Sono io che sono distrutta. 
L'idea di non vedere più fiorire il glicine nel giardino insieme a lui mi uccide, mi fa sentire una condannata a morte che va al patibolo. E invece il condannato è lui, che da due giorni sorride e vive come se nessuna frana fosse crollata sulla sua testa.
«Ma lui lo sa?» incalza Carlo, sottraendomi da questi pensieri.
«Sì.»
Non sono di molte parole, butto giù l'amaro che ci siamo versati per sorreggere questa conversazione. Mi viene in mente una vecchia pubblicità in cui si diceva il gusto pieno della vita, e sì, cazzo se è amara 'sta vita.
«Come l'ha presa?»
«Carlo, come vuoi che l'abbia presa? Lo conosci, sono settant'anni che digerisce tutto quello che gli succede senza mai avere una reazione.»
Tale padre, tale figlia. Cazzo.
«E tu, come stai?» dice allungando la mano verso la mia. Me la stringe, e col pollice accarezza prima il dorso e poi la fede. Avverto una sensazione di sicurezza, del resto trent'anni sono una cassaforte e sono io quella che ha dimenticato la combinazione per aprirla.
«Sono stanca, Carlo.»
Lo dico senza guardarlo negli occhi, il mio coraggio è ancora in vacanza. Guardo invece fuori dalla finestra: la sera cala e se ne frega dei drammi che vivono le persone. Domani arriverà lo stesso e domani dovremo comunque alzarci e vivere. Chissà perché nei momenti di dolore penso sempre a Vasco.
Le luci di un'utilitaria illuminano il nostro vialetto: è arrivata Martina.
«Chi è quel ragazzo che ha accompagnato a casa tua figlia?» dico per spostare l'attenzione dal mio sconforto.
«Sarà un suo amico, che importa? Adesso stiamo parlando di te, di come stai. Martina è grande, sa badare a sé stessa.»
«Cosa vorresti dire, Carlo? Che io non so farlo? Che mi serve un aiuto per reggere l'urto?» lo dico alzando la voce, quasi da isterica. Poi scoppio a piangere.
È evidente che non so farlo, che non so prendere in mano la mia vita, ma non voglio che sia lui a farmelo notare.
«Tu sei fuori, ma cosa stai dicendo?» dice venendomi incontro e stringendomi in un abbraccio.
La porta si apre e Martina entra annunciando il suo arrivo. Ci trova così, stretti in un tutt'uno per non far cadere le mie lacrime.
«Che schifo» dice. «Dai, non avete più vent'anni per fare queste cose davanti alla finestra.»
Ride, poi subito si accorge che dall'altra parte non arriva nessuna voglia di giocare.
«Che è successo, mamma, ma stai piangendo?»
«Il nonno sta morendo.»
Carlo si stacca e mi osserva: «Cazzo, che tatto.»
«Oh, ma cosa volete? Trovalo tu un modo più delicato per dire a tua figlia che presto avremo un posto in meno al pranzo di Natale» dico singhiozzando e lasciando uscire un pizzico di tutta la rabbia che ho dentro.
«Addirittura? Mamma, Natale è tra tre settimane, vuoi dire che… Che cosa gli è venuto per essere così messo male?»
Carlo va verso di lei che sembra rimasta pietrificata dalla notizia. Adesso è lei a giovare dell'abbraccio dell'uomo di casa. Un uomo buono, come negarlo. Forse troppo, è questo il punto.
«Ma no, amore. I medici hanno detto che il suo cancro è inguaribile, ma che con qualche terapia può stare con noi ancora per un po'» le dice, mentendo, per rassicurarla.
«Tre mesi del cazzo» dico io. Eccomi, mi presento, sono il Grinch.
«Però, Giulia, se fai così non ne veniamo a capo.»
«Carlo, non farmi incazzare. L'hai detto tu cinque minuti fa che è grande e sa badare a sé stessa. Poi, perché mentirle? Già che ci sei dille anche che arriva Babbo Natale a portarci la cura per il nonno» dico versando nel bicchiere due dita di amaro.
Martina ci guarda con sdegno. È possibile che stia pensando che facciamo più schifo adesso che stiamo litigando, di quando credeva stessimo amoreggiando approfittando della sua assenza.
Ci lascia con un mettetevi a posto che suona come il giudizio di chi ha capito tutto, nonostante la giovane età.
«Ecco» dice Carlo guardandomi negli occhi.
«Ha ragione.»
«Cosa vorresti dire, Giulia?»
Cosa vorrei dire? Vorrei dire tutta la verità, nient’altro che la verità, vostro onore. Vorrei sputarti in faccia tutto il mio dolore, la mia insoddisfazione e la mia voglia di andare via da te.
E invece dico: niente.
Solo una parola, senza alzare lo sguardo. Torno alla finestra e i vetri mi sembrano le sbarre di una prigione. Fuori, un cane fa i suoi bisogni su un muro, sembra fregarsene del guinzaglio che lo costringe a un percorso stabilito e deciso dal suo padrone. Come si fa ad abbandonarsi al destino? Ma poi, chi lo decide questo maledetto destino? Perché mio padre deve arrivare a settant'anni per sentirsi dire che i suoi giorni sono agli sgoccioli? Che senso ha una fine così? Che senso ha vivere con delle convenzioni imposte, se poi comunque tutto deve finire in malo modo?
«Giulia, Giulia...»
Carlo mi sta chiamando con un tono di voce gentile, amichevole. È un modo di fare che m'innervosisce, che fa precipitare il mio self control che ormai da qualche momento si è messo in sciopero.
«No, Carlo. Non è vero che non ho niente, sono stufa. Di te, di noi. Del lavoro, delle lune di Martina, delle tue risate in poltrona, di non dormire, di dover sempre sorridere per fare andar bene le cose e di dover perdere anche mio padre.»
Chiudo la bocca e mi accorgo che lo sto guardando negli occhi: la mia pentola a pressione è esplosa. Mi sento leggera, sto meglio, ora però dovrò essere capace di accettare le conseguenze di quello che ho detto. Mi aspetto un colpo basso da parte di mio marito, non può incassare per sempre. 
E invece sì. 
Si avvicina di nuovo e mi mette una mano sulla spalla. Appoggia il suo ventre alla mia schiena e mi bacia sul collo. Poi avvicinando le labbra all'orecchio mi dice che sistemeremo tutto e che è logico che io stia così: la morte di mio padre è l'alibi per le sue mancanze. Pensa che io abbia esternato questa insoddisfazione perché sono sotto shock per ciò che è successo l'altro giorno allo studio medico. No, cazzo, non è per niente così. Glielo dico di nuovo e questa volta sottolineo che è da tempo che penso queste cose.
Lui si allontana, si dirige verso il bagno.
E adesso?
Adesso verso un altro amaro, lo bevo in un sorso soltanto. Mi ci vuole una bella sbronza. L'ultima volta che mi sono ubriacata è stata tanti anni fa, quando ero giovane e la vita aveva ancora tutto da darmi. Quel tutto che non ho mai preso.
Decido di seguirlo, lo trovo sul balconcino che fuma, resto di sasso: lui non fuma.
«Da quando fumi?» gli chiedo con un tono di voce che sembra un rimprovero.
Si gira, ha gli occhi lucidi.
«Cosa pensi, Giulia? Che sei solo tu ad avere contro l'universo? Tengo un pacchetto di sigarette nascosto nella scatola del rasoio elettrico da sempre, come un ragazzino di sedici anni. Se voglio che Martina non faccia cazzate devo essere coerente anche con i comportamenti. Dobbiamo esserlo io e te, insieme. Non fumo mai, solo quando ne sento il bisogno o nelle occasioni importanti. L'ultima l'ho fumata quando mi hanno dato la promozione al lavoro, cinque mesi fa.»
Carlo, sei tu? Non sembra per niente l’uomo che ho sposato. Sarà l’effetto dell’amaro?
M'invita a prendere la giacca e a raggiungerlo fuori, poi mi passa la sigaretta.
«Ma io non fumo. Ho smesso quando abbiamo scoperto di aspettare Martina, ricordi?»
«Dai, cosa vuoi che ti facciano due tiri? Poi con tutto l'amaro che stai bevendo stasera, non sarà mezza sigaretta a farti del male.»
Accetto il suo invito. Mi sembra di essere tornati ai tempi di quando ci siamo conosciuti e abbiamo fatto crescere la nostra storia d'amore. Glielo dico.
«È questo quello che mi manca, che ci manca. Un momento così folle. Carlo, non facciamo più niente che mi entusiasma.»
Annuisce. Possibile che anche lui stia vivendo un periodo di dubbi e perplessità e non dica niente? È davvero così bravo a mascherare la sua infelicità?
Un aereo passa sopra le nostre teste, guardo con invidia la scia di luci che imbratta il cielo vestito dei colori della sera. Lui lo percepisce.
«Vai pure» dice prendendomi la mano: con la voce mi lancia il bastone, coi gesti mi tira il guinzaglio.
«Dove?»
«Dove vuoi, Giulia. Se qui non ti senti felice, vai pure dove vuoi» dice senza voltarsi verso di me e senza rancore. Quest'uomo mi ama davvero e io, oggi, non so che farmene del suo amore.
«Non è così semplice, Carlo. E poi, adesso, quello che voglio io deve aspettare, non posso stravolgere la vita, voglio esserci per mio padre. Esserci al meglio che posso.»
«Allora vai da lui, trasferisciti. Goditi il tempo che vi rimane al cento per cento. Quando se ne andrà non tornerà più. E poi magari stare un po' di tempo lontano da me può aiutarti a schiarire le idee.»
Cazzo se mi ama davvero.
«Ma non sei arrabbiato? Ti ho appena detto che sto pensando di lasciarti, Carlo.»
Questa volta si gira e mi fissa negli occhi, mi prende la testa tra le mani.
«Sì che sono arrabbiato, sei una stronza. E vaffanculo, Giulia. Però penso che la cosa giusta da fare sia quella di lasciarti il tempo per avere un bel ricordo degli ultimi giorni di tuo padre. Ti chiedo solo di non prendere decisioni affrettate riguardo a noi. E di fare Natale insieme, come una famiglia, anche tuo padre ne sarebbe felice.»
Ha ragione.
«E a Martina cosa diciamo?» lo chiedo affondando la testa contro il suo petto, dimostrando di essere una contraddizione continua. Una indecisa cronica che così facendo tiene in vita la sua speranza di risolvere il rompicapo del nostro matrimonio.
«Che vuoi passare col nonno le ultime settimane della sua vita.»
Le ultime settimane della sua vita: una verità che torna a rimbombarmi nella testa. Lascio di nuovo che le lacrime facciano il loro corso sulle mie guance.
«Non lo so se sono così forte, Carlo. Non ce la faccio a dirgli addio.»
«Non dirglielo, fallo vivendo. Fallo onorando il tempo che ti è stato concesso. Cazzo, io mio padre l'ho salutato una sera dopo la cena e la mattina dopo non c'era più. Si può morire così, senza dirlo a tuo figlio?»
Ha ragione, ancora.
Rimaniamo per qualche istante in silenzio, il freddo di dicembre si arrampica sui nostri volti. È una sensazione piacevole, una serata di emozioni ritrovate. Non ero così complice di mio marito da tempo. Forse davvero serve trovarsi con le spalle al muro per scoprire di avere ancora qualcosa da dire e da dare.
«Non hai un amante, vero?»
Finalmente, Carlo. Finalmente sento le tue palle suonare. E la cosa mi piace, mi dà un sussulto.
«No, non ce l'ho. In questo momento ci mancherebbe anche un'altra persona da gestire.»
Mi guarda cercando nei miei occhi la verità.
«Non ti ho mai tradito, Carlo.»
Mi crede. Dovrei dirgli di Sergio? No, con lui non è mai successo niente, non è mica il mio amante. È una persona speciale, un segreto tutto mio. E poi il fatto di non averci mai fatto nulla mi fa sentire la coscienza pulita nei confronti di mio marito. A volte penso che un rapporto così cervellotico, come quello che ho col mio collega, sia più grave e pericoloso di una avventura fondata sul sesso, ma poi mi convinco che non è così. Non c'è niente di male ad avere un amico. E allora perché nasconderlo? Perché appartarci ogni mattina e non vivere il rapporto alla luce del sole?
«Se scopro che mi tradisci le cose cambiano.»
Lo guardo facendogli capire che sto con lui: se deve finire, deve finire in lealtà.
La porta del bagno si apre alle nostre spalle: Martina.
«Cavolo, si congela qui dentro. Mamma, papà, cosa state facendo? Ci manca solo che vi mettete a farvi le canne di nascosto come dei ragazzini.»
Scoppiamo a ridere.
«No, Martina. Stiamo solo prendendo freddo come due stupidi» dice Carlo.
«E allora facciamoli diventare tre, questi stupidi» dice lei prima di andare a prendere il giubbino e raggiungerci sul balconcino.
Sotto di noi brillano le luci dell'albero di Natale del nostro vicino. Tiro un forte sospiro e mi riempio d'aria che sa di famiglia. Non li ho mai sentiti così vicini: penso sia un regalo di papà. Questa sensazione piacevole non cambia le cose, ma serve a stare bene stasera. Mi sembra un bel passo avanti.
«Mamma, domani voglio andare a trovare il nonno. Andiamo?»
«Certo amore. Viene anche papà» dico senza pensarci e alzando lo sguardo verso mio marito.
Carlo dice di sì, chiudendo gli occhi.
 
 

Tre. Cazzuta
 
 
Mio padre se n'è andato una mattina di fine febbraio, una di quelle con la neve sporca ai bordi delle strade e il vento gelido che profuma ancora d'inverno. Io sono rimasta nel suo appartamento fino a marzo inoltrato: il glicine del suo giardino è fiorito anche se lui non c'era più.
Ha passato due mesi sereni, poi, sistemate tutte le cose che c'erano da sistemare, si è lasciato andare al destino nel giro di una manciata di giorni. Si è arreso al brutto male senza opporre resistenza, senza lasciarsi rovinare e, soprattutto, senza soffrire. Gli sono grata per la facilità con cui ha retto lo scorrere dei giorni verso la fine e per la saggezza con cui mi ha condotto fino alla sua assenza.
La mattina di Natale, mentre Carlo e Martina salivano le scale per raggiungerci a pranzo, mi ha guardata e mi ha chiesto di non buttare tutto in vacca. Pensavo intendesse di lasciare la tristezza fuori dalla porta e di vivere quel giorno senza pensare che sarebbe stato l'ultimo insieme, invece no. Voleva dire di più.
L'ho capito il giorno che è morto.
Le ultime parole che ha pronunciato sono state Carlo e Martina, la mia famiglia. Poi ha girato la testa di lato e si è spento facendo un sorriso. Chissà cosa mai l'avrà fatto ridere. Chissà cosa succede in quel momento. Io gli ho stretto la mano e poi l'ho baciato sulla fronte, pur sapendo che sarebbe finita così non ero per niente pronta a gestire il dolore.
L'ultimo suo pensiero è stato per me. Ha lasciato questa Terra desiderando che la figlia non facesse cazzate e che fosse al sicuro all'interno della famiglia che lui ha sempre trovato perfetta per lei. Se ne è andato proteggendomi come ha fatto per tutta la vita.
In questi due mesi mi ha raccontato tante cose che non conoscevo, mi ha perfino confessato che una volta ha tradito la mamma. Mi ha detto che l'amore è come un cerotto ed è per quello che il loro matrimonio è rimasto in piedi, penso non si sia mai perdonato per quella sbandata.
Io non credo nell'amore che guarisce le ferite, lo vedo più come un grosso letto corredato di piumone sotto il quale rifugiarsi per sentire il tepore che fa bene al corpo.
Nell'ultimo mese, quello in cui ho vissuto da sola nella sua casa, ho pensato molto alla mia vita. Non che prima non lo facessi, ma ora ho cambiato il punto di osservazione. Merito del glicine che mi osserva dalla finestra e della natura che fa il suo corso tornando a vivere dopo la brutta stagione.
Ho deciso che torno a vivere, o, per lo meno, ho deciso che voglio provarci.
E così, oggi torno a casa, torno da Carlo e Martina.
Sono una persona come tante altre, ho una vita regolare che non è certo incline ai colpi di scena. A pensarci bene, tre mesi fa non avrei mai pensato di restare, e invece… Bisogna essere cazzute per provarci, per avere la caparbietà di fare andar bene le cose. La felicità è roba per egoisti, l'amore della famiglia un valore a cui è tanto difficile rinunciare.
Devo questa presa di coscienza a mio padre. Non ci sono più i suoi occhi, non ci sono più le sue mani che mischiano le carte, non c'è più il suo pollo con i funghi, ma c’è la presenza dei suoi insegnamenti dentro di me. Non è facile, ma me la farò bastare.
Così come mi farò bastare una figlia lunatica e un marito che non perde mai occasione per dimostrarmi il suo affetto: non è rassegnazione, è un volere dire grazie alla vita che me li ha fatti incontrare. Del resto senza di loro sarebbe tutto molto più triste, e poi la verità è che li amo anch'io, a mio modo, ma li amo anch'io.
Ci si accorge sempre del valore delle persone quando per qualche motivo queste vengono meno.
Carlo, prima di Natale, mi ha convinta a lasciare il lavoro. Ha detto che non era un problema, che per il momento avrebbe pensato lui a sostenere economicamente la famiglia. Ha voluto che dedicassi tutto il tempo possibile a mio padre e a me stessa. A risolvere il rebus in cui mi ero infilata. Dopotutto una sua vendita equivale a chissà quante mie ore con lo straccio in mano, quindi da quel punto di vista non ci sono state difficoltà. Per il mio orgoglio invece è stato un disastro.
Ho fatto molta fatica a dirlo a Sergio, dirgli che avremmo perso il nostro rapporto quotidiano. Ci sono diversi modi di perdere le persone e io, negli ultimi mesi, ne ho sperimentati tre ben differenti. Salutarsi, sapendo che un determinato rapporto sta per finire, fa male: sono le relazioni con le altre persone a tenerci in piedi. La solitudine non è per gli esseri umani. Di tutta risposta Sergio si è dimostrato felice per la mia decisione e ha detto che sono una donna con le palle, cazzuta.
In realtà non ci siamo persi di vista, anzi se in qualche modo mi sento come il glicine, è anche per merito suo. La settimana dopo il funerale di mio padre è venuto a trovarmi e mi ha tenuta stretta tra le sue braccia per venti minuti senza dir nulla. Poi mi ha confessato di aver lasciato anche lui l’agenzia per la quale lavoravamo in banca.
Mi ha proposto di metterci in proprio. Io e lui, insieme, con un’attività tutta nostra.
Ho accettato sentendo sbocciare i primi fiorellini della primavera che germoglia dentro di me.
Ne ho parlato con mio marito e alla fine gli ho presentato Sergio, ora che il nostro rapporto non è più nell'ombra è ancora più vero. Le cose belle hanno bisogno di prendere la luce per brillare. Si sono piaciuti subito e ora Sergio è il mio socio in affari: così abbiamo anche trovato un titolo per il nostro rapporto.
L’impresa si chiamerà La casa di carta profumata, faremo servizi di pulizia nei condomini e nelle abitazioni di privati. Lui è sempre il professore, io ancora non ho trovato la mia città. Ci ho provato con glicine, ma lui dice che non vale e che non devo aver fretta di trovare il mio posto nel mondo.
Oggi il mio posto è la casa, la mia casa.
Oggi riparto anche qui.
Aprire un'attività tutta nostra ha sfamato il mio orgoglio e mi è servito a far convogliare tutti i pensieri sulla famiglia e sulla decisione da prendere. Ho messo insieme tanti elementi: i suggerimenti di mio padre, le attenzioni di Carlo delle ultime settimane, il distacco da Martina che sarebbe davvero un vuoto difficile da colmare e infine i miei sentimenti, quelli che contano davvero. Mio marito ha tantissimi difetti, ma anch'io non scherzo. E allora ci proviamo, proviamo a giocare col destino della nostra relazione.
Arrivo a metà pomeriggio e Carlo mi aspetta sulla porta. Mi guarda con gli occhi pieni di lacrime e dice che la mia decisione l'ha stupito, mi dava per persa.
Gli rispondo ribandendo il concetto di non essere una donna da colpi di scena, lui mi dice che ho torto. In effetti negli ultimi mesi ho stravolto più volte la vita: me ne sono andata di casa, ho lasciato il lavoro, ho detto addio a mio padre, mi sono inventata una mia attività e, infine, sono tornata a casa pronta a riparare tutti gli spifferi del nostro stare insieme. Ha ragione Sergio: sono cazzuta.
Carlo mi bacia e io lo lascio fare. Le sue labbra sanno di bentornata, l'intensità del bacio il luogo esatto in cui devo stare.
Ho forse ritrovato il mio posto nel mondo? Chissà, a volte serve allontanarsi un po' per sentirsi più vicini.
Chiedo se Martina è in casa, ho tanta voglia di vederla. La raggiungo nella sua camera e lei mi salta in braccio felice. La scusa del voler stare col nonno per gli ultimi mesi della sua vita, con lei non ha retto: ormai è una donna che conosce e capisce le dinamiche che caratterizzano i rapporti degli adulti. Mi domando se saprà reggere alle tempeste che la travolgeranno, mi rispondo che ci sarò ogni volta che ne avrà bisogno. Essere qui è la scelta più giusta, lavoro ai fianchi sulla mia convinzione.
Mi chiedono se ho voglia di andare al ristorante, ma io ho voglia di rimanere qui. Di sentire l’odore di queste mura, di respirare l’ossigeno della mia famiglia. Se penso che solo quattro mesi fa quest'aria mi strozzava, mi viene da ridere. In quattro mesi non si risolve la vita, i sentimenti non funzionano certo con l'interruttore, però si può prendere coscienza di quello che sarebbe giusto fare e si può provare a farlo. Ci vuole più coraggio a restare che ad andare, no? In qualche modo mi fa sentire una donna nuova, una debuttante alle prese con i primi giorni del suo percorso.
Porto le mie cose in camera e penso che, senza forzare i tempi e senza avere fretta, ho voglia di ritrovare il piacere con Carlo. Lo vedo arrivare riflesso nello specchio dell'armadio, mi abbraccia da dietro. Ora lo vorrei. Ma non ho il coraggio di dirglielo, mi sembra una richiesta troppo pretenziosa per una che è appena tornata a casa dopo averlo abbandonato per mesi.
Mi giro verso di lui, i nostri corpi aderiscono. I nostri occhi si perdono in un concentrato di gioia, paura, rancore, amore, desiderio e incertezze. Nelle prossime settimane ci sarà molto lavoro da fare per restaurare la nostra storia. Io sono pronta.
Mi dà un piccolo bacio sulle labbra e poi m'invita a fare tutto con calma, a prendere tutto il tempo che mi serve. Gli rispondo che non ho molta roba da sistemare, che due valigie sono ancora a casa di mio padre. La risposta più semplice, per ora.
Si allontana e mi lascia sola. Prima di infilare il corridoio, si affaccia alla porta della camera e dice: «Se vuoi, io sono sul balconcino del bagno a farmi una sigaretta.»
È un’occasione speciale.
 

Bravo, Stefano, un racconto pieno di emozioni.

Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle
 
 
 
 

1 commento:

  1. Quando le lacrime scendono senza arrestarsi, significa che l'emozione è arrivata fin sotto la pelle. Complimenti all'autore per la capacità introspettiva di livello.

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