Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

venerdì 21 novembre 2025

Numero 480 - Seconda tappa della gara 800 Metri di Parole - 21 Novembre 2025


 

Prosegue con successo la gara 800 Metri di Parole.

Questa fotografia è quella a cui dovevano ispirarsi i concorrenti per scrivere un racconto, o una poesia, o anche un monologo.
Qui di seguito i testi che vi suggerisco di leggere con partecipazione e attenzione perché poi potrete votarli.

COME SI VOTA?

SEGUITE BENE LE ISTRUZIONI SE VOLETE CHE IL VOTO SIA VALIDO.


1) DOVRETE SCRIVERE IN UN COMMENTO NEL BLOG I TRE TITOLI DEI TESTI CHE AVRETE PREFERITO, INSIEME AI NOMI DEGLI AUTORI, così non sbagliamo.

2) DOVRETE METTERE IL VOSTRO NOME E COGNOME, in questo caso il voto non è segreto, ma è pubblico, e quindi è bello firmarsi. 
NON SARANNO PRESI IN CONSIDERAZIONE VOTI ANONIMI O INCOMPLETI.

3) POTRETE VOTARE FINO A MERCOLEDÌ 26 NOVEMBRE, ORE 20.

E adesso, ecco i testi nell'ordine con cui mi sono arrivati.

ATTRAVERSO IL VETRO

Tatiana Vanini

 

Fuori fa freddo e il buio è già sceso. È la disperazione che mi spinge a uscire, perché se resto ancora in casa so che non combinerò nulla e il tempo stringe, indifferente all’ansia che sale e morde lo stomaco.
Sono tornato a casa dal lavoro e non le ho trovate, mia moglie e nostra figlia. Qualcuno le ha rapite e non chiede soldi, vuole qualcosa che non posso dargli. Sono stato poeta, ma da anni non scrivo, non pubblico, perché la vena della creatività si è inaridita e nulla riesce più a riaccenderla. Eppure, il folle che ha preso la mia famiglia, da me pretende ciò che non possiedo più, una poesia, entro mezzanotte, o le ucciderà.
Nel mio vagare per strade vuote e vicoli oscuri, una finestra illuminata mi chiama. Attraverso la strada e come un ladro mi avvicino, accosto il viso al vetro, scruto l'interno e mi nutro di ciò che vedo. Una scena banale, semplice, che per qualche istante spazza via ogni preoccupazione e la sento, l'idea che nasce. La contemplo, poi l'abbraccio, mi siedo per terra e da una tasca recupero uno scontrino. Scrivo di getto, sul retro di questo indegno foglio, la preghiera che mi sgorga dal cuore.

Da fuori, il mondo trattiene il fiato,
mentre dentro una stanza tiepida
due bambine ridono piano,
come se la sera potesse rompersi
al primo sussurro troppo forte.
 
Una lampada pende come una luna domestica,
sospesa sopra i loro segreti:
illumina mani che volano sul viso,
occhi che brillano
di un'allegria leggera e invincibile.
 
Sul tavolo, tazze e ciotole
restano lì, dimenticate,
testimoni silenziosi
di un momento che vale più del tempo.
 
E chi guarda attraverso il vetro
vede soltanto un frammento,
un istante salvato dal buio,
ma abbastanza per ricordare
che l'infanzia è una stanza calda
in cui la felicità siede e senza motivo
ride.
 
Rido e piango. Mi alzo e ancora guardo attraverso il vetro, lo sfioro con le dita in un ringraziamento che per sempre rimarrà muto e sconosciuto a quelle bimbe che, ignare, hanno salvato la mia. Magari un giorno si incontreranno, giocheranno insieme, senza sapere che le loro esistenze si sono legate in modo tanto stretto.
Corro a casa a leggere le istruzioni, per consegnare così com'è la poesia che è pegno e riscatto.
Volo leggero, scomparse ansia o paura sono euforico, perché in questo momento il mondo mi sembra di nuovo semplice, pieno di possibilità.
Spero solo che la promessa fatta dallo sconosciuto rapitore venga mantenuta, perché ho creato di nuovo, scriverò ancora e mai dimenticherò che l'arte può davvero salvare la vita. 

§§§


AL TAVOLO, IERI
Tania Mignani 
 

C'erano due risate,
minuscole e leggere,
rimbalzavano sul tavolo
come biglie di sole.
Riflesse nel vetro
piegavano il tempo,
con le mani fragranti di merenda
e gli occhi pieni di futuro.
 
La luce della lampada
cadeva morbida,
testimone silenziosa
di un istante.
 
Ora siedono ancora lì,
forse allo stesso tavolo,
il legno ha impresse le loro impronte,
i bordi sono più scuri,
il silenzio pesa un po’ di più.
 
Ridono ancora,
inseguendo un’eco:
la corsa di ciò che è stato,
la vertigine di ciò che resta.
 
E in quell'attimo sospeso
si riconoscono bambine,
per un istante soltanto,
prima che la vita
richiami ognuna al proprio passo.

§§§
 
IL PANETTONE
Luigi Besana
 
«A San Biass sa benediss la gola e anca el nass» disse la nonna entrando in cucina in quel giorno di Febbraio di tanti anni fa.
Io e mia cugina Lucia eravamo sedute al tavolo dopo la colazione, come al solito ci scambiavamo impressioni vissute durante i giorni di scuola e al proverbio espresso in dialetto dalla nonna cominciammo subito a ridere. 
A quel tempo, parlo dei primi anni sessanta, in casa nostra fra le colline della Brianza, il vernacolo ricco di saggezza e di poesia era ancora la prima lingua parlata. 
La nonna arrivò di mattino molto presto per portarci in chiesa, dove il Prevosto incrociava le candele, appoggiandole delicatamente sulla gola dei fedeli. Come consolazione c'era il panettone, quello conservato dal giorno di Natale. Allora non esisteva il “compri uno, ne prendi due”.
«Ma il panettone cosa c'entra con il mal di gola?» chiedemmo noi con dubbio e curiosità.
La nonna rispose con un sorriso accorto.
«Ora ve lo racconto. Una pia donna, non chiedetemi dove e quando, aveva sfornato un dolce natalizio e si recò in convento per pregare frate Desiderio di imporre le mani e benedire il profumato dolce. Essendo il frate occupato in novene e celebrazioni, invitò la donna a lasciare l'involucro in custodia e di tornare più avanti. Passa un giorno, ne passano due, la buona comare non ricompare, ma appare la tentazione: frate Desiderio consuma boccone dopo boccone l'intero lievitato. Fino a quando il giorno di San Biagio la donna si ripresenta a ritirare il suo pandolce benedetto. Ma, benedetto sì, benedetto no, el panetun se trova no.»
All'espressione colorita della nonna, ripresero le nostre risate. Intanto la nonna continuò la narrazione.
«Il povero frate, sapendo di aver lasciato l'ultimo rimasuglio del pane benedetto in fondo alla dispensa e già pronto a chiedere umilmente perdono, all'aprire della madia, ecco comparire due panettoni interi al posto dell'unico boccone originale. Miracolo, fatalità, provvidenza? Non è dato sapere. Il fatto vero, è che da quel giorno San Biagio sarà il Santo protettore della gola, e forse, visto il finale prodigioso della storia anche dei golosi.»
Ricordo sempre quel giorno, il 3 Febbraio di ogni anno, o quando incontro mia cugina e fra di noi rivivono le emozioni della nostra fanciullezza, rievocando la piccola cucina, in quel mondo spensierato che mai tornerà.
 
§§§


DALLA FINESTRA
Graziella Braghiroli

Avvolta nella vestaglia pesante che usa le sere d'inverno, Anna guarda fuori dalla finestra. Nel palazzo di fronte, le luci sono accese e in un appartamento al secondo piano due bambine sono sedute a un tavolo con davanti due scodelle vuote, testimoni di una merenda consumata da poco. Stanno ridendo, la bionda e la mora, chissà cosa si sono raccontate di tanto divertente.

Anche lei  e  Giulia erano così. Bastava un niente a farle ridere come pazze.
Giulia.
Avevano condiviso tutto, loro due: gli scarabocchi dell’asilo, i compiti e le interrogazioni, la prima sigaretta tossita fino a soffocare, le festine nei garages sotto casa. E poi, quel giuramento pronunciato con tutta la solennità dei loro tredici anni: Saremo amiche per sempre, sempre, sempre! Avevano anche sputato per terra per sancire quel loro patto e si erano abbracciate forte. In quel momento erano convinte che davvero nessuno le avrebbe mai separate.
Il tempo aveva mantenuto la promessa, fino a quell'estate, in Grecia. Un viaggio economico, tenda e infradito, e quella sensazione di libertà che si attaccava alla pelle come il sale di quel mare cristallino.
Era stato lì che avevano incontrato Franco, il bello dal  sorriso di chi sa già  troppo e la strafottenza dei ventenni che si credono adulti.
Giulia ne era rimasta affascinata e nella loro amicizia si era formata una crepa sottile. Non era solo gelosia da parte di Anna, era anche paura. Aveva scoperto che Franco si drogava e non voleva che Giulia seguisse le sue orme.
Ma non c'era stato niente da fare. Uno spinello, poi un altro, poi qualcosa di più. Anna aveva visto l'amica scivolare sempre più veloce verso quell'abisso senza fondo che l'avrebbe inghiottita.
L'ultima volta che si erano incontrate, Giulia le aveva promesso che sarebbe entrata presto in una comunità. Anna le aveva afferrato le mani, così bianche e sottili, e l'aveva stretta forte a sé.
Ce la farai, lo so che ce la farai! Aveva mormorato.
Giulia aveva sorriso appena, ricambiando l'abbraccio.
Il telefono aveva squillato tre giorni dopo, all'alba. Poche parole per un dolore infinito.

Anna inspira lentamente e torna a guardare le bambine. Stanno confabulando, le teste vicine, a raccontarsi chissà quali segreti.
La donna sente qualcosa sciogliersi nel petto, una tenerezza improvvisa, un dolore quieto, come se, da quella finestra illuminata, il passato fosse tornato a salutarla.

§§§

UN SILENZIO IMBARAZZANTE
Maria Rita Sanna

Mi indispettisce vederle tanto vicine, a parlarsi con quei gesti delle mani come a lanciare in aria le loro acute sorprese. Cosa avranno da dirsi se sono solo bambine!
Mario, invece, le adora. Quando sono insieme prepara spesso dei popcorn, come oggi, per farle ridere nel vedere quei fiocchi bianchi volare.
Sono uscita dalla cucina, non sopporto nemmeno il disordine che lasciano.
In giardino mi avvolge il silenzio del pomeriggio invernale. Dalla finestra percepisco i movimenti delle piccole dentro la cucina, mi avvicino e le guardo di nascosto, come se fossi una ladra.
Una di loro è mia figlia e vederla felice insieme alla sua amica dovrebbe restituirmi serenità. Purtroppo non avverto alcun sentimento buono.
Sbuffo. Il nervoso mi ingarbuglia la mente, mi scaglia davanti agli occhi l'immagine di me e mia sorella Giulia, adolescenti. Sedute sul letto a gambe incrociate, consumavamo lo spuntino di mezzanotte, sgranocchiando fette biscottate con cioccolata. Smorzavamo parole e risate per non svegliare i nostri genitori. Ridevamo per sciocchezze, perfino per la buffa descrizione del suo nuovo ragazzo.
Lo voglio conoscere, le avevo detto.
Quando, dopo alcune settimane, l'avevo incontrato ne ero rimasta folgorata. Mi ero innamorata a prima vista e niente riusciva a togliermelo dalla testa.
Quel ragazzo è diventato mio marito, Mario.
«Lena, vieni. Le bambine ti cercano.»
Mario mi ha raggiunto fuori.
«No, Mario. Non mi va. Anche loro un giorno saranno rivali. Non voglio che si vedano più, non voglio che tra loro nasca un'illusione simile alla mia.»
Mi guarda corrucciato, non capisce, non gli ho mai detto questo mio pensiero. Tempo fa, quando avevo rivelato a mia sorella il mio amore per Mario, lei non mi aveva più parlato. Mario, dal canto suo, le aveva detto che per lei non provava un forte sentimento; tutto si era risolto. Questo è quanto mi aveva riferito lui. 
Ma da quel giorno tra me e Giulia si era alzato un muro.
Spiego a Mario i miei tormenti, ma continua a non capire. Per lui tutto è passato, dimenticato. Per me, no. Non ho mai dimenticato lo sguardo ferito e amaro di Giulia.
«Lena, non puoi reprimere la loro gioia. Guardale, sono innocenti e felici, scommetto che parlano di magie e principesse.»
Mario è calmo, cerca di convincermi. Forse anche lui è avvolto da quella felicità infantile che io non sento più. Continua a ripetere che da parte mia è stato solo un malinteso. Mi parla di Giulia, di essere certo che nessun muro si sia innalzato tra noi, che lei non nutre alcun rancore.
«Come fai a dirlo? Non ti ho mai rivelato i miei tormenti. Eppure… Sai cosa passa per la testa di Giulia?»
Mario non risponde, non mi guarda. Rimane in silenzio.
Guardo le mani delle bambine volare come farfalle impazzite. Scendono dalle sedie e si rincorrono, giocano.
Le loro risate arrivano fino a noi, a spezzare un silenzio imbarazzante. 
Un silenzio che non ho mai avuto il coraggio di affrontare, ma ora mi si rovescia addosso come un macigno.

 §§§


ECO DI RIME E DI VITA
Adelia Rossi

Ho deciso! Per Natale voglio regalarti una poesia. Non un'ode qualunque, bensì qualcosa che ogni giorno ti ricordi come eravamo. Tu e io: bambine d'altri tempi, con indosso come unici indumenti i nostri sogni da realizzare. Riflessi di un mondo interiore che ancora non conoscevamo. L'unica cosa che ci faceva sentire protette. 

Ed ecco la nostra storia... Anche se con poca memoria te la vengo a raccontare,  volevo tu sapessi che della nostra amicizia nulla potrò scordare.
Ho conservato  nell'archivio della mia fantasia il gusto inedito di scrivere una poesia. Solo in rari momenti trovo la giusta combinazione per far sì che ogni parola s'incastri alla perfezione. Oddio, pure la rima ne esce avvantaggiata. Oggi pare essere il giorno prediletto.
Stasera si svolgerà una notte bianca, ma non fatta di intrattenimenti, musica e cibo da mettere sotto i denti, ma sarà una notte dove il sole  mai si stanca di pavoneggiarsi e, come narra il grande Fëdor Dostoevskij,  resta  l'illusione  dell'amore tra un mondo fatto di sogni  e la realtà.
Però noi non siamo lui e questa è un'altra storia. Un ricordo da tenere stretto  stretto, nel cassetto della memoria.
Avvicinati, te la sussurro in un orecchio. Su, dai, non ridere come allora quando sedute una accanto all'altra attendevi con impazienza il momento per ascoltare ciò che la mia fantasia aveva generato, per poi sghignazzare come una matta, fino a perdere il fiato.
Ecco, lo sapevo, volevo ostentare indifferenza, concentrarmi sulle emozioni per dare forma a un ricordo che mantenesse la nostra storia di vita, ma sento che non ce la potrò mai fare senza prima chiederti perdono per averti lasciata andare via, senza peraltro poterti salutare. Aspettami  nell'altrove.
L’amica di sempre, l’altra metà del tuo cuore.  

 §§§


UN RICORDO APPENA SFORNATO
Chiara De Mas


Era un pomeriggio come un altro e mi godevo quei cinque minuti di tranquillità tra una faccenda e l'altra, quando la mia attenzione venne attratta da dei rumori, ovattati dalle porte chiuse e dalle pareti sottili: strani tonfi e risatine sospette.
Varcai la soglia della cucina, attirata da strane scie bianche sull'uscio, e venni sorpresa da una scena caotica ma tenera: mia figlia e la sua amichetta del cuore piene d'entusiasmo e senso di colpa, intente a preparare una torta con un gusto nuovo. Sospirai teneramente, poi mi sciolsi in un sorriso: come potevo smorzare tutto quel fervore?
«Vediamo un po’ a che punto siete… Cos’avete messo dentro fino a ora?»
«Miele, yogurt alla fragola e un po’ di palline al cioccolato, quelle della colazione!»
«E anche lo zucchero!» intervenne tutta orgogliosa l'amichetta.
«Beh, direi che è già quasi perfetta! Che ne dite se mi unisco a voi?»
Fu così che il mio tranquillo pomeriggio si trasformò in una degna puntata di un improbabile reality show culinario. Le bambine seguirono ogni indicazione e ogni suggerimento con dedizione, con la luce negli occhi di chi crede che il risultato sarà qualcosa di unico.
Dopo un'oretta di attesa, immersa in una deliziosa fragranza che si espandeva in tutta la casa, era giunto il tanto atteso momento.
«Ragazze! Venite ad assaggiare la vostra torta!»
Sentii dal piano superiore dei passi trotterellare rapidamente, prima sopra la mia testa, infine giù per le scale.
«Eccoci!»
Quando conficcai il coltello nella torta, la lama si appannò per il calore che ancora emanava e sprigionò, se possibile, un profumo ancora più invitante.
Ma qualcosa non le convinceva, i loro sorrisi si tramutarono presto in smorfie interrogative.
«Sa di torta normale!»
«È uguale a tutte le altre!»
Una risata mi uscì spontanea.
«Secondo me, invece, è una torta super speciale: mentre stavate inventando la ricetta, avete anche creato un nuovo, bellissimo ricordo.»
Le ragazzine annuirono ridendo, ma senza capire fino in fondo. Le lasciai così ai loro giochi e ritornai alle mie faccende domestiche. Uscii per portare fuori la spazzatura e, passando davanti alla finestra vidi la mia bambina e la sua amica intente a confidarsi segreti che non dovevo sentire, piegate in un mondo tutto loro. Quel bellissimo quadretto mi riportò alla mente un nome, un volto, una risata lontana. Un leggero nodo mi si strinse attorno alla gola.
In quell’attimo capii che il tempo non restituisce ciò che porta via, ma che alcuni momenti, quelli semplici, quelli che sembrano niente e invece sono tutto, possono continuare a vivere in noi, se abbiamo la sensibilità di riconoscerli mentre accadono e la saggezza di custodirli con cura.

§§§


PER SEMPRE
Silvana Da Roit


Un attimo prima che il giorno perda i suoi contorni, in quello che era il mio rione si accendono come fari le finestre che danno sul cortile. Vengo sempre qui, non so dire neppure il perché, forse sono i miei piedi ad avere memoria e non mi conducono mai troppo lontano. Al piano terra si è appena illuminata una cucina e risate infantili attraversano le pareti per farmi festa. Ci sono due bimbe al tavolo per un piccolo spuntino, intente a farsi le smorfie. Una bionda, l’altra mora.
Due bambine come eravamo noi, io bionda e tu mora. Ricordi? Le mani paffute a soffocare il riso, perché si rideva di tutto e guizzi di gioia ci riempivano gli occhi. Hai perso, hai riso per prima, ti dicevo. È solo perché sembri una scimmietta, e subito mi abbracciavi e profumavi di biscotti. Dopo la merenda ritornavo a casa, dovevo solo attraversare il cortile, pochi metri per entrare nel mio portone; tu mi guardavi dalla finestra e io mi sentivo al sicuro, dicevi che, se avessi incontrato il babau, saresti venuta a salvarmi.
Non l’hai fatto.
Sono passati anni e anni, ma ho ancora voglia del bacio della mamma, di un gioco nuovo, delle scarpette con la punta da ballerina che non ho più usato. Sai, ho fatto in modo di non incontrarti, perché chi non mantiene le promesse non merita niente, ma questa sera è diverso, questa sera la nostalgia della vita è grande e ho bisogno di sentire il tuo odore anche se di donna matura.
Mi siedo accanto a te, mentre stringi il bavero sotto al mento. Dai un’occhiata in giro, lanci lontano la cicca di una sigaretta, tiri fuori le chiavi dalla borsa e per un attimo sorridi al portachiavi con la faccia da scimmietta.
Non mi hai mai dimenticata, sono rimasta piccola ma lo capisco. Lo capisco che sei la mia amica per sempre.

§§§

Anche questa volta siamo arrivati alla fine. Ora tocca a voi, leggere e votare secondo le indicazioni che vi ho detto all'inizio di questo numero del Blog.
Nei prossimi giorni aggiungerò anche l'immagine che rappresenta com'è la situazione "visiva" di questi 800 metri. A che punto sono i corridori? Seguite il Blog e lo scoprirete.


Alla prossima
dalla vostra 
Stefania Convalle



 

 

 

 

 

 

 

 



mercoledì 19 novembre 2025

Numero 479 - Conosciamo meglio Maria Rita Sanna, concorrente di 800 metri di parole - 19 novembre 2025

 


Inauguriamo una serie di interviste agli otto concorrenti della gara di scrittura 800 Metri di Parole.
Oggi conosciamo meglio Maria Rita Sanna, che conosco da svariati anni, ma non voglio aggiungere altro perché sarà lei, attraverso le risposte alle mie domande, a raccontarvi la sua storia.



In che momento della tua vita è entrata la scrittura?

R.: Dopo la scomparsa di entrambi i miei genitori ho sentito l’esigenza di riportare in vita i loro ricordi, le tradizioni, le superstizioni, tante cose legate alla vita e soprattutto alla loro terra, la Sardegna. Desideravo tornare nel passato. Al principio ho sperimentato alcuni lavori culinari che faceva mia madre, come la pasta fresca e i dolci; poi, tra una ricetta e l’altra ho scritto dei racconti, più che altro erano pensieri, e questo mi dava una grande emozione. 
Ho sperimentato la poesia in dialetto, tanto era forte il desiderio di sentire ancora una volta quella parlata, e questa mi ha dato una grande motivazione. Mi appassionava ancora di più rendere indelebili i miei pensieri. Mi sentivo vicina a loro.



Quando hai capito che scrivere era diventato una parte di te?


R.: Sembra strano, ma in quell’anno, il 2016, c’è stata una sinergia di forze che hanno convogliato i miei desideri in un’unica direzione: Stefania Convalle. 
L’avevo conosciuta alcuni mesi prima sui social, avevo acquistato i suoi libri; poi, è stata come una pista libera in cui mi sono sentita partecipe di un mondo misterioso e allo stesso tempo fantastico: la scrittura. Mi sono messa in gioco e ho corso. Ho partecipato a ogni sua iniziativa, a cominciare dal suo Premio Letterario Dentro L'amore fino al laboratorio si scrittura creativa da lei condotto. E lì, sì che i ricordi dei miei genitori come dell’infanzia si sono fatti vivi, in ogni riga.



Se pensi al PRIMA e al DOPO rispetto al momento in cui hai cominciato a scrivere in modo professionale, com’è cambiata la tua vita?

R.: La mia vita scorre allo stesso modo di prima, le cose materiali non sono cambiate. Ciò che è cambiato e mi ha trasformata interiormente è stata la frequentazione del laboratorio di scrittura che, come dico spesso, è stato e lo è ancora un percorso di psicoanalisi che tocca le corde profonde dell’anima. Scrivere di sé o scrivere immedesimandosi in altri personaggi, vivere vite altrui, approfondire caratteri, che siano antipatici o lodevoli, è una scoperta che lascia sorpresi, come vedere la vastità del mare e non sapere dove finisce: si ha sempre la curiosità di esplorarlo.

 



Di cambiato c'è il modo in cui scrivo, più professionale.
Le emozioni che provo durante la stesura di un testo sono le stesse che provavo prima, la febbre da scrittura è la stessa che ho provato nel 2016, quando ho elaborato il racconto per il Premio Letterario di Stefania Convalle, la scadenza era imminente.


Scrivere ha cambiato il tuo modo di guardare ciò che ti circonda?

R.: Spesso nei miei racconti è presente la Natura e ciò che mi ha sorpreso è stata proprio la naturalezza con la quale le sue forze entrano nella scrittura. Per quanto riguarda i caratteri umani ho scoperto, anzi, sperimentato che certi muri si possono abbattere anche solo con un soffio: basta soffiare. Nel senso che è necessario un minimo di introspezione per capire le dinamiche del cuore.




Nelle tue opere la tua Sardegna è sempre tra i protagonisti: parlaci dell'anima di questa terra.

R.: Nascere sardi è come nascere dalle profondità della Terra, inteso come pianeta. Mi sentirei legata in qualsiasi posto andassi, non ci sarebbe possibilità di trapianto. La comunità tiene alto il valore delle tradizioni, in tempi odierni si cerca di portarli alla luce il più possibile, e questo riconduce alle nostre radici, alla profondità delle origini. Anche io, del resto, ho voluto ritornare alle mie origini riportando in vita dei ricordi. Nell’anima della mia terra ci sono rocce scavate, ci sono pietre a formare torri, e altre pietre a formare tombe; e poi c’è l’acqua che scorre inesorabile e si deposita in pozzi in cui la luna adora specchiarsi. 
Tutto questo è lì da migliaia di anni e noi discendiamo dalle stesse persone che si rifugiavano in questi templi, poggiamo le mani sulle loro stesse impronte.
Si potrebbe dire che noi sardi abbiamo un’anima granitica, intrisa di mitologia e forza della comunità.  

 


Nel mondo editoriale odierno, essere una scrittrice che vive su un’isola è un limite o un vantaggio?


R.: È un limite. Guardandomi intorno ho potuto valutare che se vuoi farti conoscere devi avere gli agganci giusti, ma forse è così dappertutto. Credo che ci sia molta diffidenza verso il nuovo – anche questo è un aspetto della mentalità di noi isolani  verso ciò che viene proposto come semplice novità. Ho constatato che i lettori sono spesso convogliati su firme solide, su Case Editrici consolidate o, addirittura, territoriali.
Eppure… Nel mio piccolo angolo di scrittrice sarda ho avuto le mie belle soddisfazioni, ho trovato lettori davvero appassionati, sia nell’isola che in continente. Il valore della mia maturità, alla fine, si misura nel fatto di avere la passione per la scrittura e un supporto a 360 gradi dalla mia CE, che non è sarda, ma di Monza, Edizioni Convalle.  


Quando pensi a te scrittrice, cosa sogni?

R.: Emozioni per tutti. Di quei sogni di grande divulgazione che ho costruito al principio di ogni pubblicazione  a oggi sono tre e la quarta è al termine – è rimasto il sorriso della consapevolezza che non tutte le persone accettano una storia bella, ma molte percepiscono l’emozione che scaturisce da essa.

 


Grazie a Maria Rita per essersi raccontata col cuore, come lei sa fare e come sa scrivere.

Ricordiamo le sue pubblicazioni personali: 


https://edizioniconvalle.com/product/25219761/pane-e-fragole-978-88-85434-19-6



https://edizioniconvalle.com/product/25219791/mandorla-amara-978-88-85434-43-1



https://edizioniconvalle.com/product/26153063/la-colpa-dei-padri


Biografia di Maria Rita Sanna

Maria Rita Sanna è nata a Cagliari nel 1964 e vive a Quartu Sant’Elena. Partecipa da vari anni al Premio Letterario “Dentro l’amore” dove nel 2021 si è classificata al primo posto nella sezione dedicata a “Cibo e letteratura” col racconto “Polvere”. Al Concorso Letterario Pierpaolo Fadda, nel 2021, si è classificata al quarto posto, sezione racconti.
Nel 2018 ha esordito con la pubblicazione della raccolta di racconti “Pane e fragole”, Edizioni Convalle, dedicati alla cultura e alle tradizioni della Sardegna.
Nel 2019 esce il suo primo romanzo “Mandorla Amara”, Edizioni Convalle, che ottiene nel 2020 il marchio della Microeditoria di qualità.
Nel 2021 partecipa alla pubblicazione del libro “La vita in uno scatto”, raccolta di racconti e foto.
Nel 2023 pubblica il suo secondo romanzo, "La colpa dei padri".
Da vari anni segue il Laboratorio di Scrittura creativa di Stefania Convalle e, dopo un percorso nel settore dell’editing con la stessa CE ha conseguito l’attestato di Editor. 
Attualmente collabora con Edizioni Convalle.

Per oggi passo e chiudo :-)


Alla prossima
dalla vostra 
Stefania Convalle


 

venerdì 14 novembre 2025

Numero 478 - Prima tappa 800 Metri di Parole - 14 novembre 2025


La gara di scrittura 800 Metri di Parole è partita e ci ha già regalato otto racconti - quelli della prima tappa - davvero belli e vari. 
I concorrenti dovevano scrivere un racconto, o una poesia o un monologo, o quello che pareva a loro,  ispirandosi all'immagine che vedete e facendo entrare nel proprio testo qualcosa dell'immagine stessa.
Qui di seguito gli 8 racconti che ho inserito in base all'ordine di arrivo nella mia casella di posta.

Ora entrate in gioco voi, cari lettori.

Leggete e votate, scrivendolo in un commento a questo numero del blog. 
Dovrete esprimere 3 preferenze, titolo e autore, e, se volete, anche spiegare il perché della scelta. Agli autori fa piacere ricevere la motivazione del voto. 
Avete tempo per votare fino a mercoledì 19 novembre, ore 20, in modo tale che io possa fare i conteggi e comporre una prima classifica parziale.
Mi raccomando: votate non per simpatia, ma dimenticatevi chi ha scritto cosa, votate quello che vi avrà più colpito, emozionato, e che vi abbia lasciato qualcosa, e che sia - infine - collegato al dipinto di cui sopra.

IMPORTANTE: QUANDO COMMENTATE, METTETE ANCHE IL VOSTRO NOME. Grazie.

TRA ME E IL SILENZIO 

 
Che silenzio. Sono ferma sulla soglia tra due stanze. Il mio respiro sembra enorme in questo spazio che chiamo casa. Quando cammino, i passi scandiscono la solitudine nella quale sono confinata.
Sfioro la parete con una mano. Pezzi di intonaco si sfaldano e cadono a terra. I quadri di antenati defunti da tempo, il pavimento a scacchi bianco e nero, tutto qui manifesta gli anni che ha. Anch’io li mostro, nel procedere lento, nelle tante soste, nei ricordi che mostrano foto di un lungo passato a fronte di un misero futuro.
Un tempo, su questo pavimento, ho imparato a giocare a scacchi. Noi piccoli, fratelli e cugini, seguivamo le indicazioni di mio padre, impersonando un pezzo del gioco ognuno. Io adoravo fare il cavallo. Rivedo quei giorni, odo le risate. Si dice che il passato si rimembri con nostalgia, perché si cancella il brutto e si tiene solo il bello di ciò che è stato. Non è vero. Io ricordo anche i pianti, le liti e mi mancano anche quei momenti, quando non ero sola, dove non c’era questo dannato silenzio.
Nel mio peregrinare raggiungo il divano rosso ai piedi delle scale. È l’oggetto più nuovo della casa, preso da mio nipote per un Natale di otto anni fa, l’ultima volta che l’ho visto. Non mi siedo, è troppo basso per le mie ginocchia, non riuscirei più ad alzarmi.
Piano, tenendomi alla ringhiera di ferro battuto, inizio a salire i gradini. Vado verso l’alto, seguendo la spirale della scala. Mi ricorda la coda del gatto che veniva a trovarmi. Ogni sera si presentava alla porta. Lo facevo entrare, gli davo da mangiare e le sue fusa mi confortavano. È una settimana che non viene più. Mi fermo a prendere fiato, approfittando della vista sul giardino dalla finestra che illumina queste scale. Lo cerco tra l’erba incolta e le piante inselvatichite, ultima speranza di scoprire che quel nobile animale non mi ha dimenticata, trovandomi inutile e un peso come quelli che dovrebbero essere qui e non ci sono. Non c’è.
Continuo l’ascesa. I miei passi lasciano impronte nella polvere dei gradini. Da quanto non salgo di sopra? Non me lo ricordo più, come non rammento l’ultima volta che qualcuno mi ha fatto visita. Passo davanti al ritratto di non so chi, nel silenzio rotto dal mio respiro affannato e raggiungo il ballatoio.
Sono alla stessa altezza del lampadario. Un tempo sontuoso, ora ha poche gocce di cristallo appese alla catena brunita. Un altro vecchio oggetto, con la lampadina fulminata, che non serve a nulla. Come me. Continuo a fissarlo mentre mi sporgo in avanti, perdo l’equilibrio e volo di sotto.
Il tonfo turba la quiete per pochi istanti. Mentre il buio mi avvolge, il silenzio urla la sua vittoria e io ho il tempo di pensare a quanto tempo passerà prima che mi trovino.
    


UNA STRANA NEBBIA

Manuel sbuffò e, per l'ennesima volta, maledisse la sua imbecillità topografica, come la chiamava lui. Si era perso un'altra volta. Doveva incontrarsi con gli amici in Plaça Reial per un giro di tapas e sangria, ma la nebbia calata all’improvviso sul Barrio Gotico aveva trasformato le stradine tortuose in un labirinto di ombre che rimbalzavano sui muri.
Girò un angolo, poi un altro, e invece del brusio dei locali trovò solo silenzio. Le luci  giallastre dei lampioni tremolavano riflettendosi sul selciato lucido.
Un portone attirò la sua attenzione. Imponente, di legno scuro, intagliato con motivi floreali e aperto quel tanto da mostrare un leggero bagliore all’interno. Manuel esitò, ma sperando di trovare qualcuno che gli indicasse la strada, entrò.
Si ritrovò in un atrio ampio, dal soffitto altissimo, le pareti, scolorite e scrostate,  raccontavano di un passato splendore. Il pavimento era una scacchiera di marmo annerito dal tempo. Un logoro divano arancione contrastava con i mobili scuri e i quadri con ritratti che sembravano fissarlo. Tutto era immerso in una luce fioca color miele, in cui danzava una miriade di granelli di polvere.
Davanti all’ingresso, si ergeva  una scala monumentale con la balaustra nera e lucida come ossidiana.
«Manuel!»
Si immobilizzò. La voce era sottile, quasi un soffio e sembrava venire dall’alto.
«Manuel, vieni.»
Il cuore gli batteva forte, ma qualcosa in quella voce lo spinse ad andare avanti.
Salì due gradini, poi uno e un altro ancora. A ogni passo la luce cambiava, sembrava più  calda, più viva.
Quando raggiunse il pianerottolo, vide una porta socchiusa. 
La voce sembrava provenire da lì. Appoggiò la mano sulla maniglia e spinse piano.
Vide una stanza identica all’atrio da cui era venuto: stesso divano, stessi quadri e stessa scala che scendeva nel buio. Solo che. ora, sui mobili c'erano tante fotografie con un solo soggetto, lui, Manuel.
Il ragazzo rabbrividì.
«Sei tornato, finalmente» mormorò la voce dietro di lui.
Si voltò.
Davanti a lui una ragazza con un lungo vestito bianco e grandi occhi scuri lo stava fissando.
«Ti ho aspettato tanto, Manuel.»
«Ma io non ti conosco, non so chi sei.»
Lei sorrise.
«Dicono tutti così, la prima volta.»
Manuel sentì la paura attanagliargli lo stomaco. Guardò verso la scala, e vide che era  scomparsa. Una strana nebbia si stava addensando nella stanza e con terrore Manuel capì che non avrebbe mai trovato la porta per uscire da quel posto.
Fuori, Barcellona continuava a vivere tra le risate nei bar, il suono delle chitarre e il profumo del mare che saliva dalle Ramblas.
Quando la nebbia si alzò, del portone non c’era più nessuna traccia.
Al suo posto una grande M rossa spiccava sul muro umido e scrostato.
 

 IL VORTICE DELLA FOLLIA
 
Ho odiato questa casa come si odia il peggiore dei nemici. Sono ritornato dopo tanti anni, ma desidero vederla distrutta.
Mi guardo intorno, la testa gira seguendo le maledette scale che portano al primo piano. Sento lo stomaco contrarsi, sale la rabbia e il ricordo di mia sorella che volava giù. La mia vita di bambino è stata una prigione dentro queste mura dalle finestre sbarrate, ma dopo la sua morte è stato un inferno. Anzi, follia.
Per tutti sono stato io, per gelosia, a farla cadere dalle scale. A niente sono valse le urla disperate per dimostrare la mia innocenza.
La rabbia, l’odio, recluso in questa casa sfortunata, hanno plasmato la mia adolescenza, fino al giorno in cui sono scappato maledicendo tutti, perfino la discendenza tanto agognata dai miei genitori. Mai avrei fatto proseguire una stirpe tanto funesta.
Dalle pareti scrostate appare a sprazzi il colore rosa adorato da mia madre; gli affreschi sulle volte a botte e a crociera cadono a pezzi, come le anime dei dannati che da secoli abitano qui. Nessuno dei miei avi è stato sano di mente. Loro sono i colpevoli di una mentalità sbagliata e giudicante; io, ingenuo, amavo mia sorella e mai le avrei fatto del male.
A volte le disgrazie accadono per scatenare una reazione, per fare cambiare binario a una vita predestinata. Mi sento così in questo momento, arrivato alla follia ma consapevole.
Distruggerò quel poco che è rimasto.
Lascio esplodere la rabbia.
Il tavolino all’ingresso è tarlato, lo distruggo subito. I cuscini rossi del divano li strappo con furore, polverizzo l’imbottitura logora.
Via, tutto sul pavimento, su quelle ipnotiche mattonelle dai rombi bianchi e neri, che spesso vorticavano insieme alle scale nei miei sogni peggiori.
Ho l’affanno per tanto impeto, ma non ho ancora finito. Sulla parete, sopra lo scrittorio c’è lui, il ritratto di mio padre, che desiderava l’erede. Ha avuto me, ma non avrà nessun altro dopo.
«Che tu sia maledetto, vai in mille pezzi!»
L’urlo mi eccita.
Il ritratto dell’altra è lungo la scalinata. Salgo in pochi secondi, ho l’amaro in bocca. Eccola, sicura, austera.
Hai ucciso la mia bambina, sei un mostro!
«Non è vero! Non è vero! Anche tu, vai in mille pezzi, maledetta!»
Ho rotto tutto. Sono soddisfatto… Ma…
«Chi mi chiama?»
Sento una voce…
«Chi  c’è? Eveline, sorellina, sei tu?»
«Robert, sono io, Ann. Calmati, ti prego.»
Ann, mia moglie. Sapeva dove trovarmi. Sono esausto da tanto furore. Mi lascio cullare come un bambino, lei mi dona l’abbraccio che non ho mai avuto. Mi rendo conto di avere un aspetto animalesco.
«Robert, alzati, andiamo via. Dimentica tutto. Da oggi avrai una nuova vita. Sono incinta. Avremo un figlio, capisci? Ti restituirà l’amore che desideri.»
La notizia mi sconvolge, piango. Le mani tremano. Le accarezzo i capelli, le guance, le labbra. Poco alla volta la visione di mia sorella svanisce. Ora vedo Ann, una luce nuova nei suoi occhi.
Mi sollevo, la stringo forte.
Scendiamo insieme le scale.



IL SOSPIRO DELLA REGINA
Chiara De Mas
 
 
Il trillo del telefono squarciò d’un tratto il silenzio e Lidia zoppicò fino alla cornetta.
«Ciao mamma.»
«Ciao cara, come state?»
«Stiamo tutti bene, ma siamo in pensiero per te. Natale si avvicina e quest’anno vorremmo che lo passassi qui con noi.»
«Io e tuo padre abbiamo festeggiato ogni cosa sempre e solo sotto questo tetto. Da qui non mi muovo.»
«Papà è morto da quasi dieci anni! Guardati, mamma! Vuoi restare sola in quella villa in rovina, a vivere nel passato piuttosto che qui con noi. Odierebbe vederti così.»
Ci fu un momento di silenzio, in cui rimbombarono gli scricchiolii del vecchio edificio.
«Ci rifletterò, ma ne dubito!» gridò infine e agganciò il telefono con forza.
Restò immobile un istante con la mano ancora sulla cornetta, poi tornò verso il salone. L’aria sapeva di cera e di chiuso.
Lidia poggiò la schiena stanca sul divano tappezzato da fantasie antiche, verde e avorio, sotto la grande scala a chiocciola che saliva verso il buio del piano superiore. Quelle stanze, un tempo piene di voci e passi, ora sembravano trattenere solo il peso del silenzio.
Quella villa imponente a volte faceva sentire Lidia e suo marito distanti, ma quel piccolo angolo sotto la scala, raccolto, intimo, profumava di casa. Li riuniva ogni sera: le partite a scacchi serali erano il loro rituale.
Soffiò via con il poco fiato rimasto la polvere dalla scacchiera e prese la regina nera: al contatto con il marmo freddo venne accarezzata da un brivido. Quei pezzi erano levigati dai tocchi e dai ricordi.
All’inizio giocava spesso contro lo spettro di suo marito, ma più il tempo passava, più l’eco del silenzio si faceva pesante.
Quella sera decise di giocare un’ultima partita.
Per ogni pezzo che avanzava sui quadranti, poteva immaginare i suoi commenti ironici e le risate soffocate per non disturbare la notte.… 
«Eri molto più bravo di me» sussurrò al vuoto. Alcune lacrime le inumidirono lo sguardo. «Arrivavamo sempre a questo punto. Dicevi che avevo vinto anche se in realtà la partita non era semplicemente terminata. Un vero re non sacrifica mai la sua regina, dicevi sempre.»
Si guardò attorno. Osservò le pareti scrostate e portatrici dei segni del tempo. Non avevano più i colori vivaci e brillanti di un tempo, proprio come il suo riflesso allo specchio.
«Mi manchi tanto… Vorrei che fossi qui, ma non ci sei più…»
Inspirò lentamente, poi osservò le sue dita nodose e incerte sacrificare la regina. Il pezzo scivolò fino al centro della scacchiera.
«È ora, amore mio» sussurrò.
Scacco matto.
Rimase immobile per qualche istante, si trascinò alla finestra e l’aprì: il vento gelido di dicembre entrò portando con sé l’odore della legna bruciata nei camini accesi. Le luci delle case lontane, per un istante, le parvero calde e invitanti.
Lidia richiuse la finestra gonfia d’umidità e si fece strada lentamente verso il telefono. 


ASPETTANDO GODOT
 
Mentre superavo gli otto gradini che portavano all’ingresso del gerocomio, pensavo a mia madre.
Rammentavo, più di ogni altra cosa, il suo passatempo preferito: la lettura, e poi quell’aria svagata, a volte un po’ tesa, quasi aspettasse qualcosa di nuovo, e qualcosa negli anni era sempre successo. Io avevo preso moglie e qualche anno dopo era mancato mio padre, lasciandola sola in una grande casa, con l’unica passione per i suoi libri. Quando si era ammalata seriamente, ha pianto un poco, confusa e stanca, ma si è lasciata condurre in silenzio e di buon grado nella residenza per anziani.

Bussavo contro il legno della porta. Entravo senza aspettare il permesso di nessuno. Mia madre stava seduta sulla sedia a rotelle, una coperta sulle gambe di fronte alla parete. Anche stavolta il suo sguardo era rivolto al quadro appeso. Aveva  una fissazione per l’immagine raffigurata, ovvero la riproduzione di un’opera di un artista belga dell’Art Noveau: Lechanteur che, usando una tecnica fotografica abbinata all’intelligenza artificiale, creava nei suoi quadri un’atmosfera che sembra trascendere il reale.
«Ti ho portato il giornale, mamma. Come stai?»
Sapevo che non mi avrebbe risposto in modo coerente, ma trattarla con rispetto era per me una dimostrazione di affetto.
«Godot? È arrivato Godot? Sei tu Godot?»
«No, mamma, non sono Godot. Sono Giorgio, tuo figlio.»
«Giorgio! Siediti qui, fammi compagnia. Aspetto Godot, il mio caro amico dai tempi della scuola, deve svelarmi il segreto del quadro, è molto preparato su ogni cosa, sono certa che lui sa cosa c’è in cima alla scala, quale misteriosa stanza nasconda quella casa tanto strana. Come succede in uno specchio, deve esserci un passaggio tra il mondo del reale e l’altrove. Un occhio magico in grado di rilevare ciò che è invisibile. Godot, lo confermerà.»
Io mi sedevo accanto a lei, e intanto pensavo a quel suo personaggio, il ricordo di un vecchio amico uscito dalla mente, associato alla reminiscenza di una memoria, scaturita da un libro letto in una lontana giovinezza.
Comunque, le sue condizioni erano migliorate da quando si era messa ad aspettare Godot.
«Godot? È arrivato Godot? Giorgio caro, anche tu aspetti Godot? Stai andando via? Non pensi che potrebbe arrivare quando tu non ci sarai?»
«No, mamma. Quando arriverà sarò qui con te, non ti devi preoccupare.»

Per un momento la mamma tornava serena. Io facevo qualche passo per la stanza, spingevo la sua carrozzella fin sul terrazzo e mi mettevo a leggerle qualche pagina del giornale. Ma poco dopo era nuovamente vinta dal suo incantesimo.
«Presto arriverà Godot, Giorgio riportami al quadro, ai piedi della scala, voglio essere pronta per vedere, per svelare il mistero.»
La guardavo sorridendo, le prendevo la mano.
«Figliolo, se dovessi andarmene prima che arrivi Godot, aspettalo tu per me, digli che ho aspettato tanto, e che lasci a te ogni segreto.»
Mia madre smetteva di parlare e poco dopo si addormentava.
Io andavo via camminando all’indietro, senza far rumore, lasciando la porta socchiusa, per quando sarebbe arrivato Godot.


LA CASA
Tania Mignani
 
Chiusa la porta alle spalle, si fermò a osservare il grande salone. L’imponenza quasi maestosa, che un tempo lo aveva intimorito, aveva lasciato posto alla decadenza di muri scrostati e ammuffiti. La chiamavano da sempre la casa omettendo, per pudore, l’attività che vi si svolgeva all’interno. I vecchi divani, dove un tempo le ragazze sedevano intrattenendo i clienti, ricoperti da una spessa coltre di polvere, ospitavano intere famiglie di topi. Disabitata da lunghi anni, il proprietario, stupito dalla sua offerta, si era  liberato in tutta fretta, per una cifra quasi impensabile, di quel rudere. 
Raggiunse la scala alla sua sinistra, ne ammirò la forma sinuosa e poggiò timoroso un piede sul primo gradino tenendosi ben saldo al corrimano arrugginito. C’era stato un tempo in cui scendeva scivolando dalla cima fino in fondo. Sua madre, preoccupata, gli gridava di stare attento, mentre le ragazze ridevano divertite. Era nato lì, in quella casa, il luogo meno adatto a crescere un bambino, eppure, quelli erano stati gli unici anni in cui si era sentito amato. Coccolato e viziato dalle ragazze ma, soprattutto, amato dalla madre. Giovane e bellissima, era arrivata alla casa quasi al termine della gravidanza. 
L’ultima volta in cui l’aveva vista era riversa in una pozza di sangue con la gola tagliata. 
Ricordava di aver volato scendendo dalla scalinata, con la gola spalancata in un urlo che non riusciva a uscire. Da quel momento non aveva più proferito alcuna parola. La sua vita era stata un peregrinare da un istituto all’altro, alternato a famiglie affidatarie indifferenti ed estranee. Il suo solo intento, tornare nell’unico luogo in cui aveva conosciuto l’amore. Muto, ma con un acume fuori dal comune, aveva raggiunto un inaspettato successo, garantendosi una vecchiaia agiata e tranquilla, abbastanza ricco da permettersi di acquistare la casa senza alcun problema. Il suo passo mentre avanzava gradino dopo gradino, pareva diventare sempre più leggero, le pareti sembravano aver riacquistato il loro intonaco originale, tutt’intorno poteva udire le risate delle ragazze, la  musica del grammofono e l’odore dei sigari dei facoltosi clienti. Sull’ampio pianerottolo si affacciavano molte porte, a passo sicuro raggiunse l’ultima sulla sinistra, quella più appartata, quella in cui sua mamma abbandonava il trucco e le calze a rete per dedicarsi solo a lui. 
L’aprì, il suo cavallo a dondolo e la palla rossa erano intatti nell’angolo di fianco al lettino. 
La sua voce dopo oltre settant’anni trovò la libertà tanto agognata.
«Eccomi, mamma, sono tornato.»

MASCHERE


Ecco, si apre il sipario!
Sento il cuore scoppiarmi nel petto. Mi sembra di essere tornata bambina quando, da prima della classe, la maestra non perdeva occasione di lodarmi davanti ai compagni portandomi come esempio e finendo sempre per interrogarmi per prima.
Basta chiacchiere, ora si va in scena.  
Mi piace esibirmi. Voglio imparare a crescere. Voglio imparare come si diventa grandi. Voglio divertirmi!
Sì, ma sono anche timida, e poi a quale pubblico potrò presentarmi? Amici, parenti, che poi magari  ridono pure di me?
Fare teatro è davvero elettrizzante, voi che ne dite? Oddio, mi sto già montando la testa. Ho pure le traveggole. Vedo la grande scala a chiocciola ricoperta da un tappeto rosso fiammante e io che scendo mentre rimbombano gli applausi di un pubblico inesistente. Non sono persone quelle che ho davanti, ma leoni in gabbia pronti a sbranarmi alla prima falsa battuta.
Mi piacciono immensamente i bambini ed è per loro che voglio recitare. Potrei farlo mettendo in scena una nuova me, perché no? Sarò un clown! Più ci penso e più sento il solletico salirmi dai piedi fin su nella schiena, poi nel petto fino a raggiungere il cuore. Toc... Toc... Toc... Che emozione!
Vediamo un po’, oggi voglio provare a raccontarmi. 
Ho sempre pensato di avere dentro tanti suoni e colori, ma non sempre mi riesce  di dimostrarlo agli altri. La voglia di esprimere i miei sentimenti resta bloccata  dentro, in questa parte sinistra dove il ritmo di una melodia spesso mal diretta dagli eventi mi tiene in vita.
Ho sempre viaggiato come una vela strappata dal vento sin da quando ero bambina. Dentro la valigia dei ricordi ho rinchiuso  tutti i miei sogni. Quanta gente è passata davanti ai miei occhi! Gente che ride, che piange, ma ora vedo solo bambini. Il sorriso dei bambini è come un balsamo che entra nel mio cuore a placare timori e paure. Mi dà forza. Noi Clown non siamo persone come tutti gli altri, siamo come bambini smarriti che inseguono un sogno. Noi siamo sempre esistiti e il tempo non ci ha nemmeno sfiorati. Siamo eterni come i frutti selvatici, come l’erba dei sentieri che nessuno ha mai calpestato. Per noi, dopo la vita esiste un altro mondo. Noi Clown siamo quelli che riempiamo di risate il cielo.
Ecco, già immagino quel grande giardino chiamato Eden. Tanti volti diversi, alcuni meno noti e altri conosciuti. Tutti con una strana espressione, un’attesa. Ognuno di noi con una piccola grande storia dentro. O­ra non provo più imbarazzo, è come se a un tratto  dentro di me prendesse forma la voce delle emozioni. Chi sono veramente io, mi chiedo.
Spero davvero che un giorno, togliendo le nostre maschere, scopriremo un volto nuovo e in questo volto troveremo l’innocenza che avevamo al principio del mondo.   
Mi pare pure bella, ora, questa stanza dal sapore antico. Persino i volti ritratti nel dipinto sembrano sorridere.


PERCORSI SBAGLIATI
 
Era andato tutto male. No, non la prima parte del piano, quella si era svolta alla perfezione.
Al telefono, una voce già nota aveva commissionato al Topo, il migliore tra i ladri di arredi sacri, il furto di una tela celata nella sacrestia di un oratorio in mezzo al nulla. Una volta recuperata avrebbe dovuto portarla presso una villa abbandonata, nascosta da piante di alto fusto ed erbacce infestanti. Lì, l’amico dell’amico di un famoso antiquario l’avrebbe pagato, e amen. Doveva solo seguire la mappa che il mandante aveva infilato sotto i tergicristalli della sua vettura.
Il Topo, nonostante la cartina sbiadita dall’umidità notturna, aveva trovato l’oratorio, individuato il dipinto con facilità, adocchiato e fatto sparire un crocefisso d’argento massiccio, ché tanto prima o poi qualcuno l’avrebbe comunque preso, e si era diretto alla volta della casa.
Il portone si era aperto senza forzare, qualcuno doveva avere oliato per bene i cardini arrugginiti, e una volta all’interno lo lasciò spalancato, perché era meglio assicurarsi una via d’uscita libera e questo il Topo lo sapeva. Prima di avanzare su quello che pareva una scacchiera, e non un pavimento, chiese ad alta voce se ci fosse qualcuno.
Da quel momento iniziarono i guai. 
Le gocce del lampadario iniziarono a tintinnare, il divanetto in velluto emanò sbuffi di polvere e persino gli antichi mobili emisero sinistri scricchiolii. Il Topo corse al portone per mettersi in salvo da quello che aveva tutta l’aria di essere una scossa di terremoto, ma l’uscio si chiuse davanti al suo naso e per quanto tirasse, per quanto spingesse non ci fu mezzo di riaprirlo. Solo quando il cuore rallentò il ritmo, si accorse del silenzio.
Tutto era immobile, tutto taceva. La luce che penetrava da una grossa apertura ovaloide si era offuscata e sulle pareti divorate dall’umidità si intravedevano sagome diaboliche che lo fissavano con occhi cangianti. Il Topo iniziò a tremare, sospettando che il furto del crocefisso avesse scatenato quell’insana situazione. Cavò l’oggetto sacro dallo zaino, lo posò sul tavolo tondo accanto al divano e indietreggiò con le mani in alto in segno di resa.
Un grosso quadro in cima alle scale oscillò a destra e manca.
«Mi lasci andare» supplicò, rivolto alla donna del dipinto. «Rinuncio anche al vecchio ritratto.»
La luce calò ancora, ma il viso della donna irradiava chiarore e metteva in evidenza la curva sinuosa delle scale. Un enorme punto di domanda. Chi sei? Chi sei, davvero? ripeteva una voce, affogandolo nell’angoscia. La realtà è che non sapeva rispondere, non sapeva proprio. E se non lo sapeva, non esisteva, non era niente. Era così doloroso essere un niente, così tremenda quella consapevolezza che crollò sulle ginocchia.
Una folata d’aria gli schiaffeggiò il viso e si accorse che il portone si era aperto. Fuggì senza crocefisso, senza zaino, come uno appena scampato a un’esecuzione.
Ormai al sicuro, riguardò la cartina. 
Aveva sbagliato percorso, villa.
Era andato tutto male.
Che altri recuperassero il bottino... Lui, il Topo, un’angoscia simile non la poteva più sopportare.

§§§

Complimenti davvero a tutti i concorrenti! Sarà difficile, per voi lettori, esprimere tre preferenze.

Alla prossima tappa!


Alla prossima
dalla vostra