Terza tappa della Maratona di Scrittura
Siamo giunti al terzo appuntamento. Vi ricordo chi sono gli autori che nelle scorse due tappe si sono qualificati per partecipare alla supersfida finale dove ne resterà solo uno!
Tiziana Mazza
Tania Mignani
Maria Rita Sanna
Pinuccia Sassone
Linda Silvia Scarpenti
Sonia Signorino
Riccardo Simoncini
Di seguito potrete leggere i racconti della terza tappa e votare le vostre CINQUE preferenze in un commento.
Vi ricordo che:
- i commenti devono essere firmati. I commenti anonimi non verranno tenuti in considerazione
- è necessario esprimere CINQUE preferenze (non meno) e motivare la scelta
Entrate nei panni della figura del giurato, siate obiettivi e cercate di votare SOLO i cinque che DAVVERO vi saranno piaciuti di più. Per un attimo, dimenticate chi li ha scritti e giudicate solo il testo, la bella scrittura, l'originalità della storia, la forma, le emozioni che vi avranno trasmesso.
Le votazioni per questa tappa si giudicheranno concluse giovedì 3 giugno - ore 19:oo
Durante la diretta della stessa sera, vedremo chi saranno stati i cinque racconti più votati.
E ora, via con le letture! ;-)
P.S. Ho deciso di pubblicare senza apportare nessuna correzione ai testi, né virgole, né altro, insomma, nessun piccolo editing da parte mia. Ho deciso di fare così da ora in avanti, visto che la sfida si fa calda ;-) Unica modifica: ho messo le caporali per una questione estetica di tutto l'insieme (sono un po' fissata ;-) )
- 1 -
Autrice: MARIA BARILARO
La rosa
Linda rigirava
quel biglietto fra le mani, era stata una decisione che gli stravolgeva la
vita, cambiare città, entrare nel mondo del lavoro senza conoscere quella nuova
realtà, sarebbe stata capace di inserirsi con persone così diverse dal suo mondo
fatto di ragazza di periferia.
Londra, quella è
la meta, nella città di Notting Hill, avevano girato anche un film lì.
Era stata
assunta in uno studio di avvocati internazionali, il suo sogno si realizzava,
presa la laurea con lode, aveva lavorato per solo quattrocento euro al mese
come praticante, quando rispose a quell’annuncio con il suo curriculum fu semplice.
Erano rimasti
soli, lei e il fratello, lui l'aveva spinta a partire: «Sono solo due ore e
quaranta di volo, comunque verrò a trovarti o tu ritornerai per i fine
settimana, forza e coraggio.»
Tramite un'amica
aveva trovato una stanza in fitto nel coloratissimo quartiere di Londra, vicino
al mercato dell’antiquariato, era solo una stanza con un letto, una piccola
cucina e un bagno, la veduta era su di una stradina interna, all'ingresso del
palazzo dei gradini non coperti e subito alla destra un piccolo giardino.
All'aeroporto il
fratello gli diede un pacchettino dove si intravedeva il verde di una piantina,
era fuori luogo, dove l'avrebbe messa, poi perché portarsi dietro una pianta,
lui si avvicinò e gli sussurrò: «è la rosa di mamma ti farà compagnia.»
La mise in borsa
e partì, indossava il tailleur blu di rappresentanza, con quello aveva dato la
tesi e indossato nelle occasioni speciali.
Arrivata a
Londra prese un taxi e si diresse subito nello studio, si perdeva guardando
quei grossi bus rossi, la gente così diversa e colorata, i palazzoni, le strade
super affollate, non immaginava che potesse essere così bello, ma cupo, grigio,
il sole non bucava quella densa nebbiolina, si disse fra sé, “mi abituerò”,
anche se qualcosa le stringeva la gola, ma era fermamente decisa, determinata.
Nello studio gli
andò incontro l'avvocato senior, la presentò a tutti, furono cortesi ed
affabili, anche avvocato Lucio Del Bello, lei respirò, un Italiano, voleva
abbracciarlo dalla gioia, ma si contenne.
Fu proprio lui
che si accorse che dalla borsa le usciva un ciuffetto verde, glielo fece notare
e le sue guance presero fuoco, si scusò dicendo che era una talea di rosa, lui
sorrise, conosceva bene la nostalgia di casa.
Gli chiese dove
abitava, quando lei gli disse la strada scoppiò a ridere, strano il destino,
lui viveva proprio lì, aveva un piccolissimo giardino, aveva cercato di trovare
piante che resistessero a quel clima freddo ed umido, ma con scarso risultato.
Sono passati
anni, in quel giardino è stata piantata quella rosa della mamma profumatissima,
fiorisce in primavera, nonostante lo smog, ed in autunno come tutte le piante
lascia cadere le sue foglie formando un tappeto.
Sì, si sono
sposati, e come le favole vivono felici e contenti.
- 2 -
Autore: LUIGI
BESANA
Meridiana
Non sono nato in questo posto. Qui è nato mio padre, e prima di lui mio nonno e così indietro per qualche ramo dell’albero genealogico. L'antica dimora avita, immersa in un'atmosfera particolare, circondata dal suo giardino con alcune piante secolari. Io non abito qui, ma vengo appena possibile.
Ho passato tante
estati della mia giovinezza, provavo un senso d’avventura e di libertà. Da
piccolo sono stato cowboy ed esploratore, ho corso per questi vialetti e
conosco ogni nascondiglio, e talvolta mi abbandono ai ricordi di quei giorni
lontani.
Era la prima giornata tiepida dopo i mesi invernali e il tepore era gradevole.
Quando il nonno
si presentò sulla soglia, il sole aveva da poco superato il decimo albero.
Avevo sempre
creduto che la fila degli aceri lungo il viale dal cancello alla casa,
servissero a concedere un po' d'ombra.
Quello stesso
giorno a scuola, la maestra aveva spiegato la misura del tempo, e avevo saputo
dell’esistenza della meridiana, una specie d'orologio che funzionava col sole,
proiettando l’ombra di un chiodo che prendeva il buffo nome di gnomone.
Il nonno,
durante quella pausa pomeridiana, mi disse che anche noi avevamo una meridiana
e indicò la lunga fila di alberi:
«Vedi, se ti
siedi sulla panca e guardi in direzione del sole, devi solamente contare quanti
alberi ci sono partendo da là, ricordati poi di aggiungere cinque.»
Io sospettai che
in quella strana meridiana io ero lo gnomone!
La cosa mi diede da pensare. In seguito, con un po’ d’attenzione,
riuscii anch'io a calcolare il tempo. Compresi poi i cicli della vita, fino ai
nostri giorni, ora che il tempo è diventato un’ossessione, sempre a rincorrerlo
in un mondo artificiale, dove la luce è forte anche quando è buio. Dimenticando
che tutto scorre fra il sole e l’ombra.
Il nonno, sempre quel giorno, si mise a osservare l'orizzonte in direzione della fila d'alberi conta-tempo.
«Sono passate da
poco le quattro…»
Intanto continuò
a voce alta, per farsi udire oltre la porta d’ingresso:
«Maria. Prepara
la merenda!»
Dall'interno si
udì una voce, e la nonna fece capolino nello spazio della porta.
«È ora?»
Chiese.
Il nonno mi
strizzò l’occhio e mi accompagnò dentro casa.
Autore: STEFANO BUZZI
Sogno ricorrente
Faccio un sogno ricorrente, che in realtà non è altro che un desiderio travestito da uno di quei film che si fanno con la mente stando a occhi aperti. Proprio così, non uno di quelli che necessitano ore di sonno, bensì uno di quei voli pindarici che prendono forma quando si resta con gli occhi fissi nel vuoto e si fa correre la fantasia.
Del resto, per me che provo a fare
la scrittrice, quale complice migliore potrebbe esserci se non la capacità di
immaginare?
Faccio un sogno, dicevo, e lo
sviluppo in ogni dettaglio come fosse un piano da realizzare. Il piano perfetto
che farebbe sposare la mia vita con la felicità.
Mi immagino a New York.
Redattrice o blogger per una di
quelle riviste che trattano prettamente temi femminili: la moda
primavera-estate di tendenza, le migliori boutique per acquistare scarpe
griffate e una posta del cuore per dispensare consigli d’amore alle lettrici che
si trovano alle prese con tormentate relazioni amorose. Insomma, una Carrie
Bradshaw due punto zero che si è fatta strada arrivando da un piccolo paese della
provincia italiana, dove scriveva articoli per una testata locale.
Questo è quello che faccio. Il
furto di un trattore, il gatto intrappolato nel locale caldaia di un ristorante
e la piazza intitolata al comandante dei pompieri che è passato a miglior vita,
sono il mio pane quotidiano.
È naturale che poi ci si mettano di
mezzo i sogni.
Certo anche le borsette e i
tradimenti non sarebbero argomenti che mi garantirebbero un Pulitzer, ma vuoi
mettere la soddisfazione di diventare una penna di riferimento per il lifestyle
mondano della grande mela?
Il massimo sarebbe un impiego che
mi garantirebbe una di quelle case in stile inglese che si vedono nei viali
alberati del West Village. Lontano dal caos della Broadway e di Times Square,
ma comunque a Manhattan, a pochi minuti dagli uffici. Dal centro del mondo.
Qualche gradino per raggiungere
l’ingresso, una piccola veranda per esibire il mio maldestro tentativo di
colorare il pollice di verde e un albero a vegliare sulla finestra della mia
camera. Rosa in primavera e giallo in autunno, a darmi il benvenuto ogni giorno
oltre le imposte.
Immagino il ragazzo che passa in
bicicletta ogni mattina per lanciare il giornale nella mia proprietà: lo vedo
bello e perché no, invaghito di me. Lo sento darmi il buongiorno con un good
morning che mi raggiunge dai vetri aperti mentre gusto pancakes con sciroppo
d’acero ancora in pigiama.
È una vita che farei. Ooh se la
farei.
E invece il mio computer mi segnala
che è arrivata una mail dalla redazione. Sarà il solito pazzo che grida in
Chiesa di essere Gesù o la solita polemica per la potatura degli alberi
anticipata.
No.
Il capo mi segnala che in paese è
arrivato un autore americano che vuole scrivere un romanzo ambientato nei nostri
piccoli paesi rurali.
Mi chiede di intervistarlo.
Una piccola grande occasione, tutta
per me.
Mi tiro un pizzicotto. No, non sto
sognando.
- 4 -
Autrice: MARTINA CAMPAGNOLO
Nel giardino di Mary
Tutti quelli che, per una ragione o per un'altra, passavano di fronte alla casa di Mary, parevano rapiti.
Quell'abitazione,
tinta di rosa dai petali dei fiori di pesco che si posavano generosi al suolo,
destava un senso di pace e serenità.
Quando il clima era
favorevole, Mary si sedeva su una curiosa poltrona a due posti, a forma di
cuore, a leggere un libro. C'era stato un tempo in cui, su quella stessa
seggiola, si appollaiava tra le braccia del marito Freddy. Ma lui non c'era più
e lei la utilizzava di rado, quasi a non sciuparne il ricordo.
La domenica mattina
si affaccendava ad annaffiare le piante che, molti anni prima, aveva seminato
nei grossi vasi di terracotta, regalo di alcuni parenti italiani. Erano
arrivati da Agrigento con bauli e valigie pesanti. Dovevano sbrigare alcune
faccende a Little Italy per conto del Cavalier Catalanotte. Così, ne avevano
approfittato per conoscere i cugini americani, come li chiamavano loro.
Quei due buffi
personaggi che, parlavano un'inglese stentato, avevano portato una ventata di
leggerezza nella vita dei coniugi Di Felice.
Tra un bicchiere di
vino italiano e una canzone di Mina, in quella casa si iniziò a respirare
un'aria che sapeva di zafferano e di zolfo, che narrava di tonnare e di partite
a carte.
A volte, Mario e
Carmelo uscivano per lavoro e rientravano solo a tarda notte. Ma si sa, le cene
d'affari vanno per le lunghe e i due sposini non facevano domande.
Il giorno prima di
partire, gli strani ospiti portarono in dono i frutti dell'Etna: cannoli, vini
pregiati e un albero di limoni che avevano piantato con accuratezza in uno di
quei vasi di coccio.
Diedero istruzioni
precise per la gestione dell'agrume. Si raccomandarono di non trapiantarlo
perché doveva stare nella terra di Sicilia, di non dargli troppa acqua e di
coprirlo bene d'inverno. Si vedeva che ci tenevano molto.
Poi si salutarono,
promettendo di tornare presto in America.
In realtà, passarono
anni e non si fecero più sentire.
Mary e Freddy
trascorsero una vita di miele e amore nella loro casetta alla periferia di
Brooklyn e il ricordo dei cugini italiani, come una foto sbiadita dal sole,
finì presto nella scatola della dimenticanza.
Per l'arbusto di
limone, invece, si prodigavano ed esso cresceva dando loro grandi
soddisfazioni. Anche i vicini manifestavano ammirazione e interesse per quei
frutti che profumavano le giornate di giallo.
Da quando l'avevano
portato, pure i fiori di Mary erano più rigogliosi, come se avesse dato nuova
linfa alla terra attorno.
Ma si era fatto
grande e così, Mary decise di contravvenire ai consigli e di trasferirlo in un
contenitore più capiente.
Lo stupore la colse
quando tra le radici, trovò due pistole, un sacchetto di diamanti e un teschio.
Chiamò la polizia. Da
lì a qualche giorno, sotto le pietre del giardino furono scoperti altri
gioielli e due scheletri.
Le dissero che Mario
e Carmelo erano stati assassinati all'aeroporto di Palermo.
Undici gradini
In un piccolo
paesino della bassa c'è una casa in stile inglese che da sempre cattura le
fantasie dei bambini di tutto il circondario e della quale i vecchi seduti al
bar della piazza vanno raccontando, a seconda di chi li sta a sentire, storie
terribili, avventure fantastiche, leggende di paese. Ci si passa tutti di lì. Da quegli undici
gradini che accolgono ognuno un gatto e che salgono sino a quella porta dal
battacchio in ottone lucido e finemente lavorato che accoglie gli ospiti al
loro arrivo. Da quella casa sono passati Pianisti, Cantanti lirici, Violinisti
e importanti musici di ogni genere e tempo. Da sempre è buona consuetudine
sostare ad ascoltare le melodie che provengono da quelle finestre socchiuse,
dietro le cui tende non è dato a spiare. I paesani più coraggiosi, nelle
giornate di bel tempo, varcano il cancelletto in ferro battuto che delimita la
proprietà e vanno a sedersi sulla panca a due posti che poggia alla balaustra
della scala dei mici. E lì stanno a deliziarsi ascoltando musica. Mia nonna vi
andava molto volentieri quando era ragazzetta. E ancora sorride quando ricorda
questo o quel gatto accovacciarsi in grembo per farle compagnia facendo le
fusa… Nonna Luigia afferma che dalla casa arrivavano solo melodie che parevano
essere legate a filo doppio con le pagine e le emozioni del momento; oppure
s'adeguavano all’umore degli ospiti quando entrambi i posti a sedere erano
occupati. Sì, perché il cancelletto, che dalla strada dava sul giardino della
casa, era sempre socchiuso, mentre quello che guardava undici gatti e undici
gradini s'apriva di rado e quasi mai senza che vi entrasse qualcuno,
accompagnato da uno strumento musicale. Insomma, se quella era la casa della
musica era anche il regno dei musicisti e il piccolo Piero, guardando il suo
flauto dolce di scuola, decise che, dal momento che qualcosa sapeva suonare, lo
avrebbero ricevuto come si accoglie un musicista. Si arrampicò sul pilastrino
del cancello e finalmente riuscì a suonare la campanella… Saltò giù rapido e
quando improvvisamente l'uscio e il cancello scattarono socchiudendosi, con
undici balzi, sfilò al cospetto delle fingi feline… Ma, varcata la porta, rimase
di stucco. La musica veniva da un antico grammofono di quelli che lui aveva
visto solo nei libri illustrati, ma nella sala c’erano molti signori intenti a
lavorare, ognuno ad uno strumento musicale, col proprio gingillo da rimettere a
nuovo… Un giovane apprendista lo guidò alla scoperta del mondo incantato dove
ogni suono era come una carezza e dove la musica era la cura dei mali. Si
racconta che negli anni a venire sia tornato spesso dagli undici mici e che
oggi sia lui il primo mastro liutaio.
- 6 -
Autrice: MARIA GRAZIA CONTI
La casa rosa
Da quando si era trasferita in quella cittadina americana del Sud, Elizabeth desiderava vedere che cosa ci fosse oltre la cancellata che delimitava la casa rosa. Quell'edificio la incuriosiva non solo per il colore, ma anche perché sembrava disabitato: le finestre chiuse, le tende sempre immobili le facevano immaginare una casa abitata dai fantasmi.
Pur avendo solo
dodici anni, la ragazzina era intraprendente tanto da cimentarsi con i compagni
di scuola senza mai sottrarsi alle prove di coraggio e forza.
Una bella mattina
di maggio, Elizabeth decise di entrare furtivamente nella proprietà. Una volta
all'interno, a fatica riuscì a trattenere un grido di meraviglia: davanti a lei
si estendeva un vero paradiso terrestre: margherite, papaveri e fiordalisi
creavano fitte macchie di colore che impedivano alla vista di cogliere il
confine: sarebbe ritornata ogni giorno in quello spazio magico a giocare ed
esplorare. Le venne quindi la curiosità di sbirciare attraverso i finestroni
della villa: all'interno le pareti di un ampio salone erano completamente tappezzate
di libri. La vista di tutti quei volumi le fece venire un’idea: nei film, sotto
lo zerbino stava sempre la chiave di casa. Così, sollevò lo stuoino e la trovò.
Con circospezione aprì la porta che, docile, la lasciò entrare. Non avrebbe mai
immaginato che in una casa potessero esserci tanti libri: si avvicinò a uno
scaffale basso, ne prese uno, le piacque, lo infilò sotto il braccio per leggerlo
poi con calma. Mentre curiosava alla ricerca di qualche altro titolo, sentì dei
passi. Capì che la casa non era disabitata, come supponeva. Presa dalla paura,
si nascose dietro i pesanti tendoni di velluto, lunghi fino a terra. Il cuore le
martellava così forte da farle temere che anche l’ignota figura potesse sentirlo.
Trattenendo il respiro, rimase appiattita, finché le parve che il pericolo
fosse scomparso. Sgattaiolata fuori dalla stanza, stava per guadagnare l'uscita,
quando si sentì fermare da una stretta imperiosa: a bloccarla era una vecchia e
arcigna signora. In quel mentre il libro cadde a terra.
La donna urlò: «Allora sei una ladra!»
Elizabeth non sapeva cosa rispondere, provò a
giustificarsi, ma l'agitazione e le lacrime le impedirono di dare spiegazioni comprensibili:
attratta da quella bella casa rosa,
voleva vedere che cosa si nascondesse dietro il cancello. Dalle finestre aveva
poi intravisto la libreria, provando il desiderio irresistibile di osservarla
da vicino. Amando i libri, aveva solo desiderio di prenderne uno in prestito…
Raccontò come
fosse capitata in quella cittadina sperduta a vivere con i nonni, dopo aver
perso i genitori.
Al racconto la
donna si ammorbidì, affiorò una vampata di ricordi lontani, quando l'unica figlia,
che ora abitava in Europa, nutriva la stessa passione. Ora era sola nella grande
casa: perché non offrire a quella curiosa
ragazzina la possibilità di sfruttare la biblioteca?
Con un gesto gentile, l'avvicinò a sé dicendole: «D'ora in poi potrai venire da me a leggere, quando vorrai, ma dovrai suonare, per non farmi morire di spavento!»
Fu allora che Elizabeth
sentì la vita tingersi di rosa come la casa e l'animo illuminarsi di una
speranza nuova.
- 7 -
Autrice: ALESSANDRA D'ANGELLA
Il profumo del ciliegio in fiore
Conobbi Edward
che ero solo una ragazzina, fu sufficiente uno sguardo perché il mio cuore
cominciasse a battere all'impazzata.
Era parecchio
più grande di me – frequentava già il college – e questo ci rendeva
distanti, ma volli convincermi che la nostra differenza d'età non fosse così
importante e che l'amore avesse bussato alla mia porta.
Cominciammo a
vederci di nascosto nei pochi ritagli di tempo che gli erano concessi, era
prossimo alla laurea in medicina e gli studi lo assorbivano molto.
In compenso,
però, ci sentivamo ogni pomeriggio, sempre alla stessa ora.
Attendevo col
fiato sospeso che il telefono squillasse, ma contavo fino a dieci prima di
rispondere, perché non capisse che ero lì ad aspettare la sua chiamata.
Il mio contare
scandiva un tempo che sembrava infinito, durante il quale percepivo il ritmo
dei miei battiti nella gola.
Edward mi
raccontava delle sue giornate ricche di impegni e io mi perdevo ad ascoltarlo,
sognando – poco più che quattordicenne – il mio futuro accanto a lui.
In un week-end
di primavera mi invitò a casa sua per la prima volta. Mi disse che si era preso
una pausa dalle lezioni e che i suoi erano fuori per lavoro.
Desiderava
trascorrere con me il fine settimana, noi due da soli, per recuperare il tempo
perduto.
Già, noi due da
soli e un'intera casa a disposizione, pensai preoccupata.
Ricordo ancora
la sensazione di straniamento che mi pervase quando ebbi riagganciato la
cornetta; cominciai a tremare come una foglia, nonostante il tepore della bella
giornata.
Non ero affatto
pronta a quel che poteva accadere, ne avevo paura, eppure non seppi dirgli di
no.
Quel pomeriggio
comunicai ai miei che avevo un'importante ricerca di scienze da consegnare il
lunedì successivo e che mi sarei fermata da un’amica per tutto il week-end.
Era la prima
volta che mentivo e ancora oggi, se ci ripenso, mi viene un groppo alla gola.
Quando arrivai
all'indirizzo che Edward mi aveva indicato, lo trovai ad attendermi nella
piccola corte davanti casa, seduto su un divanetto di legno rosso.
Indossava un
paio jeans strappati e una t-shirt bianca. Dio, com'era bello!
Mi venne
incontro e senza dire nulla mi travolse con un bacio che mi mozzò il fiato.
Le gambe mi
tremavano al punto da farmi temere che non reggessero e la fioritura del
rigoglioso ciliegio selvatico che dominava la corte, mi stordiva.
C'erano petali
rosa dappertutto, persino tra i nostri capelli.
Non ebbi nemmeno
il tempo di realizzare, che Edward mi spinse su per le scale e mi portò in
casa.
Fu un attimo.
Mi strappò di
dosso i vestiti e finimmo sul pavimento, dove mi deflorò.
Quando ebbe
terminato si rivestì, si accese una sigaretta e dal suo sguardo assente
compresi che la macchia di sangue sulla moquette era l'unico segno tangibile
di un amore che albergava solo nella mia mente.
Fu così che
divenni donna. In un caldo pomeriggio di primavera in cui nell’aria si spandeva
il profumo di un ciliegio in fiore.
Je suis numéro cinq
Ero agitata. Non era una novità, però in quel periodo tutto sembrava
molto più in salita del solito. Soprattutto ogni cosa risultava terribilmente
faticosa e tutte le persone con cui avevo a che fare parevano imperscrutabili
ai miei occhi. Mi avvertivo vuota, impotente e stolta. Sì stolta, perché non riuscivo
a capire. Il mio cruccio più grande era infatti sicuramente quello di non sapere
quale fosse il modo giusto di comportarsi per comprendere il prossimo e magari evitare
ulteriori delusioni. Ne avevo subite così tante nella vita che a furia di
collocarci sopra le classiche pietre avevo edificato la mia personale
Stonehenge delle frustrazioni.
Vagavo senza meta assorta nei pensieri. Mi ritrovai quindi a
costeggiare un viale su cui si affacciava una vecchia residenza signorile circondata
da un vasto giardino saturo di alberi e fiori. D'un tratto uno sbarazzino refolo
di vento catturò una ciocca dei miei capelli per restituirmela subito dopo in
una dolce ma risoluta carezza che mi costrinse però a girarmi verso il cancello
della villa. Era aperto. Qualcosa mi attirava a entrare. Rimasi interdetta per
qualche istante, avrei dato solo un'occhiata e se qualcuno fosse sopraggiunto
certamente una scusa sarebbe giunta in mio soccorso per sottrarmi da ogni
addebito: in fondo ero un avvocato.
Presi il vialetto e mi avventurai. La porta di ingresso della
magione si raggiungeva salendo una scala fiancheggiata da un corrimano di ferro
battuto, di lato un piccolo patio in cui campeggiava un divanetto biposto e
alcune piante in vaso invitava a effettuare una breve sosta ristoratrice.
Ubbidii a quell'imperativo inconscio e mi sedetti sul sofà. Chiusi gli occhi.
«Giuliana!»
Udendo il mio nome mi riscossi subito dal torpore in cui ero caduta.
Un signore distinto sulla settantina sedeva accanto a me. Era alto, calvo e
aveva uno sguardo penetrante e molto intelligente.
«Oh mi scusi, sono rimasta colpita dalla bellezza del giardino
e così ho pensato di sedermi alcuni minuti, vado via immediatamente, ma come fa
a sapere il mio nome?»
«Lasci stare come faccio a conoscerla e mi stia piuttosto a
sentire: cerchi di dimenticarsi dei torti che le hanno inflitto e abbandoni la
tendenza a voler comprendere e controllare tutto ciò che le accade. Piuttosto
si concentri sul bene: la più grande disgrazia della nostra vita è
rappresentata dall'amore che non abbiamo offerto. Se lo ricordi e… mangi un po' di più.»
Nel momento preciso in cui stavo per rispondere un altro
alito di vento catturò la mia attenzione imprigionando in un mulinello alcune foglie
secche. Subito dopo mi voltai, ma lui era sparito.
Una calma mirabile si era impossessata di me, la parola che
più si avvicinava a descrivere il mio stato d'animo era serenità, anche se non
rendeva appieno l'idea di ciò che sperimentavo.
Ma chi sei? Come hai
fatto a sparire all’improvviso?
Abbassai lo sguardo prima di riprendere il vialetto che conduceva all'uscita, scorsi allora per terra un volantino di colore verde, recava scritto: “Je suis numéro cinq”.
- 9 -
Autrice: BARBARA GALIMBERTI
La casa dai mille colori
Un anno fa
Ricordo ancora quel silenzio, che mi era piombato addosso, senza chiedermi permesso e dirmi scusa. Mi aveva investita e lasciata lì, mentre l'intera sala del teatro era come fosse rimasta a guardare un vecchio film muto.
La musica era dentro di me e io mi muovevo con lei. Pensavo che nulla e nessuno potesse separarci. Eppure, un passo sbagliato aveva fatto chiudere definitivamente i tendoni di quel palco.
Non potrò mai dimenticare quel silenzio, gli occhi di tutti puntati su di me, la corsa in ospedale e le parole di quel dottore: «Non credo che potrà più ballare, ma faremo il possibile.»
Oggi
«Allora, abbiamo già cinque prenotazioni per le prossime settimane. Sei pronta per l'intervista?»
«Cristina stai calma. È solo un'intervista. La casa dai mille colori è già un successo. Ti ricordi quando l'abbiamo vista la prima volta? Era perfetta. Ma con un po' di fantasia, il nostro bed & breakfast diventerà il più desiderato e invidiato da tutti. Vedrai, fra poco arriverà quel giornalista e tutto andrà bene.»
Mia sorella è sempre stata così. Una delle persone più ansiose che io conosca. La nostra nuova avventura stava per iniziare. La sua passione per la cucina semplice, per i piccoli ambienti e il mio carattere da perfetta organizzatrice, ci aveva portato a investire fino al nostro ultimo euro in quel piccolo bed & breakfast. Mancavano poche ore all'apertura definitiva e quell'intervista aveva creato un pizzico di ansia, che rendeva ancora più vivace la casa dai mille colori.
Dopo pochi minuti, il citofonò suonò e lei, dalla piccola porticina sopra la scala illuminata da uno splendente rosso autunnale, fece entrare quell'ospite, pronta a rispondere a mille domande. Non vidi con attenzione chi entrò, ma quando sentii la sua voce, ritornai nel mio film in bianco e nero.
«Ciao Carola, finalmente ti ho scovata.»
«Ma cosa ci fai tu qui? Come sei riuscito a trovarmi?»
«Sono mesi che ti cerco, il tuo cellulare è sempre spento. Per caso ho visto un volantino con voi due davanti a quel cancello. Perché sei qui?»
«Sai già il motivo. Come puoi aver notato, io e mia sorella abbiamo deciso di aprire questo bed & breakfast. È divertente, sai.»
«La compagnia ha bisogno di te. La danza ha bisogno di te. Rimetti quelle mezze punte e ritorna con noi.»
«Se sei venuto per questo, puoi anche andartene.»
«Ti lascio il mio numero. Chiamami. Ti aiuterò a tornare su quel palco.»
Mi girai per scendere in taverna, non avevo più voglia di parlare con lui e tornare a soffrire. Non ero più una ballerina. La danza era solo un lontano ricordo.
«È andato via» disse mia sorella. «Io ti aspetto in giardino. Ma lui ha ragione. Questa casa ha mille colori, ma sono i miei, non i tuoi.»
Con il cuore pieno di lacrime, aprii il mio baule. Le mie mezze punte erano ancora lì.
Era arrivato il momento di far tornare i colori anche nella mia vita.
- 10 -
Autrice: SILVIA GARIONI
Mangiami l'anima
Manatthan, anno 2040
Un ragazzo, Adam, siede sulle alte
gradinate di villa Whilliams, la casa in cui stava per costruirsi un futuro con
la sua neo sposa. È perso nei suoi pensieri cupi così in contrasto con la
quiete autunnale che lo circonda, le foglie del maestoso albero che si staglia
dinnanzi alla via riverbera di rosso tutt'intorno riflettendo il suo colore
pacato sui muri di casa, in terra e sui gradini dove siede, proprio lì dove
solo una stagione prima aveva chiesto ad Annabeth di diventare sua moglie, di
poter costruire insieme una famiglia, di essere sua per sempre, e quel tanto atteso
“sì” che era arrivato alle sue orecchie come il suono più bello mai udito, lo
fece sentire l'uomo più fortunato del mondo. Tutto stava andando alla grande,
avevano avuto un matrimonio da favola e i mesi successivi erano trascorsi
sereni, fino solo a qualche settimana prima quando quel morbo improvviso
infettò dapprima tutti gli Stati Uniti e poi troppo velocemente dilagò come un
tumore maligno nel resto del mondo, nessuno stato è riuscito a sfuggirgli. Un
nemico invisibile, un virus creato forse in laboratorio per chissà quale
ragione, ha trasformato l'umanità in quei mostri che ora guarda con compassione.
Morti che camminano con il solo intento di nutrirsi di carne umana, occhi vacui
e persi, alcuni con gli arti rotti e penzolanti e senza più sentire alcun
dolore se li trascinano dietro senza cura, i movimenti lenti e goffi, neanche
riuscirebbero a salire quei gradini che lo separano ora di pochi metri dal
marciapiede. Ogni tanto qualcuno si gira ad annusare l’odore umano che Adam
emana, schiocca le mandibole nella sua direzione, ma resta una preda difficile
con l'ostacolo architettonico che lo circonda e se ne vanno in cerca di vittime
più facili.
Adam è già morto dentro, o almeno
così si sente da quando anche la sua adorata Annabeth è diventata uno di quei
mostri che vogliono solo divorargli le carni, l'ha lasciata chiusa in casa
appena si è accorto del cambiamento. Ha ascoltato per ore quei soffocanti
lamenti senza sapere cosa farne di lei, lei che era il suo mondo, la sua vita e
ora non è più niente, solo un guscio vuoto senz'anima; e se è questo quello che
gli manca, se è un'anima ciò che le serve, che prenda pure la sua perché tanto
lui senza Annabeth non è più niente e ora sa cosa fare. Si alza e percorre quei
pochi metri che li separano, ruota la maniglia della porta e apre, perché tanto
gli zombie neanche questo riescono a fare e non sarebbe mai potuta uscire da lì
senza un aiuto. Non c’è più niente ora che li divide, la porta è spalancata e
lui accoglie la sua donna a braccia aperte. Se proprio deve morire che sia lei
a godere delle sue carni, del suo cuore, della sua mente… della sua anima, che
sempre a lei sono appartenuti e come ha promesso sempre rimarranno.
- 11 -
Autrice: GIULIA LANDINI
Erald
Tutte le mattine, da cinquantacinque
anni, Erald si affacciava a quella stessa finestra.
Che
palle i fiori di ciliegio, che palle questa primavera dai colori rosa. E chi la
leverà anche oggi quella poltiglia dalla strada?
Alle nove e trentacinque di mattina
poi, puntuale, da sette anni, dalla casa accanto partiva quel pianoforte e la
musica andava avanti fino a mezzogiorno.
Sua moglie lo amava, si metteva in
ascolto silenziosa e si lasciava trasportare dalla melodia.
Di lei e della loro storia, oggi,
erano rimaste solo quelle due sedie in giardino, accostate l'una vicina
all'altra e quell'urna colorata messa accanto al caminetto.
Sei
diventata un soprammobile amore mio; un inutile, polveroso, soprammobile, e hai
lasciato solo questo vecchio, disse, poi si asciugò qualcosa di sconosciuto
e bagnato che colava dall'occhio sinistro.
Non era bravo con le emozioni,
persa lei, aveva disimparato a usarle del tutto.
Aveva novantacinque anni, il
bastone, un rantolo da fumatore incallito di pipa e una noia costante addosso,
aveva lavorato come psichiatra per una vita intera e oggi si chiedeva come
avesse potuto sopportare le beghe della gente tutti quegli anni. Lui, proprio
lui, che sorrideva solo a comando e parlava a fatica.
Mise la coppola in capo e si
strinse nel lungo cappotto marrone scuro coi bottoni a levetta in legno chiaro,
si guardò nello specchio e fece per uscire, ma qualcosa di strano non glielo
permise.
La musica era cessata. Per la prima
volta in sette anni, alle dieci e sedici minuti, si era fermata.
Aprendo la porta trovò la figlia
della vicina sul pianerottolo che gli disse: Questa domenica non ho voglia di esercitarmi con la mamma al pianoforte,
usciamo?
La mamma della piccola lo guardò conciliante,
come faceva, senza che Erald lo ricordasse, tutte le domeniche mattina da ormai
tanto tempo.
Quella bambina gli stava simpatica,
gli ricordava in qualche modo sua moglie, chissà perché. Aveva lo stesso
sorriso allegro e l’espressione dolce.
Se
si fida la porto con me a fare colazione poi la riporto a casa, signora.
La madre fece cenno che andava bene
e Isabel lo prese per mano avviandosi per la via.
Mentre li vedeva allontanarsi la
signora si strinse nelle spalle: Ovunque
tu sia mamma, a papà ci penso io, si è perso nei labirinti della sua mente, ricorda
solo te, il suo grande amore, ma io e Isabel siamo qui, accanto a lui,
abbastanza vicine da poterlo guardare e lo stiamo aspettando se mai riuscisse a
tornare.
Campane a vento
Era tarda mattina, e
stavo camminando distrattamente per le vie del mio paese. Non prestavo
attenzione alla strada o alle persone che incontravo, presa com'ero nel
domandarmi il motivo per cui avessi trovato il fruttivendolo chiuso. Non era il
giorno di riposo e sulla porta d'ingresso non c'erano affisse motivazioni di
alcun genere, solo il solito cartello, un po' sbiadito dal sole, con gli orari
settimanali. Sbuffai, pensando che avrei dovuto prendere l'autobus per recarmi
a quello del paese attiguo e mi guardai attorno per cercare la fermata più
vicina. Fu a quel punto che mi accorsi di essere finita in una zona che non
frequentavo da anni: quel parco, circondato da edifici antichi, era distante
almeno due chilometri da casa mia, eppure dovevo aver percorso a malapena
duecento metri! Pensai di aver perso la cognizione del tempo e non vi prestai
attenzione più del dovuto, ma dopo qualche passo svoltai l’angolo e mi ritrovai
a camminare sul marciapiede di una strada sconosciuta. Mi fermai, guardandomi
attorno, sicura di non aver mai visto quel posto, ma dopo un primo iniziale
smarrimento, decisi di proseguire per cercare di capire dove fossi. Un raggio
di luce mi baciò sulla guancia, rassicurandomi come la carezza di un genitore.
Mi accorsi allora che il sole primaverile cominciava a riscaldare la pelle,
segno che l'inverno ormai era passato e che in breve tempo le persone avrebbero
lasciato gli abiti pesanti nell'armadio per indossare magliette a maniche
corte. Proseguii dunque il mio cammino e giunta nei pressi di una palazzina mi
bloccai, colpita da un déjà-vu e da una forte nostalgia. Davanti ad essa c'era
una scalinata che immetteva su di uno spiazzo delimitato da una cancellata in
ferro battuto, di colore nero. D'istinto varcai l'ingresso e mi trovai in quel
piccolo ma grazioso giardino, pieno di petali rosa caduti dall'albero di
fronte. Mi avvicinai alla panchina che stava a ridosso della scala, la ripulii
dai fiori e mi sedetti. Chiusi gli occhi e inspirai profondamente. Mi sentivo
bene. Un soffio di vento fece risuonare delle campane a vento appese al ramo di
un altro albero di fronte a me, ed ebbi un sussulto. Quel suono così dolce mi
ricordava qualcosa, la mia infanzia probabilmente. Il volto di una donna di
mezza età mi balenò nella mente, spalancai gli occhi sussurrando il suo nome,
ma in quel momento un rumore forte e stonato mi fece trasalire. Ripiombai nel
presente e mi accorsi di essere sdraiata nel mio letto. Era un sogno! Un altro
ricordo che stava cercando di emergere e che la vicina del piano di sopra era
riuscita a bloccare, facendo cadere le pentole sul pavimento. Ascoltai la voce
del marito che si lamentava, dicendo di essersi spaventato. Sorrisi in modo
sarcastico, mi alzai, presi il diario e annotai tutto, prima che la memoria
iniziasse a svanire. Mi appuntai la parola “campane a vento” sul taccuino, e
decisi di comprarne una il prima possibile.
- 13 -
Autrice: ELENA MAZZA
Un grande amore
Un salottino molto accogliente, la luce soffusa e il camino scoppiettante a riscaldare l'ambiente.
Luigi, seduto sulla poltrona, guarda con occhi dolci la foto
di una giovane donna nel portaritratti sulla mensola, Laura. Il suo ricordo lo
porta indietro nel tempo, a quando nel 1952, a soli vent'anni, si era recato con
gli amici in quella casa di appuntamenti color rosa per trascorrere una
soddisfacente serata di puro sesso, come spesso accadeva da quando aveva
raggiunto la maggiore età.
Era la prima volta che si recavano da Clerì.
Erano entrati, e man mano che avevano fatto la loro scelta,
si erano separati.
Luigi aveva scrutato ogni singola ragazza, erano una più
bella dell’altra, tutte molto sexy e sorridenti, ma non era riuscito a decidersi
fino a quando non aveva visto lei, Laura. Eterea e dolcissima, ma con uno
sguardo triste.
Voglio lei, aveva
detto. Si erano recati in una delle innumerevoli stanze. In un attimo l'aveva
vista nuda: gli occhi chiusi e due lacrimoni che le scendevano lungo le guance.
Aveva visto tremare il suo splendido corpo che rasentava la perfezione. Ma a
dispetto del desiderio, si era sentito un nodo alla gola e le aveva detto: rivestiti, lasciamo perdere.
Laura aveva spalancato di colpo gli occhioni e, con sguardo
terrorizzato, le aveva detto: no, ti
prego farò tutto quello che vuoi. Luigi si era tolto la giacca e l’aveva
messa sulle spalle di Laura, l'aveva fatta sedere sulle sue ginocchia e con le
dita le aveva asciugato le lacrime, poi le aveva detto: tranquilla non aver paura.
Così si erano incontrati e mai più lasciati.
Una vita trascorsa insieme, un grande amore e due figli
meravigliosi che li avevano resi nonni, ma che ora avevano la loro vita.
Laura era venuta a mancare sei mesi prima, lasciandolo solo: unica
compagnia, i dolci ricordi.
La fiamma del camino ora è sempre più piccola.
Luigi chiude gli occhi: sulla sua bocca, un'espressione di
serenità.
- 14 -
Autrice: TIZIANA MAZZA
Le emozioni di un ricordo
Ogni volta che torno in questa città è sempre un'emozione nuova. Adoro i grandi parchi dove puoi trovarti a tu per tu con un simpatico scoiattolo. Mi danno un senso di pace. Questa è la decima volta che ci torno. La prima da sola. Le altre volte ero sempre venuta accompagnata da qualcuno: con la scuola, con gli amici o con il fidanzato.
Ogni angolo di Londra fa riaffiorare in me un ricordo. Mi piace
passeggiare per le vie di questa città e lasciarmi trasportare dalle sensazioni
vissute in un quel particolare luogo.
Buckingham Palace, per esempio, rappresenta per me la spensieratezza
della mia adolescenza, quando insieme alle mie compagne di classe guardavo
affascinata il cambio della guardia o tentavo di far muovere i corazzieri fermi
sull’attenti, come le statue del famoso museo delle cere.
Covent Garden, il quartiere artistico della città, è per me quello più
poetico, perché è quello del primo bacio e del primo amore.
Piccadilly Circus, invece, è il luogo del primo litigio, delle lacrime
copiose lungo le guance, dello smarrimento in una città straniera, divenuta
all’improvviso nemica.
Finito il giro turistico dei ricordi, decido di cambiare strada per scovare
qualche posto ancora sconosciuto, in cerca di un nuovo ricordo da aggiungere
alla preziosa collezione.
In questa strada, per esempio, non sono mai venuta. Eppure questa
casetta mi suscita grandi emozioni. È come se fossi già stata qui. Ma sono
sicura di no. Sarà quest'albero in fiore, con tutti quei petali rosa che ricoprono
il giardinetto e quella panchina, curiosamente dipinta di rosa… Sembra una cartolina
sbucata dai miei ricordi.
Mi fermo, vorrei sedermi su quei posti vuoti, ma è una proprietà
privata. Alla fine oso e mi accomodo. Mentre volgo lo sguardo verso l'albero, un
ritornello mi risuona insistente nella testa: è la voce un po' roca che ha
accompagnato la mia adolescenza, la colonna sonora di un periodo
indimenticabile della mia vita.
Chiudo gli occhi e mi rivedo ballare stretta tra le sue braccia, sono
passati cinquant'anni, ma sembra ieri. Le sensazioni sono nitide, come se le stessi
vivendo in questo momento: il profumo dei petali mi inebria, il testo della
canzone scorre nella mia testa insieme alle sensazioni provate cinquant'anni fa
mentre ballavo quel lento. Chissà dove sarà adesso?
La voce di una ragazzina che esce dal portone di casa, precipitandosi
giù dalle scale, mi riporta alla realtà. È vestita in modo grintoso, un po' stile rockettara, secondo la moda del momento; probabilmente questa sera si scatenerà in discoteca a ritmo di qualche pezzo heavy
metal…
I lenti sono caduti in disuso, ormai, sono roba da matusa, archiviati negli annali della storia.
Osservo la ragazzina, mi fa tenerezza… Lei non sa cosa si perde!
- 15 -
Autrice: TANIA MIGNANI
La casa di Rose
I passi di Rose li aveva sempre
distinti da tutti gli altri. Fin da quando, bambina, poggiava i suoi piedini
titubanti guidata dalle mani di sua nonna. Poteva percepire la leggerezza delle
scarpette bianche, sentire il solletico sui gradini di pietra che la separavano
dal marciapiede. I passi si erano fatti, via via, più sicuri mentre saltellavano
su e giù accompagnati da gridolini e risate. Riconosceva anche la voce di Rose
oltre ai suoi passi, così allegra mentre cantava le canzoni insegnate dalla
nonna, si sedevano sui gradini e cantavano, ridevano e chi passava sul
marciapiede le salutava, si fermava a chiacchierare e c'era sempre una
caramella o un dolcetto per Rose. Tutta la gente del vicinato si conosceva,
passavano i pomeriggi e le sere d’estate a raccontarsi storie di tempi andati e
di città dai nomi sconosciuti e lontani mentre Rose li ascoltava attenta
sognando, chissà… di visitare quei posti, un giorno.
Continuò a sentire i suoi passi
allontanarsi tutte le mattine e poi tornare nel pomeriggio. La udiva raccontare
alla nonna, seduta sui gradini, quello che aveva imparato a scuola, recitare
poesie dalle rime facili e musicali accompagnate dai suoi saltelli sui gradini.
Un giorno non udì più i passi della
nonna, né la sua voce che narrava storie. Continuò a sentire solo i passi di
Rose, silenziosi e veloci, attraversare quasi correndo quei gradini quasi non
volesse fermarsi a ricordare.
Poi iniziarono le sere peggiori, quelle
in cui il padre rincasava sempre più malfermo sulle gambe e, a volte,
sghignazzando si fermava a pisciare sulla scala. Non era questo che la faceva
star male, ma le grida che sentiva provenire dalle finestre, i piatti gettati a
terra e, soprattutto, il pianto di Rose.
Finché una notte i passi di Rose,
più silenziosi del solito, si fermarono per qualche minuto sull’ultimo gradino,
li sentì poi allontanarsi sul marciapiede e capì che non sarebbero più tornati
indietro.
Quanti anni passarono, quanti passi
sconosciuti e anonimi scesero e salirono la scala che la separava dal
marciapiede. A volte riconosceva un bambino saltellare, udiva la sua voce
squillante, allora ripensava a Rose, alla sua Rose e la immaginava percorrere
strade lontane, magari proprio in quelle città con i nomi strani che ripeteva
da bambina. Chissà se, qualche volta, pensava anche a lei, alla sua vecchia
casa e ricordava i giorni felici della sua infanzia.
Un giorno tornò, la riconobbe non
appena posò il piede sul gradino. La sentì fermarsi, e poi salire lentamente,
verso la porta, i suoi passi parevano quelli della nonna, ora.
Da allora, ogni giorno, aspetta di
sentirla scendere dalla scala, sempre più lentamente. Le pare quasi di sentirle
sussurrare le parole di una delle filastrocche che le insegnava sua nonna. Sa
che prima o poi la porta non si aprirà più e, questa volta, i suoi passi
cesseranno per sempre, ma Rose è tornata e ora è ciò che conta.
- 16 -
Autrice: ELISABETTA MOTTA
New York appariva più bella del solito quel pomeriggio di primavera. Gli alberi fioriti lasciavano cadere i petali rosa dei loro fiori, che coprivano qualsiasi superficie. Stavo facendo una passeggiata, immersa nei miei pensieri tristi.
Il desiderio di diventare mamma era
troppo forte per me e forse non avrei mai potuto realizzarlo.
Le abitazioni che costeggiavano
quella via erano pittoresche. Una in particolare, attirò la mia attenzione. Mi
dava l'idea che vi abitasse una famiglia felice. Un divanetto rosso, era
sistemato in giardino, un invito quasi a sedersi lì. Mi soffermai davanti al
cancelletto. Non potevo certo entrare in una proprietà privata. Mentre formulavo
quel pensiero la porta d'ingresso si aprì e uscì un'anziana signora. Era
elegante e si reggeva a un bastone. Si accorse subito di me, così le rivolsi un
sorriso incerto.
«Ha
bisogno di qualcosa?» mi chiese gentilmente.
«No,
grazie» le risposi. «Stavo solo osservando la sua bella
casa.»
«Un
tempo lo era ancora di più. Da quando non c'è il mio Jack, mi sembra così vuota.
Vede quel divanetto?»
Annuii.
«Non mi sono più seduta lì,
da sola. Il mio Jack è in una casa di cura perché è affetto dal morbo di
Alzheimer.»
«Mi
dispiace» mormorai.
«Vuole
accomodarsi?» domandò.
«No,
no… non vorrei disturbarla» risposi sorpresa da quell'invito. Dopotutto
ero un'estranea.
«Nessun
disturbo. Sento di potermi fidare di lei. Venga» insistette, come se
avesse voglia di chiacchierare.
Mi
raggiunse al cancello con un'andatura claudicante e mi portò al divanetto. Sedetti accanto a lei.
«Jack
e io abbiamo abitato qui per quarant'anni. Adesso lui non riconosce più questo
luogo e a volte nemmeno me» iniziò, lo sguardo velato dalla tristezza. «Non
abbiamo avuto figli, ma eravamo ugualmente felici. Ci amavamo alla follia e ci
bastavamo. Separarmi da lui è stato uno strazio indicibile, ma gli ho promesso
che sarei andato a trovarlo tutti i giorni. E difatti adesso mi stavo recando a
fargli visita. Quando Jack ha incominciato a non ricordare più nulla della
nostra vita insieme, ho tirato dal cassetto tutti i diari che ho scritto dal 1950
e ho incominciato a leggerglieli. Pagina dopo pagina, abbiamo ripercorso le
storia del nostro amore. E poi è accaduto il miracolo. Mi ha detto di amarmi
ancora. Temevo di non sentire più quelle parole. E invece… Ogni giorno, quando
vedo Jack penso di non averlo mai amato con tanta intensità come adesso. Lo so,
forse sono solo una vecchia pazza che vive per leggere le pagine del mio diario
al mio Jack, per tenergli la mano e cogliere nei suoi occhi quei bagliori che
mi dicono che lui in quel momento sta ricordando i dolci momenti di un amore
bellissimo che non tornerà mai più.»
L'anziana donna mi sorrise.
Riluttante, mi alzai dal divanetto.
Sarei voluta restare lì per chissà quanto tempo in sua compagnia.
«La lascio andare dal suo
Jack, adesso. Grazie per avere condiviso la sua storia. Mi ha fatto bene ascoltarla.»
Era vero. Tornai a casa, animata da
un nuovo entusiasmo, tutta la tristezza messa da parte. Ero fortunata ad avere
Matt, dopotutto. L'amore, quello vero, non ha bisogno di nient'altro.
- 17 -
Autrice: ALESSANDRA NOBILE
La casa di Esterina
La casa di Esterina è graziosa. Ha
un cortiletto davanti, delimitato da una cancellata in ferro battuto. Nel
cortiletto ci sono due poltrone rosse, per riposarsi nella bella stagione
quando il sole non picchia troppo. Una scala esterna, gli scalini coperti di
petali in primavera, porta all'entrata. Sul viale i ciliegi abbracciano l'ombra
della casa.
Esterina nasconde un segreto che
nessuno conosce. I vicini sospettano che ci sia qualcosa di misterioso in
quella casa. Ma non sanno cosa.
Dentro alla casa di Esterina c'è
una casa più piccola, in legno. È una casa delle bambole. L'ha fatta il papà di
Esterina quando lei era bambina. Il papà di Esterina era bravo a lavorare il legno.
La casa delle bambole è simile, in
tutto e per tutto, alla casa grande. Ha una piccola cancellata che delimita un
piccolo cortile, due poltroncine rosse nel cortile e una scaletta che conduce
alla porticina d’ingresso. Dentro c'è una bambola di plastica delle dimensioni
giuste per quella casa. È sempre stata la bambola preferita di Esterina.
Esterina ora è grande, ma ha
conservato la casa delle bambole con dentro la sua bambola preferita.
Esterina viveva con i genitori. Ma
la mamma e il papà sono morti che erano anziani, qualche anno prima. Ora vive
sola nella grande casa sul viale. E da quando i genitori sono morti lei ha preso
una decisione: il suo corpo non sarebbe più stato quel corpo di carne. Il corpo
di plastica della bambola sarebbe diventato il suo corpo. Così è entrata nel
corpo della sua bambola.
Esterina però, nell'aspetto
esteriore, non è cambiata di una virgola. Continua a camminare lungo il viale
di ciliegi, ad andare a fare la spesa, a salutare la gente. Nessuno sa che lei
non è più là, dentro a quel corpo di carne, ma che è nella piccola casa, dentro
al corpo di plastica della sua bambola.
Esterina non ha paura del mondo, non
ha paura della sofferenza. Lei non sa più, adesso, cosa sia la sofferenza. Una
volta, mentre tornava dalla spesa, è caduta dalla scala e si è fatta un livido sulle
gambe. Ma le gambe di Esterina ora sono fatte di plastica e lei non sente
dolore.
Quando esce Esterina non porta
l'ombrello neanche se piove. Esterina non è là fuori. Non può bagnarsi. Il suo
vero corpo è protetto, dentro alla casa delle bambole. Lei non potrebbe
bagnarsi nemmeno sotto un acquazzone.
I vicini di casa hanno capito che qualcosa
non va. Hanno chiamato gli assistenti sociali a controllare quella donna sola.
Esterina ha paura. Se andasse in un istituto che ne sarebbe della casa di legno?
Che ne sarebbe della sua bambola? E che ne sarebbe di lei? Del suo corpo?
Esterina custodisce un segreto che
nessuno conosce.
La grande casa di Esterina un
giorno si consumerà. La casa di legno delle bambole si consumerà. Ma la bambola
di plastica non si consumerà. La plastica è immortale. Esterina è immortale. È
questo il suo segreto.
- 18 -
Autrice: SANDRA PERSELLO
Petali di rosa
Apro la porta e mi appare uno scenario sconosciuto: "Questa non è casa mia!” penso subito, con stupore misto ad angoscia.
Io abito in un anonimo
appartamentino di un grande ed informe caseggiato di case popolari, che nulla
hanno a che vedere con lo splendido panorama che si apre davanti ai miei occhi.
Vedo una breve scalinata, su cui si
adagiano petali di fiori, che, ad ogni sospiro del vento primaverile, cadono
anche su di me, avvolgendomi in una dolce brezza profumata.
Mi chiudo la porta alle spalle,
perplessa.
Dove sono? Come sono finita lì? Mi
hanno forse rapita?
Rientro, ma non vedo sul mio corpo
alcun segno sospetto.
Questo mi rincuora.
Osservo quanto mi sta attorno con
attenzione ed all'improvviso mi rendo conto che tutto mi è nuovo e che non sono
a casa mia!
Al suono della sveglia, distrutta
ed ancora mezza addormentata, mi ero vestita e catapultata fuori, per correre
al lavoro.
Presa dai miei pensieri ed incerta
sul come muovermi, riesco a prepararmi un caffè: trovo, all'interno di uno dei vari
armadietti, una miscela preparata, a cui aggiungo acqua calda.
Il tepore scende nel mio stomaco e,
nel contempo, il mio cervello si rivela meno annebbiato.
Se non sono a casa mia, dove mi
trovo?
Riapro con esitazione lo stipite e rivedo
la scalinata, ricoperta di petali, ed avverto la morbidezza del pallido sole,
che accarezza le mie membra stupite.
È una sensazione conosciuta, al
contrario di tutto il resto, dolce, affabile, capace di risollevare l'anima.
Questa gradevole cascata di fiori mi
permette di ricordare qualcosa…il loro profumo mi annebbia la vista, entra nel
mio Io più recondito e lancia sprazzi luminosi alla parte del mio cervello
ancora assopita.
Chiudo gli occhi e respiro a fondo,
più volte.
Mi ritrovo, senza sapere come, nel mio
giardino e sono una bimba di pochi anni, con un costumino color fucsia, immersa
in una piccola piscina, dove l'acqua, al momento del mio ingresso, è già
tiepida. Anche la piscina è rosa, contraddistinta dall’immagine stampata della
mia adorata Pantera.
Vedo la mamma, che, in giardino, raccoglie
petali di rosa e li lascia morbidamente cadere nell'acqua: non è un gioco
nuovo. Lo abbiamo già fatto altre volte. È come una cascata di petali che mi
pervade il capo, il viso, il corpo. Poi resta lì, ad accarezzarmi dolcemente,
mentre mi muovo in un piccolo mare da principessa.
Mi piace vedermi addosso i fiori
del giardino, è gradevole respirare un aroma, che riempie corpo e mente di
scenari fiabeschi.
Chiudo gli occhi ed un morbido tepore
appesantisce le mie membra; mi par di sentire in lontananza una canzone ben
nota della mia infanzia e la voce della mamma.
Poi nulla. Sprofondo in un mare di
Amore.
Squilla la sveglia: è ora di
alzarsi.
Non so come, mi ritrovo a casa mia,
circondata da mobili, suppellettili, ricordi vari.
Guardo fuori della finestra e vedo
il solito panorama.
Grazie, Sogno venuto da chissà dove: sei stato davvero gradevole e dolcissimo.
- 19 -
Autrice: PAMELA PIROLA
La casa del ciliegio selvatico
Amelie percorreva con passi lenti e regolari la strada che conduceva alla casa della zia Virginia. Era un soleggiato pomeriggio di primavera. Le case erano tutte uguali con i mattoni a vista e le scale erano di ferro battuto su cui si arrampicava nella maggior parte un profumatissimo gelsomino. Sugli alberi iniziavano a spuntare le prime foglie. All'improvviso scorse il suo albero: lo splendido ciliegio selvatico già in fiore. Si fermò ad ammirarlo e il vento , proprio in quel momento, mosse i i rami facendo cadere i petali rosa che iniziarono a volteggiare in aria posandosi sul suolo come se volessero creare un tappeto.
Salì le scale e entrò in casa. Una
marea di ricordi bellissimi le tornarono alla
mente. I pomeriggi passati con la zia Virginia a far merenda sul piccolo
divanetto rosa posto alla base delle scale, giocare a nascondino tra le
numerose stanze della casa, le sembrò di sentire ancora la voce della zia che
le raccontava storie o che leggeva i capitoli dei libri che stava scrivendo.
Sì, perché Virginia era una
scrittrice di narrativa per ragazzi e
anche di gran successo.
Aveva comprato quella casa perché quello era il posto dove si isolava
per scrivere; lo faceva nella stanza al
secondi piano la cui finestra guardava proprio sul ciliegio selvatico.
La casa era come se la ricordava:
arredata con gusto e su tutto spiccava
la tonalità del verde vivace, colore che infondeva pace e armonia interiore.
Ora che la zia Virginia era
deceduta, quel posto era diventato suo.
Amelie in cuor suo voleva che
ritornasse a vivere affinché nessuno si
dimenticasse della grande donna e scrittrice che l'aveva abitato.
Decise che quella casa sarebbe
diventata un museo della scrittura.
Al piano inferiore non apportò
nessuna modifica, lasciò tutto così com’era… i libri sistemati in ordine
alfabetico sulle mensole, i vari pezzi
di antiquariato, le macchine da scrivere
e le penne stilografiche.
Quando entrò nella stanza segreta della zia al piano superiore invece ebbe un'illuminazione. Iniziò a sistemare la
scrivania dove Virginia era solita
comporre le sue opere e mise per terra tantissimi cuscini colorati. Aprì le
tende in modo che quel nuovo mondo fosse pieno di luce. Quello sarebbe diventato un laboratorio di
scrittura per bambini. Da quel giorno la casa del ciliegio selvatico divenne
meta turistica molto richiesta e
tantissimi bambini con la loro voglia di imparare e la loro allegria diedero una nuova vita a quella
stanza lasciata vuota per troppo tempo.
Quando le finestre erano aperte e il
ciliegio era in fiore, i petali
entravano e davano ispirazione ai piccoli scrittori all'opera.
E lo spirito della grande
scrittrice continuò a vivere nella sua amata casa.
- 20 -
Autrice: ANNA CARLA RONCHI
Quando eravamo
piccole, io e mia sorella facevamo con mia madre delle lunghe passeggiate per
il nostro rione, Santa Maria, che negli anni Sessanta e Settanta era detto Rione giardino, perché pieno di aiuole ben
curate e di splendidi alberi e perché ospita una bellissima villa, creata
nell'800 come orto botanico della città di Potenza.
La nostra tappa
fissa era la casa della signora Cestaro, amica di lunga data di nonna, che ci
era molto affezionata e ci aveva visto crescere.
Vita, così si
chiamava, era piccolina, esile, con i capelli grigi lunghi raccolti in uno
chignon, vestita sempre di scuro in memoria del marito perso tanti anni prima.
Aveva 74 anni e
non aveva figli ma solo un fratello più piccolo, Gerardo, emigrato in America
nel dopoguerra, nei tempi in cui decine di migliaia di lucani emigrarono in
cerca di fortuna, nella speranza di trovare oltreoceano un futuro migliore, abbandonando
la loro amata ma povera terra.
Perciò da anni
ormai Vita viveva sola. La sua casa si trovava accanto a un maestoso ciliegio
che in primavera fioriva riempiendo tutto di meravigliosi petali rosa: le
scale, la panchina, le ringhiere, le altre piante tutte intorno.
La trovavamo
sempre seduta sulla sua panchina, intenta a lavorare all’uncinetto, a leggere
un libro o semplicemente immersa nei suoi pensieri e ci fermavamo dicendole: Dai, Vita, raccontaci una storia anche
oggi!
In quei momenti
il tempo sembrava fermarsi e i suoi racconti rimanevano fissi, incastonati
nella nostra memoria di bambine come pietre preziose racchiuse in uno scrigno.
Un giorno però Vita
non c'era, non era seduta sulla sua panchina. E allora andammo subito da nonna
per sapere cosa fosse successo: Vita era dovuta partire in fretta per l'America
per raggiungere il fratello che aveva avuto un malore, per passare del tempo
con lui e per prendersene cura dopo che per tanti anni erano stati lontani.
Ma Vita aveva
pensato a noi prima di andarsene: ci aveva lasciato una vecchia foto della sua
casa adornata di petali rosa e una lettera chiedendoci di non dimenticarla e
augurandoci con tanto affetto una vita serena e gioiosa, perché sapeva che
molto probabilmente non ci saremmo più riviste.
Oggi Vita non
c'è più. Ma quella panchina e quel ciliegio sono lì, immobili nello scorrere del
tempo, splendidi testimoni di momenti felici e ricordi sereni, attenti custodi dei
racconti e dei sogni di una anziana signora e di due bambine felici.
Autrice: ADELIA ROSSI
Vorrei qualcuno che parlasse di mia
madre, che mi narrasse dei suoi malinconici silenzi.
Ricordo la rabbia che nascondeva
così bene tra le pieghe di singhiozzi a stento trattenuti.
Ero solo una bambina allora e le
parole che Aurora, la sua migliore amica, mi diceva per meglio farmi
comprendere quella donna che nel cuore sentivo lontana, non avevano su di me
nessun effetto se non quello di rendermi ancora più intrattabile e insofferente.
Quel mondo di adulti così complesso,
diveniva ancor più complicato per la mia mente di bimba.
Regnava in me un sentimento
d'impotenza che m'impediva di comprendere oltre quel punto di vista infantile.
Oggi, oramai donna matura e con
figli ribelli a carico, seduta su quel divanetto formato da due seggiole unite
insieme, dove mia madre placava i suoi tormenti dietro le pagine di un libro,
mi ritrovo a pensare agli errori commessi.
Sono qui, seduta proprio sul lato sinistro, dove si accomodava lei.
È
quello che m'ispira meglio, replicava a ogni mio rimprovero. La criticavo sempre
qualsiasi cosa facesse. Trovavo ogni forma di contraddizione pur di recarle
fastidio. Mi annoiavano persino i vasi di piante sparsi ovunque e quella scala di
legno poi, nonostante la passatoia, scricchiolava a ogni suo passo,
infastidendomi.
Mi arriva forte il ricordo di quando leggiadra come una piuma saliva quella rampa lasciando dietro di sé l’orma del silenzio.
Ora, mentre sollevo lo sguardo a contemplare quei rami coperti di foglie plasmate da caldi colori che gridano al vento d’autunno, mi pongo domande che non possono più avere risposta.
In ogni spazio di quel luogo pieno
di luce, trovo la parola amore. Sì, proprio quello che mia madre usava nella
cura di tutto. Mi alzo e ripercorro a passi lenti quell'angolo di paradiso.
M'infilo quasi con timore nel
minuscolo locale ricavato sotto la rampa di scale. Sulla destra, una casetta di
legno porta attrezzi fa bella mostra di sé. Tutto è in ordine come se lei fosse
ancora qui.
Osservo quegli arnesi con cui
curava le piante, un vero set di utensili da giardinaggio in miniatura, come se
li vedessi per la prima volta. Nell'angolo più remoto, una piccola scopa dai
colori vivaci appesa a un chiodo, orna come un bel quadro quella parete buia.
Quasi in punta di piedi esco e mi avvio al piano di sopra.
Alcune foglie danzano come farfalle
libere nell'aria per poi finire subito a terra.
Sei come tua madre. Le parole che Aurora, l'amica di mia madre soleva ripetermi sempre, le sento come un'eco lontana dentro di me. Allora m'infastidivano, ora placano ogni timore.
Con lo sguardo fotografo ogni cosa.
Voglio fermare quell'attimo di gioia destinato a scomparire nel tempo per poi
conservarlo nella memoria.
Sola ora mi avvedo dell'unicità di
quello spazio che la fantasia di mia madre aveva reso unico.
In un attimo sento nascere dentro
di me sfumature diverse e ognuna va a quietare le turbolenze dell'anima.
Finalmente, riconosco l'amore!
- 22 -
Autrice: MARIA RITA SANNA
La sorpresa
Mi ero svegliato con quella
canzone. Le parole mi danzavano in testa come fossero petali di rose
trasportate da una leggera brezza.
I
just called to say i love you.
Ero innamorato, dovevo dirglielo al
più presto. Solo due sere prima avevamo dichiarato la nostra reciproca attrazione,
un bacio appassionato, un golfino stropicciato, un respiro corto. Aspettiamo, ci siamo detti.
And
I mean it from the bottom of my heart.
Il vento della notte aveva
spogliato l'albero dai petali, caduti sul marciapiede e sul cortiletto davanti
alla porta di casa. Un tappeto dalle sfumature rosa e rosso porpora. Non potevo
perdere quell’occasione. Dopo tanto arrancare sopra cieli neri a combattere la
discriminazione, mi sentivo finalmente arrivato. Quel giorno sarebbe stato il
mio settimo cielo.
«Ricky, non vai a lavorare?»
«No, Marta, oggi preparerò una
sorpresa per il mio amore. Guarda fuori, l'esplosione della natura è un invito
a osare.»
I miei pensieri volavano insieme
alle note musicali. Anche Marta sosteneva il mio romanticismo, tanto che decise
di svaligiare il fioraio e combinare un incontro anche col suo fidanzato. Sarebbe
stata una serata per quattro all'insegna dell'amore.
All'aperto saremmo stati bene, le
giornate si allungavano e la temperatura era gradevole. Sistemai alcune
poltroncine, qualche cuscino e un tavolino al centro per poggiare aperitivi e
manicaretti. Ero riuscito a rendere un piccolo spazio intimo come un guscio, ma
col cielo a portata di mano. Cosparsi il pavimento e i pochi arredi con tanti
petali, quanti era riuscita a portarne Marta. Lei mi capiva, era solidale con
me. La nostra amicizia era decollata in poche settimane fino a diventare di
ferro.
I
just called…
No, non era una giornata di festa,
era solo un martedì di primavera, quasi estate. La mia testa scoppiava d'amore,
pulsava al ritmo delle note che, per dargli maggior vigore, cadenzavo come un
valzer. La mia dichiarazione era pronta.
Avevamo dato appuntamento ai nostri
compagni per le diciannove.
Io aspettavo George.
Marta aspettava Eric.
L'attesa finì.
…to say I love you
Parcheggiò l'auto davanti a noi.
Ero eccitato. Scese dalla macchina, guardò prima Marta, poi, me. Tremavo per la
contentezza di avergli fatto una sorpresa, ma lui non dimostrò tanta
meraviglia. Un'espressione rassegnata gli fece chinare il capo, non sorrideva.
Guardai Marta, anche lei gioiosa e felice. Parlammo insieme, ma sillabando due
nomi diversi.
«George!»
«Eric!»
La musica cessò. La sorpresa ci
inghiottì.
Autrice: PINUCCIA SASSONE
La pioggia di petali rosa
Quanto tempo era passato?
Cesare, dopo quel giorno, non aveva
rimesso piede nella sua casa. Caterina l'aveva lasciato dopo lunghi anni di
malattia. L'alzheimer, senza pietà, aveva ucciso ogni angolo della sua memoria.
Un amore speciale, coronato dalla
nascita di un bambino, tanto desiderato. Una vita semplice, arricchita da
interessi comuni, soprattutto culturali.
Troppo bello per durare una vita
intera. La loro esistenza fu sconvolta dalla più grande delle tragedie. Accadde
il ventuno di marzo, quel giorno Marcello compiva sedici anni. Tornando da scuola,
un pirata della strada stroncò la sua giovane vita.
Caterina l'aspettava ogni giorno, alla stessa ora, in cima alla gradinata.
Mammina,
cosa si mangia di buono oggi? Chiedeva il ragazzo ad alta voce dall'altro
capo del marciapiede.
Indovina…
indovinello, cosa pensa il mio Marcello? Rispondeva sorridendo la mamma.
La breve filastrocca finiva a
tavola gustando le leccornie che Caterina preparava per il piccolo uomo dagli occhi verdi e il viso lentigginoso.
Aveva un'aria da simpatico monello,
era inconcepibile pensare di vivere senza di lui.
Da quel giorno, calò il sipario, il silenzio del buio. Ognuno si chiuse nel proprio dolore. Nulla poteva tornare come prima.
Ogni anno, il primo giorno di
primavera, era sempre una calda giornata di sole, una pioggia di petali rosa
inondava la loro casa all'interno del cancello e sulla gradinata.
Un rito preciso e puntuale.
Caterina trovava consolazione pensando fosse un segno dal cielo, il figlio le
faceva sentire di non essersene mai andato.
Per un attimo la tristezza del suo
volto si trasformava in un fragile sorriso.
Cesare, delicato e premuroso le
stava molto vicino. Negli anni ritornò una parvenza di normalità, fino a che
notò qualcosa di insolito.
La moglie aveva comportamenti strani.
Se le chiedeva spiegazioni, si arrabbiava
negando tutto. Cesare, preoccupato, a insaputa di Caterina, consultò un medico.
Diagnosi conclamata: erano le prime avvisaglie dell'alzheimer che anche un
grande dolore poteva aver causato.
Caterina peggiorava ogni giorno. Il marito, per lei ormai uno sconosciuto, non
la lasciava mai sola. L’amava come sempre e così indifesa, era diventata la sua
bambina.
Quando lei mancò, Cesare andò via.
La loro casa, testimone di felicità
e dolore, rimase come quell’ultimo giorno insieme. Ogni angolo parlava di lei e
Marcello.
Prese in fitto un piccolo
appartamento nel paese vicino.
Era il ventuno di marzo. Preso da un forte e improvviso desiderio, pensò che poteva essere il giorno giusto per ritornare dove tutto lo stava attendendo da tempo.
Parcheggiata l'auto in piazza, raggiunse
la casa a piedi. Un percorso di ricordi,
sorrisi e dolori.
Nulla era cambiato.
L'albero di ciliegio, diventato
ancora più maestoso, era in fiore. Alcuni rami avevano oltrepassato il recinto
poggiandosi sulla ringhiera della gradinata.
Il profumo inebriava l'aria.
La pioggia di petali rosa aveva
rispettato l'appuntamento.
A Cesare, il cuore batteva di una
dimenticata gioia, alcuni petali giocavano, svolazzandogli intorno. Eppure, non
c'era un alito di vento.
Udì da lontano, chiara, la voce di Caterina.
Marcello…
corri, papà è tornato.
- 24 -
Autrice: LINDA SILVIA SCARPENTI
Brownstones
Il viale alberato di ciliegi in fiore, lungo il quale si affacciano le case d'epoca vittoriana dai mattoni rossi – i Brownstones – a maggio era un tappeto di petali di colore rosa, variegati da più sfumature. L'accesso ad ogni abitazione era permesso dalle scale di marmo che, con i loro sette o otto larghi gradini, sporgendo, davano movimento a quel quadro variopinto.
Guardai la scala che portava alla casa
di Bianca e, come tutte le volte, il dolore - il mio dolore – si acutizzò: i
petali, lì, in quella piccola parte antistante all'intero edificio, erano di
troppo, fuori posto. Sparsi ovunque, creavano disordine: quello mentale.
Anche le due poltroncine rosse, che
Bianca aveva recuperato in seguito alla chiusura di un vecchio cinematografo con
l'intenzione di dipingerle, erano state appoggiate lì in giardino, e sembravano
scandire un ritmo perpetuo: nessuno le avrebbe più dipinte né spostate da lì
per parecchio tempo.
Dopo gli studi e la laurea in Lettere
e lingue straniere, si era trasferita qui a New York dall'Italia. Nel giro di
poco, aveva trovato lavoro in un'agenzia immobiliare: il suo sogno Americano,
da sempre inseguito, si stava realizzando.
Ogni mattina, per recarsi al lavoro
a Manhattan, lasciava la sua casa presa in affitto nel cuore di Brooklyn Heights, dove aveva vissuto
anche Truman Capote, l'autore di Colazione da Tiffany.
Percorrendo il viale per
raggiungere la stazione della metro di High
Street, si imbatteva nei vicini di casa, i suoi neighbors che ormai la consideravano
una di loro.
Bianca era una ragazza dolce e
solare. Difficile non entrare in sintonia con lei...
Ricordo il giorno in cui la
conobbi: mi ero presentato all’agenzia, per la visione di un appartamento in
vendita.
Non so se si fosse innamorata di me
dal primo momento in cui mi vide, com’era solita ripetere; so solo che, da quel
momento, non ci lasciammo mai più.
Studiavo per diventare avvocato:
l'esame di Stato mi avrebbe così permesso di diventare partner dello Studio Legale Mitchell, fondato da mio padre.
Volevo solo stare con lei il
maggior tempo possibile. Così, mi trasferii a casa sua, fino a quando…
Poco prima di Natale, aveva
iniziato con una tosse stizzosa, che non le dava tregua, soprattutto di notte,
e la sera aveva sempre qualche linea di febbre. Ci mise un po' prima di
decidersi ad andare dal medico: era solita sdrammatizzare tutto, quasi per
allontanare la paura…
Poi, però, la paura arrivò davvero,
e Bianca non riuscì più a metabolizzarla.
Non riesco a togliermi dalla mente
l'ultima volta in cui, ciafrugliando, sedata dalla morfina… mi chiese di
mandare un messaggio.
«Manda messaggio… manda messaggio!»
Le mostrai il suo cellulare e le
chiesi a chi dovessi inviarlo.
«Manda messaggio…»
«Lo mandiamo a Joe?» chiesi, capendo
che voleva inviarmi un ultimo saluto.
«Sì, Joe… Love you…» disse, annuendo con la testa.
Dopodiché, si addormentò per
sempre.
In seguito alla morte di Bianca, comprai
quella casa dai mattoni rossi, quella del sogno Americano.
So che un giorno, l'abiterò.
- 25 -
Casa dolce casa: quanto mi manchi!
Ah, come vorrei essere un albero
che sa dove nasce e dove morirà! È scritto nella canzone di Sergio Endrigo dal
titolo “1947”. Poi, questo concetto è stato sfatato: oggi vediamo ulivi
centenari trapiantati nei giardini di tante civili abitazioni. L'albero fiorito,
che tappezzava con i suoi fiori caduti la scala e il cortiletto della casa
riprodotta in fotografia, ci dice che la famiglia, che l’abitava, è
partita per un lungo viaggio, altrimenti non si giustificherebbe il tappeto di
petali che ricopre ogni fazzoletto di quello spazio, che sa di vita all'aria
aperta a godersi il fresco dell’ombra, allietato dalla bellezza e dal profumo
di quei fiori di colore rosa, che indica romanticismo, calma e tenerezza.
Maria, la padrona di casa è dovuta
partire per andare a trovare la vecchia madre che abitava ancora al paese di
origine; era solamente per una visita di affetto e non per motivi di salute. La
casa lasciata provvisoriamente era piena di ricordi: vi abitava da quando era
studentessa universitaria; lì erano custoditi tanti frammenti di vita allegra
di gioventù e di tanti sogni fatti per il futuro. Lì sperava di viverci con un
uomo al suo fianco e allevare la sua futura famiglia.
Il destino non lo conosciamo;
appartiene al futuro e non sappiamo mai cosa ci sia dietro l'angolo. Anche se
cercassimo di imbrogliarlo, cambiando il percorso, si sveglia almeno mezz'ora
prima di noi e ci aspetta al varco, ovunque noi andassimo.
Maria, dopo tantissimi anni,
incontrò al paese la sua vecchia fiamma, che per dissapori familiari dovettero
interrompere il rapporto amoroso. Nessuno dei due innamorati ebbe il coraggio
di scontrarsi con i rispettivi genitori e così ognuno andò per la propria
strada. Però, il calore dell’amore non si era mai assopito sotto la cenere. I
due si rividero dopo tanti anni; nessuno di loro aveva messo una pietra sul
passato. È bastato far incontrare i loro sguardi e quella fiammella cominciò a
prendere vigore.
Peppino disse a Maria che aveva un
fratello in Australia e che aveva bisogno di una persona di fiducia che curasse
i suoi interessi nella grande azienda che aveva costruito con successo in quel
lontano e sterminato Paese. Le prospettive erano ottime: un buon lavoro, una
villa con un immenso parco affacciato sul mare aspettavano solo che Peppino decidesse
di partire e voltare pagina. Ne parlò con Maria della sua decisione e le
propose di condividere quel sogno che si stava realizzando.
Maria su due piedi disse di
lasciarle un po’ di tempo per riflettere e che presto avrebbe dato la risposta.
Ella ritornò alla sua casetta per riprendersi i suoi effetti personali e la
prima cosa che fece fu la fotografia dell’oggetto. Volle portarla con sé e
guardarla ogniqualvolta la nostalgia l’avesse fatta ritornare indietro al
passato. Mise in vendita la casa e si fece promettere dalla nuova proprietà di
tornare a metterci piede, qualora fosse rientrata in Italia. La felicità non
conosce confini e sfida il tempo!
Autunno Newyorkese
Si ritrovò ancora una volta sola, a guardare dalla finestra della sua camera quel maestoso albero piangente.
L'atmosfera autunnale rendeva New
York un posto ancora più bello, impreziosito da petali cadenti che si
poggiavano su tutto ciò che capitava: panchine, tetti, strade. Sembravano
coriandoli che, in un'ultima danza, andavano a morire su ripiani improbabili, incerti.
Quella mattina il quartiere di
Greenwich si era vestito di rosso, il colore dell'amore, almeno
così era stata convinta sin dalla
sua più tenera età e lei nella sua ingenuità ci aveva creduto. Non avrebbe
utilizzato nessun'altra tonalità per riempire i cuori disegnati nel suo diario
di bambina.
Si trovava a New York da due mesi,
la sua famiglia si era trasferita ed era stata costretta a seguirla, a dire addio alla sua vita, abbandonare la
città natale a favore di quell'enorme metropoli che non dormiva mai,
perennemente piena di luci e nel perpetuo andirivieni della gente. Aveva passato il tempo ingoiando lacrime e vivendo di inquietudine.
Si era opposta con tutte le sue
forze a quel trasloco, ma suo padre, un chirurgo di fama internazionale, non
aveva voluto sentire ragioni. Il dio denaro poteva comprare tutto, anche la
felicità di sua figlia.
Avrebbe dovuto ricominciare tutto
da capo, scuola, amici, abitudini, Gabriele.
Si chiese come avrebbe fatto ancora
senza Gabriele, un amore tutt’altro che “fanciullesco” come soleva definirlo
suo padre. Ma che ne sapeva lui?
Le continuava a dire che aveva solo
15 anni, che era ancora una bambina e che la strada da percorrere era tanta.
Sarebbe stato facile per lei ambientarsi in quella città che offriva mille e
più opportunità.
Sì, ma lei senza il suo amore si
sentiva persa, non avrebbe percorso nessuna strada, non voleva nessuna
possibilità.
Desiderava solo andare da lui,
stringerlo forte e sentire ancora l’odore della sua pelle, il battito del suo cuore, i baci, le carezze, le
parole sussurrate all’orecchio.
Voleva ancora fare l'amore con lui.
Le sembrava irraggiungibile, il suo
Gabriele.
Il suono del messaggio la distolse
da quei tristi pensieri e sperò che fosse lui.
“Ciao, amore. Ti penso”
Poche parole che servirono a farle sentire ancora di più quell’assenza già imponente, ingombrante, soffocante. Le mancava tanto, troppo.
La lontananza aveva reso
quell'amore sempre più forte. Non sapeva di poter amare così, eppure lui era il
primo pensiero ogni mattina, l'ultimo quando la giornata volgeva al termine.
Guardava quell'albero di ciliegio
che continuava a perdere le foglie. Volteggiavano nel vento senza meta allo stesso modo in cui lei
perdeva la sua felicità nell'oblio della solitudine.
Una lacrima scese, si strinse le mani al grembo, accarezzò il suo ventre. Non era più una bambina, suo padre ben presto se ne sarebbe reso conto. Ogni giorno si sentiva sempre più forte, più matura.
Si scopriva donna, una piccola
donna pronta ad accogliere nella sua vita quello che sapeva essere il suo completamento, quello che stava già
diventando, giorno dopo giorno, l'altra metà del suo cuore.
Mi vuoi bene?
«Ma tu che problemi hai con le domande? Anche quelle semplici tipo Mi vuoi bene?»
«In che senso?»
«Nel senso che quando ti si chiede di rispondere a
una domanda che indaga i tuoi sentimenti cambi discorso, sparisci o, peggio,
fai un'altra domanda. Perché?»
La donna si fermò a riflettere.
Sì, lo sapeva il perché, ma non glielo avrebbe detto.
Se lo sarebbe tenuto per sé anche questa volta, nonostante l'uomo risultasse
palesemente triste. Era il suo segreto.
Scese la breve scalinata fino a raggiungere il piccolo giardino e si
avvicinò alle due sedie poste una di
fianco all'altra, piazzate lì per i loro momenti... un po' così.
Le foglie rosse d'autunno formavano un tappeto
uniforme su qualsiasi superficie. Si chinò e con una mano spolverò entrambe le
sedute. Prima la sua, poi quella di lui. Si accomodò e con la mano gli fece
cenno di raggiungerla.
Lui l'avrebbe fatto.
E l'avrebbe amata ancora, con o senza risposta.
L'avrebbe amata ancora.
- 28 -
Autore: VIRGINIO SPEZIALI
Il divanetto rosso Ferrari
La disperazione di quei giorni era palese e ogni cosa era, o andava, storta.
Non c'eri più nella mia vita ed
ogni colore mi appariva spento come non mai.
La primavera avanzava e non me ne accorgevo neppure.
Il “nostro” angolino era un luogo
freddo in cui non mi rifugiavo più senza te, che senso avrebbe avuto trovarmi
da solo in quel luogo deserto?
Ricordi come riuscivamo a sentirci
lontani dal mondo nel nostro angolo preferito, seduti su quel divanetto
sgangherato? Noi e la nostra fantasia che ci illudeva di essere seduti in
piazza Duomo, a Monza, o sul lungolago di Bosisio Parini ad ammirare i tramonti,
dai riflessi dorati, nel lago. Quanti sogni abbiamo fatto seduti su quel
divanetto mentre i fiori rosa dell'albero, che sta sul marciapiedi, ci copriva
interamente di petali profumati. Quanti viaggi abbiamo
fatto con la fantasia, eravamo a Roma,
Parigi e nelle lontane isole greche assolate e sembrava tutto così vicino. Quanti sogni di vita futura, quante idee e
quanti progetti.
Desideri espressi insieme per una
vita che sembrava potesse svilupparsi assieme e l'inizio pareva essere proprio
lì dietro l'angolo o dopo il giorno successivo.
Eravamo proprio qui sul divanetto
rosso ferrari, due sedili uniti tra loro che chissà da dove arrivavano. A causa
delle restrizioni per la pandemia non potevamo allontanarci da casa ma potevano raggiungere il nostro giardino
segreto. La situazione generale era pesante, troppe ansie e problemi si
riflettevano anche sulla nostra vita e non sempre riuscivamo ad essere
distaccati dalla realtà o, quantomeno, ignorare la negatività che ci
circondava.
Ma cercavamo, anche disperatamente,
di ignorare quanto di più negativo ci colpiva in quei giorni per andare avanti
passo dopo passo, non certo per creare giustificazioni alla nostra relazione non
ne avevamo bisogno di certo. Abbiamo perso amici e conoscenti ma nonostante
questo cercavamo assolutamente di rinsaldare giorno dopo giorno la nostra
unione, il nostro sentimento in attesa delle nostra prossima vita insieme.
Riempivamo i nostri momenti con
tutto quanto poteva renderci felici da una canzone, ah Battisti per sempre nel
cuore. O una poesia anche se eravamo rimasti alle nostre care e vecchie poesie
di Jacques Prévert e la nostra preferita in assoluto era sempre Paris at night.
E poi un giorno, un maledetto
martedì, te ne andasti così senza un perché senza una ragione senza...
E la mia vita precipitò nel
peggiore dei gironi infernali, non c'era più una ragione per nulla non una ragione
neppure per vivere, non una ragione per reagire, non una per non subire quest’ avversità.
Anche il vivere quotidiano mi
divenne ostile, il pensiero di sopravvivere mi tormentò per tanti giorni perché
il futuro era davvero nero. Non riuscivo neppure più a compiere le attività
quotidiane minime per tenere in ordine la casa che si era riempita di ogni
genere di rifiuto finché una sera mi decisi a portar fuori almeno i sacchi
della plastica e... sul divanetto rosso Ferrari c'eri tu.
- 29 -
Autrice: CAMILLA TERSO
Matilde
Matilde
da tempo lavorava in quel museo, era solo un'addetta alle pulizie e la sua vita
era davvero piatta.
Casa,
lavoro, famiglia.
Però
quando si ritrovava sola in quel luogo, le piaceva ammirare le opere d'arte e
documentarsi su di esse.
Quella
mattina arrivò un pezzo di Fernando Costa. Finito il turno si sedette per
ammirarlo, ma la stanchezza prevalse e di colpo si ritrovò nella fotografia.
Era
in un quartiere londinese.
All'inizio
si sentì magica, come se fosse stata catapultata in una realtà parallela.
Era
lei, ma vestita in modo elegante, con un bel tailleur di taglio classico e i
capelli raccolti in un ampio cappello color pastello. Si rese conto che non
riusciva a camminare per via delle sue belle scarpe rosse tacco dodici. Non era
abituata.
Dopo
i primi attimi accettò di buon grado il cambiamento senza farsi troppe domande
e cercò di capire chi fosse.
L'aiutò
un incontro con una sua amica che la chiamava l’italiana e che si autoinvitò a
prendere un tè a casa sua.
Peccato
che lei non sapesse nemmeno dove si trovava, se non fosse che durante il
tragitto quella donna, di cui non conosceva nemmeno il nome, non smetteva di
parlarle del bellissimo ciliegio che si trovava davanti la sua abitazione.
Arrivate
a destinazione, rovistò nella borsetta e trovò le chiavi di casa.
Piacevolmente
sorpresa salì le scale e si trovò davanti alla porta con il suo nome: Matilde
Visconti.
Quando
entrò due piccoli marmocchi le andarono incontro chiamandola Mummy: lui
biondissimo, occhi azzurri, poteva avere circa tre anni; lei vestita da
bambolina con un viso furbetto, accompagnati da una signora un po' avanti negli
anni che doveva essere la tata, lo capì dal modo in cui i bambini le parlavano.
Questo
la rese molto felice poiché nella sua vita reale non aveva avuto figli e le
erano mancati molto.
Purtroppo
era sempre stata sola, viveva ancora con i suoi anziani genitori che l’avevano
costretta a sacrificare la sua vita per loro.
La
casa le apparì enorme, con un lusso sfrenato, tappeti rossi, carta da parati e
un'infinità di suppellettili d'argento sparse qua e là.
All’improvviso
arrivò un uomo, apparentemente sconosciuto, ma guardandolo bene – un po' invecchiato – era l'amore della sua vita. Anni addietro le aveva chiesto di
seguirlo a Londra perché aveva avuto un lavoro presso una grande multinazionale,
ma lei aveva dovuto rinunciare a lui per stare con i suoi.
Tutto
le sembrò così bello e iniziò a vivere quella vita come se l’avesse sempre
fatta, fin quando un giorno la invitarono a una mostra fotografica e, in un'opera
esposta, c'era la sua vecchia Napoli.
Nella
foto c'era anche una donna, era sua madre che la richiamava al suo dovere di
figlia accusandola di averla abbandonata.
All'improvviso Matilde si sentì
scuotere dal bimbo e si svegliò di soprassalto. Stordita si guardò attorno e si
rese conto che era nella camera da letto della bellissima casa di Londra.
Era stato solo un brutto sogno.
- 30 -
Autrice: EMANUELA KARMEN TOMIATO
Ieri, oggi, domani
Guardo
fuori dalla finestra. La pioggerellina di primavera non scende più.
Il sole ora
filtra attraverso i rami, riscalda. Piccoli petali volano leggeri nel mio
giardino.
È una danza rosa che dondola davanti agli occhi, sembra non
voler finire mai.
Da poco
abito qui, in questa casa, così bella che a me sembra una reggia.
Erano
mesi che desideravo avere un posto mio, andare ad abitarci da sola.
Mi
serviva aria nuova.
Così ho
deciso di lasciare tutto e di trasferirmi qui, in Perry Street, in una
palazzina tipicamente newyorkese, lontana dai grattacieli, dal caos e dalla
sede del mio lavoro.
È la
casa dei sogni e il rosa che ora mi circonda mi dà tanta sicurezza.
Già,
sicurezza. Che parola grande, piena di tutto quello che ti fa andare avanti.
E quando
manca? Beh, non scorgi più la luce in fondo al tunnel, senti i piedi vacillare,
inizi a tremare dentro. Il mondo attorno crolla e tu con lui.
Essere
trattata male al lavoro, ogni giorno, in ogni occasione: alla fine questo mi ha
logorato nell'anima talmente tanto che vedevo nero, pensavo di non valere più
niente, sentivo quasi di essere sbagliata. Anche se al lavoro avevo fatto tutto
il possibile e dato il meglio di me, ero stata messa alla porta, licenziata
senza preavviso, senza possibilità di replica o di difesa. Nel giro di
ventiquattr'ore ero fuori.
Sconvolta.
Una sberla in faccia, come quella che mi diede mio padre quando mi scoprì a
fumare: quella volta lui aveva ragione, perché avevo appena dodici anni, troppo
piccola; ma questa volta…
Ho
provato lo stesso dolore.
Mi sono
allontanata dal posto di lavoro, ferita e molto abbattuta.
I
colleghi mi hanno chiamata subito per darmi solidarietà. Mi hanno fatto sentire
amata.
Non mollare, a breve arriverà il tempo della
riscossa.
Il capo,
dopo un paio di settimane, mi ha mandato una lettera di “scuse” chiedendo di
ritornare al lavoro. Aveva infatti ricostruito l'episodio e compreso l’innocenza
del mio agire.
Mi si è
allargato il cuore, ma che legnata! Ho rimesso insieme i pezzi scollati, piano
piano ho ripreso fiducia dentro.
Ora non
vedo più tutto nero, la vita si è riempito di speranza.
E il
rosa qui attorno mi dà conforto. Dopo il freddo dell'inverno infatti torna la
primavera.
Anche l'anima
si è rasserenata. Il bene è tornato a galla, come la verità.
Sono
passata da un periodo terribile, nero, che mi ha bruciata nel profondo e mi ha
fatto sentire inutile e sbagliata, a un tempo nuovo, luminoso e rosa in cui mi
sono rivalutata nel profondo come persona.
Le
lacerazioni del cuore, coperte dai piccoli petali rosa che cadono ora, si
nascondono sotto. Diventano esperienza e saggezza per il futuro che affronterò.
Fuori continua
la danza rosa, testarda, che sembra non voler finire mai.
Sarò
utile di nuovo. Mostrerò quanto so fare e domani riavrò il mio lavoro.
Sento
che posso farcela. Da sola. E va bene così.
- 31 -
Autrice: COSTANZA TROTTI
Due amiche a prova di sogno
Ne era passato di tempo dalla promessa di incontrarsi, di stare insieme, di parlare di tutto, tranne dei volta faccia del destino. Il momento era arrivato, Raffa doveva chiudere i silenzi alle spalle, aveva bisogno della sua amica per ripartire.
La casa nuova di Marica, girato
l'angolo, apparve come un sogno rosa ad occhi aperti, la scalinata monumentale,
il tappeto di foglie, il cantuccio con le sedie, l'arco pittoresco che si
nascondeva alla strada, che meraviglia! La bocca spalancata avanzava
lentamente, temeva di rompere l'incantesimo, meglio sedersi un attimo per
prendere fiato.
“Resterei qui per sempre”, le parole
di Raffa vennero fuori come un fischio, più che un suono.
Marica rideva divertita mentre
apriva le porte del sogno e guidava i passi increduli. Nella sala d'ingresso,
la parete di fronte alla finestra era occupata da una grande cornice dove
l'albero si specchiava dentro, raccoppiava i suoi rami di coriandoli rosa,
sembrava di essere al centro del parco.
“Se non credi ai tuoi occhi con un
pizzico mi tocchi, finché riscrivi il tuo domani, nel mio regno tu rimani, se
non credi ai tuoi occhi con un pizzico mi tocchi, finché non riscrivi il tuo
domani, nel mio regno tu rimani…”
La filastrocca della notte si era
inceppata, non andava più avanti, il sole si alzava e due sottane ancora
danzavano con i petali rosa fra i capelli.
Autrice: TATIANA VANINI
Il dono inatteso
Le pareti della cella sono spoglie, umide e claustrofobiche. Nessuno spiraglio aperto verso l'esterno. Chiuse e soffocanti incombono, si restringono, sempre più vicine. Mi manca l'aria, non respiro. Ho paura di soffocare, ho paura di venire schiacciata...
Un grido lacera
l'aria e di colpo mi sveglio.
Sono seduta al mio
posto sull'aereo che mi sta riportando in Italia e lo strillo di un neonato
affamato mi ha strappata all'incubo. Mai più gradito fu un pianto.
Nel sobbalzo che
ho fatto il libro che stavo leggendo mi è caduto dalle ginocchia, finendo a
terra ai miei piedi. È un tomo corposo, con le pagine fitte fitte e di carta
leggera, fragile, sembra velina: “Collins I grandi romanzi”, c'è scritto sulla
copertina.
Quando mi sono
addormentata ero nel bel mezzo della Scena quarta di “Senza nome”.
Partendo da New
York, dalla casa di mia zia Edvige, l'ho scelto per due motivi tra i tomi della
sua libreria: non avevo ancora letto le opere di Collins sebbene mi
incuriosissero da parecchio, e per il pregevole fatto che, nonostante il peso
non indifferente, ero certa di aver tutte le pagine necessarie a sopportare
circa otto ore di viaggio. Perché ho da sempre il timore di non aver nulla da
leggere, e infatti a casa sono piena di libri che mi attendono e in borsa ne ho
sempre almeno uno. Perché in aereo non riesco a dormire e guarda caso ho appena
fatto un incubo. Le contraddizioni e le piccole manie della mia vita.
Chinandomi per
raccogliere l'antologia mi accorgo che dal fondo spunta l'angolo di una foto.
La estraggo dall'abbraccio segreto delle pagine incuriosita ed emozionata.
Queste piccole sorprese mi piacciono tanto, torno un po' bimba, quando tutto
era più semplice e nei miei ricordi più felice.
L'immagine
impressa è l'ingresso della casa della zia: con le sue scale, il piccolo angolo
privato prospiciente al marciapiede, con le poltroncine dove ama sedersi al
pomeriggio, salutando i passanti, come una dama di altri tempi, una vedetta dei
giorni che furono, lì, presente, a dare stabilità, a regalare un sorriso. I
fiori dell'unico albero di pesco che, non so come, ha deciso di vivere e
crescere in quella via di città, rendono la foto psichedelica, vivace, in un
abbraccio di rosa e fucsia.
Guardo quel
pezzetto del suo mondo. Sto bene con la zia, con lei mi sento leggera. Quella è
casa. Il posto dove sono diretta, dove vivo per undici mesi e mezzo all'anno a
Como, è una trincea, una zona dove le responsabilità mi rendono sempre tesa,
attenta a non mollare mai il colpo. Tante cose da fare, sempre protesa
all'esterno mi accorgo che mi dimentico di me, mentre mi occupo degli altri, di
quegli altri che fragili hanno bisogno, chiedono senza bisogno di parlare,
perché il loro linguaggio è il silenzio e in tutti questi anni mai mi sono
sentita chiamare mamma.
Dietro la foto una
scritta: Non sei sola.
Sorrido e
finalmente respiro.
§§§
E adesso: votate, votate, votate!
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dalla vostra
Stefania Convalle