Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

venerdì 30 settembre 2022

Numero 412 - Masterbook, i racconti del GIRONE C, Fase 1, per il voto popolare - 30 settembre 2022


 Ultima tappa della FASE 1 del Masterbook

Ieri sera, 29 settembre 2022, durante la diretta Facebook sulla Pagina di Edizioni Convalle, ho svelato i nomi degli autori dei racconti del Girone B

La Fase 1 per loro si è conclusa e i 5 autori che passano alla Fase 2 sono:

Maria Grazia Conti    (voto giuria tecnica)

Pamela Pirola (voto giuria tecnica)

Barbara Romano (voto giuria tecnica)

Emanuela Tomiato (voto popolare)

Tatiana Vanini (voto giuria tecnica)

Complimenti a loro, ma anche agli altri 3 autori che hanno partecipato alla gara: 

Marco Lazzaro

Michela Rossi

Simona Valiante

Tutti i racconti erano belli, ma bisognava scegliere!

Ieri sera, durante la diretta, ho letto i racconti in gara del Girone C, Fase 1.

In 4 hanno passato il turno, approdando alla Fase 2, grazie al voto della giuria tecnica.

Per gli altri 4, però, come le scorse settimane, non tutto è perduto e uno di loro potrà essere ripescato attraverso il voto popolare.

Sarete voi, lettori, a poter ripescare un racconto e "ributtarlo" in gara attraverso il vostro voto che dovrete esprimere in un commento a questo numero del blog, all'interno del blog stesso.

Potrete esprimere una sola preferenza scrivendo: VOTO IL RACCONTO NUMERO... 

Mettete il vostro nome e cognome nel commento, non sono graditi i commenti anonimi.

Se volete scrivere anche la motivazione, all'autore farà piacere, anche se non sapete a chi appartiene il testo (ma lo saprete in un secondo tempo).

I racconti verranno postati in questo numero senza il mio intervento, nessuna correzione verrà da me apportata. Tutti i testi saranno qui riportati esattamente come mi sono arrivati.

Comincio quindi a postare qui di seguito i 4 testi che potrete votare.

 

RACCONTI DA VOTARE

 

GIRONE C – ELABORATO NUMERO 2

Il matrimonio di Mitzi


C'è aria di fermento in casa Petek, questa mattina. Oggi si sposa Mitzi, la figlia di Paron Bepi. Le voci si sentono fino nel cortile e le comari, già sveglie dall'alba sorridono, complici. Mitzi è quasi pronta. Ha indossato una gonna di taffetà blu e una camicetta dello stesso colore con minuscoli pois bianchi. Si guarda allo specchio e sistema il bellissimo colletto ricamato. Certo, lei avrebbe tanto desiderato un vestito bianco. Sarebbe stato semplice, a vita bassa, con un piccolo strascico. L'avrebbe cucito con le sue mani, le sue amiche l'avrebbero di certo aiutata e Madame Katarina, la proprietaria dell'atelier in cui lavora, a Pola, le avrebbe di sicuro fatto uno sconto sull'acquisto del tessuto. Maledetta guerra  che ha stravolto tutto!
Con le lacrime agli occhi, Mitzi si gira verso la porta che si appena aperta con fragore.
È suo fratello Rudy che vuole scattarle alcune foto.
«Dai, girati che almeno ti si vede la faccia.» dice, saltellando tutto agitato con la macchina fotografica a penzoloni.
«Attento che la farai cadere!» lo ammonisce lei. Ma lui non l'ascolta, continua a girarle intorno. Il suo colonnello, che gli ha prestato l'apparecchio, si è raccomandato di non fare scatti a vanvera perché le pellicole costano, per questo cerca il lato migliore di sua sorella. All'improvviso si sente in “clic”.
« Ti me ga fotografado el dedrio, » dice Mitzi ridendo.
Rudy sta per risponderle malamente ma, da fuori, si sentono voci che reclamano la sposa.
La ragazza esce in tutta fretta, accolta da grida festose e sale sul carretto. Suo padre, vestito con il suo vecchio completo blu, le stringe la mano senza parlare, ha gli occhi velati dalle lacrime. Invece sua madre non è uscita di casa e non parteciperà alla cerimonia. Donna tutta d'un pezzo la siora Eufemia. Aveva giurato che se sua figlia avesse sposato un talian lei non sarebbe andata al matrimonio e così ha fatto. Mitzi non si capacita che sua madre non capisca.
L'Istria è terra di confine e gli italiani sono sempre stati mal sopportati. Se poi sono anche militari e come tali invasori, ancora meno. Poco importa se Pietro, il suo sposo, è un ragazzo di ventidue anni, travolto come tutti loro dall'ondata di follia che sta sconvolgendo il mondo.

In breve arrivano alla chiesa. Prima di scendere, Mitzi da uno sguardo alla sua città: L'Arena, la Riva, i Giardini e il mare, il suo amato mare...quanto le mancheranno! La ragazza sa che fra non molto le toccherà fuggire da quei luoghi tanto amati. Quelli come sua madre non vedono di buon occhio i matrimoni come il suo e potrebbero perseguitarli o anche peggio. Da qualche tempo, si sente sempre più spesso parlare di foibe, di persone di cui non si sa più nulla. Meglio andarsene.

Ma ora, non è il momento dei pensieri tristi. Il suo Pietro la sta aspettando e appoggiandosi al braccio del padre, a passi leggeri, si avvia verso di lui.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 3

Lei amava scrivere

Lei amava scrivere. Avrebbe sempre scritto, se il mondo glielo avesse permesso.
I miei genitori non lo sapevano. Nessuno lo sapeva. Come nessuno sapeva il resto.
Eravamo diverse come la terra dal cielo, il giorno dalla notte, l’acqua dal fuoco. Io ero la figlia del signore; lei era la cameriera. Io potevo studiare, leggere se volevo; lei non poteva fare nessuna di queste cose sebbene le amasse più della sua stessa vita. Io studiavo, ma capivo poco e niente di libri e scrittura; lei non ne aveva la possibilità, ma aveva una sensibilità d’animo straordinaria per tutte arti.  
La ammiravo e volevo aiutarla. Di nascosto presi a comprarle carta e penna, gliela facevo trovare sotto il materasso nella sua stanzetta. Non parlavamo mai. Non potevamo parlare: uno sguardo o una parola di troppo e ci avrebbero scoperto. E poi, per la verità, non avrei saputo nemmeno cosa dirle. Che la ammiravo, appunto. Perché era coraggiosa, perché lottava per una passione in un mondo che le era ostile, perché non rinunciava a un sogno. Perché lavorava da matti di giorno e ciononostante non c’era notte che non sedesse a quella scrivania, a buttare giù due parole.
La ammiravo. Pensavo di ammirarla. Avevamo un rapporto strano che non capivo a pieno, un rapporto di sguardi e sorrisi proibiti. E poi il nostro unico contatto, quel momento in cui la sera veniva da me silenziosa, quasi furtiva, e con uno sguardo e un gesto mi chiedeva di aiutarla a sbottonare il vestito sulle spalle. In quei momenti sapevo che era felice, perché la giornata era finita e poteva dedicarsi alla scrittura. Non capivo, però, che anche qualcos’altro la rendeva felice: il nostro contatto.
In un mondo di regole e proibizioni, un mondo in cui una cameriera non poteva studiare, in cui a una donna non era permesso quanto a un uomo, in cui due ragazze di diversa estrazione sociale non potevano essere amiche, in cui rapporti profondi non erano concepiti tra persone dello stesso sesso… In un mondo di regole e proibizioni la aiutavo a sbottonarsi il vestito.
Io, nobile, aiutavo una cameriera a svestirsi.
E questo unico, breve momento di ribellione è quello che mi è rimasto più impresso da quando i miei genitori l’hanno mandata via.
Era più alta di me, così per aiutarla prendevo uno sgabello. Ricordo la nuca, i capelli appena scomposti, il collo aggraziato. Liberavo quei bottoni lentamente, osservandola. Era alta e fiera, orgogliosa e delicata. Era una sognatrice: soffriva e amava in silenzio. A pensarci ora mi vengono i brividi. A pensare a quei momenti, intendo. Mi dava i brividi sfiorarle la pelle, infrangere quella barriera sottile e invisibile ma salda e intrisa di sofferenza. Toccarla mi dava i brividi, ma allora non capivo il perché. Non pienamente. E, anche se l’avessi capito, non avrei potuto dirlo a nessuno. Non avrei avuto il coraggio allora.
Ma adesso sì, posso dirlo: io la amavo.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 4
La notte dei cristalli

Berlino, novembre 1938
Mi piaceva guardarla quando si rivestiva. Sempre di spalle, quasi come a nascondere quel corpo che, solo pochi attimi prima, si era abbandonato al mio.
Quel giorno - che non sapevo ancora essere l’ultimo – le scattai una foto di nascosto. La maglietta, con il colletto di pizzo ancora da abbottonare, lasciava intravedere il piccolo neo al limite del collo e un ciuffo ribelle di capelli neri che era sfuggito alla costrizione delle forcine.
Era la primavera del 1938 quando mi trasferii a Berlino con la mia famiglia. La nostra casa era situata davanti alla panetteria che Esther gestiva con i genitori, così diventammo subito assidui clienti.
L’alchimia che esisteva fra me e Esther era così potente che, a un certo punto, decise per noi facendo nascere un sentimento autentico, pulito e pieno di speranza.
Ma eravamo due anime fuori dal nostro tempo, un tempo che di tutto parlava meno che di amore.
A Berlino, in quel periodo, si stavano diffondendo notizie che non riuscivo a comprendere. Si vociferava che Hitler volesse eliminare gli ebrei per la loro inferiorità razziale e biologica e io, che ormai avevo diciannove anni, volevo capirne di più ma tutte le volte che chiedevo spiegazioni a mio padre – ufficiale del Terzo Reich - ricevevo sempre la stessa risposta.
Non ascoltare voci sovversive. La disoccupazione diminuisce e nessuno adesso patisce più né freddo né fame. Grazie a Hitler, avremo una Grande Germania.
Ma Esther era preoccupata e io, anche se cercavo di rassicurarla, pure.
«Franz, io ho paura. Sono ebrea e se le voci che girano corrispondono a verità, finirà tutto.»
«Amore mio, stai tranquilla. Ho parlato con papà. Dice che sono solo voci rivoluzionarie.»
Ma il cuore conosce sempre ciò che la mente nega, per questo il mio - come un oggetto di vetro da trattare con cura – cercava rifugio.
Così, quando nella notte dei cristalli le mazzate della Gestapo frantumarono le vetrine del negozio di Esther, anche il mio cuore fece la stessa fine. Nel giro di poche decine di minuti fui catapultato in un altro mondo e in un altro corpo.
Un militare del Terzo Reich -mandato da mio padre - irruppe in casa nostra, ci fece vestire in fretta e - consegnandoci nuove identità – ci condusse alla stazione ferroviaria, dove io e la mamma prendemmo il primo treno diretto a Zurigo; lì, un altro ufficiale ci accompagnò alla nuova residenza.
Avevo perso tutto. Mi restava solo quella foto.

Zurigo, novembre 1989
Tutti i telegiornali stanno trasmettendo la notizia della caduta del muro di Berlino. Avverto un vuoto in mezzo al petto e capisco che devo andare. Sono un uomo solo che per oltre cinquant’anni ha vissuto una vita che non era la sua.
Devo recuperare, anche fosse solo un frammento di quella vita gettata nel nulla.
In mezzo a quella folla immensa, cado.
«Mi scusi» mi affanno a dire alla signora che, a mia volta, ho fatto cadere.

…………

«Franz?»
«Esther.»
L’alchimia ha riacceso la speranza.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 7

La donna senza volto


Faccio questo lavoro da anni e ogni volta è come la prima volta. Quella scossa era stata forte: magnitudo 4.0. Ancora oggi ho davanti agli occhi tutta la crudezza di quelle immagini. 
Ho iniziato a fare il pompiere che avevo solo vent’anni e ricordo che al corso di addestramento ci ordinarono di essere razionali e distaccati; in quarant’anni di lavoro lo sono sempre stato. Non quel 9 aprile. Stranamente sentivo che, in quella cittadina, ormai distrutta, avrei recuperato un pezzo di me.
Da subito, quei luoghi mi diedero un senso di appartenenza. Eppure non ne ero originario. La mia famiglia adottiva proveniva da tutt’altra nazione.
Perciò non capivo come mai, per la prima volta, non riuscivo a rimanere vigile.  Infatti, tra le macerie e le urla di disperazione, forse per sfuggire al dolore, mi fermavo a guardare i vari oggetti rimasti in superficie. Lo sguardo mi cadde su una foto insabbiata, più che foto, sembrava un dipinto. Una donna di spalle. L’istinto mi indusse a riporla in tasca, non potevo soffermarmi a guardarla. Dovevo darmi da fare, il dolore della gente mi chiamava.
Andai a casa dopo due mesi. Era sempre difficile tornare alla normalità dopo aver fatto un intervento simile e quella foto divenne la compagna delle mie notti insonne. Non capivo perché mi sentissi tanto attratto da quella donna di spalle.
Quel vestito da educanda mi riconsegnava alla fanciullezza, avevo l’impressione di essere, un neonato tra le braccia di quella donna senza volto. Quando chiudevo gli occhi mi sembrava di sentire il tocco vellutato di quell’abito sulle mie gote appoggiati sui suoi seni.
Erano tante le domande che mi frullavano nella testa. Immaginavo chi potesse essere e che vita poteva aver vissuto. C’era una data nella parte posteriore: 28.06.1945. La foto ritraeva una ragazza di circa vent’anni, perciò, secondo i calcoli, doveva avere ottant’anni.  Coincidenza, l’età della mia madre adottiva. Anche se il mio principale tarlo era del perché una foto di spalle? Che senso potesse avere? Forse era una foto rubata, fatta senza che se ne rendesse conto, oppure non voleva farsi vedere. Iniziai a fantasticare su di lei, su un collo che appariva sensuale. All’improvviso, non l’avevo notato prima, sotto la nuca, due piccoli nei. Li avevo anch’io e nello stesso punto.
Non avevo nessun elemento per avviarmi in una ricerca, infatti nemmeno internet mi fu di aiuto. Più passava il tempo e più l’immagine prendeva la forma dell’ossessione.
Da Anni ero ormai separato e vivevo con mia madre. Una sera, tornai dal lavoro era lì, aveva le lacrime agli occhi. Conosceva il mio segreto. Il dipinto trovato sotto il mio cuscino. Ne tirò fuori uno identico, dove si vedeva il volto della donna.  Una bella donna. Notai che avevo i suoi occhi e il suo sorriso. Era mia madre. Abbracciai la vecchia signora seduta in poltrona e le dissi che la mamma è una sola, colei che mi aveva cresciuto e la ringraziai per tutto l’amore che mi aveva dato in tutti quegli anni. 


E ORA VOTATE VOTATE VOTATE!

Si può votare fino alle 
ore 12 di giovedì  6 ottobre 2022

Qui di seguito i 4 racconti che hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica.

NON SONO SOGGETTI AL VOTO DEL PUBBLICO



GIRONE C - ELABORATO NUMERO 1

Il signor Orfeo


“No, non hai capito. I capelli non completamente raccolti. Lascia scendere qualche ciocca.
Sì, perfetto. Girati di spalle ora. Lasciane libera qualcuna anche dietro. Ottimo. Puoi aprire un altro bottone sulla schiena e alzare lievemente il colletto?  No, non da quel lato. Sì, esatto. Sulla sinistra. Ora ferma. Non ti muovere. Non ti girare. Resta così”.
Debora rimase immobile, trattenendo il respiro.
Fra poco sarebbe finita e se ne sarebbe andata con cinquecento euro in tasca.
Sarah aveva ragione. Quel vecchio, il signor Orfeo, era strano, ma non sembrava pericoloso.
Scattava alcune foto in bianco e nero, di spalle, a donne tra i venti e i trent’anni con i capelli castani e pagava prima degli scatti senza discutere.
Soldi facili.
Soldi di cui aveva maledettamente bisogno da quando Enzo aveva smesso di pagare gli alimenti, la fabbrica aveva chiuso e Paolino aveva cominciato ad avere bisogno di nuove cure.
Soldi che le sarebbero bastati a malapena per pagare l’affitto.
E poi?
Poi cosa avrebbe fatto?
Come sarebbe andata avanti?
“Meravigliosa. Erano anni che non riuscivo a scattare una foto così bella. Grazie. Girati pure, Debora. Ti chiami così, vero?  Vuoi vederla? Dai, vieni qui che te la mostro”.
Debora non si mosse.
C’era qualcosa nella voce del vecchio che non le piaceva.
Doveva essere pronta a tutto.
Forse il vecchio non era così innocuo.
Lo sapeva che non doveva farlo, che nessuno le avrebbe dato tutto quel denaro per così poco, che la buona sorte ce l’aveva con lei sin da quando era nata.
Lentamente si girò e quello che vide la lasciò senza parole.
Il vecchio era seduto a terra. In una mano teneva la macchina fotografica. Nell’altra una foto incorniciata.
Stava piangendo a dirotto.
“Signor Orfeo, si sente male?” chiese preoccupata.
“No, non è niente. Vai pure a cambiarti. Grazie di tutto Debora” rispose il vecchio singhiozzando.
Debora non se lo fece ripetere due volte.
Paolino sarebbe uscito dall’asilo fra un’ora. Non aveva altro tempo da perdere. Con il traffico dell’ora di punta gli autobus non erano mai puntuali.
Si tolse quell’assurdo vestito, vecchio di chissà quanti anni, che le aveva fatto indossare e si preparò per andarsene.
“Allora io andrei” disse aprendo il portone.
Nessuna risposta.
Si fermò.
Non poteva lasciarlo così.
Quando rientrò in salotto il vecchio, tra le lacrime, stava ancora guardando le due foto.
Debora si avvicinò e le osservò per la prima volta.
Erano identiche o quasi. La differenza principale i segni del tempo sulla foto incorniciata.
Si inginocchiò vicino al vecchio.
“Chi è lei?” gli chiese.
“Anna non voleva mai farsi fotografare, mai. In cinquant’anni di vita insieme ho solo questa e poche altre foto di spalle” rispose lui tra i singhiozzi.
Mentre preparava un tè caldo al signor Orfeo, Debora mandò un messaggio a Sarah per chiederle di andare a prendere Paolino.
Quando la sera uscì dall’appartamento, lasciò sopra il mobile dell’ingresso i cinquecento euro.
Se la sarebbe cavata anche senza.
Ne era sicura, o almeno lo sperava.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 5
Rosa

Caldo.
Sembra ancora di sentire la morsa della canicola che in quei giorni si avventò su di noi: testimone indesiderato di quelle ore di peccato e passione.
Affittammo un piccolo appartamento a due passi dal mare, all’imbocco di uno di quei budelli che caratterizzano i paesi della costa nei pressi di Genova.
C’erano un piccolo fornello sotto la finestra, un tavolino usurato dal tempo e un divano che trasudava vita e storie passate per quel locale. Un vaso in ceramica con la nostalgia dei fiori era l’unico vezzo che quelle quattro mura si permettevano.
E poi la camera.
Essenziale nel suo essere il complice perfetto.
Rosa arrivò la mattina del venerdì. La sua presenza diede fin da subito nuova linfa all’ambiente. Io la raggiunsi nel pomeriggio.
Per tre giorni ci fummo solo noi e il rumore del mare in lontananza, alternato a quello di un ventilatore che dava sollievo ai nostri corpi vestiti soltanto del caldo di luglio.
È l’inferno, ripeteva Rosa.
Quello che ci meritiamo, le rispondevo io.
I nostri sensi si univano a ripetizione mentre le nostre vite e le nostre esistenze soffocavano nei sensi di colpa e nella vergogna.
Ma quanto può essere sbagliato agire in nome di ciò che ci rende felice? A che punto sta il confine tra la soddisfazione e la legalità di quel piacere? Che prezzo morale ha lo star bene?
Rosa era il mio bene.
Lo è stata per quei tre giorni.
Un solo e unico weekend desiderato e bramato per una vita intera. Sognato a ogni raduno di famiglia, nascosto negli sguardi colpevoli di quei pranzi in cui si è seminato il frutto che in quei giorni abbiamo avidamente raccolto e succhiato.
Sei mio cognato, diceva, mentre mi dava le spalle e si slacciava il bottone del colletto di quell’abito nero che la rendeva irresistibile.
Sei mia, le rispondevo appoggiando il mio corpo al suo e sfiorandole il collo con le labbra.
Sapeva di tutto quello che desideravo.
Poi scioglieva i capelli e si lasciava andare al mio volere. Al peccato.
Una volta. E poi un’altra. E poi ancora.
Lo specchio al centro del piccolo armadio, rotto sull’angolo destro, rifletteva i nostri respiri lussuriosi e l’ombra ingombrante delle nostre coscienze sporche.
Sporche e appagate.
Il bene e il male convivevano in quella stanza come vecchi compagni che per mano si erano trascinati fino alla domenica sera.
Fu lei ad abbandonare quel luogo per prima.
Io restai a respirare quell’aria piena di vizio e amore per qualche momento in più.
Poi chiusi a tre mandate la porta in legno verniciata d’azzurro e lasciai le chiavi sotto il vaso del cactus sul davanzale della finestra.
Sentii le spine pungere il cuore.
Infilai le mani in tasca, accesi una sigaretta e mi rifugiai in un bar.
Due bicchieri mi furono amici e lavarono lo sporco incrostato sulla mia anima.
Per il momento.
Poi mi mossi in direzione del porto.
La mia nave salpò quella notte stessa.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 6
Lo strappo

Luisa era uscita da quella stanza con il cuore in tumulto, senza proferire parola, aveva fatto appena in tempo ad appoggiarsi alla parete del corridoio, era come paralizzata.
Tanto tempo era passato ma adesso, era come essere ripiombati in un attimo nel buio di quel giorno. Dal profondo del suo essere risaliva tutta l’angoscia, la paura provata, tutto ciò che le sembrava di avere sconfitto si riaffacciava, materializzato in quel letto.
La donna che era diventata spariva e si rivedeva bambina in quella stanza dalle pareti tappezzate di una stoffa dai colori sbiaditi dove a malapena risaltavano alberi e voli di uccelli. Erano gli anni sessanta e Luisa, appena dodicenne, si era recata come quasi ogni pomeriggio da Teresa, la vicina di casa. Giocava spesso con i suoi due piccoli figli e per la donna, la giovinetta era un aiuto mentre svolgeva le faccende domestiche.
Luisa amava stare con quei bambini che l’adoravano e appena terminati i compiti, correva da loro per inventarsi nuovi giochi o leggere qualche storia.

Quel pomeriggio aveva indossato il vestitino blu a pois cucito dalla zia e che a lei piaceva tanto, soprattutto da quando l’anziana donna lo aveva impreziosito con un colletto bianco di organza ricamata, ricavato da una camicetta ormai logora. Aveva raccolto i capelli in sù e dandosi un ultimo sguardo soddisfatto allo specchio, ancora sorridendo era andata a suonare il campanello della casa di Teresa.
C’era un insolito silenzio dietro la porta, di solito i bimbi strillando facevano a gara per aprirle. Le aveva aperto invece il loro papà che aveva intravisto solo qualche volta nella casa, l’uomo l’aveva fatta entrare dicendole che la moglie e i figli stavano per arrivare e aveva richiuso la porta dietro di lei.
La spensierata e ingenua adolescenza di Luisa era finita lì, fra i capelli disfatti e nel colletto bianco strappato di un vestito che non avrebbe mai più indossato.
Non ne aveva parlato con nessuno e aveva vissuto i giorni seguenti con la paura che le si leggesse in faccia quello che era successo. Quel senso di colpevolezza e di vergogna, dilatandosi nel tempo, aveva influenzato i suoi rapporti sociali, aveva storpiato e falsato ogni tipo di legame sia d’amore che d’amicizia.
Come un mostro mai sconfitto in maniera definitiva, bastava un niente per riportarlo a galla: un odore, un gesto, uno sguardo o un semplice contatto e ripiombava in quella bruttura che si portava cucita addosso.
E ora? Ora a distanza di tanti anni lui era lì, solo, in un letto d’ospedale.
Luisa lo aveva riconosciuto subito quando gli si era avvicinata per la terapia, respirava appena e i pochi capelli bianchi erano appiccicati sulla fronte per la febbre. L’aveva guardata distratto richiudendo gli occhi subito dopo, certo non l’aveva riconosciuta, lei sì.
Era quasi scappata da quella stanza, come se quell’uomo, ormai consumato dalla malattia, potesse ancora farle del male. Tremando, era scivolata piano dalla parete finendo a terra e chinata la testa fra le ginocchia, aveva finalmente pianto. 


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 8
La fotografia

La valigia è pronta. È arrivato anche per me il momento di partire.
Ho preso la fotografia, quella che avevo rubato. Non l’ho mai più guardata, ma tu eri nei miei ricordi e questo mi è bastato.
Ne sono passati di anni da quello scatto. Era il 10 gennaio 1944.
Non sono riuscito a dimenticare la potenza dei passi di quegli uomini, mentre salivano le scale della nostra casa e il forte boato quando irruppero, distruggendo la porta.
Mamma e papà erano partiti da giorni. Prima di lasciarci, ci rammentarono che per quel viaggio, che avremmo intrapreso presto anche noi, bisognava portare qualcosa d’importante, per non abbandonare per sempre la nostra vita.
Tu decidesti di indossare il tuo abito più bello, quello della domenica, anche se aveva uno stupido bottone sul retro che si slacciava di continuo. Io invece presi la mia macchina fotografica. Sai, pensavo di immortalare la nostra nuova vita. E in qualche modo questo avvenne.
Ci alzammo in fretta dal letto, tu con il tuo bellissimo vestito, io con la mia Leica in mano. Ricordo che mi chiedesti di allacciarti il bottone. Lo feci e avrei voluto anche riordinarti i capelli, ancora arruffati dall’ultima notte passata nella nostra casa, ma non mi diedero il tempo.
Ci spinsero giù per le scale. Arrivammo su un lungo viale, dove file di uomini e di donne camminavano silenziosi con la testa china in avanti. Un pallone, mosso dal vento di quel freddo inverno, si adagiò sui i piedi di un bambino. Vidi il suo sorriso e la sua mamma, con rapidità, calciarlo lontano da lui.
Gli uomini da un lato e le donne dall’altro.
Un soldato si avvicinò, mi prese il braccio e mi disse: «Du fotografier!» E io fotografai.
Salimmo su dei camion. Ci portarono alla stazione Centrale. Tra tutte quelle donne riuscii a vederti. Eri di spalle. Ero dietro di te e tu lo sapevi.
Ci fecero scendere e raggiungere un binario, posto al di sotto di quelli principali: Binario 21, annunciava il cartello. Ci misero ancora in fila, prima le donne e poi gli uomini, spingendoci verso il treno che ci stava aspettando. Sentii tirarmi il braccio, era lo stesso soldato. «Du fotografier!» E io fotografai.
Poi mi spinse con forza verso il muro, insieme ad altri uomini. Diede loro delle vanghe. Capii che bisognava lavorare sulla terra attorno alle rotaie. Questa volta il soldato mi guardò negli occhi, indicò la mia macchina fotografica. «Du fotografier!» E io fotografai.  
Non compresi subito cosa stesse succedendo, ma non ti persi di vista nemmeno per un secondo. Insieme alle altre donne ti stavi avvicinando a dei vagoni merci. Tu eri l’unica a camminare a testa alta. Eri fiera di te. Ma non ti girasti mai dalla mia parte. Apriste i grandi portelloni e un odore putrido ci invase. Una dopo l’altra saliste sul treno e io rimasi su quella banchina e ti fotografai. Quello stupido bottone si era slacciato un’altra volta, ma io non riuscii mai a riagganciarlo.

ATTENZIONE

Nella diretta di giovedì 6 ottobre alle 21, nella Pagina Facebook di Edizioni Convalle, svelerò i nomi degli autori dei testi del GIRONE C (questo girone).

Complimenti a tutti i partecipanti! 


Il Masterbook prosegue e rimarrà un solo vincitore, ma ci saremo tutti divertiti condividendo la stessa passione:

SCRIVERE!

Nella diretta di giovedì 6 ottobre spiegherò come prosegue il Masterbook e come si svolgerà la FASE 2. 

Formerò due nuovi gruppi (a estrazione) con gli autori che avranno superato la FASE 1. 

MA ATTENZIONE!

Siccome coloro che avranno superato la prima fase sono in numero dispari, farò un'ulteriore estrazione tra i nomi degli esclusi e uno di loro verrà recuperato e rimesso in gioco.

Quindi non mancate alla prossima diretta che sarà piena di suspance ;-)


Alla prossima

dalla vostra 

Stefania Convalle



 

 


venerdì 23 settembre 2022

Numero 411 - Masterbook, i racconti del GIRONE B, Fase 1 per il VOTO POPOLARE - 23 Settembre 2022


 

Il Masterbook continua a gonfie vele!

Ieri sera, 22 settembre 2022, durante la diretta Facebook sulla Pagina di Edizioni Convalle, ho svelato i nomi degli autori dei racconti del Girone A

La Fase 1 per loro si è conclusa e i 5 autori che passano alla Fase 2 sono:
Giuliana Degl'Innocenti (voto giuria tecnica)
Alessandra Nobile (voto giuria tecnica)
Pinuccia Sassone (voto popolare)
Laura Tarchetti (voto giuria tecnica)
Luca Togni (voto giuria tecnica)

Complimenti a loro, ma anche agli altri 3 autori che hanno partecipato alla gara: 
Lorenzo Armenio
Enza La Gaia
Carmine Scavello

Tutti i racconti erano belli, 
ma una scelta bisognava farla!

Ieri sera, durante la diretta, ho letto i racconti in gara del Girone B, Fase 1.
In 4 hanno passato il turno, approdando alla Fase 2, grazie al voto della giuria tecnica.

Per gli altri 4, però, come la scorsa settimana, non tutto è perduto e uno di loro potrà essere ripescato attraverso il voto popolare.

Sarete voi, lettori, a poter ripescare un racconto e "ributtarlo" in gara attraverso il vostro voto che dovrete esprimere in un commento a questo numero del blog, all'interno del blog stesso.

Potrete esprimere una sola preferenza scrivendo: VOTO IL RACCONTO NUMERO ... 
Mettete il vostro nome e cognome nel commento, non sono graditi i commenti anonimi.

Se volete scrivere anche la motivazione, all'autore farà piacere, anche se non sapete a chi appartiene il testo (ma lo saprete in un secondo tempo).
I racconti verranno postati in questo numero senza il mio intervento, nessuna correzione verrà da me apportata. Tutti i testi saranno qui riportati esattamente come mi sono arrivati.

Comincio quindi a postare qui di seguito i 4 testi che potrete votare.

RACCONTI DA VOTARE

GIRONE B – ELABORATO NUMERO 4

Ritrovarsi

Marzo 1909
Rose stava organizzando le nostre nozze.
Ci siamo visti poco in questo periodo, entrambi molto impegnati nei preparativi.
«Mi piacerebbe avere in testa un velo leggero, fermato da una coroncina di perle intrecciate, e poi al collo vorrei mettere la catenina che mi ha regalato la mamma.»
«Ma certo, Rose, lei ne sarebbe molto contenta, e poi avrai tra le mani qualche fiore, magari dei lilium. Sono così indicati per una sposa» aggiunse la sorella, arrivata dall’America apposta per il matrimonio.

I giorni passano, la data è arrivata: 10 aprile 1909.
Grande festa attorno. C’è chi lancia fiori. C’è chi grida: «Viva gli sposi!»
Anch’io ho un bel vestito, la camicia inamidata e il colletto diplomatico.
Dopo il banchetto, alcuni parenti ci accompagnano a Southampton, un’ora di viaggio in carrozza.
Nulla in confronto alla lunga traversata che ci aspetta.
«Abbiamo deciso di andare ad abitare in America. Là ho trovato un buon posto di lavoro alla Banca Nazionale e Rose di certo troverà un impiego, magari come bibliotecaria.»
Questa notizia aveva suscitato felicità in alcuni amici, anche se l’avevano reputata una scelta alquanto ardita; le nostre famiglie, ahimè, non erano però molto favorevoli.
Ma il futuro dei figli è scritto in un libro che i genitori non sanno leggere.
Oggi tutti hanno condiviso con noi la gioia delle nozze, ma alcuni occhi riflettevano un fondo grigio, un misto tra ansia e accettazione silenziosa.
La cabina di seconda classe che ci è stata assegnata nel Titanic è confortevole.
La grande nave manda i suoi caratteristici fischi bassi, si staccano gli ormeggi, si onora il comandante che guiderà la nave oltreoceano fino a New York.
Dai tre fumaioli neri esce un lungo sbuffo grigio, proprio come lo sfondo della foto che tiro fuori dal panciotto, la guardo, la sfioro, come per aver certezza che ora siamo sposati.
Osservo la nostra foto, e sì, io e la mia Rose siamo proprio belli!
La ripongo nella tasca, è preziosa, da custodire sempre, come la promessa che ci siamo scambiati davanti a Dio. Per sempre.
«Stiamo salpando» dice Rose, appoggiandosi al mio cuore. Siamo felici e trepidanti per ciò che ci aspetta laggiù, oltre l’oceano. Una nuova vita, insieme.
La stringo, mi stringe, i nostri cuori battono all’unisono.
Salutiamo chi è rimasto sulla terra ferma. Rose manda un bacio alla sorella che agita un fazzoletto dalla darsena, dicendo: «Ci vedremo presto.»
L’avventura ha inizio…ma quasi all’arrivo qualcosa va storto. Affondiamo. Dispersi.

Qualche tempo dopo…

«Mamma, guarda che cosa ho trovato tra le conchiglie.»
Peter, un ragazzino che gioca sulla spiaggia di Lavallette, porta alla donna una foto bagnata e con i bordi rovinati.
Lei la guarda: sul fondo grigio ci sono due giovani sposi.  Si siede di colpo.
Nel retro ci sono scritte delle parole: 10 aprile 1909, Luis e Rose, ricordo di nozze.
«Mamma, perché ti è scesa una lacrima?»
«Questa è Rose, mia sorella, dispersa dopo la tragedia del Titanic.»
Non ci posso credere, Rose, sei tornata da me…


GIRONE B – ELABORATO NUMERO 5
Nonna Caterina
 
Aspetto mio figlio alla fermata dello scuolabus, lo osservo ancor prima che scenda per cogliere dall’espressione sul viso se è stata una bella giornata.  Scende col grembiulino sgualcito ed in mano un grande cartoncino colorato.
“Mamma, mamma, guarda!”, urla correndomi incontro.
Si, senza dubbio la giornata è stata positiva; il cartoncino, tutto disegnato, non è altro che un albero genealogico dove attaccare le foto, chi di noi non lo ha fatto? Certo, ai nostri tempi ci si accontentava di scrivere i nomi.
Un compito divertente, che per forza di cose coinvolge anche me.
“Facciamo merenda e poi andiamo a casa della bis nonna a cercare le foto”.
E’ scosso da un’euforia che sprigiona saltellando mentre ci dirigiamo nella via che porta alla vecchia casa ormai chiusa da anni.
Infilo la chiave nella toppa, faccio fatica a smuovere l’ingranaggio, la casa è buia cerco l’interruttore a tentoni, mi investe il profumo, è passato tanto tempo eppure l’odore della mia infanzia è ancora lì.  La luce mostra una sala rimasta esattamente come cinque anni fa, non abbiamo toccato niente, mio padre non è ancora pronto a staccarsi dai ricordi.
Sul bracciolo della vecchia poltrona vicina al caminetto, c’è ancora la coperta di lana verde con ricamate le stelle alpine che la nonna teneva perennemente sulle gambe.
Nella credenza c’è una scatola di latta ormai del tutto sbiadita, è impossibile capire quale disegno la ricoprisse, all’interno ci sono alcune foto: mio padre da piccolo con la sorella ed il fratello vestiti da festa e pettinati, mio nonno vestito da militare accanto a un cavallo, la nonna davanti a un albero da frutto in fiore.
“Mamma perché le foto non hanno i colori?”
E’ troppo piccolo per una spiegazione così lontana dal suo mondo? Forse si, e lo liquido semplicemente spiegandogli che a quei tempi non c’erano le macchine fotografiche moderne o i cellulari, i fotografi mettevano tutti nella stessa posa, poi si infilavano sotto un telo nero che ricopriva la macchina, facevano un cenno ed una luce abbagliante sanciva lo scatto.
Mi scruta perplesso, ridendo immaginando la scena, intanto io continuo a cercare fino a quando la vedo ed esulto:
“Eccola! Cercavo proprio questa!”
La giro perché possa guardare, ritrae i nonni nel giorno del matrimonio.
La nonna indossava un abito semplice che aveva confezionato con la madre, seduta davanti ad una macchina da cucire Singer che andava a pedali, lo aveva reso più sfarzoso grazie ad un velo tenuto fermo sulla fronte da una fascia floreale da cui spuntava un’onda bionda di capelli, aveva un bouquet di gigli bianchi e felce, il nonno era elegante nell’ abito prestato solo per l’occasione.
Felici, prima che la guerra li dividesse per sempre.
“Forza, passami la colla, mettiamola qui in cima, la prima foto del tuo albero, la radice che ha portato la linfa vitale fino a te”.


GIRONE B - ELABORATO NUMERO 7
Pegno d’amore

I giorni si susseguivano tutti uguali. L’unico momento di conforto erano i minuti che passavo con il figlio del padrone. Eravamo cresciuti assieme e nonostante la nostra simpatia non fosse accettata, lui aveva sempre mostrato dolcezza nei miei riguardi. Crescendo però, la nostra amicizia iniziò a trasformarsi. 
Fino al giorno in cui ci dichiarammo il nostro amore che suggellammo con un candido bacio.
Sapevo che fosse pericoloso per entrambi. Nessuno avrebbe mai concesso questa unione, a me bastava sognarlo. Inoltre, era promesso a una lontana cugina.
«Eccoti, sei qui.»
«Dimmi, che succede?»
«Domani arriverà Lady Angelica»
Per un attimo sentì che mi mancò il respiro. Era come se due mani possenti mi stessero togliendo l’aria con tutte le loro forze.
«Rimarrà qua qualche settimana, vogliono che ci conosciamo un po’ prima…»
Percepii che le parole gli si fermarono in gola, come se non volesse rendere reale quel momento.
Quella notte mi convisse a fare quello che gli negai per anni. Ci lasciammo andare uno nell’abbraccio del altro. Ci rivestimmo e prima di tornare ognuno alle proprie faccende mi promise che avrebbe trovato il modo di non sposarla.
Passarono sei anni da quel giorno e io spolveravo tutti i giorni la foto che li ritraeva assieme, mentre mio figlio era costretto a vivere senza un padre e con la vergogna di avere una madre disonorata.
Più trascorreva il tempo più il dolore iniziò a essere insostenibile. Cominciai a chiedermi se la soluzione migliore fosse scappare con l’unica mia ragione di vita: mio figlio.  Poco dopo il tramonto mi diressi verso la sua scrivania e presi il borsello dove teneva il denaro. Andai verso la camera del mio bambino.
Avvicinandomi alla stanza notai la luce accesa. Preoccupata mi avvicinai silenziosa. Volevo capire cosa stesse accadendo. Lo vidi sul letto di mio figlio che lo accarezzava.
«Allora oggi ti sei divertito?»
«Sì, anche se la mamma è sempre cattiva con me» Sussultai ferita da quelle parole.
«Non dire così. Lei ti sta crescendo da sola e sta facendo un ottimo lavoro»
«Ma anche tu mi stai crescendo. Se la mamma lo sapesse secondo me sarebbe felice»
«Lo sai piccolo mio, ne abbiamo già parlato. Per il vostro bene lei non dovrà mai sapere di me.»
Dopo averlo baciato, diede una carezza alla mia foto sul comodino e se ne andò dalla stanza.
Riflettei tutta la notte su ciò che avevo visto. Non riuscivo a trovare un significato ragionevole per come fossero andate le cose, ma cosa peggiore, non trovavo più una motivazione per andarmene.
Decisi quindi di tagliarmi una ciocca di capelli e scrivere sul retro della foto del suo matrimonio la data in cui ci scambiammo il primo bacio. Posai la foto sul suo comodino. Non seppi mai se lui scoprì quello che avevo fatto, ma io sapevo che una piccola parte di me ora poteva riposare al suo fianco.


GIRONE B – ELABORATO NUMERO 8
Strada senza ritorno

Ricordo ancora le urla di quella notte. Avevo le orecchie che fischiavano per il rumore degli spari. I miei genitori stavano raccogliendo le proprie cose, io ero troppo piccolo per capire. Facevo i capricci e non volevo andarmene di casa.
Non potrò mai smettere di odiare quel bambino. Se non avessi perso tempo forse loro oggi sarebbero ancora qui.
Il destino poi bussò alla nostra porta. Mio padre la teneva ferma mentre mia madre mi afferrava per la mano spingendomi con forza nell’intercapedine del muro. Mi disse che stavamo giocando a nascondino. Sapevo che stesse mentendo, ma le obbedii e questo mi salvò la vita.
Quando scese il silenzio della mia famiglia non restava più nulla.
L’unica cosa che mi è rimasta di quel periodo è la foto del loro matrimonio. Se sono sopravvissuto alla guerra lo devo solo a quel soldato tedesco che vedendomi lì da solo ha deciso di prendermi con se e salvarmi.
Ci trasferimmo in Argentina e cercammo di cambiare vita, ma non avrei mai dimenticato il volto della persona che quella notte strillava gli ordini ai soldati per stanarci casa per casa.
Fu un giorno di autunno che lo rincontrai. Era fermo alla fermata dell’autobus, come se fosse una persona normale di mezza età.
Non andai al lavoro, ma piansi per tutto il giorno. Il mattino dopo lo rividi sempre nello stesso posto e così via per tutta la settimana successiva.  
Deciso a farmi giustizia mi infilai in tasca il coltello da caccia e lo seguii.
Lavorava in un colorificio. Sembrava una persona uguale alle altre, ma sapevo che dentro di lui c’era qualcosa di diverso. Attesi che uscisse da lavoro. La prima volta che rimase da solo per strada non ebbi il coraggio di avvicinarmi e fui costretto a seguirlo fino a casa. Rimasi fermo per un’ora prima di prendere coraggio ed entrare.
Era una piccola villetta indipendente, simile a quelle vicine. Mi introdussi dentro e con il coltello in mano iniziai a cercarlo nelle stanze.
Nel salone osservai le foto di famiglia. Accecato dalla rabbia le buttai per terra.
Lo trovai nel suo studio. Chino sullo scrittoio stava preparando una lettera. Era di schiena e non si era accorto di nulla.
Arrivai alle sue spalle e lo colpii in testa con l’impugnatura del pugnale. Cadde a terra svenuto.
Osservai il corpo e mi mancò il coraggio di fare quello che lui aveva fatto con troppa facilità.
Presi la foto dei miei genitori e gliela posai sulla mano insieme al pugnale.
Gli scrissi una lettera:
Oggi avrei potuto fare quello che hai fatto ai miei genitori, ma non sono voluto diventare come te. Non meriti di morire, ma di vivere divorato dai sensi di colpa. Tieni la foto in ricordo delle tue mani sporche di sangue.
Dopo quel giorno non lo vidi più. Non so se ho fatto la scelta giusta.  So che il dubbio mi tormenterà fino alla morte, ma almeno non sono diventato come lui.

E ORA VOTATE VOTATE VOTATE!

Si può votare fino alle 
ore 12 di giovedì 29 settembre 2022

Qui di seguito i 4 racconti che hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica.

NON SONO SOGGETTI AL VOTO DEL PUBBLICO

GIRONE B – ELABORATO NUMERO 1
 L'anniversario
 
Le mani lavorano l'impasto, eppure lo sguardo di Elide è rivolto alla foto sulla credenza: lei e suo marito, ritratti nel giorno del matrimonio. Seri, una giovane coppia all'inizio del cammino. Possibile che siano già passati due anni?
Le mani accarezzano l'impasto e i pensieri corrono alla casa che avevano e il confronto con quella di oggi è impietoso: si ritrovano in due stanze, cucina e camera, con la latrina nel fazzoletto di cortile sul retro.
Le mani stringono l'impasto e la mente va all'uomo che ha sposato, un cugino alla lontana, che le è stato presentato come una promessa e un salvataggio, perché lei, Elide, a venticinque anni non aveva un fidanzato all'orizzonte. Era il 1960 e la parola zitella aleggiava nell'aria. Era taciturno quel ragazzo bruno, dagli occhi profondi, bello, giornalista. Non le era stato difficile assecondare le aspettative delle famiglie, aveva detto sì.
Le mani allungano l'impasto, non vede più la foto, ma i giorni che sono seguiti.
L'uomo educato che aveva al fianco si faceva più distante, gli occhi bruni  si perdevano, come se vedessero cose a lei impossibili. Nessun contatto, buongiorno e  buonasera che poi si sono ridotti a cenni.
Le mani dividono l'impasto e giungono le immagini: Alfio che non consegna in tempo i pezzi al giornale, i richiami e il licenziamento; giorni passati sulla sedia e le sere al bar coi risparmi che se ne andavano in bottiglie. La casa ricevuta in dono venduta e il trasferimento.
Lo stava perdendo, ancor prima che fossero riusciti a trovarsi. Elide non sapeva che fare e con questo sentimento di impotenza le mani smettono di lavorare.
Aveva cercato il dialogo, ricevendone in cambio il silenzio; sistemava al meglio le misere stanze, Alfio non se ne curava; abbracciava, impacciata, lui si divincolava e una sera l'ha spinta. In quel momento, Elide ha visto gli occhi spenti di lui accendersi. Vi ha letto sorpresa e poi... esultanza? Probabile, perché da lì sono cominciate le sberle, gli sgambetti, che giungevano senza motivo e senza preavviso, o forse un motivo c'era e lei, stupida, non lo capiva.
La sua vita era un pozzo di sofferenza nel quale era imprigionata, ma si sopporta e si tace: questo è il codice della moglie.
Ieri notte... Alfio torna ubriaco e parla.
No, grida, verso di lei indicando la foto: «Chi è questo?»
Elide non capisce e lui continua a inveire, rabbioso, il viso paonazzo, i tendini del collo tesi: «Ti ho chiesto chi è? Lurida puttana, con chi te la fai?»
A nulla era valso dirgli che era lui, lui con lei il giorno delle loro nozze, solo lui.
Se ne era andato, dopo averla colpita a lasciata sul pavimento a piangere.
Le mani buttano a terra l'impasto. Nessuno mangerà quella torta, per un anniversario da non festeggiare.
Elide apre la porta di casa e va, senza nulla, non vuole nulla, prima che l'uomo che ha sposato la trasformi in nulla.
Nella casa resta la foto di una bugia.

 

GIRONE B –ELABORATO NUMERO 2
La foto

Finalmente ho deciso di pulire l’argenteria, un lavoro che mi pesa sempre e che cerco di rimandare all’infinito, ma la patina scura delle superfici reclama le necessarie cure. Comincio con la foto dei nonni che fa bella mostra di sé sul pianoforte. L’antica cornice intagliata richiede un attento impegno, perciò la smonto, per non sporcare il vetro. La foto, color seppia, ammorbidita dalla tecnica del viraggio, è un po’ logora: quando è stata scattata? Nel retro la data: 25 agosto 1920.
Non posso non ammirare la delicatezza dei lineamenti degli sposi e l’eleganza raffinata di lei. Il velo che le circonda i capelli, formando un’acconciatura di tulle, mette in risalto l’ovale del viso e la levigatezza della pelle. Eppure noto ora qualcosa di strano: il sorriso è dolce, ma contenuto, gli occhi ridenti, ma velati di tristezza. La stessa impressione traspare anche dal viso del nonno. È la prima volta che me ne accorgo. Mentre sto per appoggiare la foto, sono colpita da un piccolo sgorbio sul retro, a fondo pagina. Incuriosita, prendo la lente per osservare meglio: il disegno rappresenta una piccola cassa, suddivisa in comparti, su uno dei quali noto un puntino in grassetto. Che cosa significa? Più incuriosita che mai, sbriglio la fantasia, ma ben presto s’accende un ricordo: è lo scrigno dei gioielli della nonna, che ancora si trova sulla toilette, in camera della mamma. Mi precipito nella stanza, la cassetta è ancora lì, muta ed ermetica. Non faccio fatica ad aprirla, nonostante la serratura arrugginita, comincio così a curiosare al suo interno. Ormai vuota, conserva perline  multicolori e paccottiglia abbandonata. Altro non c’è. Con l’ausilio della lente, controllo i bordi interni: nulla. Provo allora a ispezionare ogni angolo: nulla.
Un poco delusa, sto per abbandonare la ricerca, quando avverto un lieve rigonfiamento, proprio nel punto indicato nel disegno; scosto la pelle, e con cautela e fatica estraggo un sottile foglietto, ingiallito dal tempo, finemente ripiegato, che leggo subito con curiosità.
Non è possibile che sia successo questo! Il nonno era gentile e garbato: non lo riconosco nelle parole della nonna. Confusa, metto insieme i puzzle della mia infanzia per cercare qualche tassello che collimi con la dura verità emersa dalla confessione. I ricordi mi rimandano l’immagine di una coppia affiatata, anche se non molto espansiva. La data della foto rivela con certezza che la nonna era già incinta della mamma al momento del matrimonio. Già questo “incidente”, anche se gelosamente custodito, doveva essere stato uno scandalo per il tempo, ma non avrei mai immaginato che il nonno non ne fosse il padre!
Si frantuma così ai miei occhi il sogno di una famiglia perfetta, dove l’amore aveva sempre regnato sovrano. In realtà l’amore c’era stato, ma non per il nonno che aveva “salvato l’onore” della fanciulla a cui voleva bene, ma si era poi vendicato con infinite cattiverie per il tradimento commesso ancora prima del matrimonio.
Sconcertata per la scoperta, piango silenziosamente: la felicità degli amati nonni, che avevo sempre creduto vera, era solo un’illusione.


GIRONE B – ELABORATO NUMERO 3

La vigna

 
Francesca l’aveva lasciato all’improvviso, come quando arrivano i temporali estivi in cui prima arriva la pioggia incessante e poi il rumore fragoroso dei tuoni.
Così quando se ne rese conto, era già tutto successo. Marco era fradicio e ormai senza luce. Avevano passato buona parte della loro vita insieme, vivendo in collina. Tiravano avanti con l’orto, qualche gallina in cortile, cani, gatti, pecore e maiali. Poi c’era la vigna. Un mondo tutto diverso rispetto a quello della città.
Non soffiava il vento da tempo, Marco guardava le nuvole in cielo muoversi rapidamente e immaginava che forse lassù doveva far fresco. Sulla terra invece dominava una brezza mite, quasi avesse riguardo e rispetto della sua situazione. Il vuoto lasciato da Francesca era pungente, quando ti appoggi a qualcuno per una vita intera è difficile poi farne a meno d’improvviso. Difficile anche convincersi che doveva andare così, non pensarci e soprattutto non ricordare. Sì, perché i ricordi fanno male. Marco aveva smesso di fare tutto e i giorni passavano uguali e monotoni. Per andare avanti aveva dovuto vendere la vigna, posto del cuore pieno di ricordi.
Spesso si soffermava davanti al camino in salotto a osservare la foto del giorno del loro matrimonio. Come erano giovani, belli e innamorati. La vita era stata generosa con loro.
Ma non sempre il dolore esplode, a volte lo si tiene sordo per anni e questo scava un tunnel profondo dentro all’anima. È da vecchi che si è stanchi di combattere le guerre.
Il sole era alto nel cielo, l’erba e le piante di aranci erano ormai diventate secche e il postino non consegnava più lettere.
Era un giorno di novembre e il vento all’improvviso si svegliò. Marco guardava perso l’orizzonte. Era proprio vento. Tutto si piegava sotto la sua forza. Gli animali si rannicchiavano sul calore della terra e le finestre sbattevano. Francesca sarebbe stata contenta e magari gli avrebbe gridato di tornare in casa e lui avrebbe stappato una bottiglia del suo vino, del loro vino. Poi avrebbe guardato dalla finestra il mondo scivolare via.
Chiuse a due mandate la porta, tenendo tra le mani la loro foto e si camminò con passo stanco verso la vigna, che ormai aveva l’anima di altri proprietari ma sempre nei suoi ricordi e nel suo cuore.
Mise una sedia tra i filari ordinati ormai spogli e volse il capo verso il mare increspato dal vento. La polvere creava vortici e le piante ormai trascurate e desiderose di acqua si piegavano alla violenza del vento.
Ma non era tempo di piangere, c’era il vento. Era un giorno nuovo. Marco era immobile, coraggioso e in balia dell’impeto della natura. In quel momento la rabbia e l’apatia se ne andarono e l’amore prese il sopravvento. Respirò a pieni polmoni l’aria nuova.  Vivo a metà tra il vento e Francesca, pronto a vivere il resto della sua esistenza. Guardò la loro foto e sorrise con il cuore che scoppiava dalla gioia. 


GIRONE B – ELABORATO NUMERO 6
Un'altra vita
 
Il portone di legno si aprì con un leggero cigolio, ruotando un po’ a fatica sui cardini che cominciavano ad arrugginire.
Sophie entrò nella stanza immersa nella penombra, a malapena rischiarata da una luce tenue che filtrava dalle persiane.
Si ritrovò circondata da un silenzio assoluto, nel quale, un po’ alla volta, le parve di percepire gli echi insonori di un tempo passato, le cui vibrazioni impregnavano ancora le pareti e i mobili, unici testimoni di eventi trascorsi e, forse, dimenticati.
«Mi chiamo Filippo Rossi, chiamo dall’Italia, buongiorno» aveva esordito all’apparecchio qualche giorno prima una voce maschile, affilata e sbrigativa. La telefonata era arrivata all’Agenzia Immobiliare di Arles, in cui lavorava.
«Ho ereditato una casa nel sud della Francia,  vorrei venderla.»
La voce ostentava freddezza e distacco, malcelati. Sophie ebbe la sensazione che quell’eredità non fosse altro che una seccatura per il suo interlocutore. D’impulso decise che se ne sarebbe occupata lei personalmente.
La settimana seguente si recò a visitare l’abitazione, e, percorrendo le strade che portavano verso la Camargue, raggiunse un villaggio di pescatori che pareva immerso in un universo di pace e luce.
La casa era situata al limitare del borgo, quasi volesse rimanere un po’ in disparte, lontano dal vivere comune. Era costruita in solida pietra, il legno della porta e delle imposte appena intaccato dalla salsedine.
Sophie perlustrò tutto l’edificio, ispezionando le grandi stanze, mentre i suoi passi risuonavano sulle vecchie tavole del pavimento.
Nel salone principale un imponente camino occupava quasi un’intera parete, sovrastato da una lunga trave che fungeva da mensola. Si avvicinò per osservarlo meglio e si accorse che, in un angolo seminascosto, era incisa una frase.
Leggendola, trasalì.
ALLA MIA SOPHIE, ORA E PER SEMPRE.
Colpita dalla coincidenza, cominciò a cercare qualche indizio che l’aiutasse a ricostruire la vicenda. Aprì cassetti e armadi, finché riuscì a trovare un diario segreto. Si sedette in un angolo e iniziò a leggere, senza accorgersi del tempo che passava e delle lacrime che, a tratti, rigavano il suo volto. Quando lo richiuse, un bagliore rossastro occhieggiava alle finestre, il giorno volgeva al termine.
Nella sua anima galleggiava la storia di Sophie Amélie D’Aboville, di antica e nobile famiglia parigina, innamorata di Paul Lagrange, un semplice marinaio conosciuto per caso durante un viaggio sul Mar Mediterraneo, che avrebbe cambiato per sempre la sua vita.
Sophie e Paul, contro tutti.
Sophie e Paul, felici, contro tutti.
Senza accorgersene scivolò in un sonno profondo e privo di sogni, un sonno che assomigliava a una piccola morte.
Fu risvegliata da un raggio di sole che, filtrando dagli scuri, si rifletteva su una superficie lucida accanto a lei. Si voltò e, sopra un tavolino, vide un portaritratti che custodiva una fotografia.
Due sposi, eternamente giovani. Sul retro, una scritta: 
14 SETTEMBRE 1925. SOPHIE E PAUL
Fu allora che, scavalcando ogni pensiero razionale, decise di comperare quella casa.
Guardò la foto. Forse fu un’illusione ottica, un gioco di luci, ma avrebbe giurato che, in quello stesso istante, Sophie e Paul le sorridessero.

 ATTENZIONE

Nella diretta di giovedì 29 settembre alle 21, nella Pagina Facebook di Edizioni Convalle, svelerò i nomi degli autori dei testi del GIRONE B (questo girone).

Complimenti a tutti i partecipanti! 

Il Masterbook prosegue e rimarrà un solo vincitore, ma ci saremo tutti divertiti condividendo la stessa passione:

SCRIVERE!

Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle