PICCOLO INCANTO DI CITTÀ
di
Laura Tarchetti
I
La Locanda Centrale
Torino è una città speciale. Tutti
conoscono i suoi simboli: la Mole Antonelliana, il caval ‘d brons nella sua
Piazza San Carlo, la basilica di Superga che domina dalla collina, il castello
fiabesco del Valentino. Appare a prima vista solenne, austera, schiva. Ma chi
riesce ad avvicinarla davvero, andando a viverla e a conoscerla intimamente,
superando la barriera della sua innata ritrosia, scopre che la fitta trama che
la compone è un ricamo prezioso e delicato di storia, segreti, emozioni. Sogno
e realtà si stringono insieme, abbracciati nelle sue solide maglie. Alcuni
angoli nascosti, sconosciuti e irraggiungibili ai più, emanano un’aura
d’incanto che esalta il suo fascino storico. Questi sono il vero cuore della
città.
Chi, per caso o necessità, si trovi
a passare da Corso Moncalieri, lungo il Po, può osservare il doppio viale
alberato che in ogni stagione ha un colore differente e i bovindi liberty dei
palazzi nobiliari dai maestosi portoni. Se ha tempo, può fermarsi a godere
della vista sul fiume da una delle numerose panchine al riparo del traffico.
Chi invece prende l’autobus, alla fermata del 37, vede distintamente l’insegna
della Banca Nazionale e, al tramonto, le luci invitanti del Ristorante dei Tre
Re. Ma c’è anche un piccolo albergo,
poco distante dal Ponte Isabella, che si affaccia tra gli imponenti edifici ottocenteschi
che caratterizzano il quartiere. Lo fa così timidamente da mimetizzarcisi. Alla
Locanda Centrale, nessuno fa caso. Ha il nome di migliaia d’altri hotel, è qui,
è dovunque e da nessuna parte. Questo, ci si creda o no, è un luogo magico.
La nebbia dicembrina scende insieme
alla sera sul viale infreddolito, esattamente come il giorno in cui molti anni
fa Mario è arrivato qui, cliente dalle tasche vuote e dall’anima in pena. Ora,
affacciandosi dietro ai vetri appannati, sente che è una di quelle serate in
cui deve accendere l’insegna luminosa. Un ospite speciale è in arrivo. Forse, addirittura
più di uno.
Fa scattare l’interruttore e,
mentre il neon prende coraggio iniziando a lampeggiare, accende il fuoco nel
caminetto che domina l’accogliente salottino a fianco della reception e inizia
a preparare il thè.
Anche Mario, come l’hotel che ora
gestisce, è un uomo che si nasconde pur senza volerlo. Né alto né basso, né
biondo né bruno, giovane e vecchio, si perde nella folla. Potrebbe essere il vicino
di casa silenzioso, dalle persiane socchiuse, vestito di nero, forse grigio.
Del quale non si rammenta il nome, che è un nome qualunque, come lui. Se anche ha
una voce, dev’essere da sentirsi appena, in modo da non
disturbare.
Quando lo si incrocia per strada,
gli si passa accanto sfiorandolo, senza accorgersene. Chi è particolarmente
sensibile può sentire un fruscìo discreto, ma è questione di un attimo, e già è
dimenticato.
Giulietta, la ragazza che si occupa
delle pulizie, ha terminato il turno. Mario la sente fischiettare allegra
mentre scende le scale a passi veloci. Piomba nell’ingresso sorridente e
spettinata come al solito. “Turbinosa” è l’aggettivo che secondo Mario la
inquadra meglio.
«Capo, se non c’è altro, io vado.»
Mentre raccoglie la borsa che lascia
sempre sotto il bancone presidiato da Mario, si blocca un istante, alla vista
del vassoio con le tazzine e la zuccheriera. L’espressione si fa interrogativa.
«Uhm… Nuovi ospiti?»
Mario sorride con un cenno
d’assenso.
«Esatto, stasera, arrivi speciali.»
«Devo fermarmi, Capo?»
«No, vai a casa, Nathalie t’aspetta.
Ci vediamo domani.»
Visibilmente sollevata, Giulietta
torna alla modalità turbine e vola verso la porta, lanciandogli un bacio con la
mano.
«Grazie Capo, sei un grande. Poi mi
racconti.»
Un soffio d’aria gelida
l’accompagna all’esterno.
Mario ha conosciuto Giulietta una
sera d’agosto, nella calura della città oppressa dall’afa. Non era stato
necessario accendere l’insegna. Aveva sentito delle voci concitate all’esterno,
ed era uscito giusto in tempo per vedere un’auto rombante sgommare via verso le
colline e una ragazza singhiozzare riversa sul marciapiede. Quella volta, era stata la locanda a recarsi
dall’ospite.
Quando era guarita dalle pene di
quell’amore malsano, le aveva offerto il lavoro. Mario aveva sempre avuto la
tendenza ad affezionarsi ai clienti che per varie ragioni si trattenevano per
una “vacanza lunga” e con lei, che avrebbe potuto essere anagraficamente sua
figlia, non era riuscito a sopportare l’idea del distacco. Giulietta, dal canto
suo, si rendeva conto che con tutta probabilità senza un impiego stabile
sarebbe tornata presto a navigare in un mare di guai, e con lei anche la sua
figlioletta. Così erano iniziati un sodalizio lavorativo e una preziosa
amicizia.
Il bollitore inizia a sibilare e
Mario si perde nei ricordi.
Sono diverse, le strade che portano
alla Locanda e nessuna è segnata sulle mappe. Ognuno degli ospiti trova la sua,
da sé. Ciò che accomuna tutti i percorsi è la tenue luce della speranza che dà
il coraggio di procedere verso la destinazione, ignota fino all’ultimo.
Per lui, le indicazioni erano
sbucate dal cappotto grigio che indossava quel giorno, una dozzina d’anni
prima. In piedi, solo, davanti al parapetto proprio al centro del ponte,
avvolto dalla nebbia fitta che la luce dei lampioni non riusciva a penetrare,
scrutava le acque scure, tranquille e inesorabili del Po scorrere sotto di lui.
Parevano chiamarlo, con il loro gorgoglìo sommesso, un canto dolce, come di
sirena. Sembrava così facile: farsi abbracciare dai vortici del fiume, smettere
di pensare, lasciarsi andare. Nessuno l’avrebbe visto, il traffico scorreva
ignaro e ovattato al centro della carreggiata, nessuno l’avrebbe cercato. Forse, così avrebbe potuto ritrovare Lilia, se fosse esistito un luogo lontano, oltre,
per rimanere per sempre con lei.
Chiuse gli occhi, per concentrarsi
sulla musica dell’acqua. Respirò profondamente l’aria umida e gelida senza
sentire minimamente il freddo. Poi prese dalla tasca il cellulare e lo gettò
oltre la balaustra. L’apparecchio scomparve in silenzio, regalandogli la
piacevole sensazione d’essersi liberato di un peso. Ripeté la stessa azione con
il portafoglio. Volando oltre le ringhiere, questo si aprì lasciando libere le
poche banconote contenute e un minuscolo foglietto che, volteggiando, tornò
verso di lui fermandosi ai suoi piedi. Inizialmente lo ignorò e si tolse il
cappotto, appoggiandolo davanti a sé, sul parapetto. In maniche di camicia, il
gelo gli mordeva la pelle. La nebbia gelava tra la sua folta barba,
incrostandola in un fine merletto perlato.
Il desiderio di non lasciare alcuna
traccia lo fece chinare a riprendere il pezzetto di carta sfuggito al proprio
destino. Lisciandolo tra le dita intorpidite, vide che si trattava di un
cartiglio, di quelli contenuti nei cioccolatini preferiti da Lilia. Erano
bigliettini che recavano scritta una breve frase d’amore. A volte succedeva che
lei, pur adorando il cioccolato, si dimenticasse persino di mangiarlo, quando
scopriva un aforisma o un messaggio particolarmente toccante. Rimaneva sognante
con il biglietto tra le mani, dimentica del mondo circostante. In quelle
occasioni, Mario la prendeva in giro, fingendo di gustarsi il dolcetto
ignorato. Poi, ridevano insieme. Magari facevano l’amore. Ora, non capiva come
potesse trovarsi nel suo portafoglio. Il cuore prese a battergli furiosamente,
mentre si portava sotto al lampione più vicino per illuminare le minuscole
parole stampate.
Tremante, una volta letto il
biglietto, chiuse gli occhi e pianse, travolto dall’ondata dei sentimenti.
Quando li riaprì, dopo un tempo indefinito, vide nella nebbia una luce calda
lampeggiante farsi largo tra le fronde degli alberi spogli, poco oltre il
ponte. Gli pareva chiamarlo a sé. Ancora scosso dai singhiozzi, recuperò il
cappotto infilandoselo a fatica, i gesti rallentati dal freddo, e si avviò
verso il chiarore. Avvicinandosi, la luce diventò più nitida, trasformandosi
nell’insegna di una locanda. Con un gesto della mano si asciugò le lacrime che
gli tracciavano sentieri ghiacciati sul viso, preparandosi a entrare nella sua
nuova, seconda vita.
Il thè è ormai pronto e il suono
del cicalino dell’ingresso annuncia l’arrivo di una ragazzina pallida e minuta,
una donna sulla trentina e un distinto anziano signore claudicante che varcano
insieme, spaesati, la soglia dell’hotel.
Mario interrompe bruscamente il
filo dei ricordi e, conoscendo l’importanza del delicato momento dell’accoglienza,
va loro incontro.
II
Tre sentieri
Dora guarda l’orologio. Ancora
mezz’ora alla fine del turno. Ancora una stanza, forse due. É l’8 dicembre e sarebbe bello essere a casa a
preparare l’albero di Natale con i bambini, che invece sono dal suo ex. Il
giudice il mese precedente li ha affidati a lui, visto il lavoro a tempo
determinato di Dora e la scarsa abilità del suo avvocato, l’unico che lei ha
potuto permettersi. Il contratto che scade l’indomani, il conto in banca
tendente al rosso, la preoccupazione per l’asma del piccolo Ricky che va
peggiorando e l’impossibilità di stare vicino a lui come a Maddy, che è più
grande ma non abbastanza, le danno la sensazione di sostare sul ciglio di un
baratro. Si aggrappa alla foto dei figli che porta sempre con sé, per evitare
di cadere. Ma la presa si fa ogni giorno più difficile e, specialmente la sera,
si sente scivolare.
Mentre riassetta la stanza 205,
Susanna, la collega del terzo piano, la chiama a gran voce dal corridoio.
«Dora! Dove sei?»
Lei si affaccia alla porta tenuta
aperta dal carrello della biancheria, quasi scontrandosi con la ragazza che la
sta cercando.
«Susi?»
«Dora, mi serve un favore, davvero.»
Lei è sorpresa, conosce la collega
e sa che non parla mai a sproposito.
«Se posso, volentieri. Che succede?»
«Devo andare a prendere mia sorella
all’aeroporto. Doveva andarci Matteo, ma mi ha messaggiato che è bloccato in
riunione. Nostra madre diventerà furiosa se lascio Bella da sola. Nemmeno fosse
ancora una bambina…»
Dora annuisce. Problemi familiari
piccoli, facilmente risolvibili. Magari i suoi fossero così.
«Insomma, devo fare ancora la 303 e
poi avrei finito ma…»
Dora la interrompe.
«Vai pure, la faccio io. Tranquilla.»
Susi l'abbraccia, d’impeto. Già si
sta togliendo la divisa, mentre non smette di ringraziarla.
Chiusa la 205, Dora sale in
ascensore con il carrello fino alla 303. Un intero turno di otto ore, e nemmeno
una mancia. É uso dell’hotel lasciare una busta apposita in ogni stanza, sopra
al frigo-bar. La maggior parte dei clienti la ignora. Quando non lo fa, ci
mette le briciole, monetine inutili delle quali vuole solo liberarsi. Le
banconote sono una rarità e soltanto una volta le è capitato un biglietto da 50
euro: le era parso, mettendoselo in tasca, di rubare.
Inizia preparando la biancheria di
ricambio: il letto è quasi intatto, come se il cliente avesse dormito sopra le
coperte. La busta delle mance è appoggiata in bella vista sul cuscino. Curiosa,
la apre. Dapprima si sente presa in giro. Cosa potrebbe farsene? Poi un senso
di nostalgia la pervade. Una sensazione dolce, che la riporta a quando,
bambina, passava il giorno di Natale dai nonni, insieme alla numerosa truppa familiare
radunata per l’occasione.
Nonno Arturo, autoritario patriarca
dai baffi a manubrio e il piglio ottocentesco, teneva molto all’occasione. Ma
la sua proverbiale tendenza al risparmio, nonostante fosse più che benestante,
si palesava nei particolari. Mano a mano che la famiglia, tra figli, generi,
nuore e nipoti andava numericamente aumentando, i cibi in tavola si facevano
più scarsi nella quantità e nella qualità. Il vino era scadente, abbondavano
pane e patate. Quanto al dolce, al tradizionale panettone si preferiva una
focaccia impastata dalla nonna, la cui abilità di cuoca riusciva solo in parte
a sopperire alla carenza della materia prima. Davanti alla possente tavolata,
prima di sedersi e iniziare quello che a Dora pareva un pranzo interminabile,
si sostava per una breve preghiera di ringraziamento. A seguire, ognuno prendeva
la busta chiusa che lo aspettava appoggiata sul proprio piatto. Nessuno apriva
mai l’involucro. Tutti sapevano già cosa contenesse, e lo facevano sparire a
seconda dei casi nella giacca o nella borsa, rassegnati, dimenticandosene all’istante.
Era chiaro, invece, come per Nonno Arturo si trattasse di un prezioso presente.
Annunciava con voce tonante: «I regali!»
Allora sfoderava il suo miglior
sorriso allargando le braccia verso i piatti, con gli occhi luccicanti come Alì
Babà di fronte al tesoro. Nessuno aveva mai osato contraddirlo, e la tradizione
si era perpetrata fino alla sua morte. La nonna, una volta vedova, aveva
eliminato qualunque regalo e di conseguenza anche il problema del fatto che
fosse gradito o meno.
Dora guardava sempre con un po’ di
preoccupazione, prima che sparisse, la busta di suo cugino Franco. E se fosse
toccato a lui? Una volta ne aveva parlato con la Mamma, che aveva riso di gusto
e le aveva spiegato brevemente il calcolo delle probabilità. Non era sicura di
aver compreso bene, ma si era tranquillizzata. Con il trascorrere degli anni aveva
capito che sua madre la sapeva lunga: nessuno di loro, infatti, aveva mai vinto
alla lotteria di Capodanno. I biglietti che il Nonno puntualmente comperava e
riponeva con cura nelle buste, si erano regolarmente trasformati in carta
straccia.
Ora fissa il biglietto della
lotteria Italia che occhieggia dalla busta. Una lacrima scende furtiva. Non
vincerà, ne è sicura, ma le circostanze che hanno fatto sì che sia suo le danno
l’idea che sia una sorta di segnale. Una sensazione di sollievo la pervade. Finisce
in fretta il lavoro, uscendo nella nebbia.
Torino sembra diversa, sconosciuta.
Sa bene che dovrebbe dirigersi alla fermata del 37, ma rivolge lo sguardo verso
il ponte, dal lato opposto. Una luce debole e sconosciuta lampeggia dietro gli
alberi. La sta invitando a seguirla, ne è certa.
Dora, senza pensarci, le va
incontro.
Sara guarda il calendario e
sospira. Deve prendere una decisione, è già l’8 dicembre e il tempo stringe.
Pochi giorni ancora e sarebbe troppo tardi. Deve dirlo ai suoi, gli unici che
possano aiutarla. Ha fatto le prove davanti allo specchio, fingendo un’aria
baldanzosa, poi provando a sembrare tranquilla, con la voce bassa e ferma, ma
non è riuscita a trovare la formula giusta. Ha pensato di scappare da casa, ma
non saprebbe dove andare, soprattutto dopo che Luca l’ha lasciata. Con lui era
stato tutto semplice, e con altrettanta semplicità si era dileguato. Sara non
ha perso tempo a rimpiangerlo. Ma se pensa che deve ancora compiere sedici anni
e già è in un mare di guai, allora sì, le viene il magone. Da giorni non riesce
più a mangiare né a dormire, fingendo che tutto sia a posto, quando in realtà
vorrebbe solo confidarsi con qualcuno che non la giudichi, che capisca. Poi ci
sono la nausea che non le lascia tregua e, da ultimo, un quattro in latino: un’inezia,
ma anche un segnale preciso di quanto tutto stia andando per il verso
sbagliato. Come potrà finire l’anno scolastico?
Va in bagno a sciacquarsi il viso
con l’acqua fredda. Lo specchio rivela le evidenti occhiaie che l’accompagnano
da giorni. Ora o mai più. Scende in cucina: tra un po’ sarà ora di cena.
Suo padre è distratto dalle notizie
del telegiornale mentre sua madre sta cercando di sistemare Cisco, che non ne
vuole sapere, nel seggiolone.
Si siede, ignorata, alla tavola non
ancora apparecchiata. Schiarisce la gola con un colpetto di tosse.
«Papà...»
Suo padre emette un grugnito distogliendo
seccato lo sguardo dallo schermo e squadrandola velocemente. Forse è il tono
timido della voce della figlia, o forse il fatto che si rivolga a lui invece
che alla moglie, che lo spinge a guardarla meglio. In quel momento la vede
davvero, diversa, e capisce che qualcosa non va.
«Che c’è, Sara? Cos’hai?»
Ha il solito tono tranquillo, ma
traspare preoccupazione. Da quando sua figlia è così magra, tirata?
Lei esita, le labbra sono secche,
la voce non esce. Poi, tutto d’un fiato, ce la fa. In fondo, sono solo due
parole.
«Sono incinta.»
Piange, finalmente libera da un
segreto più grande di lei.
Un tempo sospeso, di silenzio
assoluto: passa un secondo, o un minuto, chissà. Paolo è un uomo mite, Sara non
ricorda di averlo mai sentito alzare la voce oppure osare gesti impulsivi.
Questa volta è convinta abbia l’occasione di lasciare da parte la sua
tradizionale imperturbabilità.
Contemporaneamente, mentre suo
padre si alza di scatto, sua madre si accascia sulla sedia a fianco di Cisco
che, ignaro, lancia allegro il biberon. Sara, alla vista dei suoi genitori che
si muovono come pupazzi meccanici legati da uno strano meccanismo di sincronia,
si dimentica per un secondo della situazione e smette di singhiozzare,
ammutolita.
Paolo, come un pesce fuor d’acqua,
apre e chiude la bocca più volte, nell’incapacità di far uscire voce ed
emozioni. Dà spazio solo a un gemito sommesso, un “oh!” soffocato. Poi si
risiede e recupera, a fatica, il controllo. Nella propria evidente confusione, rimedia
due parole, non abbastanza, ma il necessario per rompere l’impasse.
Racconta, tutto.
Poco più tardi, senza aver
mangiato, Sara esce con la scusa di prendere una boccata d’aria. Poteva andare
peggio, in fondo. O meglio. Ecco, sarebbe stato bello che suo padre si fosse
per una volta arrabbiato, anzi, incazzato. Che l’avesse sgridata, rimproverata,
insultata, anche.
Invece no, ha constatato che “il
guaio ormai era fatto” e che “bisognava trovare la soluzione”. Sua madre, invece, l’ha soltanto stretta a sé,
e quello le è valso più di mille discorsi. Sara sa perché non è intervenuta: stava
tutto lì, dentro quell’abbraccio.
La soluzione di Paolo, che non
ammette spazio per negoziare, consiste nell’abortire. Quando lei ha provato a
obiettare che la mamma, a suo tempo, non l’aveva fatto (e che lei ne era
l’evidente prova), lui l’ha zittita.
«È diverso. C’ero io. E ci sono anche adesso.
Tu, un uomo non ce l’hai, tuo figlio non ha un padre. Non avresti più un
futuro, se lo tenessi. E il bambino nemmeno.»
La nebbia avvolge Sara e i suoi
pensieri. Forse suo padre ha ragione. Come potrebbe finire gli studi, con un
bambino da accudire? Che ne sarebbe del suo sogno di diventare scrittrice?
Estrae un pacchetto di sigarette stropicciato dal giubbotto. Si era ripromessa
di non fumare più, per prendersi cura del piccolo dentro di lei. Ma dopo la
decisione di suo padre, che ha già fatto un paio di telefonate per “risolvere
al più presto”, niente ha più senso. Cerca l’accendino, frugando nelle tasche.
Lo Zippo non c’è, saltano invece fuori un paio di monete e un piccolo disco di
plastica gialla. Sara lo guarda stranita, non capisce come sia finito lì. È un
gettone del luna park, di quelli per l’autoscontro. Le sembrano passati anni
luce da quando c’è andata l’ultima volta insieme alla cuginetta Marina,
entrambe accompagnate dalla nonna. Giorni felici, Natali magici di risate e
meraviglia infantile. Sarebbe bello tornare indietro, anche solo per un poco. Nonna
Ester le manca tanto, lei avrebbe capito. Chiude gli occhi e, respirando a
fondo, le pare di sentire il profumo dello zucchero filato e la musica
gracchiante della giostra. La calda mano della nonna si avvolge intorno alla sua.
Quando riapre le palpebre alla nebbia, intravede una fioca luce intermittente
che fa capolino nei pressi del ponte, dietro casa. Non l’aveva mai notata,
prima.
Sara, senza pensarci, le va
incontro.
Gli hanno detto che è troppo
vecchio. Che non hanno più spazio per il suo corso, che non interessa più.
Ennio, nel giorno del suo ottantaquattresimo compleanno, siede sulla panchina
di fronte alla scuola, oggi chiusa per la festa dell’Immacolata. L’angoscia lo
travolge. Non può stare senza di lei, è impensabile.
Ci aveva provato, a lasciarla,
quando ormai diversi anni prima era andato in pensione, ma una morsa gli aveva
attanagliato lo stomaco e una sensazione di vuoto gli aveva dato le vertigini. Lontano
da lei, solo, in una casa che non sentiva sua, non aveva avuto altro pensiero
se non quello di rivederla. Aveva trascorso un po’ del suo tempo cercando una
scusa, una strategia per riprendersi quella che era la sua vera dimora.
Allora era riuscito a superare il
momentaneo distacco grazie alla conoscenza del direttivo scolastico, facendosi
assegnare un laboratorio di scrittura creativa, uno dei corsi offerti
dall’Università Popolare che occupava alcune aule con lezioni serali per
lavoratori.
Eccolo, l’edificio del liceo classico
Alfieri, dal quale è entrato e uscito migliaia di volte. Nel quale ha
conosciuto frotte di studenti, volti, mani e ha udito infinite voci. Si
meraviglia, ora, di non aver scavato un solco tra i gradini dell’ingresso.
Aveva varcato quella soglia per la prima volta compiuti quattordici anni, da studente.
Poi i corsi di specializzazione e, a seguire, la cattedra di lingua e
letteratura italiana fino al congedo. Da ultimo, il corso che l’ha tenuto vivo
fino a ora.
Rimasto vedovo ancora giovane,
aveva trovato nell’insegnamento la sua missione, gli allievi erano diventati la
sua grande famiglia, i suoi figli. Una volta terminati gli studi, continuavano
a tornare a trovarlo, a scrivergli, a fargli leggere i loro lavori. Lui si
beava di questo affetto, e lo ricambiava. Adesso pare tocchi a lui scrivere la
parola “fine”, mettere l’ultimo punto, posare la penna.
Il bastone appoggiato alla
panchina, le giunture che scricchiolano per il gelo e l’umidità, Ennio non ha
la forza di rialzarsi, di andarsene a casa. La nebbia ingentilisce il vecchio palazzo
austero, la bandiera stinta che penzola dal pennone sopra il grande portone
nella semioscurità non gli sembra nemmeno tanto malinconica. La tristezza, la
sente tutta dentro di sé. Sarebbe semplice, abbandonarsi lì. Basterebbe
avvolgersi bene nel tepore del cappotto, chinare il capo e addormentarsi.
Forse hanno ragione, non ha più
niente da dare, non serve più. Una lacrima scivola lenta sulla pelle delicata
dell’anziano viso, rigido di freddo. Gli occhiali si appannano.
Ennio cerca nel borsello un
fazzoletto o un panno per ripulire le lenti. Trova invece un oggetto che non
ricordava di avere. È una penna stilografica d’argento, ma non è sua. Ci sono
delle iniziali incise sul cappuccio. La riconosce immediatamente, è quella di
suo nonno, giornalista de “La Stampa” in un tempo lontanissimo, nei primi anni
del Novecento. Soltanto una volta, da bambino, Ennio era stato in redazione
accompagnato dal progenitore. Ricorda un ufficio pieno di oggetti affascinanti
e proibiti, nel quale gli era stato raccomandato di non toccare nulla. La
curiosità però era consentita, ed essendo più forte di lui, non era riuscito a
trattenersi dal fare mille domande. Un pesante macchinario sconosciuto
troneggiava al centro della scrivania.
«Che cos’è questa, Nonno?»
«Una macchina per scrivere, Ennio.
Un progresso della tecnica.»
«E come funziona?»
«Ora vedrai.»
Il nonno gli aveva accarezzato la
testolina ricciuta. Aveva preso un foglio intonso, l’aveva inserito nelle guide
e aveva pigiato rumorosamente i grossi tasti in rapida successione. Poi aveva
estratto la carta, consegnandola al bambino.
Ennio, pieno di meraviglia, aveva
letto ad alta voce.
“La vera scrittura è nel tuo
cuore.”
Perplesso, aveva guardato prima il
nonno e poi di nuovo il foglio.
«Non capisco, nonno. Che vuol dire?»
«Che la macchina può tracciare
segni, ma scrivere è un’altra cosa. Quello che scriviamo è dentro di noi, e solo
la penna è capace di collegare il cuore alla carta.»
Ennio aveva provato a comprendere,
ma non era sicuro di esserci riuscito.
«Vuoi dire che la macchina non è
brava come la penna?»
«Voglio dire che è uno strumento che
funziona bene, come la penna. Ma non è capace di darci le stesse emozioni.»
Il nonno aveva preso un altro
foglio e con la stilografica d’argento estratta dal taschino, che recava il
complicato monogramma delle sue iniziali sul cappuccio, aveva vergato con un
movimento fluido del polso la stessa, identica frase. Aveva poi consegnato il
secondo foglio al nipotino.
«La vedi, la differenza?»
Ennio la vedeva. Non avrebbe saputo
spiegarlo, ma il concetto in lui era perfetto, chiaro. Giusto.
Non aveva più rivisto quella penna,
fino a quel momento. Sapeva che il nonno la portava sempre con sé.
La rigira tra le dita che si sono
fatte blu dal freddo, e chiude gli occhi. Può essere, allora, che, nonostante
l’età, abbia ancora qualcosa di utile da fare.
Si alza a fatica, lentamente,
puntando il bastone che stenta a far presa sul selciato ghiacciato. Quando
finalmente trova la stabilità, invece di rivolgersi verso casa, punta il lato
opposto, in direzione del ponte. Una luce tenue lampeggia nella nebbia. Sembra
chiamarlo. Senza pensarci, un passo incerto dietro l’altro, la penna stretta
nella mano a scaldargli dita e anima, Ennio le va incontro.
III
Oltre le nebbie
Mario, nelle molte giornate passate
alla reception, ha fatto delle ricerche storiche che hanno confermato i
racconti che gli aveva fatto Ettore, il suo predecessore. Al tempo in cui la
città era Augusta Taurinorum, l’antico cuore romano di Torino, il fiume era un’importante
risorsa per i trasporti mercantili. Il Po aveva un corso diverso dall’attuale e
nel punto che ora è in corrispondenza con il Ponte Isabella, deviava
bruscamente prima verso est e poi di nuovo a ovest con una doppia ansa. Per
evitare che le imbarcazioni si incagliassero nel difficile percorso, era sorto
un piccolo quanto indispensabile faro, scomparso poi successivamente in epoca
tardo-antica, travolto da una piena del fiume che ne aveva deviato il tracciato
rendendolo più simile a quello presente. Una leggenda narrava del soldato di
guardia che, avvertendo il pericolo, aveva tratto in salvo numerose
imbarcazioni lanciando i suoi ultimi segnali, guidandole così per tempo all’attracco, quando
invece avrebbe dovuto segnalare la via navigabile.
La Locanda Centrale sorge, secondo
i calcoli di Mario, proprio in quel punto. Un nuovo faro, per moderni naviganti
smarriti nelle proprie personalissime nebbie.
Questa è la storia che ora racconta,
con calma, ai suoi tre nuovi ospiti infreddoliti, che ha fatto accomodare
davanti al caminetto e ai quali ha delicatamente, senza fare domande, servito
il thè bollente. Sa che ci vorrà qualche minuto, forse qualche ora, prima che
riescano a parlare. Ricorda bene le proprie sensazioni di allora: stupore e
smarrimento, ma anche la certezza di essere giunto in un luogo sicuro. Una
sensazione di protezione e la voglia di riposare la mente e il corpo, unite alla
necessità di sentire una voce di conforto. Per lui, era stata quella
dell’anziano Ettore, che successivamente, quando Mario era guarito dal suo
tormento, l’aveva incaricato di proseguire nella sua missione: guardiano del
faro.
Osserva i tre mentre iniziano a
sentire il tepore dell’ambiente e a rilassarsi il necessario per iniziare a
guardarsi intorno.
Poi, prosegue il racconto con la propria
storia, ritornando ancora a quella serata lontana.
L’anziano signore, che sembrava il
più in difficoltà a causa del fisico fragile minato dall’età, lo sorprende per
la rapidità con la quale si sta rianimando. È lui, il primo a parlare.
«Mi chiamo Ennio. Anche io sono
arrivato qui grazie a un oggetto che non sapevo di avere. La luce mi ha
guidato. Non saprei ripercorrere la strada, non la ricordo. Ero sfinito, ma ho
continuato.»
Abbozza un sorriso.
«Mi sembra di aver fatto bene.»
Mario gli si avvicina e gli siede
accanto, posandogli una mano sulla spalla.
«Hai fatto benissimo, qualunque sia
la tua motivazione.»
Ennio esita, poi si decide.
«Se vi va, vorrei raccontarvi di me.»
Mario guarda la ragazzina, che
annuisce timida, e la donna, che trova un sorriso che non si aspettava di possedere,
non più. Cerca la mano di Ennio, e la stringe per un attimo.
«Certo che ci va, siamo qui apposta.»
Quando termina, sia Mario che le
due nuove ospiti sono visibilmente commossi. Non hanno osato interromperlo, ma
è evidente dal linguaggio dei corpi che hanno trovato molte analogie con i
propri percorsi.
Ennio non ricorda quando si sia
sentito così bene come ora.
Si è fatto tardi e Mario ordina una
cena per tutti a domicilio, non avendo avuto il tempo di cucinare e nemmeno di
chiamare il personale ad aiutarlo. Giulietta sarebbe stata utile, ma la pensa
allegra e “turbinosa” a casa con la sua Nathalie, sicuramente una migliore
situazione per entrambe.
Sara si scopre affamata come non le
accadeva da settimane. E si accorge di avere anche altrettanta voglia di
parlare. Ripensa a come solo poco prima non riuscisse a darsi voce, a come il
cuore le balzasse in gola soffocando le parole, e le sembra di essere stata
teletrasportata in un’altra vita.
«Mario... Posso?»
Lui non aspettava altro che sentire
la vocina di quella ragazza che pare ancora una bambina.
«Sicuro, intanto che aspettiamo la
cena, tocca a te.»
«Mi chiamo Sara. Sono incinta e
quindi…»
Si passa una mano sulla pancia
ancora piatta. Ora sa con certezza cosa intende fare.
«…siamo in due, qui.»
Alla fine del racconto, Sara
appoggia il gettone giallo dell’autoscontro, testimonianza della sua presenza,
sul tavolo del salottino dove le tazze vuote hanno terminato il loro servizio.
Ennio apre la mano che finora ha tenuto stretta a pugno, e posa la penna
d’argento a fianco del dischetto.
La donna, l’unica a non aver ancora
parlato, apre una busta che ha estratto dalla borsetta, e accosta un biglietto
della lotteria Italia agli altri due oggetti.
«Io sono Dora. Essere qui, adesso, è
la mia vittoria. Vi spiego perché.»
Così anche lei prende a
raccontarsi.
Mario sa che se i suoi ospiti sono
arrivati contemporaneamente, è perché avevano bisogno non soltanto della
locanda, ma anche gli uni degli altri. È sicuro che le loro vite rimarranno in
qualche modo intrecciate anche quando lasceranno l’alloggio, una volta
“guariti”. Come, non lo sa, ma non è importante: nuove strade si stanno
tracciando.
Dopo la cena, trascorsa ad
approfondire le reciproche conoscenze, è ormai notte. Fuori, nel silenzio della
città che si appresta a prendere sonno, la nebbia si è diradata. Mario consegna
a ognuno le chiavi delle rispettive stanze. Non lo sorprende più di tanto il
fatto che Dora e Sara vogliano dormire insieme.
Quando si augurano la buonanotte,
Sara ha un’ultima domanda per Mario. É la stessa che vorrebbero
fargli Ennio e Dora, ma lei li precede, con quel pizzico di sfrontatezza
giovanile che ha ritrovato nelle ultime ore.
«Mario...»
«Dimmi.»
«Che c’era scritto, sul cartiglio,
quello di Lilia?»
Mario sorride. Dal taschino del
gilet, all’altezza del cuore, estrae il bigliettino e lo va a posare accanto
agli altri oggetti, solo apparentemente male assortiti. A guardar bene
compongono un disegno perfetto, armonioso. Una trama incantevole, come quella
della sua città.
Ognuno dei tre legge il biglietto
in silenzio. Poi, si abbracciano senza più necessità di parlare.
Saliti gli ospiti ai piani
superiori, Mario rimane solo. Sente Lilia vicina come non mai. Prima di andare
a sua volta a riposare, dà un’occhiata al cartiglio, quello con la verità che
tanti anni prima, da solo sul ponte, non era riuscito a vedere.
“D’amore non si muore, mai. D’amore
si vive.”
Complimenti a Laura Tarchetti per questo bel racconto pieno di suggestioni!
Ed ora, cala il sipario su questa prima edizione del Masterbook, in attesa della prossima avventura: nel 2023!
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle