Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

venerdì 23 dicembre 2022

Numero 423 - Masterbook, leggiamo il racconto classificatosi al 4° posto - 23 Dicembre 2022



Siamo arrivati alla conclusione di questa carrellata di racconti, quelli arrivati nei primi quattro posti. Nei numeri precedenti del blog (420-421-422) avete potuto leggere i primi tre nella loro interezza.
Oggi vi propongo il testo che si è classificato quarto.
Si conclude, dunque, questa esperienza esaltante del Masterbook – prima edizione 2022, un Premio Letterario a eliminazione diretta, attraverso varie Fasi e Prove diverse da quello che si è abituati a vedere, da me ideato e condotto.
Il risultato è stato eccellente: tanti partecipanti che si sono messi in gioco; tanto pubblico che ha partecipato anche al voto popolare; una bella condivisione tra le tante persone che amano scrivere e leggere. Il tutto in una serena atmosfera di competizione sportiva.
Desidero, dunque, ringraziare tutti coloro che hanno seguito questa nuova mia iniziativa. 
 
Un ringraziamento particolare alla Giuria tecnica, composta dal mio Team di collaboratrici: Cinzia Baroni, Silvana Da Roit, Tania Mignani, Tiziana Mazza e Maria Rita Sanna. Con estrema dedizione e serietà hanno impiegato tanto del loro tempo per leggere, rileggere e scegliere - a volte con difficoltà - i testi, e quindi i concorrenti da mandare avanti. Hanno investito anche i personali sentimenti ed emozioni, con un grande senso di responsabilità. Sono davvero speciali e le ringrazio.
 
La mia menzione d'onore va a 
BARBARA ROMANO
per il suo percorso all'interno del Masterbook 
e per la penna talentuosa.
 
 I risultati finali GIURIA TECNICA
 1° Classificata
Tatiana Vanini
2° Classificato
Stefano Buzzi
 3° Classificata
Giuliana Degl'Innocenti
 4° Classificata
Laura Tarchetti
 
Risultato finale VOTO POPOLARE
 L'incipit che ha ottenuto più preferenze è stato quello di 
Tatiana Vanini
 
Complimenti alla vincitrice e a tutti gli altri finalisti, arrivare in finale in una competizione così strutturata è un ottimo risultato del quale andare orgogliosi!
 
Ecco a voi il racconto che chiude quest'avventura, il quarto classificato.


PICCOLO INCANTO DI CITTÀ 

di

Laura Tarchetti

 

 

La Locanda Centrale

 

Torino è una città speciale. Tutti conoscono i suoi simboli: la Mole Antonelliana, il caval ‘d brons nella sua Piazza San Carlo, la basilica di Superga che domina dalla collina, il castello fiabesco del Valentino. Appare a prima vista solenne, austera, schiva. Ma chi riesce ad avvicinarla davvero, andando a viverla e a conoscerla intimamente, superando la barriera della sua innata ritrosia, scopre che la fitta trama che la compone è un ricamo prezioso e delicato di storia, segreti, emozioni. Sogno e realtà si stringono insieme, abbracciati nelle sue solide maglie. Alcuni angoli nascosti, sconosciuti e irraggiungibili ai più, emanano un’aura d’incanto che esalta il suo fascino storico. Questi sono il vero cuore della città.

Chi, per caso o necessità, si trovi a passare da Corso Moncalieri, lungo il Po, può osservare il doppio viale alberato che in ogni stagione ha un colore differente e i bovindi liberty dei palazzi nobiliari dai maestosi portoni. Se ha tempo, può fermarsi a godere della vista sul fiume da una delle numerose panchine al riparo del traffico. Chi invece prende l’autobus, alla fermata del 37, vede distintamente l’insegna della Banca Nazionale e, al tramonto, le luci invitanti del Ristorante dei Tre Re.  Ma c’è anche un piccolo albergo, poco distante dal Ponte Isabella, che si affaccia tra gli imponenti edifici ottocenteschi che caratterizzano il quartiere. Lo fa così timidamente da mimetizzarcisi. Alla Locanda Centrale, nessuno fa caso. Ha il nome di migliaia d’altri hotel, è qui, è dovunque e da nessuna parte. Questo, ci si creda o no, è un luogo magico.

La nebbia dicembrina scende insieme alla sera sul viale infreddolito, esattamente come il giorno in cui molti anni fa Mario è arrivato qui, cliente dalle tasche vuote e dall’anima in pena. Ora, affacciandosi dietro ai vetri appannati, sente che è una di quelle serate in cui deve accendere l’insegna luminosa. Un ospite speciale è in arrivo. Forse, addirittura più di uno.

Fa scattare l’interruttore e, mentre il neon prende coraggio iniziando a lampeggiare, accende il fuoco nel caminetto che domina l’accogliente salottino a fianco della reception e inizia a preparare il thè.

Anche Mario, come l’hotel che ora gestisce, è un uomo che si nasconde pur senza volerlo. Né alto né basso, né biondo né bruno, giovane e vecchio, si perde nella folla. Potrebbe essere il vicino di casa silenzioso, dalle persiane socchiuse, vestito di nero, forse grigio. Del quale non si rammenta il nome, che è un nome qualunque, come lui. Se anche ha una voce, dev’essere da sentirsi appena, in modo da non disturbare. 
Quando lo si incrocia per strada, gli si passa accanto sfiorandolo, senza accorgersene. Chi è particolarmente sensibile può sentire un fruscìo discreto, ma è questione di un attimo, e già è dimenticato. 

Giulietta, la ragazza che si occupa delle pulizie, ha terminato il turno. Mario la sente fischiettare allegra mentre scende le scale a passi veloci. Piomba nell’ingresso sorridente e spettinata come al solito. “Turbinosa” è l’aggettivo che secondo Mario la inquadra meglio. 
«Capo, se non c’è altro, io vado.»
Mentre raccoglie la borsa che lascia sempre sotto il bancone presidiato da Mario, si blocca un istante, alla vista del vassoio con le tazzine e la zuccheriera. L’espressione si fa interrogativa.
«Uhm… Nuovi ospiti?»
Mario sorride con un cenno d’assenso.
«Esatto, stasera, arrivi speciali.»
«Devo fermarmi, Capo?»
«No, vai a casa, Nathalie t’aspetta. Ci vediamo domani.»
Visibilmente sollevata, Giulietta torna alla modalità turbine e vola verso la porta, lanciandogli un bacio con la mano.
«Grazie Capo, sei un grande. Poi mi racconti.»
Un soffio d’aria gelida l’accompagna all’esterno.

Mario ha conosciuto Giulietta una sera d’agosto, nella calura della città oppressa dall’afa. Non era stato necessario accendere l’insegna. Aveva sentito delle voci concitate all’esterno, ed era uscito giusto in tempo per vedere un’auto rombante sgommare via verso le colline e una ragazza singhiozzare riversa sul marciapiede. Quella volta, era stata la locanda a recarsi dall’ospite.

Quando era guarita dalle pene di quell’amore malsano, le aveva offerto il lavoro. Mario aveva sempre avuto la tendenza ad affezionarsi ai clienti che per varie ragioni si trattenevano per una “vacanza lunga” e con lei, che avrebbe potuto essere anagraficamente sua figlia, non era riuscito a sopportare l’idea del distacco. Giulietta, dal canto suo, si rendeva conto che con tutta probabilità senza un impiego stabile sarebbe tornata presto a navigare in un mare di guai, e con lei anche la sua figlioletta. Così erano iniziati un sodalizio lavorativo e una preziosa amicizia.

Il bollitore inizia a sibilare e Mario si perde nei ricordi.

Sono diverse, le strade che portano alla Locanda e nessuna è segnata sulle mappe. Ognuno degli ospiti trova la sua, da sé. Ciò che accomuna tutti i percorsi è la tenue luce della speranza che dà il coraggio di procedere verso la destinazione, ignota fino all’ultimo.

Per lui, le indicazioni erano sbucate dal cappotto grigio che indossava quel giorno, una dozzina d’anni prima. In piedi, solo, davanti al parapetto proprio al centro del ponte, avvolto dalla nebbia fitta che la luce dei lampioni non riusciva a penetrare, scrutava le acque scure, tranquille e inesorabili del Po scorrere sotto di lui. Parevano chiamarlo, con il loro gorgoglìo sommesso, un canto dolce, come di sirena. Sembrava così facile: farsi abbracciare dai vortici del fiume, smettere di pensare, lasciarsi andare. Nessuno l’avrebbe visto, il traffico scorreva ignaro e ovattato al centro della carreggiata, nessuno l’avrebbe cercato. Forse, così avrebbe potuto ritrovare Lilia, se fosse esistito un luogo lontano, oltre, per rimanere per sempre con lei.
Chiuse gli occhi, per concentrarsi sulla musica dell’acqua. Respirò profondamente l’aria umida e gelida senza sentire minimamente il freddo. Poi prese dalla tasca il cellulare e lo gettò oltre la balaustra. L’apparecchio scomparve in silenzio, regalandogli la piacevole sensazione d’essersi liberato di un peso. Ripeté la stessa azione con il portafoglio. Volando oltre le ringhiere, questo si aprì lasciando libere le poche banconote contenute e un minuscolo foglietto che, volteggiando, tornò verso di lui fermandosi ai suoi piedi. Inizialmente lo ignorò e si tolse il cappotto, appoggiandolo davanti a sé, sul parapetto. In maniche di camicia, il gelo gli mordeva la pelle. La nebbia gelava tra la sua folta barba, incrostandola in un fine merletto perlato.
Il desiderio di non lasciare alcuna traccia lo fece chinare a riprendere il pezzetto di carta sfuggito al proprio destino. Lisciandolo tra le dita intorpidite, vide che si trattava di un cartiglio, di quelli contenuti nei cioccolatini preferiti da Lilia. Erano bigliettini che recavano scritta una breve frase d’amore. A volte succedeva che lei, pur adorando il cioccolato, si dimenticasse persino di mangiarlo, quando scopriva un aforisma o un messaggio particolarmente toccante. Rimaneva sognante con il biglietto tra le mani, dimentica del mondo circostante. In quelle occasioni, Mario la prendeva in giro, fingendo di gustarsi il dolcetto ignorato. Poi, ridevano insieme. Magari facevano l’amore. Ora, non capiva come potesse trovarsi nel suo portafoglio. Il cuore prese a battergli furiosamente, mentre si portava sotto al lampione più vicino per illuminare le minuscole parole stampate.
Tremante, una volta letto il biglietto, chiuse gli occhi e pianse, travolto dall’ondata dei sentimenti. Quando li riaprì, dopo un tempo indefinito, vide nella nebbia una luce calda lampeggiante farsi largo tra le fronde degli alberi spogli, poco oltre il ponte. Gli pareva chiamarlo a sé. Ancora scosso dai singhiozzi, recuperò il cappotto infilandoselo a fatica, i gesti rallentati dal freddo, e si avviò verso il chiarore. Avvicinandosi, la luce diventò più nitida, trasformandosi nell’insegna di una locanda. Con un gesto della mano si asciugò le lacrime che gli tracciavano sentieri ghiacciati sul viso, preparandosi a entrare nella sua nuova, seconda vita.

Il thè è ormai pronto e il suono del cicalino dell’ingresso annuncia l’arrivo di una ragazzina pallida e minuta, una donna sulla trentina e un distinto anziano signore claudicante che varcano insieme, spaesati, la soglia dell’hotel.
Mario interrompe bruscamente il filo dei ricordi e, conoscendo l’importanza del delicato momento dell’accoglienza, va loro incontro.

 

II 

Tre sentieri

 

Dora guarda l’orologio. Ancora mezz’ora alla fine del turno. Ancora una stanza, forse due. É l’8 dicembre e sarebbe bello essere a casa a preparare l’albero di Natale con i bambini, che invece sono dal suo ex. Il giudice il mese precedente li ha affidati a lui, visto il lavoro a tempo determinato di Dora e la scarsa abilità del suo avvocato, l’unico che lei ha potuto permettersi. Il contratto che scade l’indomani, il conto in banca tendente al rosso, la preoccupazione per l’asma del piccolo Ricky che va peggiorando e l’impossibilità di stare vicino a lui come a Maddy, che è più grande ma non abbastanza, le danno la sensazione di sostare sul ciglio di un baratro. Si aggrappa alla foto dei figli che porta sempre con sé, per evitare di cadere. Ma la presa si fa ogni giorno più difficile e, specialmente la sera, si sente scivolare.

Mentre riassetta la stanza 205, Susanna, la collega del terzo piano, la chiama a gran voce dal corridoio.
«Dora! Dove sei?»
Lei si affaccia alla porta tenuta aperta dal carrello della biancheria, quasi scontrandosi con la ragazza che la sta cercando.
«Susi?»
«Dora, mi serve un favore, davvero.»
Lei è sorpresa, conosce la collega e sa che non parla mai a sproposito.
«Se posso, volentieri. Che succede?»
«Devo andare a prendere mia sorella all’aeroporto. Doveva andarci Matteo, ma mi ha messaggiato che è bloccato in riunione. Nostra madre diventerà furiosa se lascio Bella da sola. Nemmeno fosse ancora una bambina…»
Dora annuisce. Problemi familiari piccoli, facilmente risolvibili. Magari i suoi fossero così.
«Insomma, devo fare ancora la 303 e poi avrei finito ma…»
Dora la interrompe.
«Vai pure, la faccio io. Tranquilla.»
Susi l'abbraccia, d’impeto. Già si sta togliendo la divisa, mentre non smette di ringraziarla.
Chiusa la 205, Dora sale in ascensore con il carrello fino alla 303. Un intero turno di otto ore, e nemmeno una mancia. É uso dell’hotel lasciare una busta apposita in ogni stanza, sopra al frigo-bar. La maggior parte dei clienti la ignora. Quando non lo fa, ci mette le briciole, monetine inutili delle quali vuole solo liberarsi. Le banconote sono una rarità e soltanto una volta le è capitato un biglietto da 50 euro: le era parso, mettendoselo in tasca, di rubare.
Inizia preparando la biancheria di ricambio: il letto è quasi intatto, come se il cliente avesse dormito sopra le coperte. La busta delle mance è appoggiata in bella vista sul cuscino. Curiosa, la apre. Dapprima si sente presa in giro. Cosa potrebbe farsene? Poi un senso di nostalgia la pervade. Una sensazione dolce, che la riporta a quando, bambina, passava il giorno di Natale dai nonni, insieme alla numerosa truppa familiare radunata per l’occasione.
Nonno Arturo, autoritario patriarca dai baffi a manubrio e il piglio ottocentesco, teneva molto all’occasione. Ma la sua proverbiale tendenza al risparmio, nonostante fosse più che benestante, si palesava nei particolari. Mano a mano che la famiglia, tra figli, generi, nuore e nipoti andava numericamente aumentando, i cibi in tavola si facevano più scarsi nella quantità e nella qualità. Il vino era scadente, abbondavano pane e patate. Quanto al dolce, al tradizionale panettone si preferiva una focaccia impastata dalla nonna, la cui abilità di cuoca riusciva solo in parte a sopperire alla carenza della materia prima. Davanti alla possente tavolata, prima di sedersi e iniziare quello che a Dora pareva un pranzo interminabile, si sostava per una breve preghiera di ringraziamento. A seguire, ognuno prendeva la busta chiusa che lo aspettava appoggiata sul proprio piatto. Nessuno apriva mai l’involucro. Tutti sapevano già cosa contenesse, e lo facevano sparire a seconda dei casi nella giacca o nella borsa, rassegnati, dimenticandosene all’istante. Era chiaro, invece, come per Nonno Arturo si trattasse di un prezioso presente. Annunciava con voce tonante: «I regali!»
Allora sfoderava il suo miglior sorriso allargando le braccia verso i piatti, con gli occhi luccicanti come Alì Babà di fronte al tesoro. Nessuno aveva mai osato contraddirlo, e la tradizione si era perpetrata fino alla sua morte. La nonna, una volta vedova, aveva eliminato qualunque regalo e di conseguenza anche il problema del fatto che fosse gradito o meno.
Dora guardava sempre con un po’ di preoccupazione, prima che sparisse, la busta di suo cugino Franco. E se fosse toccato a lui? Una volta ne aveva parlato con la Mamma, che aveva riso di gusto e le aveva spiegato brevemente il calcolo delle probabilità. Non era sicura di aver compreso bene, ma si era tranquillizzata. Con il trascorrere degli anni aveva capito che sua madre la sapeva lunga: nessuno di loro, infatti, aveva mai vinto alla lotteria di Capodanno. I biglietti che il Nonno puntualmente comperava e riponeva con cura nelle buste, si erano regolarmente trasformati in carta straccia.

Ora fissa il biglietto della lotteria Italia che occhieggia dalla busta. Una lacrima scende furtiva. Non vincerà, ne è sicura, ma le circostanze che hanno fatto sì che sia suo le danno l’idea che sia una sorta di segnale. Una sensazione di sollievo la pervade. Finisce in fretta il lavoro, uscendo nella nebbia.

Torino sembra diversa, sconosciuta. Sa bene che dovrebbe dirigersi alla fermata del 37, ma rivolge lo sguardo verso il ponte, dal lato opposto. Una luce debole e sconosciuta lampeggia dietro gli alberi. La sta invitando a seguirla, ne è certa.
Dora, senza pensarci, le va incontro.

Sara guarda il calendario e sospira. Deve prendere una decisione, è già l’8 dicembre e il tempo stringe. Pochi giorni ancora e sarebbe troppo tardi. Deve dirlo ai suoi, gli unici che possano aiutarla. Ha fatto le prove davanti allo specchio, fingendo un’aria baldanzosa, poi provando a sembrare tranquilla, con la voce bassa e ferma, ma non è riuscita a trovare la formula giusta. Ha pensato di scappare da casa, ma non saprebbe dove andare, soprattutto dopo che Luca l’ha lasciata. Con lui era stato tutto semplice, e con altrettanta semplicità si era dileguato. Sara non ha perso tempo a rimpiangerlo. Ma se pensa che deve ancora compiere sedici anni e già è in un mare di guai, allora sì, le viene il magone. Da giorni non riesce più a mangiare né a dormire, fingendo che tutto sia a posto, quando in realtà vorrebbe solo confidarsi con qualcuno che non la giudichi, che capisca. Poi ci sono la nausea che non le lascia tregua e, da ultimo, un quattro in latino: un’inezia, ma anche un segnale preciso di quanto tutto stia andando per il verso sbagliato. Come potrà finire l’anno scolastico?
Va in bagno a sciacquarsi il viso con l’acqua fredda. Lo specchio rivela le evidenti occhiaie che l’accompagnano da giorni. Ora o mai più. Scende in cucina: tra un po’ sarà ora di cena.
Suo padre è distratto dalle notizie del telegiornale mentre sua madre sta cercando di sistemare Cisco, che non ne vuole sapere, nel seggiolone.
Si siede, ignorata, alla tavola non ancora apparecchiata. Schiarisce la gola con un colpetto di tosse.
«Papà...»
Suo padre emette un grugnito distogliendo seccato lo sguardo dallo schermo e squadrandola velocemente. Forse è il tono timido della voce della figlia, o forse il fatto che si rivolga a lui invece che alla moglie, che lo spinge a guardarla meglio. In quel momento la vede davvero, diversa, e capisce che qualcosa non va.
«Che c’è, Sara? Cos’hai?»
Ha il solito tono tranquillo, ma traspare preoccupazione. Da quando sua figlia è così magra, tirata? 
Lei esita, le labbra sono secche, la voce non esce. Poi, tutto d’un fiato, ce la fa. In fondo, sono solo due parole.
«Sono incinta.»
Piange, finalmente libera da un segreto più grande di lei.
Un tempo sospeso, di silenzio assoluto: passa un secondo, o un minuto, chissà. Paolo è un uomo mite, Sara non ricorda di averlo mai sentito alzare la voce oppure osare gesti impulsivi. Questa volta è convinta abbia l’occasione di lasciare da parte la sua tradizionale imperturbabilità.
Contemporaneamente, mentre suo padre si alza di scatto, sua madre si accascia sulla sedia a fianco di Cisco che, ignaro, lancia allegro il biberon. Sara, alla vista dei suoi genitori che si muovono come pupazzi meccanici legati da uno strano meccanismo di sincronia, si dimentica per un secondo della situazione e smette di singhiozzare, ammutolita.
Paolo, come un pesce fuor d’acqua, apre e chiude la bocca più volte, nell’incapacità di far uscire voce ed emozioni. Dà spazio solo a un gemito sommesso, un “oh!” soffocato. Poi si risiede e recupera, a fatica, il controllo. Nella propria evidente confusione, rimedia due parole, non abbastanza, ma il necessario per rompere l’impasse.
Racconta, tutto.
Poco più tardi, senza aver mangiato, Sara esce con la scusa di prendere una boccata d’aria. Poteva andare peggio, in fondo. O meglio. Ecco, sarebbe stato bello che suo padre si fosse per una volta arrabbiato, anzi, incazzato. Che l’avesse sgridata, rimproverata, insultata, anche.
Invece no, ha constatato che “il guaio ormai era fatto” e che “bisognava trovare la soluzione”. Sua madre, invece, l’ha soltanto stretta a sé, e quello le è valso più di mille discorsi. Sara sa perché non è intervenuta: stava tutto lì, dentro quell’abbraccio.
La soluzione di Paolo, che non ammette spazio per negoziare, consiste nell’abortire. Quando lei ha provato a obiettare che la mamma, a suo tempo, non l’aveva fatto (e che lei ne era l’evidente prova), lui l’ha zittita.
«È diverso. C’ero io. E ci sono anche adesso. Tu, un uomo non ce l’hai, tuo figlio non ha un padre. Non avresti più un futuro, se lo tenessi. E il bambino nemmeno.»
La nebbia avvolge Sara e i suoi pensieri. Forse suo padre ha ragione. Come potrebbe finire gli studi, con un bambino da accudire? Che ne sarebbe del suo sogno di diventare scrittrice? Estrae un pacchetto di sigarette stropicciato dal giubbotto. Si era ripromessa di non fumare più, per prendersi cura del piccolo dentro di lei. Ma dopo la decisione di suo padre, che ha già fatto un paio di telefonate per “risolvere al più presto”, niente ha più senso. Cerca l’accendino, frugando nelle tasche. Lo Zippo non c’è, saltano invece fuori un paio di monete e un piccolo disco di plastica gialla. Sara lo guarda stranita, non capisce come sia finito lì. È un gettone del luna park, di quelli per l’autoscontro. Le sembrano passati anni luce da quando c’è andata l’ultima volta insieme alla cuginetta Marina, entrambe accompagnate dalla nonna. Giorni felici, Natali magici di risate e meraviglia infantile. Sarebbe bello tornare indietro, anche solo per un poco. Nonna Ester le manca tanto, lei avrebbe capito. Chiude gli occhi e, respirando a fondo, le pare di sentire il profumo dello zucchero filato e la musica gracchiante della giostra. La calda mano della nonna si avvolge intorno alla sua. Quando riapre le palpebre alla nebbia, intravede una fioca luce intermittente che fa capolino nei pressi del ponte, dietro casa. Non l’aveva mai notata, prima. 
Sara, senza pensarci, le va incontro.

Gli hanno detto che è troppo vecchio. Che non hanno più spazio per il suo corso, che non interessa più. Ennio, nel giorno del suo ottantaquattresimo compleanno, siede sulla panchina di fronte alla scuola, oggi chiusa per la festa dell’Immacolata. L’angoscia lo travolge. Non può stare senza di lei, è impensabile.
Ci aveva provato, a lasciarla, quando ormai diversi anni prima era andato in pensione, ma una morsa gli aveva attanagliato lo stomaco e una sensazione di vuoto gli aveva dato le vertigini. Lontano da lei, solo, in una casa che non sentiva sua, non aveva avuto altro pensiero se non quello di rivederla. Aveva trascorso un po’ del suo tempo cercando una scusa, una strategia per riprendersi quella che era la sua vera dimora.
Allora era riuscito a superare il momentaneo distacco grazie alla conoscenza del direttivo scolastico, facendosi assegnare un laboratorio di scrittura creativa, uno dei corsi offerti dall’Università Popolare che occupava alcune aule con lezioni serali per lavoratori.
Eccolo, l’edificio del liceo classico Alfieri, dal quale è entrato e uscito migliaia di volte. Nel quale ha conosciuto frotte di studenti, volti, mani e ha udito infinite voci. Si meraviglia, ora, di non aver scavato un solco tra i gradini dell’ingresso. Aveva varcato quella soglia per la prima volta compiuti quattordici anni, da studente. Poi i corsi di specializzazione e, a seguire, la cattedra di lingua e letteratura italiana fino al congedo. Da ultimo, il corso che l’ha tenuto vivo fino a ora.
Rimasto vedovo ancora giovane, aveva trovato nell’insegnamento la sua missione, gli allievi erano diventati la sua grande famiglia, i suoi figli. Una volta terminati gli studi, continuavano a tornare a trovarlo, a scrivergli, a fargli leggere i loro lavori. Lui si beava di questo affetto, e lo ricambiava. Adesso pare tocchi a lui scrivere la parola “fine”, mettere l’ultimo punto, posare la penna. 
Il bastone appoggiato alla panchina, le giunture che scricchiolano per il gelo e l’umidità, Ennio non ha la forza di rialzarsi, di andarsene a casa. La nebbia ingentilisce il vecchio palazzo austero, la bandiera stinta che penzola dal pennone sopra il grande portone nella semioscurità non gli sembra nemmeno tanto malinconica. La tristezza, la sente tutta dentro di sé. Sarebbe semplice, abbandonarsi lì. Basterebbe avvolgersi bene nel tepore del cappotto, chinare il capo e addormentarsi.
Forse hanno ragione, non ha più niente da dare, non serve più. Una lacrima scivola lenta sulla pelle delicata dell’anziano viso, rigido di freddo. Gli occhiali si appannano.
Ennio cerca nel borsello un fazzoletto o un panno per ripulire le lenti. Trova invece un oggetto che non ricordava di avere. È una penna stilografica d’argento, ma non è sua. Ci sono delle iniziali incise sul cappuccio. La riconosce immediatamente, è quella di suo nonno, giornalista de “La Stampa” in un tempo lontanissimo, nei primi anni del Novecento. Soltanto una volta, da bambino, Ennio era stato in redazione accompagnato dal progenitore. Ricorda un ufficio pieno di oggetti affascinanti e proibiti, nel quale gli era stato raccomandato di non toccare nulla. La curiosità però era consentita, ed essendo più forte di lui, non era riuscito a trattenersi dal fare mille domande. Un pesante macchinario sconosciuto troneggiava al centro della scrivania.
«Che cos’è questa, Nonno?»
«Una macchina per scrivere, Ennio. Un progresso della tecnica.»
«E come funziona?»
«Ora vedrai.»
Il nonno gli aveva accarezzato la testolina ricciuta. Aveva preso un foglio intonso, l’aveva inserito nelle guide e aveva pigiato rumorosamente i grossi tasti in rapida successione. Poi aveva estratto la carta, consegnandola al bambino.
Ennio, pieno di meraviglia, aveva letto ad alta voce.
“La vera scrittura è nel tuo cuore.”
Perplesso, aveva guardato prima il nonno e poi di nuovo il foglio.
«Non capisco, nonno. Che vuol dire?»
«Che la macchina può tracciare segni, ma scrivere è un’altra cosa. Quello che scriviamo è dentro di noi, e solo la penna è capace di collegare il cuore alla carta.»   
Ennio aveva provato a comprendere, ma non era sicuro di esserci riuscito.
«Vuoi dire che la macchina non è brava come la penna?»
«Voglio dire che è uno strumento che funziona bene, come la penna. Ma non è capace di darci le stesse emozioni.»
Il nonno aveva preso un altro foglio e con la stilografica d’argento estratta dal taschino, che recava il complicato monogramma delle sue iniziali sul cappuccio, aveva vergato con un movimento fluido del polso la stessa, identica frase. Aveva poi consegnato il secondo foglio al nipotino.
«La vedi, la differenza?»
Ennio la vedeva. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma il concetto in lui era perfetto, chiaro. Giusto.
Non aveva più rivisto quella penna, fino a quel momento. Sapeva che il nonno la portava sempre con sé.
La rigira tra le dita che si sono fatte blu dal freddo, e chiude gli occhi. Può essere, allora, che, nonostante l’età, abbia ancora qualcosa di utile da fare.
Si alza a fatica, lentamente, puntando il bastone che stenta a far presa sul selciato ghiacciato. Quando finalmente trova la stabilità, invece di rivolgersi verso casa, punta il lato opposto, in direzione del ponte. Una luce tenue lampeggia nella nebbia. Sembra chiamarlo. Senza pensarci, un passo incerto dietro l’altro, la penna stretta nella mano a scaldargli dita e anima, Ennio le va incontro.  

 

 III 

Oltre le nebbie

 

Mario, nelle molte giornate passate alla reception, ha fatto delle ricerche storiche che hanno confermato i racconti che gli aveva fatto Ettore, il suo predecessore. Al tempo in cui la città era Augusta Taurinorum, l’antico cuore romano di Torino, il fiume era un’importante risorsa per i trasporti mercantili. Il Po aveva un corso diverso dall’attuale e nel punto che ora è in corrispondenza con il Ponte Isabella, deviava bruscamente prima verso est e poi di nuovo a ovest con una doppia ansa. Per evitare che le imbarcazioni si incagliassero nel difficile percorso, era sorto un piccolo quanto indispensabile faro, scomparso poi successivamente in epoca tardo-antica, travolto da una piena del fiume che ne aveva deviato il tracciato rendendolo più simile a quello presente. Una leggenda narrava del soldato di guardia che, avvertendo il pericolo, aveva tratto in salvo numerose imbarcazioni lanciando i suoi ultimi segnali, guidandole così per tempo all’attracco, quando invece avrebbe dovuto segnalare la via navigabile.
La Locanda Centrale sorge, secondo i calcoli di Mario, proprio in quel punto. Un nuovo faro, per moderni naviganti smarriti nelle proprie personalissime nebbie.

Questa è la storia che ora racconta, con calma, ai suoi tre nuovi ospiti infreddoliti, che ha fatto accomodare davanti al caminetto e ai quali ha delicatamente, senza fare domande, servito il thè bollente. Sa che ci vorrà qualche minuto, forse qualche ora, prima che riescano a parlare. Ricorda bene le proprie sensazioni di allora: stupore e smarrimento, ma anche la certezza di essere giunto in un luogo sicuro. Una sensazione di protezione e la voglia di riposare la mente e il corpo, unite alla necessità di sentire una voce di conforto. Per lui, era stata quella dell’anziano Ettore, che successivamente, quando Mario era guarito dal suo tormento, l’aveva incaricato di proseguire nella sua missione: guardiano del faro.

Osserva i tre mentre iniziano a sentire il tepore dell’ambiente e a rilassarsi il necessario per iniziare a guardarsi intorno.
Poi, prosegue il racconto con la propria storia, ritornando ancora a quella serata lontana. 
L’anziano signore, che sembrava il più in difficoltà a causa del fisico fragile minato dall’età, lo sorprende per la rapidità con la quale si sta rianimando. È lui, il primo a parlare.
«Mi chiamo Ennio. Anche io sono arrivato qui grazie a un oggetto che non sapevo di avere. La luce mi ha guidato. Non saprei ripercorrere la strada, non la ricordo. Ero sfinito, ma ho continuato.»
Abbozza un sorriso.
«Mi sembra di aver fatto bene.»
Mario gli si avvicina e gli siede accanto, posandogli una mano sulla spalla.
«Hai fatto benissimo, qualunque sia la tua motivazione.»
Ennio esita, poi si decide.
«Se vi va, vorrei raccontarvi di me.»
Mario guarda la ragazzina, che annuisce timida, e la donna, che trova un sorriso che non si aspettava di possedere, non più. Cerca la mano di Ennio, e la stringe per un attimo.
«Certo che ci va, siamo qui apposta.»
Quando termina, sia Mario che le due nuove ospiti sono visibilmente commossi. Non hanno osato interromperlo, ma è evidente dal linguaggio dei corpi che hanno trovato molte analogie con i propri percorsi.
Ennio non ricorda quando si sia sentito così bene come ora.
Si è fatto tardi e Mario ordina una cena per tutti a domicilio, non avendo avuto il tempo di cucinare e nemmeno di chiamare il personale ad aiutarlo. Giulietta sarebbe stata utile, ma la pensa allegra e “turbinosa” a casa con la sua Nathalie, sicuramente una migliore situazione per entrambe.
Sara si scopre affamata come non le accadeva da settimane. E si accorge di avere anche altrettanta voglia di parlare. Ripensa a come solo poco prima non riuscisse a darsi voce, a come il cuore le balzasse in gola soffocando le parole, e le sembra di essere stata teletrasportata in un’altra vita.
«Mario... Posso?»
Lui non aspettava altro che sentire la vocina di quella ragazza che pare ancora una bambina.
«Sicuro, intanto che aspettiamo la cena, tocca a te.»
«Mi chiamo Sara. Sono incinta e quindi…»
Si passa una mano sulla pancia ancora piatta. Ora sa con certezza cosa intende fare.
«…siamo in due, qui.»
Alla fine del racconto, Sara appoggia il gettone giallo dell’autoscontro, testimonianza della sua presenza, sul tavolo del salottino dove le tazze vuote hanno terminato il loro servizio. Ennio apre la mano che finora ha tenuto stretta a pugno, e posa la penna d’argento a fianco del dischetto.
La donna, l’unica a non aver ancora parlato, apre una busta che ha estratto dalla borsetta, e accosta un biglietto della lotteria Italia agli altri due oggetti.
«Io sono Dora. Essere qui, adesso, è la mia vittoria. Vi spiego perché.»
Così anche lei prende a raccontarsi.
Mario sa che se i suoi ospiti sono arrivati contemporaneamente, è perché avevano bisogno non soltanto della locanda, ma anche gli uni degli altri. È sicuro che le loro vite rimarranno in qualche modo intrecciate anche quando lasceranno l’alloggio, una volta “guariti”. Come, non lo sa, ma non è importante: nuove strade si stanno tracciando.
Dopo la cena, trascorsa ad approfondire le reciproche conoscenze, è ormai notte. Fuori, nel silenzio della città che si appresta a prendere sonno, la nebbia si è diradata. Mario consegna a ognuno le chiavi delle rispettive stanze. Non lo sorprende più di tanto il fatto che Dora e Sara vogliano dormire insieme.
Quando si augurano la buonanotte, Sara ha un’ultima domanda per Mario.  É la stessa che vorrebbero fargli Ennio e Dora, ma lei li precede, con quel pizzico di sfrontatezza giovanile che ha ritrovato nelle ultime ore.
«Mario...»
«Dimmi.»
«Che c’era scritto, sul cartiglio, quello di Lilia?»
Mario sorride. Dal taschino del gilet, all’altezza del cuore, estrae il bigliettino e lo va a posare accanto agli altri oggetti, solo apparentemente male assortiti. A guardar bene compongono un disegno perfetto, armonioso. Una trama incantevole, come quella della sua città.
Ognuno dei tre legge il biglietto in silenzio. Poi, si abbracciano senza più necessità di parlare.

Saliti gli ospiti ai piani superiori, Mario rimane solo. Sente Lilia vicina come non mai. Prima di andare a sua volta a riposare, dà un’occhiata al cartiglio, quello con la verità che tanti anni prima, da solo sul ponte, non era riuscito a vedere. 

“D’amore non si muore, mai. D’amore si vive.”


Complimenti a Laura Tarchetti per questo bel racconto pieno di suggestioni!

Ed ora, cala il sipario su questa prima edizione del Masterbook, in attesa della prossima avventura: nel 2023!



Alla prossima

dalla vostra

Stefania Convalle

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

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