La maratona di scrittura si è conclusa e la vincitrice della finalissima è GIULIA LANDINI.
Complimenti!
Al secondo posto si sono classificati a pari merito:
ELISABETTA MOTTA
RICCARDO SIMONCINI
Al terzo posto:
PINUCCIA SASSONE
COMPLIMENTI A TUTTI!
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Giulia Landini
LE NOZZE BIANCHE
Sdraiata in macchina, con le gambe fuori dal finestrino, si lasciò cullare dal ticchettio dei suoi tacchi color Tiffany sullo sportello.
Non si era sposata.
Lanciò il bouquet non appena l’auto
ripartì e percorse a ritroso con i ricordi i giorni confusi che l’avevano
condotta fino a lì, accanto all’uomo che amava.
Lei e Christopher si erano appena conosciuti quando lei saltò su con il suo cipiglio civettuolo e gli disse: «Promettimi che tra qualche anno mi sposerai», poi scoppiò in una fragorosa risata con gli occhi colmi di gioia e lo baciò.
Lui guardò innamorato quella donna
un po’ matta e piena di vita, pensando che nessun per sempre sarebbe bastato a
dare un posto a tutto l’amore che provava per lei.
Inutile dire che quel tempo corse veloce
e che il matrimonio era ormai alle porte.
Quello con cui nessuno aveva fatto
i conti, tanto meno lei, era l’incidente che, pochi mesi prima del gran giorno,
avrebbe portato via Christopher.
Seguirono tempi bui, nessuno spazio
era mai abbastanza ampio da non farla sentire stretta in una morsa, come se soffocasse.
Non esisteva attimo che non
pensasse a Cristopher.
Nelle notti insonni e disperate,
una parola si fece largo nella sua testa: celebrare.
Sentiva forte il bisogno di ricordarlo,
di compiere insieme l’ultimo gesto grandioso prima di dirgli addio.
Scelse il giorno del matrimonio;
era ancora tutto prenotato, compreso il viaggio di nozze in California.
Si vestì di tutto punto, calzò il
vestito da sposa strampalato che avrebbe indossato nel suo matrimonio lampo
stile Las Vegas, i tacchi celesti e si fece accompagnare dall’autista che
avevano assoldato per scortarli la prima sera, ubriachi, all’albergo.
Appena salì in auto mise le gambe
fuori dal finestrino ed ebbra di champagne si sdraiò sul seggiolino, sotto lo
sguardo incredulo dell’autista.
«Non si è presentato lo sposo?»
chiese timidamente.
«Qualcosa del genere, qualcosa del genere»
rispose lei.
Nel suo bagaglio c'era una scatola
dei ricordi: biglietti, lettere, piccoli regali, tutto quello che restava di Christopher
tranne le fedi, quelle le aveva gettate insieme alla terra e ai fiori sulla
bara chiara prima che fosse interrata.
Non aveva progetti oltre quel
viaggio, la sua vita precedente non le serviva più e non sapeva cosa ne sarebbe
stato di lei, ma aveva un gran bisogno di vivere quello che restava dei suoi giorni
sentendolo vicino.
A ogni tappa di quel viaggio
avrebbe celebrato qualcosa di lei e Cristopher e ogni pezzetto di strada avrebbe
rimesso insieme il puzzle scomposto del suo cuore.
La prima tappa era San Francisco,
la città dove vivevano quelli che sarebbero dovuti diventare i suoi suoceri,
pensò di cominciare da lì a ritrovare parti di lui, si avvicinò ad un cancello
bianco in ferro battuto e suonò il campanello.
«Sono Rachel, la Rachel di Cristopher»
disse piano per annunciarsi.
La risposta furono le sbarre mobili
che cominciarono a muoversi e una donna comparve sulla soglia di casa in attesa:
la mamma di Cristopher.
Continuavo a guardare incredula il biglietto della lotteria tra le mie dita.
Avevo vinto? Impossibile. Stentavo
a crederci.
E invece sì, avevo proprio vinto. E
quella che presto sarebbe stata mia non era di certo una piccola somma. Gli
zeri, preceduti dal numero uno, trasmettevano il loro messaggio come il
lampeggiante di un sistema d’allarme. Li contai per l’ennesima volta. Ben sei. Un
milione di dollari!
Quando finalmente misi giù il
biglietto, dovetti riprenderlo subito in mano per guardarlo ancora perché non
riuscivo a convincermi della realtà di ciò che vedevo.
Io, Rebecca Winters, una squattrinata
ragazza di ventotto anni che si era sempre arrangiata per sbarcare il lunario, sarei
diventata milionaria.
Yuppie!
Ma era tutto reale, e la mia vita
piatta e grigia si sarebbe trasformata in un sogno sfavillante.
Giurai di godermela fino in fondo.
Così, incassata la sostanziosa
somma di denaro, mi tolsi il primo sfizio di una lunga lista. Acquistai una
lussuosa Cadillac color azzurro Tiffany! Il mio colore preferito.
Mi sentivo potente alla guida di
quell’auto. Quello stesso giorno mi fermai sulla Fifth Avenue nel negozio più
lussuoso di scarpe, la mia passione, e scelsi un paio di decolleté tacco
dodici, color azzurro Tiffany.
La tappa successiva fu in una
boutique di firmati capi di abbigliamento. Svaligiai, letteralmente, l’intero negozio!
Era la mia nuova vita e io ero la
nuova Rebecca.
Carica di buste e pacchetti, raggiunsi
la mia Cadillac fiammante. Mentre sfrecciavo per le strade di New York, il
vento che entrava dai finestrini abbassati scompigliava i miei capelli facendomi
assaporare l’attimo fuggente.
Ed ecco che all’improvviso lo vidi.
Seduto sul marciapiede, quel giovane era raccolto su se stesso come un vecchio fagotto
abbandonato. Chiedeva l’elemosina. Il suo sguardo raggiunse il mio, nel
lussuoso abitacolo della vettura. Malgrado fossero tristi, le sue iridi erano
le più belle che avessi mai visto. Nere e profonde.
Desiderai vedere un sorriso sul suo
volto. Fu la mia sfida di quel giorno.
Agii d’impulso. Inchiodai il piede sul
freno e accostai l’auto. Scesi e mi avvicinai. C’erano pochi spiccioli nel
berretto capovolto sull’asfalto. Sapevo bene cosa significasse fare rinunce e
sacrifici, ma non potevo immaginare come fosse la vita di un mendicante.
«Sai
guidare?» gli chiesi a bruciapelo.
Mi guardò confuso. Era evidente che
non riusciva a dare un senso a ciò che aveva appena sentito.
«Ho un lavoro da offrirti» spiegai. «Mi serve un autista!»
Continuò a fissarmi incredulo.
«Se
ti va» aggiunsi scrollando le spalle.
Ed ecco spuntare il sorriso, radioso
come il sole, e più eloquente di mille parole.
Sono trascorsi due anni da quel
giorno. Henry è diventato mio marito. Un colpo di fortuna ha cambiato la mia
vita, ma anche la sua.
La mia testa adesso è poggiata
sulle sue gambe mentre lui guida la Cadillac, e i miei piedi sporgono fuori dal
finestrino, calzando i vertiginosi tacchi azzurro Tiffany.
Siamo ubriachi di felicità perché presto
appenderemo alla porta di casa un fiocco.
E sarà azzurro Tiffany!
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Tiziana Mazza
UNA FOTO DA INCORNICIARE
La mia mano cerca frenetica nell’astuccio dei trucchi ed estrae un rossetto dal colore albicocca che ben s’intona con la mia carnagione delicata e con i fiori disegnati sul mio abito. Una passata veloce sulle labbra, un’ultima controllata all’immagine che lo specchio mi rimanda, e via!
21 giugno 1965: sta per iniziare la stagione più bella dell’anno. Dopo un lungo periodo trascorso a sgobbare sui libri, sono pronta a vivere tre mesi in piena libertà, con l’unica preoccupazione di divertirmi: sole, mare, tuffi in acqua, il falò sulla spiaggia, il gioco della bottiglia e… lui!
Ho appena finito la quarta liceo, niente esami quest’anno e, per fortuna, neanche Roberto. L’anno scorso è stato bocciato, così quest’estate niente maturità, libero di divertirsi anche lui e, soprattutto, con la patente di guida. Laura, la mia amica del cuore, mi ha detto che i suoi genitori, per la tanto sospirata promozione, gli hanno regalato una grossa automobile, come quelle che si vedono nei film americani: è uno sballo, non ti puoi sbagliare è di colore verde acqua, non ce ne sono altre in giro! E, guarda caso, l’abito e le scarpe che oggi ho scelto di indossare sono in perfetto pendant…
In lontananza sento il suono del juke box, proviene dai nostri bagni, l’Aloha
Beach. Sono le note del tormentone dell’estate: Il Mondo di Jimmy Fontana. Muoio
dalla voglia di ballarla con lui.
Mi starò illudendo? Lo scorso settembre, quando ci siamo salutati per
iniziare il nuovo anno scolastico, Roberto aveva da poco lasciato quella
smorfiosa di Giovanna e finalmente mi aveva notata, mi guardava con occhi
diversi, così, almeno, mi era sembrato.
E se mi fossi sbagliata? Fra poco lo saprò, è il momento della prova del
nove.
«Ciao Alice, non vedevo l’ora di incontrarti.»
Laura e io ci abbracciamo strette, felici di esserci ritrovate dopo
tanto tempo.
«Sono già arrivati tutti?»
«Sì, c’è anche Giovanna…» lo sguardo della mia amica è più che
eloquente.
«Già, vedo.»
L’entusiasmo e la trepidazione che avevo provato fino a un attimo fa
svaniscono come le carte nelle mani di un abile illusionista. La strega della
favole è più viva che mai, ma io non sono più disposta a giocare il ruolo di
Biancaneve.
Mi avvicino con passo deciso, stanno
ballando. La strega sbatte le ciglia finte mentre si struscia contro Roberto. Estraggo
dalla borsa una limetta e con nonchalance affilo le unghie. Lei mi guarda, lui
mi guarda… Ho gli occhi di tutti puntati addosso. Poi Roberto la stacca
bruscamene da sé, piantandola da sola inebetita in mezzo alla pista, e si
avvicina a me.
«Ciao, Alice. Sei splendida! Te l’avevo mai detto?»
Se sto sognando, non svegliatemi!
Uno sguardo alla faccia viola di Giovanna mi conferma che sono più che
sveglia.
«Vuoi venire a fare un giro sulla mia nuova Chevrolet? Siete fatti l’una per l’altra…»
La faccia di Laura è nascosta dietro all’obiettivo mentre mi allontano in auto con Roberto: grazie, amica mia, domani compro una cornice d’argento.
NOTE DANZANTI
Le note di “Spring Walz” rompevano il silenzio della stanza rendendo l’atmosfera rilassata e satura di serenità.
La musica di Chopin aiutava Claudia
a entrare in una “bolla” emotiva. Chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare
dalla poesia. Esisteva solo lei, la melodia, la sua anima spoglia.
Aveva incontrato Ruben a soli
vent’anni catapultandosi in una storia
fatta di vacanze, cene esclusive e viaggi. Ma dopo il matrimonio scoprì
un marito afflitto da paranoie, gelosia e a cui piaceva saltuariamente alzare
il gomito. Tornava a casa ogni sera sempre più tardi lasciandosi divorare dalle frustrazioni, trascurandola e
chiedendole raramente come stesse.
L’assenza del marito era libertà,
evasione. In sua presenza non avrebbe potuto permettersi di vagare per l’appartamento a passo di danza,
leggera come una libellula con ali di seta, indossando il tutù e le mezze punte.
L’avrebbe umiliata, presa in giro e schernita con la sua solita cattiveria.
Da qualche tempo l’anima di Claudia
si era immersa nei colori brillanti di
un nuovo arcobaleno, da un po’ di tempo Claudia, ballava ancora più leggiadra,
sognante.
Aveva incontrato una persona
speciale che era riuscita con poche parole e piccoli gesti a farla sentire
importante, bella, unica. Si era ricordata della felicità dentro alle piccole
cose, grazie ad Alex.
Usava quasi sempre il diminutivo,
ad eccezione di eventi importanti e carichi di significato. Aveva incontrato l’Amore
a casa di amici, davanti a un piatto di polpette al curry. Alex si sedette di
fronte a lei, facendo passare il gesto come casuale, ma non l’aveva persa di
vista un attimo .
I loro sguardi non perdevano
occasione per incrociarsi, le loro mani per toccarsi. La serata si concluse con
un bacio lungo e appassionato che lasciò Claudia senza parole, ma ancor di più
senza fiato.
Aveva tradito suo marito, anni di
soprusi e umiliazioni non riuscivano a farla sentire in colpa, anzi, le
dispiaceva che l’incontro si fosse concluso solo con un pudico bacio.
Dal quel primo sguardo trascorsero
due anni di sesso rocambolesco, progetti, incontri clandestini. Anni felici,
mentre Ruben ignaro di tutto continuava a immergersi nel lavoro, negli amici,
nei bar.
Quando la musica di Chopin cessò
ripose le mezze punte e il tutù in una scatola di legno intarsiata, Alex la
stava aspettando sotto casa con sogni, amore e passione. Indossò le scarpe più
belle che possedeva, sentiva nell’aria la libertà. Scese le scale e si tuffò
tra le sue braccia.
Salirono in macchina, accese la
radio e cantarono a squarciagola, ridendo di ogni piccola cosa. In un moto di
spensieratezza, Claudia poggiò la schiena su Alexandra e tirò fuori dal finestrino
le lunghe e affusolate gambe avvertendo la delicata carezza del vento caldo. Si
sentiva leggera, dopo il peso della
danza esasperata, carica di sofferenza e allo stesso tempo liberatoria
di poco prima.
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Riccardo Simoncini
ADESSO
TOCCA A ME
Adesso tocca a me.
Ho
sudato, ho concesso, ho permesso, ho subìto e stretto i denti, ma adesso tocca
a me.
L'ha
detto e l'ha fatto.
È
passato a prendermi, a "rubarmi via", come dice lui.
Ogni
sera in quel locale, entrava con il suo chiodo di pelle nera e i capelli pieni
di brillantina, andava al juke box e metteva sempre la stessa vecchia canzone.
"Te
la ricordi?" mi ha chiesto la prima sera, seduto al tavolo con la birra
davanti.
"No",
ho risposto secca sfoderando il sorriso di circostanza senza il quale noi
ragazze rischiamo il licenziamento.
Mi
ha colpito quell'espressione delusa su quel sorriso che non voleva spegnersi,
come se volesse continuare a concedermelo. Come fosse un regalo.
È
tornato ogni sera, con lo stesso sorriso e la stessa canzone.
Una
volta mi ha fatto un'altra domanda: "E di me, ti ricordi?"
Io
ho risposto lo stesso "No" con lo stesso sorriso finto ed è rimasto
di nuovo deluso ma con lo stesso sorriso regalo.
Ogni
sera. Silenzioso, pensieroso, solitario. Sorridente, quando incrociava il mio
sguardo.
"Chi
sei?" gli ho chiesto finalmente una volta dopo il lavoro, mentre fumava
appoggiato alla sua Cadillac.
Ha
fatto quel sorriso regalo, sempre senza usare gli occhi e ha raccontato chi è.
Io non gli credo. Avevamo sei anni e dice di amarmi da allora. Piangeva, quel giorno. Era un bimbo solitario, silenzioso e pensieroso, ma quel giorno scoppiò a piangere. Pare sia stata io a consolarlo. "Se smetti di piangere ti do un bacio". Lui pianse più forte e io lo baciai due volte. In sottofondo, quella vecchia canzone che non ha più dimenticato.
Dice
di amarmi da allora, ma io non gli credo. Se fosse vero, avrebbe una costanza
che... Figuriamoci. Però è stato incredibile, ogni sera, per un anno. Mi ha
raccontato ogni giorno un ricordo diverso di quel periodo che io tengo a
malapena in memoria. Sempre con quel sorriso regalo. "Dopo quel giorno non
piango più davanti a te" mi ha detto.
La
sua non è stata una corte spietata, ma piuttosto una pazienza delicata.
Alla
fine gli ho detto di sì, che se credeva poteva venirmi a prendere con la sua
Cadillac di quel verde Tiffany che adoro sin da quando ero bambina, che avrei
lasciato tutto e tutti e sarei andata con lui, perché in fondo ho capito che
dopo aver sudato, concesso, permesso, subìto e stretto i denti, adesso tocca a
me.
È
venuto. È venuto davvero. Mi ha portato un vestito e un mazzo di scarpe dello
stesso colore della sua auto. Il mio preferito. Fin da quando ero bambina. Dice
che mi ama da allora.
Ho
indossato tutto e sono partita con lui, perché adesso tocca a me.
Quando
gli ho detto "ti amo" ho visto il suo sorriso regalo vacillare e
lasciare il posto a uno vero. Poi, come fanno sempre gli uomini, ha infranto la
promessa e ha pianto. E in quel momento io l'ho baciato ancora.
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Tania Mignani
MATRIMONIO IN OHIO
Come dice, agente?
Patente e
libretto?
Eccoli qua. Sono
un tipo ordinato, io. La mamma ci tiene tanto.
Oh, non faccia
caso a Betty, si è addormentata subito dopo essere salita.
Oggi poi è
particolarmente elegante, non trova, agente?
Quel bellissimo
vestito a fiori lo abbiamo comprato insieme, nel negozio più elegante della
città. Quando è uscita dal camerino era perfetta. La commessa le ha mostrato
anche le scarpe, eleganti, con i tacchi molto alti e di un bellissimo turchese.
Quando Betty le ha viste le si sono illuminati gli occhi allora le ho detto
«Prendile, tesoro. Al matrimonio della cugina Mary devi essere la più bella». E
lo sarà senz’altro, agente, perché è lì che stiamo andando, nell’Ohio. Chissà
le facce dei miei parenti quando ci vedranno arrivare, loro che mi hanno sempre
considerato un ritardato.
Anche Betty mi
prendeva in giro insieme agli altri ragazzi, ma sono sicuro che non lo
pensasse, lo diceva solo per adeguarsi.
Quando è partita
per Los Angeles la gente cominciò a dire cose cattive anche su di lei.
Ogni domenica
andavo al cinema sperando di vederla in un film ma il suo nome non appariva nei
cartelloni, ne avrà uno d’arte pensavo, però non la scorgevo neppure sullo
schermo.
Comunque, due
mesi fa è tornata e la gente ha ricominciato a sparlare di lei, io lavoro
all’emporio di Sal e ne sento di chiacchiere. Dicevano che per soldi avrebbe
fatto di tutto.
Non capivo cosa
ci fosse da meravigliarsi, non lavoriamo forse tutti per i soldi? Persino lei
che a detta di molti faceva un lavoro strano, il lavoro più antico del mondo.
Ho pensato di
chiederle di farmi da fidanzata al matrimonio della cugina Mary e lei ha accettato,
ma abbiamo pattuito che oltre ai soldi le avrei comprato anche un vestito nuovo.
Ero al settimo cielo e per ringraziarla le ho regalato anche le scarpe. Non
sono stupende, agente?
Questa mattina
sono passata a prenderla e lei era in casa, già vestita di tutto punto insieme
a C.J., si strusciavano uno contro l’altro, ero preoccupato e se avesse
rovinato il vestito?
Quando è salita
in macchina puzzava di gin e si è arrabbiata con me. Mi ha detto «ma si può
sapere che vuoi da me, razza di un ritardato». Io sono buono e caro ma quando
sento quella parola mi va il sangue alla testa, è più forte di me. Lei voleva
scendere ma l’ho afferrata per la sciarpa e ho tirato finché non si è calmata e
si è addormentata.
Finalmente siamo
partiti, mi è venuto in mente che il giorno in cui abbiamo comprato scarpe e
vestito lei aveva messo i piedi fuori dal finestrino «sono talmente belle che
devono vederle tutti» e così ho fatto anch’io, cercando di non svegliarla.
Ok, agente, farò
come dice lei, mi sdraio a terra con le mani dietro la schiena, ma non urli per
favore, Betty si potrebbe svegliare e faccia in fretta, la strada per l’Ohio è
ancora lunga.
Al principio fu rosso. La passione ci travolse in un attimo, come il fuoco che avvampa sulle sterpaglie secche. E non m’importava se non avevo rubini alle dita, lui era la mia pietra preziosa, perfino migliore del turchese che portavo sempre al collo come portafortuna. Lui era bello, sempre allegro e sicuro di sé. In quel periodo pensavo che per amare non fosse necessario possedere grandi cose, ma non capivo che nei piccoli gesti mancava il necessario. Il fuoco del desiderio bruciava ogni pensiero.
L’arrivo
dell’autunno mutò i colori, i tramonti divennero arancio e le foglie degli
alberi gialle. Giallo diventò il nostro amore, come la fiammella che non trova
più ossigeno e si spegne. Giallo come la birra che cominciò a scorre nel suo
corpo. Come il dispiacere sul mio volto quando mi rivolse false accuse. Eppure
era bello, le sue labbra da mangiare mi facevano dimenticare ogni cosa, anche
se ogni tanto stringevo in mano il mio turchese.
La speranza di
ricominciare fu il nostro progetto, mettere a dimora i semi per vedere un
giorno il verde rigoglioso. Ero incinta e felice. Fu un periodo di intensa
complicità e i progetti erano in continua evoluzione. Pensavo che più questi
mutavano, migliore fosse il risultato. Non capivo che un cambiamento necessitava
di una buona base per cominciare.
Il mio grembo
cresceva, e questo era un buon inizio. Ma l’inverno ci trovò impreparati. Il
nostro amore non fu sufficiente a proteggerci dal freddo, lui ripiombò nella
sua incostanza, irascibile per un nonnulla. Forse, ero io il problema, avevo
preteso una vita di coppia senza nemmeno chiederglielo, avevo voluto un figlio
senza il suo consenso. Mi ritrovai sola nei pensieri sempre più profondi e
scuri come la notte. Come il mare in tempesta in un giorno d’inverno lui
esplose tutta la sua rabbia – frustrazione - su di me, strappandomi il bimbo
dal grembo e la pietra dal collo, dandomi della pazza. Compresi all’improvviso
tutta l’inconsistenza delle sue promesse e la mia superficialità nel credere a
un amore basato su colori riflessi.
La mia rinascita
fu la ricerca della pietra turchese portafortuna, come quella che portavo tempo
prima, e con determinazione la cercai senza fermarmi alle apparenze. Studiai le
proprietà e caratteristiche del turchese fino a incontrare un nuovo amore, anche
lui appassionato di minerali, con tanti difetti come le sfumature della pietra,
ma affidabile come la sua durezza. Poco per volta imparai a fidarmi di quel
turchese, lo volli nelle scarpe e nei vestiti, sempre con me, dentro di me.
«Ma quante volte devo dirtelo che non devi indossare quei vestiti! Ma tu, imperterrita, niente! Lo sai che sei la vergogna di questa famiglia, vero? Continua a fare quello che credi: disobbedisci! Poi, vedrai tuo padre di che cosa sarà capace!»
«Io non ho paura!» rispondevi alle
minacce di tua madre, cercando di nascondere la voce tremante.
Avevi solo diciassette anni, Afrah,
e tanti erano i sogni come tanta era la voglia di vivere che, se non per
cultura, ti rendevano identica a tutti noi giovani.
Arrivata in Italia a soli cinque
anni con i tuoi genitori e tre fratelli maschi, eri cresciuta, così, in un
Paese straniero che, a dispetto di quei genitori, era diventato anche il tuo.
Ricordi quella volta in cui mi
chiedesti se sapessi che cosa significasse in arabo Afrah? Senza aspettare che
tentassi almeno di indovinare, rispondesti da sola, urlando al cielo: «Felicità!»
Ecco! La gioia, quasi tangibile,
che trasudava da qualsiasi cosa dicessi o facessi era semplicemente contagiosa.
«Troppo esuberante, non va bene,
così!» erano le parole di tuo padre quando rimproverava tua madre per non
averti controllato a dovere. E me le riferivi, facendogli il verso, quasi a
voler sdrammatizzare la realtà.
Quella realtà che t’impediva anche
di uscire dopo la scuola con i tuoi amici – soprattutto se maschi – magari, semplicemente
per studiare in gruppo; di indossare sneaker e jeans senza per forza doverli
coprire con cappe scure e lunghe fino ai piedi; di portare quei tuoi splendidi
lunghi capelli neri dai riflessi blu sciolti sulle spalle. Sdrammatizzare,
quindi, quella realtà che t’impediva di vivere i tuoi anni più spensierati.
Frequentavi la terza superiore, ma
sapevi già che avresti dovuto interrompere gli studi a breve. La tua famiglia ti
aveva promesso in sposa a un cugino e presto avresti dovuto raggiungerlo nel
vostro Paese d’origine.
Eri terrorizzata all’idea, ma non
rassegnata.
«Lotterò fino all’ultimo! Mai e poi
mai potranno costringermi a fare una pazzia del genere!» eri solita postare in
rete.
Qualche giorno prima di scomparire,
senza lasciare traccia di te, mi confessasti di aver paura che i tuoi fratelli
e tuo padre ti stessero per tendere una trappola…
Non so dove tu sia, Afrah, amica mia!
Mi piace pensare, però, che da
lassù, con indosso un vestitino giallo fantasia, e calzando le scarpe col tacco
di vernice verde che ti prestava di nascosto mia sorella quando volevi
liberarti di quell’orrido e nefasto niqab, tu possa sfrecciare su quell’auto
d’epoca - che avremmo sicuramente posseduto da grandi, com’eri solita dire - anch’essa
di colore verde, il colore che più amavi.
Mi piace immaginarti bella, allegra
e spensierata in una giornata di sole… Innamorata della vita.
A volte, penso a quella canzone, che
diceva: … Ma tu che ne sai dei sogni… Quelli son miei e non li vendo. E gli
occhi mi si riempiono di lacrime.
Ne avevo
accompagnate tante di spose, nella mia carriera di autista per grandi eventi,
ma giuro mai, mai nessuna stravagante quanto questa qui. Aveva voluto a tutti i
costi la Cadillac turchese, la nostra macchina più scenografica, e più costosa.
Diceva che si abbinava alla perfezione al prezioso vestito in tulle e alle
scarpe decolté, tacco dodici, che aveva scelto per la cerimonia. E non aveva
voluto il padre in macchina con lei, né a condurla all’altare. Usanze antiquate
aveva detto. Ad aspettarla davanti alla chiesa, insieme agli invitati, doveva
esserci il marito: ci sarebbero entrati insieme, nel tempio di Dio e nella loro
nuova vita.
Avrei voluto farle
anche io una domanda: quella domanda che probabilmente a tutti veniva da fare,
guardandola. Ma non potevo. Io ero a noleggio, insieme all’auto, ed ero,
pertanto, tenuto alla discrezione. Dovevo lasciare che fossero i clienti ad
attaccare bottone, sempre che ne avessero voglia. Quella era la regola.
Arrivati a
destinazione la sposa mi fece la richiesta più bizzarra. Dovevo aiutarla a
sistemarsi con le gambe accavallate che sporgevano fuori: fuori dal finestrino
posteriore dell’auto.
Anche chi
passava di lì per caso non poteva ignorarle, quel paio di gambe mozzafiato che
sbucavano dalla Cadillac turchese. Sì, spiccavano sopra ogni cosa quelle sue
gambe e quelle sue scarpe turchesi con i tacchi a spillo: due punte messe lì a
bucare il cielo.
Io dallo
specchietto retrovisore avevo potuto osservare, per il tempo del viaggio, la
sposa da una prospettiva diversa, e privilegiata. D’altronde era da lì, dallo
specchietto retrovisore, che si riflettevano i segreti, i segreti di tutti. E
lo specchietto retrovisore, in silenzio, proprio come me, ne aveva sempre
custodito la misteriosa luce.
Certo che di
luce ne rifletteva parecchia, quella sposa, non fosse stato per quell’ombra nel
suo sguardo. Ma a quell’ombra lei non la voleva dar vinta, questo l’avevo
capito senza bisogno di domandare nulla.
La gente si
sarebbe fermata a bocca aperta, fuori dalla chiesa, a guardare lo spettacolo di
quel magnifico corpo, di quelle magnifiche gambe che svettavano così, dal
finestrino aperto di una Cadillac turchese. E dopo quello spettacolo niente,
proprio niente, avrebbe più potuto rubare la scena alla sposa, né in alcun modo
oscurarla. Nessuno, dopo, avrebbe più notato quel suo viso, bello e deturpato
da un lato all’altro. Quel viso magnifico e impressionante che nulla, nemmeno
un trucco fatto ad arte, era riuscito a normalizzare.
Solo io in quel
momento, dalla mia prospettiva privilegiata, potevo notarlo. Ma la domanda sul
perché di quello sfregio mi era morta tutta sulle labbra appena ero sceso
dall’auto e avevo visto, riflesso negli occhi delle persone, quel tacco dodici
bucare il turchese del cielo.
- 10 -
Pamela Pirola
LA RINASCITA
Sabato… Niente sveglia, niente ansia e niente lavoro. Dalla finestra entrava lentamente la prima luce del giorno.
Carol si girò sul fianco, stirò le braccia e aprì gli occhi. Una
piacevole sensazione di relax, quasi protettiva, era conferita dalle lenzuola
bianche e per un attimo la vita era perfetta così. D’improvviso le venne in mente la data di quel giorno e un brivido
di freddo la travolse dalla testa ai piedi.
Due anni fa il giudice aveva definito la sentenza di divorzio.
Il suo ex marito, seduto al lato destro dell’aula, inveiva con parole violente
contro il suo avvocato, mentre Carol lo ringraziava per aver messo
definitivamente la parola FINE a quella vita d’infermo.
L’idea di alzarsi e preparare il caffè la sviò dai pensieri
cupi.
«Basta pensare al passato» sussurrò tra sé e sé.
Fatta colazione, indossò la tuta, mise gli auricolari e uscì
dal palazzo. La musica era quella giusta, il ritmo del cuore iniziò ad accelerare e via…
Corse fino al parco, dove si doveva incontrare con la sua migliore amica. Joanna. L’unica che le era
sempre stata accanto nella fase della separazione e del divorzio e la sola a
cui aveva confidato le violenze domestiche subite.
Il ritmo della musica incalzò e le gambe risposero bene. E
pensare che fino a qualche tempo prima l’idea di correre non le aveva nemmeno
sfiorato la mente.
Ormai correre era una sfida, la sua sfida. Se era riuscita a
sopportare cinque anni di matrimonio violento, era anche capace di arrivare a
correre prefissandosi dei traguardi sempre più ambiziosi.
Arrivata al lago, posto al centro del parco, si sentì soddisfatta. Il sole le regalò i primi raggi
dorati sul viso.
Joanna era sulla solita panchina ad aspettarla mentre
sorseggiava un cappuccino bollente.
Le due amiche si scambiarono uno sguardo d’intesa e nello
stesso momento esclamarono: «Questa vita è troppo monotona, dobbiamo compiere
una pazzia!»
Tornarono a casa, prepararono le valigie e partirono per un
viaggio coast to coast. La meta non era predefinita, andavano dove le portava
il cuore e anche la stupenda macchina decappottabile color Tiffany di Joanna.
L’ultima volta che sono state avvistate si trovavano a Malibù,
parcheggiate davanti al mare, con la musica ad alto volume e le loro
fantastiche gambe fuori dai finestrini. Inutile dire che Joanna indossava delle
meravigliose décolleté tacco quindici di colore Tiffany.
Chissà dove sono ora? Chissà se hanno trovato la felicità? O
se stanno ancora vagando di città in
città senza una meta ben precisa.
Chissà…
Pinuccia Sassone
Malaika era inconsapevole di quanto fosse bella: lunghi riccioli neri le incorniciavano il viso dalla pelle ambrata con magnetici occhi cerulei.
Viveva con i genitori e cinque
fratellini in un povero villaggio, nel Burkina Faso. Ai piedi della
collina, la savana assolata e migliaia di chilometri di terra rossa,
punteggiata qua e là dal verde degli alberi.
Adom, amico di infanzia, emigrato in
Francia, raccontava d’aver trovato un ottimo lavoro. Ogni anno portava regali
per tutti, lo aspettavano come manna dal cielo.
Malaika, sulla rivista di moda che lui
le regalò, si innamorò di un paio di scarpe. Nelle notti insonni, accarezzava
il desiderio di andarsene da quel posto. Percorreva sconosciute strade di
fantasia su quei tacchi a spillo diventati il suo sogno di libertà.
Adom tornò al villaggio per la morte del nonno, capo della comunità. Nell’occasione, disse al padre di Malaika che avrebbe potuto aiutare la figlia, offrirle lavoro e casa. Decise il genitore per lei e quattro giorni dopo, partirono. Nel misero bagaglio: due vestiti stropicciati e un paio di sandali di spago.
Con un morso al cuore abbracciò i
fratelli. La mamma la strinse forte a sé,
fiduciosa e felice, di certo la vita della figlia sarebbe cambiata in
meglio.
Arrivati a Parigi, l’amico l’accompagnò
nell’abitazione preparata per lei.
Una casa da favola, Malaika rimase
senza parole. Fino a quel giorno aveva abitato
in una capanna i cui muri erano stati costruiti con impasto di terra, paglia e sterco bovino.
Non potrò mai ringraziarti
abbastanza, gli disse.
Siamo cresciuti come fratelli, voglio
che tu stia bene, rispose Adom.
Iniziò a lavorare presso un lussuoso bar della città. I clienti erano incantati dalla sua bellezza. Adom andò a trovarla dopo qualche settimana per chiederle il favore di ospitare un amico, solo un paio di giorni.
Ogni volta, però, era una persona diversa.
Lei, ancora ignara, non poteva
rifiutarsi, gli doveva gratitudine.
Iniziò così la carriera da prostituta di lusso. Adom passava per riscuotere l’incasso giornaliero.
Spesso le pretese erano altre e se lei
lo respingeva, erano botte.
Pensavi davvero che ti avrei fatto
fare una bella vita? Le disse l’impostore senza scrupoli.
Malaika trascorreva nottate intere piangendo. Voleva scappare, ma dove…come? Il bastardo l’avrebbe cercata ovunque.
Una sera, un cliente non osò
abusare di lei. Lo inibì il pensiero che la ragazza avesse l’età di sua figlia.
Posso portarti in un luogo sicuro,
lui non potrà mai più trovarti. Le disse
l’uomo.
Dopo tre ore di strada giunsero al Convento delle suore Clarisse, ubicato in un posto sperduto, a duecento chilometri da Parigi. L’uomo l’affidò alla badessa, raccomandandole il massimo della discrezione.
L’abito talare mortificò tutta la sua bellezza.
Malaika abbandonò il suo nome e divenne
Suor Adelaide.
La sera, quel mondo chiuso in silenziose preghiere, diventava ancora più sordo.
Nell’angolo dell’armadio custodiva il
segreto del suo primo acquisto a Parigi.
Al buio, di nascosto, indossava quelle
scarpe col tacco a spillo, verdi come il colore della speranza.
Il suo sogno di libertà non moriva.
- 12 -
Alessandra D'Angella
L'INCREDIBILE POTENZA DELL'AMORE
Il pomeriggio prima del suo matrimonio Vittoria mi chiese di accompagnarla al mare, voleva guardare le onde infrangersi sulla scogliera.
«Al mare? Ma ci vorrà almeno un’ora
di macchina!» replicai sconcertato.
Non volle sentire ragioni, non era
certo una donna a cui si poteva dire di no; e così nel giro di pochi minuti mi
ritrovai al volante della Cadillac di suo padre, con lei seduta accanto, vestita
di tutto punto, le gambe fuori dal finestrino nella consueta posizione che
assumeva tutte le volte in cui aveva la necessità di riconciliarsi con i suoi
pensieri.
In silenzio fissava il mondo
scorrere, mentre il sole le filtrava nei capelli impreziositi dai fermagli di Swarovski,
creando un prisma di colori sulla tappezzeria.
La conoscevo sin da quando eravamo
bambini, ma in quel momento facevo davvero fatica a immaginare quali spiriti popolassero
la sua mente. Erano mesi che camminava a due metri da terra ed era così felice
per quel che stava vivendo, che stentavo a credere vi fosse qualcosa in grado
di disturbare il suo stato di catarsi.
Fu proprio mentre ascoltavo il suo
silenzio e la guardavo con la coda dell’occhio che mi resi conto di quanto
fosse bella, nonostante quelle terribili scarpe color Tiffany che si ostinava a
indossare solo perché gliele aveva regalate Giovanni, il suo fidanzato, anche
se era chiaro che le detestasse.
Sorrisi per quel pensiero, era la
mia migliore amica, come potevo provare attrazione per lei?
Eppure in quel momento non riuscivo
a distogliere la mente dal quel corpo affusolato che avevo visto mille volte,
ma che allora mi sembrò di non aver esplorato abbastanza.
Mi fermai di colpo sul ciglio della
strada, lei si voltò verso di me con aria interrogativa.
La baciai e lei mi lasciò fare.
La toccai e lei non si sottrasse.
Poi facemmo l’amore.
Lì, su quella strada semideserta
che paradossalmente era il luogo più intimo in cui fossimo mai stati insieme.
E averla con me in quel pomeriggio
che preannunciava l’arrivo dell’estate, mi regalò il sapore dell’eternità, la
sensazione di poter fingere che fosse per sempre.
Non c’è nulla in grado di fissare
un ricordo così intensamente quanto il desiderio di perderlo e, sebbene più
volte io lo abbia desiderato, non sono mai riuscito a cancellare dalla mia
mente l’immagine della fusione dei nostri corpi, nemmeno a distanza di così
tanti anni.
Ciascuno di noi vive oggi la propria
vita per come l’aveva immaginata prima di quel momento e spesso mi chiedo come
sarebbe stato il nostro presente se le cose fossero andate diversamente, se
quel giorno al mare non ci fossimo stati o se una volta arrivati, avessimo
deciso di non tornare indietro. Ma non trovo conforto in alcuna risposta.
Quel che rimane nella mia vita
irrisolta, sono i ricordi che mi legano a quel pomeriggio di tanti anni fa, in
cui scoprii che non abbiamo alcun potere su ciò che sentiamo.
L’incredibile potenza dell’amore.
IL PREZZO DELLA LIBERT À
Azzurra si sedette su quella pietra miliare ai margini della strada al chilometro sette.
Raggomitolata come un feto nel
grembo materno, chiuse gli occhi e attese.
Le parole di sua madre tornarono a
consolarla.
«Sei stata il più grande regalo che
la vita potesse farmi» le aveva detto mentre in una calda sera d’estate se
n’era andata portandosi dietro sogni e dolori. Non aveva pianto quel giorno,
troppo l’aveva vista soffrire per mano del padre.
Quando aveva conosciuto Ugo, così
diverso dagli altri, aveva accettato senza riserve la proposta di matrimonio
dell’uomo; la solitudine era un macigno troppo pesante da sostenere.
Un giorno, stanca di momenti sempre
uguali, aveva accennato al desiderio di tornare a lavorare.
«Le donne maritate stanno in casa,
mantenerle è compito del marito» aveva risposto lui con orgoglio.
Azzurra aveva chinato la testa come
tante volte aveva visto fare la madre davanti al padre.
La telefonata di Sara, quella mattina, era arrivata come una boccata d’aria fresca.
«Ho una sorpresa per te, preparati.
A proposito, metti l’abito di nozze, nella foto che mi hai mandato, eri
splendida.»
Giusto quel giorno Ugo non sarebbe
tornato a pranzo. Un vero colpo di grazia, pensò correndo a prepararsi Indossò
il vestito del matrimonio abbinato alle bellissimi decolleté colore del cielo.
Un tocco di fard e uscì ad attendere l’amica.
« Sei splendida!» urlò Sara
vedendola.
«Wow… ma questa meraviglia da dove
arriva?»
«Sorpresa? L’ho appena ritirata
dalla concessionaria. Capisci perché dovevi metterti quell’abito? indossate gli
stessi colori.»
Azzurra si sentiva leggera come non
accadeva da qualche tempo e, appena in macchina con un’agilità degna di un
contorsionista, alzò le gambe e le mise fuori dal finestrino. «Direzione paradiso!»
urlò a squarciagola.
«La mia folle, dolcissima amica.
Andiamo!» fece eco Sara schiacciando sull’acceleratore.
All’improvviso una macchina sbucata
dal nulla la obbligò a una brusca frenata.
Azzurra, che da quella posizione
non si era accorta di niente rise divertita.
«Ridi, ridi, un deficiente per poco
ci veniva addosso.»
Trascorsero una giornata bellissima
tanto che al rientro non vide subito Ugo, ritto sulla porta. La stava
aspettando. I suoi occhi sputavano fuoco.
Questa volta non furono le parole a
ferirla, ma i pugni che le sfasciarono la faccia.
Il rumore di una portiera che sbatteva la
destò dal torpore di quei colpi. Il nome dell’amica le uscì dalla bocca insieme
a un flutto di sangue.
«Oh nooooo!» il grido di Sara uscì
soffocato da gemiti di dolore. Il volto devastato di Azzurra implorava
giustizia. Con mano tremante prese il telefonino e digitò il 118 e dopo aver
dato all’operatore che rispose tutte le indicazioni, si avvicinò all’amica e la
strinse tra le braccia.
«Ci ha visto e sai… era lui il deficiente.
Ha riconosciuto le mie gambe fuori dal finestrino.»
«Non parlare, ora ci sono io. Sei
libera.»
Sì, come mia madre, pensò Azzurra,
mentre sul bellissimo abito a tinte pastello si andavano a posare come petali,
lacrime di sangue.
L’urlo di Sara si confuse con il
lacerante suono del 118.
FUORI CONCORSO
Il racconto di Costanza Trotti, l'aveva scritto presa dall'entusiasmo e anche se non era tra i finalisti, eccolo qui per leggerlo.
Costanza Trotti
GALEOTTA FU LA FOTO
J’m singing in the rain, just singing in the rain. . . cantava July a bordo dell’auto verde tiffany con i piedi al vento calzati da scarpe dello stesso colore. Eppure non pioveva, cantava quella canzone mentre il maggiolino tutto matto sfrecciava al centro strada.
La volante della Polizia sfrecciava
pure, ma con una musica diversa.
Ginger Rogers, patente e libretto,
prego.
Non era alla guida, ma gli occhi
erano solo per lei.
Eh no, Cenzino il sagrestano
aspettava sul sagrato l’arrivo trionfale della diva, non poteva tardare.
Gli agenti non avevano fretta e
controllavano con calma, era la prassi.
Non avevano avvisato che ci
sarebbero state le riprese, bisognava interrompere le scene, ma i poliziotti,
sfilati i giubbotti e indossati occhiali scuri e giacche nere, cominciarono a
ballare insieme come i Blue Brothers.
Che confusione, era un altro set!
Una bambina con i boccoli biondi
batteva i piedi al ritmo del tip tap, ci mancava Shirley Temple che
attraversava la strada.
Nell’attesa dei tacchi verde
tiffany, Don Matteo intonava dal campanile Jesus Christ Superstar, Cenzino
sagrestano si vestiva da organista e Peppone dirigeva il corteo a tempo di Casaciò.
Il piccolo Totò, dall’alto della
sala, aveva intrecciato le diapositive, altro che cinema paradiso, il finale
col bacio storico fu quello tra Biancaneve e i sette nani.
Eh sì, galeotta fu la foto!
Taglia taglia, non si dice chi
quest’opera dirige.
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