Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

sabato 22 ottobre 2022

Numero 415 - Destinazioni - Lapo Ferrarese


 

"Destinazioni" di Lapo Ferrarese (Phasar edizioni)

Destinazioni, un titolo che racchiude il senso della vita: qual è il nostro destino? Una serie di coincidenze?
Lapo Ferrarese è un amico e collega, perché entrambi editori ed entrambi scrittori.
Con grande curiosità e piacere ho letto il suo ultimo romanzo, uscito nel 2020.

Credo che l'età che si ha quando ci s'immerge nella pagine di questo romanzo sia un dato importante. Se si è giovani, ventenni, come i protagonisti della vicenda narrata, ci si avvicina ai protagonisti con una mentalità di chi - ancora giovane - vive la vita come se la morte fosse qualcosa di molto distante. Chi non si è sentito immortale a quell'età, invincibile, come se qualsiasi avventura o il premere sull'acceleratore non potesse mettere a rischio la propria vita? Oppure, più semplicemente, si pensa che niente possa metterci in pericolo, perché la morte non è proprio cosa contemplata.

Diverso è leggerlo alla mia età, sessant'anni suonati, quando si è camminato per un tempo considerevole per le strade dell'esistenza, e si conosce un po' la vita con i suoi colpi bassi e la consapevolezza acquisita che siamo tutti appesi a un filo invisibile.
Leggendo il romanzo, ho provato un senso di nostalgia per la giovinezza che è ormai un ricordo e la morte ha fatto già visita nella mia vita, toccando alcune delle persone a me più care. E soprattutto ho capito che la morte non guarda in faccia l'età di nessuno. 

Le pagine andavano via scorrevoli, dato lo stile fluido di Lapo, e m'immergevano in quell'incoscienza tipica dei ventenni, quando finite le scuole superiori, si regalano spesso e volentieri un girovagare per l'Europa, zaino in spalla, all'avventura, arricchendo quell'album dei ricordi da sfogliare insieme ai futuri nipoti o a ripercorrere con nostalgia quel modo di viaggiare che da grandi non ci attrae più: zero comodità, zero soldi, tante incognite. 
Si sorride di un sorriso malinconico, voltandosi indietro e ricordando come eravamo noi, all'età di quei giovani ragazzi che si perdono tra le tappe più gettonate dagli studenti che dormono negli ostelli o in un prato - non fa molta differenza - mangiano montagne di panini e pensano solo a godersi la vita.

Un romanzo che lascia il lettore, durante il dipanarsi degli eventi, in attesa di qualcosa che deve succedere, lo si sa fin dalle prime pagine. Il dramma è nell'aria, tra le pagine, e sappiamo che qualcosa di grave è accaduto. 
L'autore ci accompagna in questo diario del protagonista che rivive un arco di tempo breve, precedente alla tragedia finale. 
Viviamo nei suoi pensieri, lo ascoltiamo come un vecchio amico saggio che osserva chi ancora deve fare esperienza e cogliamo il messaggio finale che ci insegna - ancora una volta - che la vita va avanti. 

Lapo Ferrarese ci fa entrare nella mente del protagonista, nei suoi pensieri da giovane uomo, ma anche nelle riflessioni e nella consapevolezza che alla fine, se non è la nostra ora, la vita ci porta lungo quella che è la destinazione di ognuno.
Destino già scritto?
Chissà.
A voi lettori la risposta a questa domanda.
A Lapo i miei complimenti per aver scritto una bella storia che fa riflettere e che, anche attraverso a vari rimandi cinematografici e musicali, ci trasporta indietro nel tempo.



Alla prossima 
dalla vostra
Stefania Convalle


venerdì 21 ottobre 2022

Numero 414 - Masterbook Testi Fase 2 Girone B per il voto popolare - 21 Ottobre 2022

Dean Corwell


Il Masterbook procede a gonfie vele!

Ieri, 20 Ottobre, nella diretta sulla Pagina Facebook di Edizioni Convalle, ho svelato i nomi degli autori dei testi della fase 2 - Girone A che passano alla Fase 3.

Stefano Buzzi (Giuria tecnica)
Giuliana Degl'innocenti (Giuria Tecnica)
Barbara Romano (Giuria Tecnica)
Laura Tarchetti (Voto popolare)

Ho letto, inoltre, gli 8 elaborati (composti da due prove ciascuno) dei concorrenti del GIRONE B.

3 concorrenti hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica e passano alla FASE 3. I loro nomi verranno svelati nella diretta di giovedì 27 ottobre.

Ma per gli altri 5 ancora è possibile rientrare nel gioco grazie al vostro voto.

Questa volta i testi che troverete, sono due per ogni concorrente. 

L'autore in gara doveva scrivere un racconto "Dentro il dipinto", cioè una storia che comprendesse la scena del dipinto, in linea anche con l'epoca raffigurata. E poi doveva scrivere una lettera di scuse. 
Queste erano le due prove e voi, giuria popolare, dovrete scegliere il vostro concorrente preferito valutando entrambi gli scritti per ognuno. 

Mi raccomando, conto sulla vostra serietà e attenzione nella valutazione!


Il concorrente che riceverà più voti rientrerà in gara.
Dovrete esprimere il vostro voto in un commento a questo numero del blog, all'interno del blog stesso.
Potrete esprimere una sola preferenza scrivendo: voto il concorrente NUMERO... 
Mettete il vostro nome e cognome nel commento, non sono graditi i commenti anonimi.
Se volete scrivere anche la motivazione, all'autore farà piacere, anche se non sapete a chi appartiene il testo (ma lo saprete in un secondo tempo).

I testi verranno postati in questo numero senza il mio intervento, nessuna correzione verrà da me apportata. Tutti i testi saranno qui riportati esattamente come mi sono arrivati.
Comincio quindi a postare qui di seguito i 5 testi che potrete votare.

CONCORRENTE NUMERO DUE

Racconto
La stanza segreta

 

Il signor Lester William rientrò un giorno prima del previsto.
La battuta di caccia alla volpe era stata sospesa per un brutto incidente al conte Winslow.
Sapeva che in casa non avrebbe trovato la servitù, ma non era un problema.
Era giusto che anche loro godessero di qualche giorno di riposo.
Quando il custode gli disse che anche la nuova cameriera, la signorina Ruth, era rientrata in anticipo, ne fu molto sorpreso e anche un po’ preoccupato.
Quella ragazza gli piaceva molto, lavorava bene, ma aveva un grosso difetto: era curiosa, troppo curiosa.
Dopo averla cercata ovunque capì che i suoi timori, purtroppo, erano fondati.
Poteva essere solo lì, nella vecchia stanza sul retro, la stanza in cui potevano entrare solo lui e la vecchia signora Crayton che lo aveva visto nascere.
Senza fare rumore aprì lentamente la porta.
La signorina Ruth era lì, seduta su uno sgabello, rivolta verso la piccola libreria.
Alla sua sinistra, appoggiati a terra, c’erano sei volumi, un altro era un po’ più distante.  In grembo teneva un altro libro.
Il signor Lester capì dalla copertina che era proprio quello che non avrebbe mai dovuto leggere.
Forse non era troppo tardi.
“Signorina Ruth, cosa sta facendo?” le disse, cercando di non far trapelare la sua rabbia.
La signorina Ruth lentamente si girò.
Le gote imporporate la rendevano più bella di quanto la ricordasse.  
Dal suo sguardo il signor Lester capì che ora anche la giovane cameriera sapeva.
Non c’era però in lei nessun timore, nessuna paura, nessun disgusto verso di lui.
“Mi scusi signor Lester, ma io dovevo sapere e ora” disse.
Il suono lontano di un telefono la interruppe.
“Lo lasci suonare signorina Ruth. Mi dica invece, ora che lo ha scoperto, cosa ha intenzione di fare?”
“Io, signor Lester” rispose Ruth con un filo di voce” l’ho sempre immaginato. Anzi no, dentro di me l’ho sempre saputo e il mio desiderio più grande sarebbe quello di diventare la sua”.
Si fermò di nuovo.
“No”, disse, portando la mano verso la tasca del grembiule” Marco, mi dispiace, ma non posso proprio andare avanti. Devo rispondere. È l’asilo, lo riconosco dalla suoneria. Federico mi sembrava strano questa mattina. Devo andare a prenderlo e di certo non posso presentarmi dalle suore vestita da cameriera inglese di inizio Novecento. Vado a cambiarmi. Tu metti via i libri e cerca di fare qualcosa qui in garage. Non vedi che è da ridipingere? E questo contenitore in terracotta di tua zia? Non voglio più vederlo qui”.
Anna uscì di corsa. Marco non ebbe il tempo di replicare.
Si levò la giacca e gli stivali da caccia e iniziò a sistemare i libri.
Guardò il vaso della zia Adele.
Sarebbe stato perfetto in una bottega di Casablanca.
Anna assomigliava a Ingrid Bergman, lui era conosciuto come il Bogart della Lomellina.
Non poteva sprecare una giornata di ferie a sistemare il garage.
Iniziò a pensare al nuovo copione.
Lavorandoci sodo poteva essere già pronto per quella sera.
 

 Lettera di scuse
Mompracem
 
Filippo, piccolo mio, immagino la tua sorpresa e il tuo stupore quando hai ricevuto questa lettera dallo zio Enrico.
Come non capirti?
Quando me ne sono andato due anni fa, gli zii ti hanno detto che ero stato chiamato per portare a termine una missione molto importante.
Lo so che tu hai fatto finta di crederci, ma che hai sempre pensato che io fossi volato in cielo come la mamma.
Gli zii me lo hanno detto, lo sai?
Per loro sei come un libro aperto e, quando possono, mi fanno sapere sempre tutto di te.
So che sei bravo a scuola, che ti comporti sempre bene, che non fai mai nulla per farli arrabbiare e che sei molto maturo per la tua età.
Proprio per questo motivo, tesoro mio, ho deciso di correre questo rischio e di scriverti questa lettera per provare a spiegarti cosa è successo in questi anni.
Volevo, innanzitutto, scusarmi con te se non ho avuto il coraggio di dirti di persona cosa è successo alla mamma.
Posso solo giustificarmi con il fatto che eri troppo piccolo e che non credevo lo potessi capire.
Mi dispiace molto che tu lo abbia scoperto in quel modo, e che io non potessi essere lì con te a cercare di spiegartelo.
I tuoi zii, in fondo, non ti hanno detto una bugia.   È vero che sono partito per una missione.
Non è vero, però, che sono partito per Mompracem per aiutare Sandokan a fare giustizia.
No, son sempre rimasto qui, vicino a te.
Perché, cucciolo mio, voglio che tu sappia che, per combattere le ingiustizie, non serve andare lontano. 
Le ingiustizie ci sono anche qui e la mamma si è sacrificata per cercare di lasciare a te e alle nuove generazioni un mondo migliore.
Io ho capito troppo tardi cosa voleva fare e, purtroppo, quando è successo, non ero lì per aiutarla.
Forse, se ci fossi stato anche io quel giorno, le cose non sarebbero andate a finire così.
I poliziotti non le avrebbero sparato o sarei morto io al posto suo.
Ora è arrivato il mio turno di compiere un gesto rivoluzionario.
Filippo, piccolo mio, se stai leggendo questa lettera, significa che anche questa volta hanno vinto i cattivi.
La realtà, purtroppo, non è come uno sceneggiato televisivo.
Non è vero che i buoni vincono sempre.
Ti prego, ora non piangere.
E, soprattutto, non ascoltare quello che diranno di me alla televisione o che sentirai dai tuoi amici.
Sappi che il tempo ci darà ragione e sii sempre orgoglioso della forza e del coraggio di mamma e papà.
Sii un bravo bambino come sei ora, e continua a dare ascolto agli zii.
Loro sanno tutto. Quando lo vorrai, ti spiegheranno meglio tutto quello che non sono riuscito a scriverti.
Ricorda solo che ti ho sempre voluto bene e che non è passato un giorno della mia vita senza che io ti pensassi.
Piccolo mio, scusami se non sono riuscito a dimostrartelo.
Spero riuscirai a perdonarmi.
Il tuo papà.


CONCORRENTE NUMERO TRE

Racconto
Come una favola

 ‹‹Ti prego, posso restare solo un altro po’?››.
 L’accorata richiesta si ripeteva tutte le volte che Marta saliva nel solaio della grande casa a scoprire quelli che lei riteneva essere i suoi tesori nascosti.
Quel luogo così buio, impolverato e dalle pareti ammuffite era il suo regno e racchiudeva un grande e inestimabile tesoro: i libri!
Tanti, innumerevoli, di ogni dimensione e colore, accatastati a ogni angolo, a terra, sui ripiani, a formare pile, ora basse, ora alte e Marta smarriva il suo sguardo come davanti al più immenso degli orizzonti.
Il tempo trascorso nel vecchio solaio sembrava non essere soggetto a nessuna legge naturale, e lei si sentiva così, come quei libri che nessuno voleva, ripudiati perché non ritenuti degni di figurare nelle stanze eleganti della casa, relegati in una soffitta perché ci si vergognava della loro esistenza.
Da quando era morta la mamma, solo in quel luogo ritrovava un po’ di sollievo al grande dolore che la sua assenza le procurava, lì tutto parlava di lei; molti oggetti che lei giornalmente usava o che arredavano la sua stanza, erano stati racchiusi in quella parte della casa dimenticata da tutti. Le piaceva sfiorare tutto ciò che vi si trovava perché le sembrava di stabilire un contatto con la madre. Le mancava tanto la sua dolcezza e le svogliate carezze che il padre ogni tanto le dava non riuscivano ad arrivarle al cuore.
L’uomo si era risposato, ma la matrigna non si era mai occupata di lei se non per emarginarla il più possibile dalla loro vita, d’indole chiusa e fredda, sembrava provare fastidio quando si trovava in presenza della ragazza, come se costituisse un intralcio alla serenità ordinata della sua vita. Non aveva avuto figli e occupava il tempo organizzando feste e viaggi che portavano la coppia a trascorrere molto tempo lontano da casa e così facendo, fra padre e figlia, si era scavato un solco sempre più profondo.
 Marta, dopo avere ricevuto solo le basi di un’istruzione a dir poco superficiale, era relegata in quella casa con la sola compagnia delle due anziane governanti che l’avevano vista nascere.
Quel giorno, la matrigna, di ritorno da uno dei tanti viaggi, l’aveva seguita nel solaio e in silenzio, aveva sbirciato dalla porta socchiusa la ragazza che si muoveva sicura fra tutte quelle cianfrusaglie e i libri vecchi e malandati. Le sembrava così diversa dalla ragazza chiusa e fredda che era abituata a vedere nella casa, quasi danzava da un punto all’altro del solaio e dopo avere sfiorato in maniera quasi religiosa i libri che sceglieva, si era seduta sul tappeto per sfogliarli con evidente piacere.
Le sembrava di vederla per la prima volta, chissà perché non si era mai soffermata a pensare alla grande solitudine di quella ragazza, solo in apparenza appagata di tutto.
Così quando Marta implorando le aveva chiesto: ‹‹Posso restare ancora un po'?››,
lei, per tutta risposta, le si era seduta vicino non badando alla polvere e le aveva chiesto: ‹‹Cosa leggi?››.
 
 
Lettera di scuse

Napoli, 23 novembre 1912
 
Caro Salvatore, non avrei mai voluto scrivere questa lettera.
Non puoi nemmeno immaginare quanto mi costi quello che sto per dirti ma non posso fare altrimenti. Non riuscirei nemmeno più a guardarmi allo specchio.
In questo momento sarai già al porto e già immagino la faccia che farai quando mio fratello Nico ti recapiterà questa lettera. Mi sento stringere il cuore e quasi mi manca il fiato ma non ho scelta, cerca di capirmi!
Abbiamo per tanto tempo fantasticato e pensato a questo momento e in un attimo è crollato tutto. Lo so che ti sentirai tradito e penserai che questo viaggio adesso non ha più senso, ma non devi assolutamente rinunciare al tuo futuro. Potrai iniziare una nuova vita e chissà, se un giorno ci sarà ancora posto per me nel tuo cuore e potrai ritornare, mi troverai ancora qui ad aspettarti. O forse sarebbe meglio che tu mi dimenticassi per sempre. Ci sarà tanto mare fra di noi e chissà cosa ci riserva il futuro…
Nel pomeriggio la mamma si è di nuovo aggravata e mia sorella mi guardava senza avere il coraggio di dirmi di restare. Aveva visto la mia valigia pronta nel retro della cucina, sapeva che ti avrei raggiunto e poi lei avrebbe spiegato tutto ai miei genitori.
Si sarebbero infuriati ma poi piano piano se ne sarebbero fatti una ragione, una bocca in meno da sfamare. Ma il suo sguardo non ho potuto fare a meno di notarlo. Mi sono sentita sconfitta, senza via d’uscita e in un attimo ho capito che la mia sarebbe stata una fuga, una vile fuga. Non potevo fare ricadere il peso di quella grama esistenza nelle gracili spalle di mia sorella o di mio padre sempre a spaccarsi la schiena per portare un soldo a casa o di Nico, così piccolo da non potere capire perché da un momento all’altro la sua cara Ninetta non fosse più a casa, si sarebbe sentito abbandonato senza ragione.
Come sarei potuta venire da te, abbracciarti e salire su quella nave, senza pensare a ciò che avrei lasciato? Avevo rinchiuso in quella valigia, oltre ai miei poveri vestiti, tanta speranza, tanto amore, l’amore per te c’è sempre e ti seguirà anche oltre l’oceano, ma la speranza, il mio futuro e quello della mia famiglia sono tutte cose ancora da costruire…
Perdonami Salvatore, perdonami quando sarai da solo nella tua cabina e magari al buio penserai di essere stato abbandonato e avrai voglia di piangere, perdonami quando arrivando vedrai le luci di quella nuova terra e ti sentirai stringere il cuore pensando a ciò che hai lasciato.
Scusami ma non ce l’ho fatta.
Ti amo e ti amerò per sempre, la tua Ninetta.


CONCORRENTE NUMERO QUATTRO

Racconto

Tu sei

 

Si era tagliata i capelli.
Li aveva voluti corti, da mettere dietro alle orecchie.
E non le interessavano tutte le urlate che suo padre continuava a farle, che non era femminile, che conciata così non avrebbe mai trovato un marito, che sarebbe stata lo zimbello di tutta Parigi.
Ma a Parigi quasi tutte le ragazze, e anche le donne, avevano deciso di tagliarsi i capelli.
Basta con quelle acconciature complicate! E basta con quegli abiti enormi, con le crinoline sotto.
Valerie restava ferma nella sua idea di progresso: indossava abiti eleganti, certo, ma non molto lunghi. Voleva vedere le scarpe e tenere scoperta la caviglia, come dettava la moda del momento.
«É una vergogna!» mormoravano le vecchie bacchettone e gli uomini attempati.
Molti gridavano allo scandalo: non avevano ancora capito che la figura della donna era pronta a cambiare e il suo orizzonte si stava allargando.
Le disuguaglianze di genere, le restrizioni e i divieti cominciavano a stare stretti a buona parte del mondo femminile, creando soffocamento e spirito di ribellione.
Anche Valerie era venuta in contatto con quest’aria di novità e aveva assunto nuovi comportamenti.
Usciva spesso da sola, montava a cavallo a cavalcioni, entrava nei bistrot senza essere accompagnata, maneggiava il denaro come un uomo.
E poi comprava libri e libri e libri. Di argomenti diversi, ma soprattutto quelli di emancipazione femminile.
«Non ti permetto più di uscire, tu sei donna e devi stare a casa» le disse il padre, quasi urlando, «e non mi interessano le nuove teorie e la nuova moda; starai qui, in casa. Non rispondere e non ti permettere di discutere.»
Valerie ebbe un motto di stizza, diede un colpo di tacco sul pavimento.
«Rimango in casa solo perché devo obbedirti. Hai ragione: io sono donna, ma non riuscirai mai a frenare la fantasia che mi porta ad essere libera e lontana da qui. Ho cervello, cuore e sentimenti, come gli uomini. Né più, né meno. Anche se, in questo momento, non so quanto cervello, cuore e sentimenti tu abbia verso di me.»
Lanciando a terra il tovagliolo, Valerie se ne andò senza il permesso del padre, sbattendo forte la porta.
Eccola, in una vita segregata, chiusa nel salottino. Sola.
Non poteva nemmeno andare alle scuderie o a casa di Marie, l’amica del cuore.
Quando la madre andava a vedere se avesse bisogno di qualcosa, la trovava seduta sui libri, con il volto pallido per la mancanza di sole e di aria aperta, ma con l’occhio sereno.
Sollevava appena lo sguardo. Stava bene lei, dentro le storie, il suo regno. Niente e nessuno avrebbe spezzato le ali che quei libri le stavano forgiando.
Lo sguardo svelava conquista, una nuova libertà. Valerie girava le pagine.
Tu sei donna, non mollare.
Solo la madre sapeva che Valerie aveva una corrispondenza fitta con le attiviste per l’emancipazione della donna. Parigi era piena di donne così.
Presto il mondo sarebbe cambiato, come la sua vita. Se lo sentiva.

Lettera di scuse

Non so che cosa scrivere. Non mi vengono le parole.
Ho solo un groppo alla gola che mi stringe e non mi fa parlare.
Non posso più vivere con questo senso di colpa che mi attanaglia, di giorno e di notte.
Senti, Claudia, io lo so che sono esagerata nelle parole. Ho commesso un errore, uno.
Ti chiedo di ascoltarmi, perché ho bisogno di chiarire bene le cose con te.
Partendo dal fatto che la nostra amicizia è nata quando eravamo piccole, è durata tanti anni ed è cresciuta nel tempo, credo che l’episodio successo tra noi possa essere superato e addirittura catalogato come un “incidente di percorso”.
È vero, mi avevi detto di tenere per me il dolce segreto che custodivi nel tuo grembo.
Io ho resistito per qualche giorno, poi ho iniziato a raccontarlo alle amicizie che abbiamo in comune, con tanta semplicità, senza parole sbagliate né con giudizi.
Credimi, non era una mormorazione.
Sei rimasta molto offesa. Mi hai urlato addosso, hai detto che sono stata una “rana dalla bocca larga”, che dovevo farmi i fatti miei, che avresti chiuso con me per sempre.
E così hai fatto: zero chiamate, no messaggi, niente di niente.
Ero contenta che avessi detto dell’arrivo del bebè a me, per prima, prima ancora che alla tua famiglia. E pensavo che fosse un evento talmente eccezionale che non poteva essere tenuto nascosto. Ma mi sbagliavo…
Solo ora mi rendo conto che ho infranto il segreto, ho superato il muro della tua privacy.
Insomma, ho esagerato, e non avrei dovuto.
Non ti ho rispettata e ho sbagliato.
Mi auguro che capirai che sto parlando con il cuore.
Ho le mani che tremano sui tasti. Le mie scuse sono vere, ma lascio a te la facoltà di decidere se accettarle.
Fammi sapere che cosa sceglierai. Stare senza la tua amicizia mi sta facendo vivere giorni tristi e vuoti. Tanti mi hanno consigliato di chiederti scusa e lo sto facendo.
Credo capirai il mio stato d’animo. Mi annullo. Mi svuoto per lasciare spazio alla tua decisione. Resto in attesa. Se vorrai, io ci sarò, ancora. Ci tengo.
Questo scritto ha il compito di arrivare al tuo cuore per dirti: scusami.
Lascialo aperto, dipende da te.


CONCORRENTE NUMERO SETTE 

Racconto

La forza delle parole


«Figliola, perché sei qui?  È notte fonda e dovresti essere a letto a riposare. La nostra piccola biblioteca non mi sembra il luogo più opportuno da frequentare a quest’ora, non trovi?»
«Padre, non volevo svegliarvi, mi dispiace. Spostando questi libri, devo aver fatto troppo rumore.»
«Non mi interessano le tue scuse. Vorrei solo sapere che cosa stai facendo.»
«Non c’è molto da dire. Spesso, nelle notti infinite e silenziose, vengo qui, mi siedo su questo piccolo sgabello, mentre il freddo mi avvolge con delicatezza. Leggo i vostri libri e scrivo su vecchi e logori quaderni le mie storie, tutte quelle che non riesco e non posso raccontare fuori da queste mura. Io e le mie sorelle minori amiamo questa stanza. È un luogo magico dove possiamo perderci tra le parole e le nostre fantasie.»
«Figlia mia, ma di che cosa stai parlando? Vuoi dirmi che anche le tue sorelle vengono qui durante la notte? Se la tua povera madre fosse ancora in vita riuscirebbe a farti ragionare. Il mondo non è nei libri. Sì, è vero, ho voluto che imparaste a leggere e che la cultura vi arricchisse. Ma tu e anche le tue sorelle state crescendo e presto troverete un marito con il quale costruirete una vostra vita. I libri e la scrittura non servono. Voi dovete solo imparare a ricamare, a governare la casa e a essere premurose con i figli che nasceranno dal vostro grembo. Nella vita non c’è posto per sciocche fantasie. Da quanto tempo va avanti questa storia?»
«Padre, vi sto deludendo. Mi dispiace. Ma la vita in questa angusta canonica non è per noi. Ogni giorno, apriamo le finestre e davanti a nostri occhi c’è solo il cimitero del villaggio con il suo grigiore quasi soffocante, invece di prati verdi e fiori colorati, come dovrebbe essere il giardino della vita. Dalla morte di nostra madre tutto è cambiato, pur vivendo insieme, voi vi siete allontanato da noi. E così, a differenza di nostro fratello e delle nostre sorelle maggiori, noi tre abbiamo trovato un luogo dove la fantasia ci ha donato speranza per una vita futura.»
«Sapevo che prima o poi saremo arrivati a inutili discussioni. Tua madre mi aveva avvisato. Presto tutte voi andrete in collegio e vi dimenticherete di queste bizzarre idee. Sono sicuro che lì troverete quel rigore necessario per una donna. Non ho certo voglia e tempo di discutere di queste mie decisioni. Vai subito in camera tua.»
«Il collegio non cambierà la ricchezza della mia anima e di quella delle mie sorelle. Userò sempre le mie parole per parlare al femminile, per raccontare al mondo che anche noi donne esistiamo. Nei miei racconti dovrò usare uno pseudonimo? Ebbene lo farò. Ma sarà sempre ciò che scrivo che il mondo leggerà e quando la società sarà pronta userò il mio nome. Non mi vergognerò mai di essere me stessa e il chiudermi in un collegio non mi farà cambiare idea.
Io sono: Charlotte Brontë.»
 
Lettera di scuse
La luce nel buio
 

Cara Ginevra,
se stai leggendo questa mia lettera è perché io sono morta.
Quell’uomo, che non è degno di essere chiamato con il suo nome, che ho amato e odiato in quest’ultimo anno della mia vita, ha deciso che dovevo morire, portando così noi due a separarci per sempre.
Se in quel piccolo cassetto hai trovato queste mie pagine, nascoste nella manica del tuo vecchio pigiama, è perché non ho avuto la forza di correre da te e urlare a squarciagola la mia paura.
Scusami per il dolore che stai provando in questo momento nel leggere le mie parole. Scusami per non aver chiesto aiuto, quando ne avevo avuto l’occasione e averti fatto soffrire ogni giorno pensando a me.
Cara sorella, scusami se invece di abbracciarti, ti ho voltato le spalle, allontanandomi da te sempre più.
Quello che credevo fosse amore stava annebbiando i miei pensieri, travolgendomi sempre più verso un’oscurità dalla quale non sono riuscita a trovare una via d’uscita, e portando, così, la luce della mia vita a spegnersi.
Sapevo che sarei morta. Era solo una questione di tempo. Un giorno o l’altro. I mesi sono passati, mentre io, nel mio silenzio, ho solo intrapreso il cammino verso la mia fine.   Mentre lui mi prendeva la testa, picchiandola contro il muro, mentre stringeva con forza le mie mani, schiacciandole tra le ante di un armadio o mentre mi lasciava su un freddo pavimento, come non fossi più una persona, mi sono resa conto che la luce della vita mi stava abbandonando e in quei momenti ho anche iniziato a capire che ti avrei lasciata per sempre. Ma ho continuato a camminare con lui Non ho avuto la forza di fermarmi.
Cara Ginevra, sorella maggiore, come ti ho sempre chiamata, che sei stata abbracciata a me nel corpo di nostra madre, la cui nascita ci ha divise solo per qualche minuto, ti chiedo di uscire dalla porta di quella casa, dove il dolore e la paura hanno preso il posto dell’amore, se mai è esistito.
Piangi, urla, tira fuori tutta la rabbia per quello che ci ha fatto quell’uomo. Ma, appena sarai pronta, gira la testa dall’altra parte e cerca la luce. È la luce della felicità, dell’amore e della vita. Non far sì che il buio che mi ha travolta, si impossessi anche della tua vita.
Io ho perso la luce, ma tu ritrovala e tienila stretta a te con forza, uniscila al tuo cuore e vivi ogni giorno, ogni momento, ogni istante anche per me.
La tua amata sorella minore.


CONCORRENTE NUMERO OTTO

Racconto
Colui che m'insegnò a leggere


Ero solo una ragazzina quando conobbi il conte, e da subito mi suscitò un senso di timore e di imbarazzo, ma allo stesso tempo, ne rimasi molto affascinata.  Mio padre, che da tempo cercava lavoro, prese servizio presso la sua tenuta come maggiordomo. Poco più tardi anche mia madre entrò a far parte della servitù, così ci trasferimmo nelle stanze sotterranee del palazzo.  Bastò il suo senso del dovere, molto lincio, per farsi nominare cameriera personale della contessa. Io non fui da meno e diventai la compagna di giochi della loro amata figlia. La contessina. Ricordo che possedeva una moltitudine di giochi, ma stranamente non ne ero attratta, né tanto meno gelosa, forse perché avevo qualche anno in più, invece provavo una grande invidia per i suoi studi e per avere un precettore che le insegnava ogni tipo di disciplina. Desideravo ardentemente avere tra le mie mani i suoi libri, ne ero rapita. Quelle poche volte che mi ero trovata a prenderne uno in mano, avevo provato una forte emozione, anzi, più di una, erano tante e tutte insieme. Naturalmente io appartenevo alla plebe, gente ignorante che doveva rimanere tale, perciò i libri non erano cosa per me. Inutile dire che non sarei stata in grado di farne uso, ero analfabeta, eppure mi richiamavano a loro.
Dopo qualche mese di vita nel palazzo sapevo i segreti delle sue stanze, infatti ero a conoscenza di una cantina sommersa di libri: diventò il mio rifugio per molto tempo. Mi recavo in quello scantinato umido ogni volta che potevo, soprattutto di notte. Adoravo accarezzarli, sentire il profumo che la carta emanava e il fruscio che provocava il voltare delle pagine.
Una calda notte d’estate, come tante altre, sgattaiolai fuori dal letto e ci ritornai  per trovare un po' di sollievo e riprovare la piacevole sensazione che mi davano i libri. Come al solito mi sedetti sul pavimento in pietra e mi circondai della loro compagnia. All’improvviso dei passi dall’andatura pesante mi spaventarono. Era il conte. Mi nascosi tra la vecchia libreria e una specie di giara trattenendo il fiato e ritirando la pancia in dentro, non servì a nulla: lui mi vide. Con gli occhi bassi e un inchino, come mi aveva insegnato fino allo svenimento mia madre, lo salutai, cercando di scappare via. Lui prendendomi per il braccio mi tirò a sé.
«Vieni qui ragazzina. Dove credi di andare?» disse con tono arrabbiato.
«Io, io, veramente…» risposi quasi piangendo.
«Chi sei e che ci fai nella mia cantina?»
«Mi chiamo Emily e sono figlia del maggiordomo e della cameriera della contessa. Mi piacciono i vostri libri» gli risposi tutto in un fiato.
«Mi fa piacere. Allora leggimi qualcosa!» mi disse sedendosi con me sul pavimento.
 «Veramente… non so leggere» risposi con imbarazzo.
Così, quel buon uomo, venne a trovarmi tutte le notti in quella cantina e mi insegnò a leggere e a scrivere. Ecco come sono diventata una penna famosa.

 

Lettera di scuse


Maggio, 1960


Mia cara Rebecca, ti scrivo da questo posto dove il tempo sembra essersi fermato. Sono circondata da continue risate forzate e discorsi insensati.
Quando sono venuta “ad abitare” qui, o meglio quando tuo padre mi ha rinchiuso, tu eri piccola e giustamente non ricordi molto. Sinceramente lo spero. Mi auguro che la tua memoria di bimba sia troppo labile così da non potere ricordare i miei errori ancor peggio i miei gesti inconsulti. Purtroppo, però, sono cosciente che i bambini hanno ricordi fotografici e questo non va a mio vantaggio. Dopo tanto tempo sento il bisogno di raccontarti la mia versione della storia e di chiederti scusa di molte cose.
Ho vissuto un’infanzia molto felice. Essendo figlia unica i miei genitori mi hanno cresciuto nella bambagia, evitandomi ogni tipo di dolore e dispiacere, ciò è durato fino all’età adulta. Ero un vaso di ceramica che al primo urto si è rotto. Infatti dopo la morte della mia mamma, anticipata da una lunga malattia, il mio cervello iniziò a fare brutti scherzi, così da farmi vedere e sentire cose irreali. In principio nessuno dette peso alle mie défaillance e alle affermazioni insensate che uscivano dalla mia bocca.
In seguito le cose peggiorarono e tutti dicevano che erano solo capricci di una donna rimasta bambina e che un buon marito mi avrebbe messo in riga. Così mi presentarono tuo padre.  Dopo solo pochi mesi ci sposammo, nonostante la vita matrimoniale le mie turbe aumentarono. “Vedrai, con un figlio cambierà tutto” mi dicevano. Non molto tempo dopo sei arrivata tu. Credimi amore mio sei stata il dono più bello che la vita mi abbia fatto. I primi anni sono andati bene, però, poi “i mostri” che abitavano nella mia testa tornarono. Nonostante le molteplici cure a cui mi sia sottoposta, incominciai a parlare con interlocutori immaginari e coinvolgere anche te nei “nostri discorsi”. Così, per il tuo bene, tuo padre prese la decisione di portarmi in questo posto dimenticato da Dio e odiato dagli uomini.
Nei miei pochi attimi di lucidità, quelli che i farmaci mi lasciano, ti penso sempre, spesso sono io a richiederli per non farlo. Per non sentire quel dolore che mi lacera dentro. Le pilloline magiche, così le chiamo io, mandano via i miei persecutori: i sensi di colpa.
Approfitto di questo sprazzo di connessione con la realtà per chiederti perdono per non essere stata “la tua mamma”. Per non averti mai accompagnata a scuola, alle feste di compleanno, a comprare un vestito. Perdonami per non averti mai aspettata quando rientravi la tarda notte e per non averti fatto una ramanzina. Soprattutto per non esserci oggi in quella chiesa. Di sicuro sarai bellissima con quel abito bianco. Sappi che io con il cuore sono vicino a te e sono certa che sarai una brava mamma perché sei cresciuta lontano da me.
Ora che il dolore si fa troppo forte da sopportare, meglio spegnere il cervello con una delle mie pillole magiche.
Con amore
La tua mamma.

E ORA VOTATE VOTATE VOTATE!

Si può votare fino alle 

ore 12 di giovedì  27 ottobre 2022

 

Qui di seguito i testi dei 3 concorrenti che hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica.

NON SONO SOGGETTI A VOTAZIONE, ma se dopo aver espresso il vostro voto relativamente ai concorrenti in ballottaggio, volete esprimere un commento anche sui testi che sono  già passati alla fase 3, potete farlo in un commento: gli autori ne saranno felici!


CONCORRENTE NUMERO UNO

Racconto

L'attesa

Presi servizio a quattordici anni, in quella casa severa come il suo proprietario. Villa di pietra, con l'edera che ne copriva i muri, in mezzo al paese eppure discosta e lui, silenzioso, con lo sguardo sottile di chi si aspetta solo delusioni dal prossimo. Aveva vent'anni più di me e mi intimoriva almeno quanto mi attraeva.
Nei pomeriggi usciva per i suoi affari, io pulivo e cucinavo. C'era una stanza particolare che amava.  Essenziale, col pavimento di cotto rosso, un'anfora in un angolo e, incassata nella parete, una libreria. La sera, si sedeva sull'unica poltrona, prendeva un volume e alla luce di una lampada leggeva, per ore, assorto. In quei momenti  un vago sorriso ne ammorbidiva i tratti.
Avevo cura di quella stanza. In ginocchio, di fronte alla libreria, prendevo quegli scrigni di parole e sogni e li spolveravo. Li tenevo accanto a me, accarezzandoli, per poi riordinarli come lui li aveva lasciati. Più il tempo passava e più diventavano preziosi. Mi incantavo a guardarli, ne sfogliavo le pagine, passando leggera le dita su quei segni a me preclusi, ma che a lui davano gioia.
Un pomeriggio, mi sorprese a terra, con un libro aperto, altri al mio fianco. Un istante cristallizzato nel tempo. Lo guardavo intimorita di quella che poteva essere la sua reazione. Il silenzio durò ere, poi sottovoce mi chiese se sapessi leggere. Scossi il capo: ero solo una serva, c'era stata la guerra e la scuola non l'avevo conosciuta.
Mi lasciò sola, ma da quella sera, ogni volta che si ritirava nella stanza, leggeva ad alta voce.
Divenne un appuntamento atteso.
Mi avvicinavo alla soglia per ascoltare, un passo avanti ogni volta, la distanza che si accorciava, finché comparve una sedia accanto alla poltrona. Cercai e trovai il coraggio di occuparla e, quando lo feci, con pazienza e delicatezza, mi consegnò le chiavi delle porte di mille vite. Indicava le parole, le leggeva, me le spiegava. I libri diventarono un ponte tra di noi, potevamo attraversarlo da due lati opposti e incontrarci nel mezzo.
Scoprii che non era severo e distante, ma ritroso. Come gli scritti che amava e che mi appassionavano, possedeva un cuore di inchiostro, fluido e netto, ma che si poteva sbavare e rovinare con poco. Aveva un'anima di carta, fragile, ma che poteva tagliare. Troppe volte era stata stropicciata, strappata, ora era protetta da una corazza rigida e spessa. Lui era come un libro: stava nel mondo chiuso e misterioso, ma a chi si accostava col giusto garbo, si apriva e donava l'immensità.
Quando padroneggiai la lettura, una volta sistemate le incombenze domestiche, tornavo a inginocchiarmi con un volume in mano e lo attendevo. Al rientro mi trovava così e sorrideva.
 
Dopo anni e una seconda guerra, i libri sono aumentati, hanno conquistato altre stanze. Lui non c'è più, ma io continuo a sedere qui, sul pavimento, in attesa, leggendo a voce alta per chiunque voglia oltrepassare la soglia di questa dimora, divenuta biblioteca.
 

Lettera di scuse

Ciao Giulia,
immagino la tua sorpresa per questa mia.
Ci vediamo tre volte a settimana, messaggi quotidiani, ti starai chiedendo da dove viene il bisogno di scriverti.
È presto detto: settimana scorsa mi hai detto di sentirti fortunata ad avermi come amica. Mi hai ringraziata.
Non merito le tue parole, verso di te ho mancato. Da questo nasce la lettera: per chiederti perdono.
Avrei potuto dirtelo a voce, ho scelto un foglio un po' vigliacco; ci metterò verità.
Potevo telefonarti, ma le parole corrono; ho preferito la lentezza della scrittura, per pesare ciò che dico.
In questo momento ho scoperto perché sia così difficile chiedere scusa. Per farlo, in modo onesto, dobbiamo accettare i nostri errori, vederci fallaci. È uno sforzo doloroso, perché ora, devo ammettere le mie colpe, senza sconti, attenuanti o giustificazioni. Ti chiedo scusa per quello che ho fatto io, nulla viene da un'azione tua.
Perdonami se, a volte, quando mi chiami, ho la tentazione di non rispondere. Sarebbe facile dirti, poi, che ero nei casini e tu mi crederesti senza problemi, perché sai come vivo.
Perdonami se, quando chiudo la telefonata sono contenta di averti parlato: dovrei esserlo da subito, non a posteriori, quasi complimentandomi con me stessa per la mia assidua presenza.
Perdonami se mi capita, senza mostrarlo, di arrabbiarmi per certe cose che mi racconti. Succede, sì, perché vorrei la tua allegria, la tua leggerezza, per sollevare il macigno che in certi momenti mi schiaccia. Solo in seguito capisco che hai bisogno di quello sfogo, che amicizia significa essere anche cassa di risonanza per l'altro.
Perdonami se, vivendo una situazione simile alla mia, ma oggettivamente peggiore, quando mi racconti qualcosa che non va, io ti capisco, con te lo affronto, ma sotto sotto mi consolo. Mi sento fortunata nella sfortuna, meno debole e quindi abbastanza forte per sostenerti. Non dovrei sentirmi così, solo esserci.
Perdonami se, quando mi dici che vorresti fare un'associazione di mamme, per supportare chi vive la nostra condizione, ti dico sì, facciamolo, ma poi penso che tanto sono solo parole e che, comunque, non ho tempo o energie da spendere in un simile progetto.
Perdonami per questa lettera, questa confessione non cercata, queste scuse non richieste.
Ti sto facendo male per cose di cui, credo, non avevi idea. Egoisticamente lo sto facendo per me, buttandoti addosso tutto questo.
Ti prometto di essere migliore. Di non cercare la semplicità di un consenso, tacendo ciò che penso, per rifuggire le tensioni. Cercherò di parlare di più, di svelarmi di più, di dirti anche basta, di prendermi un momento. Magari non ti sentirai più così fortunata ad avermi come amica, ma troverai in me un'amicizia migliore, consapevole dei limiti.
Scusami, infine, se non straccio questa lettera, ma la invio.
Ne accetterò le conseguenze.
Per me sei importante, tanto da scusarmi e consegnarmi così, imperfetta, complicata.
La tua amica, se ancora lo vorrai.


CONCORRENTE NUMERO CINQUE

 Racconto   

Il segreto (1933)


È notte fonda e io sono ancora qui, in mezzo ai miei libri e giornali sparpagliati dovunque. E pensare che tutto è iniziato come un gioco!
Quando Eleanor ha per caso dato un’occhiata ai miei scritti, dimenticati in camera sua, è rimasta folgorata ed è stato allora che ha voluto conoscermi. Ero lì per dare una mano alla governante a sistemare il guardaroba: nelle riparazioni mi destreggio bene, ma l’ago e il filo non sono nulla rispetto alla penna. Ho cominciato così a scrivere discorsi per altri.
Quanta fatica però per emergere dalla povertà e riuscire a studiare! Sono costretta a lavorare nell’ombra, a scrivere senza che i cosiddetti benpensanti ne abbiano sentore, infatti non accetterebbero l’idea che tante  belle parole di importanti uomini pubblici siano  opera di una giovane donna.  Rintanata in un modesto scantinato, sono tuttavia felice di dare vita ai discorsi che metterò in bocca ai vari personaggi politici. Alla loro consegna sono sempre stata costretta a vestirmi da uomo, rinunciando ai miei semplici abitini neri, sobri, ma molto femminili.  Copro i capelli biondi con un berretto, la cui visiera nasconde in parte la mia delicata carnagione.
Le mie guance sempre arrossate indicano la pressione a cui sono sottoposta ogni giorno. Devo infatti cucire in fretta, con competenza e senza errori, i discorsi che mi commissionano. Da qui la continua necessità di libri, alla ricerca di dettagli, ispirazioni e notizie corrette e inconfutabili.
Finora nessuno, eccetto Eleanor e Delano, è a conoscenza di chi io sia.
Pur dietro alle quinte, sto combattendo una battaglia che  vuole essere un grido di emancipazione di tutte le donne che seguiranno il mio esempio. Oggi si pretende la donna subalterna all’uomo, mentre la sua intelligenza deve potersi esprimere in tutte le sue potenzialità e senza pregiudizi.
Rileggendo alcuni passaggi dell’ultimo mio discorso, mi sento quasi incredula, ma orgogliosa: l’ho scritto proprio io!
…Lasciate dunque che io esprima tutta la mia ferma convinzione che quanto dobbiamo soprattutto temere è di lasciarci vincere dalla paura, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasformare una ritirata in un’avanzata…
La mia versatilità linguistica è frutto della passione per i libri, senza i quali non sarei arrivata fin qui, e non avrei neppure acquisito il  background, che mi ha permesso  di sognare in grande e di non arrendermi di fronte alle difficoltà.
Mi sento stanca, sono già le tre: devo andare a riposarmi, ormai il discorso che Delano pronuncerà il quattro di marzo, all’inaugurazione del suo mandato, è completo. Sono emozionata, anche perché dopo l’investitura lui mi presenterà ufficialmente alla stampa, alla quale mi mostrerò per quello che sono, una donna, forse fin troppo giovane, ma considerata perspicace e intelligente. Anche se le difficoltà continueranno a persistere, questo sarà un primo passo per la valorizzazione delle capacità femminili.
Non mi resta che frenare l’ansia dell’attesa, quando sarò presentata come collaboratrice nello staff di Franklin Delano Roosevelt, nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America.


Lettera di scuse

10 ottobre 2022

Carissima,
È trascorso qualche anno dall’ultima volta in cui ci siamo parlate, eppure non è passato giorno senza che io non ricordassi il tuo sguardo da cerbiatto ferito, ma pieno di dignità, quando mi hai affrontato per chiedermi perché mi fossi comportata così nei tuoi confronti. In quell’occasione, mentendo, negai ogni responsabilità.
Ricordo la rabbia quando seppi che il Preside ti aveva nominato docente nei Corsi abilitanti per i docenti della cattedra più prestigiosa, quella di latino e greco nei licei classici. Aveva scelto te e non me, l’insegnante più preparata della scuola, almeno così mi ritenevo.
Mi ero vendicata dell’affronto, mettendo in giro la voce che il preside fosse stato sedotto da te, che gli avevi concesso i tuoi favori in cambio della nomina.  Avevo finto di sussurrarlo, ma avevo sbandierato ai quattro venti che l’incarico era stato per così dire “pagato” in natura. D’altra parte tu eri una bella donna e che il tuo fascino avesse fatto breccia nel cuore di quel vecchio donnaiolo era più che credibile.
La calunnia è sotterranea e serpeggia silenziosa, ma tu ne sei venuta a conoscenza subito e mi hai chiesto spiegazioni. All’invidia aggiungo un’altra mia colpa: la codardia. Avrei potuto riscattarmi, metterla sullo scherzo o chiederti scusa, ma non ne sono stata capace.
Oggi mi vergogno della mia bassezza e anche se capisco che le mie parole non modificheranno il tuo giudizio su di me, né ridurranno la gravità di ciò che ho fatto, ti chiedo scusa.
È tardi, è vero, ma ho avuto bisogno di tempo per capire ciò che vale nella vita. Solo ora infatti mi sono resa conto di essere piena di vanità e  narcisismo, uniche colonne della mia esistenza. Sono stata sempre alla ricerca di lodi, ammirazione e complimenti. Allora non capivo che cosa tu avessi in più rispetto a me, visto che, cieca com’ero nella mia presunzione, ero convinta di essere un pozzo di scienza e che questo bastasse a considerarmi un’insegnante perfetta. Tu possedevi invece umanità, empatia, capacità di perdonare i ragazzi, di valorizzarli e sostenerli. Altro che la mia sterile, eruditissima cultura!
È tardi – ripeto - avrei dovuto scriverti subito questa lettera e non macchiare la luminosa immagine di serietà e stima che fino allora ti aveva circondato, ma avvertivo una certa riluttanza, mista a vergogna, che mi ha sempre frenato. Oggi però, ho deciso: non ce la faccio più a vivere con questo rimorso, che è stata la punizione che mi ha perseguitato senza tregua.
Maria Grazia, ti chiedo di accettare le mie sincere scuse e di darmi un segno di perdono.
Non ti biasimo se mi manderai al diavolo e strapperai la mia lettera.  Sappi però che, a prescindere dalla tua risposta, quest’esperienza ha operato in me un profondo cambiamento, facendomi capire che la cultura da sola è sterile e non è sufficiente a fare di un insegnante un buon educatore.
Con tutta la mia stima.
                                            La tua collega Franca Filippi.


CONCORRENTE NUMERO SEI

Racconto
Il viaggio


Chicago, 14 febbraio 1929

Quanto tempo era passato? Un mese, un anno, una vita? Difficile dare un riferimento temporale alla mia prigionia.
Chissà che aspetto avevo. In quella stanza dalle pareti umide e scrostate, non c’erano mai stati specchi. Solo libri, moltissimi libri polverosi, poi diventati unici compagni di un viaggio che non sapevo né dove mi avrebbe condotta né, tantomeno, quanto sarebbe durato.
Da quasi dieci anni, negli Stati Uniti, era stata approvata la legge sul proibizionismo che vietava la produzione, vendita e trasporto di alcolici e questo, purtroppo, aveva contribuito all’aumento di tutte quelle attività criminose - legate al traffico delle armi e contrabbando di bevande alcoliche - appartenenti alla mafia che controllava la città.
Ricordo che, quel giorno, a Chicago faceva molto freddo e il cielo era di un colore grigio intenso e opprimente, quasi mi volesse mettere in guardia su quello che mi aspettava.
Fui avvolta da una sorta di panico che non riuscivo a comprendere e che cercai di ignorare, anche perché era il giorno di San Valentino e, quella stessa sera, Boris sarebbe venuto a chiedere la mia mano.
Eppure, quel cielo continuava a entrare dentro di me con la furia di un animale selvaggio mentre divora la sua preda.
Verso le 10:00, uscii per andare a fare la spesa. All’altezza del 2122 di North Clark Street, una Cadillac nera con quattro persone a volto scoperto, si fermò davanti al garage del “Smc Cartage Company” e fece fuoco con ripetute scariche di mitragliatrice.
Ero la testimone scomoda di quella che - molto tempo dopo - seppi essere stata definita come la strage di San Valentino a opera di due gang mafiose e rivali.
Potevano uccidermi, invece mi sequestrarono.
Da allora, sono vissuta in una stanza con la sola compagnia dei libri. Con loro ho imparato a dare un senso al viaggio che stavo facendo. A cercare un orizzonte dove sentirmi viva. Non ho mai pianto, né urlato. Se ero rassegnata? No. Non ci rassegna mai quando ti batte il cuore. E quei libri ne erano artefici e testimoni.
«Buongiorno Evelyn. Ti ho portato i vestiti puliti.»
«Buongiorno. Grazie.»
Non sapevo come si chiamasse il più giovane dei miei carcerieri e nemmeno che volto avesse. Ma la sua voce era gentile. Erano già diverse mattine che veniva sempre lui a portarmi i viveri e ogni volta, prima di uscire, mi diceva sempre la stessa frase: fuori c’è il sole, Evelyn.
Quella mattina, entrando, pronunciò il mio nome con un filo di voce. Io mi voltai e, con il libro ancora fra le mani, abbozzai un timido sorriso. Fuori c’è il sole… oggi sarà una bella giornata.
Mi porse la mano e, con delicatezza, mi invitò a uscire dalla stanza. Rimasi immobile sulla soglia per un tempo sufficiente a sentire la porta che si chiudeva alle mie spalle e, un attimo dopo… lo sparo di una pistola.
Il viaggio era finito e fuori, quel giorno, c’era un sole bellissimo.
 
 
Lettera di scuse
Quel giorno
 
A Giovanni, mio figlio.
È sempre stato difficile per me chiedere scusa. A pensarci bene, credo di non aver mai conosciuto il reale significato di questa parola.
Scusa, scusate, perdonatemi… mi sembravano vocaboli non collocabili in nessun contesto della mia quotidianità. Tua nonna aveva sempre diretto la mia vita con il filo invisibile di un burattinaio e, come una pioggia acida, era riuscita piano piano e senza che me ne rendessi conto, a sgretolare la mia vita per preservare il suo senso di possesso. Non è pertanto difficile capire il motivo per cui – una tale terminologia - non fosse parte attiva nel mio vocabolario.
Alzare le mani con tua madre era l’unico modo che avevo per sentirmi vivo, uomo e padrone di me stesso, facendo emergere quella rabbia che, inconsapevole, giaceva in fondo alla mia anima.
Senza saperlo, mi ero inaridito.
Eppure, quel giorno, la gestualità aggressiva verso di lei sembrò arretrare. Non aveva firmato il contratto che avrebbe cambiato la tua, le nostre vite e io, quella volta, non ero stato capace di alzare neanche un dito per farla ragionare.
Nonostante ciò, mentre il visionatore - che si era occupato del tuo ingaggio in quella prestigiosa squadra di calcio - se ne andava da casa nostra, avvertii come una mancanza d’aria che, però, lasciai svanire come fosse una nuvola di fumo di consistenza ed effluvio appena percettibili.
Tu hai visto sfumare il desiderio di diventare calciatore nella tua squadra del cuore, mentre io… ho lasciato che l’aria si facesse sempre più rarefatta, senza cercare ossigeno. Alla fine, l’aria è finita.
Sarebbe bastato poco per far diventare quel giorno, il più importante della tua vita. Invece, sono rimasto inerme e incapace di impormi per regalarti il futuro che meritavi.
Quante volte ho ripensato a quel giorno. Ma non te l’ho mai detto.
Tuttavia, l’amore trova sempre una fessura dalla quale passare per raggiungere i cuori prosciugati. Come il mio.
Da quel piccolo buco ho fatto passare quello che restava di me. Piccoli frammenti di calore che poco alla volta mi hanno scaldato il cuore, accorciando le distanze che, nel tempo, si erano create fra di noi. Purtroppo, però, non sono mai riuscito a chiederti scusa per quel desiderio infranto.
Scusami, per quel battito del cuore che non ho avuto e che non sono riuscito a recuperare.
Scusami, per la solitudine, la tristezza e la rabbia nelle quali ti ho a lungo lasciato.
Scusami, per le parole non dette o pronunciate fuori luogo.
E scusami anche se, mio malgrado, ho lasciato questa terra in un momento in cui, invece, avrei tanto voluto restare con te. Un momento che, forse, avrebbe dato un’impronta diversa al mio passaggio su questa vita terrena.
Al viaggio dell’amore attraverso quella fessura, ho chiesto però di raggiungere i tuoi sogni e parlarti di me. Ha accettato.
Ti sento dentro, come tutti i baci e gli abbracci che non ti ho mai dato.
Tuo padre.


ATTENZIONE

Nella diretta di giovedì 27 ottobre alle 21, nella Pagina Facebook di Edizioni Convalle, svelerò i nomi degli autori dei testi del GIRONE B - FASE 2 (questo girone). 

Avremo così tutti gli otto i nomi che accedono alla Fase 3 che si preannuncia difficilissima! Ma vi spiegherò tutto nella diretta del 27.

Complimenti a tutti i partecipanti! 

Il Masterbook prosegue e rimarrà un solo vincitore, ma ci saremo tutti divertiti condividendo la stessa passione: Scrivere!




Alla prossima 

dalla vostra 

Stefania Convalle




 

 


 

venerdì 14 ottobre 2022

Numero 413 - Masterbook, Fase 2, voto popolare dei testi del Girone A - 14 Ottobre 2022


Ieri, 13 Ottobre, siamo entrati nella Fase 2 del Masterbook. 

Apro una parentesi per dire che sono molto contenta di come sta andando questa "sfida all'ultima parola"! C'è una sana competizione, tutti i concorrenti gareggiano in modo onesto, quando si tratta di essere sottoposti al voto popolare. Non c'è invidia, anzi, si complimentano tra loro quando vengono svelati i nomi di chi ha passato il turno. 
Beh, non è proprio una cosa che si vede tutti i giorni! 
Credo che la formula del Masterbook sia davvero entusiasmante e trascinante, per me che la conduco, per chi partecipa come autore e per chi segue e può partecipare al voto popolare. 
Insomma, un'iniziativa che coinvolge tutti!

Ma torniamo nel vivo della competizione. 

Ieri, nella diretta sulla Pagina Facebook di Edizioni Convalle, ho letto gli 8 elaborati (composti da due prove ciascuno) dei concorrenti del GIRONE A.

3 concorrenti hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica e passano alla FASE 3

Ma per gli altri 5 ancora è possibile rientrare nel gioco grazie al vostro voto.

Questa volta i testi che troverete, sono due per ogni concorrente. 
L'autore in gara doveva scrivere un racconto "Dentro il dipinto", cioè una storia che comprendesse la scena del dipinto, in linea anche con l'epoca raffigurata. E poi doveva scrivere una lettera d'amore. 
Queste erano le due prove e voi, giuria popolare, dovrete scegliere il vostro concorrente preferito valutando entrambi gli scritti per ognuno. 

Mi raccomando, conto sulla vostra serietà e attenzione nella valutazione!

Il concorrente che riceverà più voti rientrerà in gara.

Dovrete esprimere il vostro voto in un commento a questo numero del blog, all'interno del blog stesso.
Potrete esprimere una sola preferenza scrivendo: voto il concorrente NUMERO... 
Mettete il vostro nome e cognome nel commento, non sono graditi i commenti anonimi.
Se volete scrivere anche la motivazione, all'autore farà piacere, anche se non sapete a chi appartiene il testo (ma lo saprete in un secondo tempo).

I testi verranno postati in questo numero senza il mio intervento, nessuna correzione verrà da me apportata. Tutti i testi saranno qui riportati esattamente come mi sono arrivati.

Comincio quindi a postare qui di seguito i 5 testi che potrete votare.


CONCORRENTE NUMERO TRE 

(Racconto)
Stella del mattino
 
Parigi si sveglia e si stiracchia, pigra, dopo una leggera pioggia notturna. I segreti della notte si nascondono alla luce dell’alba e l’ultima stella, annunciando l’aurora, svanisce all’orizzonte.
 
Essere al servizio di un affascinante viveur ha notevoli vantaggi. Oltre allo stipendio dignitoso (sebbene il mio datore di lavoro non sia così facoltoso come appare), posso alloggiare sia nella dimora parigina che nella casa di campagna in periferia, entrambe frutto di un’eredità che va consumandosi velocemente. Non è affar mio, comunque, perché sono oculato nel gestire i miei esborsi e anche dovessi rimanere senza impiego, non farei fatica a rimediare velocemente. Sarò anche l’ultima spesa che Monsieur Henri taglierà dovesse trovarsi in difficoltà: conosco troppi segreti.
Le mie incombenze sono generalmente piacevoli: servo i pasti, mi occupo dell’ordine e della biancheria, conduco la carrozza. Non da sottovalutare il beneficiare della compagnia, seppur di riflesso nel mio ruolo di maggiordomo, delle donne che bazzicano la casa. Perlopiù vedove benestanti, ritrovano nella galanteria e nel magnetismo del mio padrone la voglia di civettare e tornare a divertirsi senza pensieri dopo anni persi in noiosi matrimoni. E lui, del godersi la vita, è un vero esperto.
Ho anche da ottemperare ad alcuni compiti meno graditi che fortunatamente, fino a questo momento, si sono presentati in maniera occasionale.
Nelle ultime settimane, però, un cambiamento preoccupante si è palesato nella routine di Monsieur: frequenta una donna per lui alquanto insolita. Giovane, bionda e bellissima, Sophie pare una rosa fiorita in un’aiuola di crisantemi: le altre rappresentanti dell’universo femminile che finora hanno popolato la dimora, al confronto, appaiono polverose suppellettili destinate alla soffitta. 
La sera scorsa, per la prima volta, la ragazza si è trattenuta per la notte. Avrei voluto metterla in guardia, rendendole il soggiorno in qualche modo spiacevole ma Monsieur, come mi leggesse nel pensiero, mi ha marcato stretto in maniera che tutto venisse preparato a puntino. L’argenteria in tavola, le candele profumate, il caminetto fornito di ciocchi, le più fini lenzuola nel grande letto a baldacchino. Poi mi ha congedato fino a stamane, quando mi sono presentato con la carrozza per accompagnare a casa l’ospite.
Ed eccomi qui, a cassetta. Scende dal cocchio che è uno splendore, Sophie, in una nuvola di velluto verde brillante come i suoi occhi, con la sottoveste in pizzo che sbuca ammiccante a ogni passo leggero. Monsieur, dopo averla invitata in campagna per il fine settimana, l’ha omaggiata con un mazzo di rose fresche, ma tanto è splendente il suo sorriso, che sbiadiscono i fiori insieme a tutto il resto della mia visuale sul viavai colorato della Rue du Marchè. 
Non oso rivolgerle un ultimo sguardo, mentre si allontana. Il cielo del mattino perde adagio l’astro che l’ha intensamente illuminato. Riesco solo a fissare le redini che stringo tra le mani inguantate, pensando di doverla salvare: la sua luce merita di rischiarare molte albe ancora.
 
Parigi vive, e custodisce gelosamente le proprie stelle. Monsieur Henri Désiré Landru, truffatore, ladro e assassino seriale, ha i giorni contati.
 
 
(Lettera d'amore)
L’ultimo scritto

Pavia, 16 dicembre 1984
Bianca, mia amata,
ti chiedo perdono. Io che ho scritto tutta una vita per professione, non ho mai osato scrivere per te, di te, di noi. In un dizionario praticamente infinito, non ho mai saputo trovare le parole giuste per dar voce alle emozioni dei molti anni in cui abbiamo camminato insieme, fianco a fianco, mano nella mano. Ci provo ora, ora che il mio tempo si va esaurendo e il destino, inesorabile, sarà costretto a separarci. 
Ero e sono soltanto un giornalista di provincia e i milioni di vocaboli che ho usato sono sempre stati adatti alle cronache dei fatti, ai luoghi, alle persone, senza dover e poter lasciare spazio al sentimento. Avrei voluto riservare a te i più grandi, più esatti e limpidi, ma quelli che a mano a mano affioravano nella mia costante ricerca non erano mai abbastanza degni. La verità è che, probabilmente, non esistono. 
Perché tu e io, in fondo, non abbiamo mai avuto bisogno di parole. I nostri pensieri, i nostri gesti, i nostri silenzi e soprattutto i nostri sguardi si sono espressi più potentemente di infinite voci. 
Sin da quando il caso, mescolando sapientemente le sue carte, ci ha fatto incontrare, ho saputo che l’inchiostro sarebbe prima o poi sbiadito, i fogli ingialliti, i nostri figli invecchiati e i nostri nomi dimenticati, ma che noi due, insieme, saremmo andati oltre.
Ne sono sicuro tuttora, Bianca, io lo so. Io ci credo. Perchè ti ho vista e riconosciuta. Come tu hai saputo vedere e riconoscere me allora, nel lontano 1929, al nostro primo fortuito incontro.
Hai trasformato un uomo qualunque dal mestiere qualunque, quello che non si nota, quello che siede in ultima fila, che chiede permesso, destinato a una normale esistenza consumata nell’ordinario quotidiano, nel protagonista di una vita intensa e ricca di colori e di emozioni. Scegliendoci e completandoci, abbiamo costruito la nostra storia attraversando insieme giorni, mesi e stagioni. Abbiamo saputo trasformare anche i periodi più difficili in mattinate di sole primaverile, piene di promesse sul domani.
Ti sembrerà, ora che dobbiamo lasciarci, che un futuro non ci sia più.
Non è così, mia dolce sposa, abbi fiducia in me ancora una volta. Io continuerò a essere con te, al tuo fianco. Noi esisteremo ancora, insieme. Perché ti lascio con le tre uniche parole che non ho saputo pronunciare finora, che mi sopravviveranno e resisteranno forti a qualunque tempo, perché per loro, il tempo, non ha nessun significato.
La mia vecchia mano trema, ma la mia anima no. E allora te le scrivo adesso, sottovoce, con le ultime energie che mi rimangono, ma tu le potrai sentire forti e chiare rieccheggiare nel tuo cuore, a ogni battito, in ogni istante:
io ti amo.

Eternamente tuo,
                                                                                                 Edoardo

***

CONCORRENTE NUMERO QUATTRO

(Racconto)
Porcellana

Non è facile essere donna. Non è facile essere vecchia. Non è facile essere serva. Non è facile esserlo, a Parigi. Non è facile esserlo, a Parigi, nel Milleottocento. Io lo sono, sono tutte queste cose. 

Mentre attraversavo la via, quel mattino, aghi di ghiaccio, dal cielo, pungevano l’aria. Aghi sul viso, negli occhi, sulle mani. L’ultima neve. Sulle spalle avevo buttato il mio unico scialle. Era logoro. Era azzurro. Il cielo era grigio, ma sulle mie spalle no, sulle mie spalle era celeste, il cielo. Quello scialle mi ricordava da dove venivo e dove, un giorno non troppo lontano, sarei ritornata. Ma intanto i miei piedi procedevano a fatica, nel fango e nella polvere densa e brillante di quella strada parigina. 

L’avrei ricordato per sempre quel giorno. Era il primo marzo 1875. Fu il giorno che Claude, il maggiordomo, mi sferrò un calcio sulla bocca così forte da farmi cadere uno dei pochi denti rimasti. Si credeva il padrone, Claude, per quelle chiavi scintillanti che gli tintinnavano nelle tasche.  Per quelle credenze scure e sempre lucide che la padrona gli permetteva di custodire. Si fida solo di me, diceva lui.

Era ancora buio quando mi alzai. Prima di uscire feci cadere una tazza di porcellana. Porcellana bianchissima. Aveva tintinnato, quel bianco, per tutta la cucina. Mi si era conficcato negli occhi, quel bianco, a forza di tirar su pezzetti, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro. Ossa candide, che andavano in frantumi.

Claude le contava tutte le mattine le tazze bianche di porcellana. Le contava e una alla volta le lucidava, accarezzandole a lungo, una ad una.

Non sapeva, Claude, non poteva sapere che io li contavo ogni giorno i miei denti. Che andavo nell’orto a rubare la salvia, per renderli candidi, profumati, per renderli perle preziose, i pochi denti che mi erano rimasti. Forse, se avesse saputo, mi avrebbe colpita più forte.

Arrivata nel luogo convenuto avevo atteso la mia padrona sul ciglio della strada, prima di attraversare. Lei era venuta in carrozza, in mano un fascio di rose. Io ero partita all’alba: non avrei mai voluto farla aspettare. Era bella, era giovane, era vestita di scuro, quel giorno, la mia padrona. Profumava di velluto nero, quel giorno, la mia padrona. Mi diede il denaro e poi fece un gesto del capo. Sapevo quello che dovevo fare. Ci dovevo andare io in quel negozio candido di lingerie. Avrei dovuto parlare con la commessa, cercando di aprire il meno possibile la bocca. La mia bocca, divenuta una caverna oscura e dolorante. Dovevo scegliere, per la padrona, un corsetto di pizzo, una sottoveste di seta e una giarrettiera rosa carne; perle da indossare che lui non avrebbe visto, mai. L’avrei fatto anche per lui, sì, per il mio padrone, che quel pomeriggio avremmo salutato, per sempre. Perché lei, la mia giovane padrona, quel giorno per lui voleva essere bella, bella sotto il nero degli abiti, come una sposa.

Al ritorno ci avrebbe attese Claude.

Era Claude, adesso, l’unico uomo della casa.

 

(Lettera d’amore)

Cara Sara,

io ti amo.

Non ti amo per ciò che di te so. Ti amo per ciò che di te non so.

Ti amo per i tuoi buchi, per le tue mancanze azzurre e segrete, che sono i miei soli tesori. Le tue mancanze che son porte dorate, per me. Che son porte scintillanti e senza cardini, aperte sul mistero di te.

Ti amo per quella tua bocca screpolata, avara di sorrisi da quando, ragazza, hai perduto quel dente guasto. E poi, per paura, non lo hai sostituito mai. E nessuno lo sa: la tua bocca è un sigillo rosso che non lascia trapelare alcuna assenza. Solamente io lo so. Solamente i miei baci lo sanno. Solamente i miei baci possono accarezzarla, possono lambirla, quell’assenza.

Ti amo per le parole che balbetti e poi non dici. Che ingoi di nuovo. Come i pezzi di carota scotti del minestrone. Duri, sì, ma colorati di un arancio così brillante che non hai cuore di avanzarli, mai.  Balbetti e ingoi. Mentre mi guardi e in silenzio cerchi la voce. La tua voce bucata, che non vuole uscire, che non esce mai.

Passano nuvole d’argento, sopra i tuoi occhi. E quando si decide ad uscire esce come acqua dalla sabbia, la tua voce. Esce come pioggia salata, a lungo covata da un cielo nero. Ma sono quelle tue nuvole che io amo, anche se portano il sale.

Non ti amo per il tuo abito più bello, per l’abito alto e bianco che indossasti quando ci sposammo. Ti amo per quell’abito rosso un po’ scucito, quell’abito che no, non hai voluto indossare, mai più.

Eravamo su quel prato, ricordi? Per letto il fango e il cielo, nero di stelle. Dopo quella sera per anni ho sognato i tuoi capelli, castani e sudati, invasi dalle lucciole. E tu lo sai come si scucì, quell’abito rosso. 

Un giorno ti eri messa d’impegno ad aggiustarlo. Ti ho preso il polso quando ti ho vista lì: l’ago lucente e il filo rosso in mano. Ho bloccato quell’ago prima ancora che potesse infilare un solo punto. Tu non l’hai mai capito il perché. Non posso andare in giro come una stracciona, mi dicevi. Ma il nostro primo amore era ancora là, tra quei fili strappati. Non dovevamo pungerlo, imbrigliarlo troppo stretto. Non se lo meritava, no, quel nostro primo amore. 

Non ti amo per i giorni e i ricordi che brillano senza tempo nella nostra memoria. Ti amo per i giorni senza luce. Ti amo per i giorni assenti e grigi. Perché il nostro amore è tra i piatti ancora da lavare. Tu che ti lamenti che son sempre troppi. Il cane da portar fuori anche con la pioggia. E la credenza ancora da spolverare.

Ma tu dimentica tutto quello che ti ho scritto. Ricorda soltanto che ti amo.

Tuo Aldo

***

CONCORRENTE NUMERO SEI


(Racconto)

L’uomo della carrozza


Juliet mi nascondeva qualcosa, usciva tutti i giorni, alla stessa ora. Non c’era né pioggia, né vento che potessero fermarla. Sentivo odore di bruciato, la mia gelosia, ossessiva, iniziava a provocarmi segni di squilibrio. Era la governante personale di mia sorella Luise, moglie del Conte La Fayette. Vivevo presso di loro a causa delle mie frequenti crisi nevrotiche che non mi permettevano di vivere solo.

Quella ragazza mi piaceva molto, non potevo avvicinarla, ma la volevo a ogni costo.

In preda a una crisi, una notte bussai alla porta della sua stanza, sul retro del palazzo, dove nessuno poteva vedermi. Per farmi aprire, finsi di avere bisogno di aiuto. Entrato in casa, cominciai a stringerla spaventandola. La minacciai di non dire nulla a nessuno, nonostante la mia patologia, avrebbero creduto a me, non certo a una serva.

Andavo da lei ogni notte, le avevo imposto di non chiudersi a chiave. Mi respingeva, soffocando dolore, mostrando disgusto e paura nei miei confronti, ma sapeva che non doveva fiatare e questo favoriva ogni mia azione di piacere. Non poteva rifiutarsi, l’avrei fatta licenziare.

Di giorno seguivo ogni suo spostamento, era un pensiero fisso.

Noleggiai una carrozza, volevo capire dove andava tutti i pomeriggi. Arrivò in Piazza delle Fontane col volto sorridente; chiesi al cocchiere di fermarsi, mentre Juliet entrò in un negozio da cui uscì con un bellissimo bouquet di fiori. Mi affacciai allo sportellino per guardare con attenzione se aspettasse qualcuno, invece si incamminò in una viuzza, troppo stretta per poterci accedere con la carrozza. Aspettai, fino al suo ritorno e così per diversi giorni.

Dopo qualche settimana, Juliet uscì come sempre, una domenica pomeriggio. Decisi di seguirla a distanza, proprio nel vicolo dove sempre si era diretta. Lo percorsi fino in fondo, osservando ogni abitazione per vedere se si fosse rifugiata in qualche casa. Di lei nemmeno l’ombra, fino a quando sentii da lontano il vagito di un neonato.

Per non destare sospetti fingevo di leggere sui campanelli delle abitazioni, come se stessi cercando qualcuno. Mi avvicinai al grande caseggiato da cui proveniva quel fastidioso pianto che mi dava al cervello e spiai all’interno, dalla finestra. La scena che vidi mi lasciò di ghiaccio: Juliet stava allattando un bambino! C’erano tutte suore intorno a lei e quello era un orfanotrofio.

Entrai, senza chiedere permesso, urlando oltre ogni controllo, pretendendo spiegazioni. Tentarono invano di calmarmi, invitandomi a uscire, le mie urla si diffusero al punto tale che accorsero alcuni gendarmi, chiamati dal vicinato impaurito.

Quindi Juliet mi tradiva? Di chi era quel bambino?

Mi portarono in caserma e le mie crisi divennero compulsive, per poi essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove rimasi diversi mesi, vegetando come un imbambolato, imbottito di psicofarmaci.

Il mio stato di  salute era peggiorato, mi dimisero dichiarandomi incapace di intendere e di volere.

Non trovai più Juliet e nemmeno quel bambino nell’orfanotrofio.

Juliet…Juliet…dov’è Juliet…? così trascorrevo le mie giornate per strada, cercando invano la mia Juliet.

Lasciatelo stare, è il pazzo del paese, dicevano.

 

(Lettera d'amore)

Non riceverai mai questa lettera. La scrivo perché rimanga indelebile dentro di me l’impronta del tuo appassionato ricordo: il mio segreto più bello. 

Eri il responsabile del servizio catering alla festa di Flavia. L’elegante divisa blu ti metteva in risalto il corpo statuario. I capelli lunghi e la barba incolta incorniciavano il tuo volto giovane, dandoti un’aria misteriosa e intrigante; ma non consideravo nemmeno l’ipotesi di guardarti con interesse, anche se non ti nego che un apprezzamento, casto e puro, attraversò il mio pensiero.

Mi avvicinai al buffet.

<<Prego, cosa posso servirle?>> mi chiedesti rivolgendoti a me.

Il giovanotto ha anche una bella voce, pensai, carezzevole e rauca al punto giusto.

<<Scelga lei per me, niente dolci, preferisco il salato >>risposi.

Qualche giorno dopo mi arrivò la tua richiesta di amicizia su facebook, non ricordavo chi fossi e dovetti sfogliare alcune delle tue foto.

Ah… è il ragazzo del buffet, pensai sorridendo.

La settimana successiva, un altro messaggio, discreto, ma carico di complimenti, tipico di chi vuole attaccare bottone. Iniziammo così ad approfondire la nostra conoscenza, meravigliata del fatto che tu sapessi già molte cose di me.

Quattro anni di amicizia virtuale, fino a che ci trovammo per un aperitivo. Accettai l’incontro con piacere, finalizzandolo al fatto che mi servivano informazioni per un servizio catering.

Tra discorsi vari e risate trascorremmo una simpatica serata e non fu l’unica ,perché accadde ancora tante altre volte. Ci si trovava sempre più di frequente e si sa…tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.

Mi piaceva quando volevi curiosare nella mia vita, provavo una profonda tenerezza, e oltre l’attrazione fisica qualcosa di inspiegabile  mi portava da te. Un amore impossibile, c’era ben poco da sognare, ma la passione ormai ci aveva travolti. Mi piacevi da impazzire, eri il riscatto della mia giovinezza non vissuta e di un amore cercato da sempre. Sentivo lo stesso ardore che poteva darti una donna della tua età,  i miei sensi, ormai sopiti da anni, con te si erano risvegliati. Mente e corpo ritornavano indietro, illudendosi di vivere in un tempo passato, ormai inesistente.

Com’erano intensi i nostri incontri! Sguardi profondi, poche parole, respiro nel respiro, mentre il tempo volava, impietoso del nostro amore clandestino.
Ogni volta temevo che sarebbe stata l’ultima e invece durò altri anni, fino a quando decisi di troncare.
<<Posso essere tua madre>> ti dicevo.
<<Ma non lo sei e io ti amo.>> mi rispondevi.
<<Meriti una vita diversa, e non con me.>> Pronunciavo queste parole col cuore in gola e le lacrime agli occhi, sperando che tu potessi convincermi del contrario.
Mi costò molto rinunciare a te, ma mi sentivo intrappolata in una storia impossibile e convinta di fare il tuo bene, decisi di lasciarti.
Ancora mi chiedo se quella fu la scelta giusta.
Vivi… vola libero, amore mio e che la gioia accompagni ogni giorno della tua vita.
Non ti dimenticherò, resterai per sempre il mio segreto più bello.

Tua Laura

***

CONCORRENTE NUMERO SETTE

(Racconto)

Il cane nero:

Marie è riversa sul pavimento, petali colorati ovunque e una leggera striscia di sangue, l'ho appena colpita col candelabro.

In fondo alle lunghe gambe la sottoveste si è risvoltata sul vestito a balze: ha fatto l'ultima ruota, il mio Pavone. Possibile non capisca che può dismettere quella faccia da santa, e insista con la sceneggiata persino da morta. Vai a vedere che ci credeva, il mio tesoro, di essere nel giusto.

Dolce Marie, la sicurezza del mio focolare, e mille remore sotto le sottane. Solo con me, a quanto pare.

Pensava non li avessi scoperti. Figurati. Figurati se Claude non si insospettiva per i comportamenti del suo fidanzato, monsieur Cilindro. Non ci volevo credere, ma ho visto come ha appena guardato Marie dalla carrozza, spudorato e inopportuno. Eh sì che, col suo mestiere, dovrebbe sapere come si sta al mondo! 

Essere così plateali è irridere la discrezione dei gentiluomini come me, la fatica di organizzare incontri segreti con Claude. Non li ha mai letti i giusti modi nei libri che vende?

Marie stava attraversando la strada, veniva dal negozio di lingerie. Sono corso qui a casa ad attenderla.

Mi sono gelato a vedere la scena, poco fa: lui che passa in calesse, e piega il busto in avanti per guardarla il più a lungo possibile.

Compare proprio in quel momento, ma non dà proprio l'idea d'essersi smarrito come il cane nero sul selciato, vicino alla mia bella. 

Non ho neanche voluto sapere dei fiori, quando è rientrata. Effetto sorpresa dietro il portone di ingresso, lei che poggia il mazzo, io che le fracasso la testa.

Lei è solo mia. Solo mia.

E ora tocca a lui. Ma prima, nella notte, la sbatto nella Senna appena fuori città.

Tanto so dove trovarlo, non mi scappa. 

Domani, all'imbrunire, Île de la Cité. Lascerò che venga la notte più nera, regno di qualche rado barbone. Sistemerò quel bouquiniste da quattro soldi, anche lui nel fiume, comodo comodo che ci lavora di fronte.

Un forte rumore mi sveglia nel letto disfatto, sembra un tonfo, una massa che cade in un'acqua lenta. Mi viene da sporgermi e guardare giù, come mi aspettassi di vedere il verde smosso della superficie. Ma sono a casa. C'è solo il rosso fermo del cotto. 

Devo andare da Claude. Le racconterò cosa mi ha detto in sogno, che ora l'ho visto che ha un altro. Devo andare, prima che quest'incubo ritorni. 

La cercherò. Scommetto che di giorno fa l'aiuto del suo venditore di libri. Me la immagino, che racconta le storie a un capo della bancarella, e incanta i turisti come ha stregato me.

Le urlerò che me l'ha quasi fatta ammazzare, Marie, che non voglio più essere un traditore, e per di più omicida, seppure solo per sogno. 

E anche a lui. A lui dirò che si svegli, che è ora di allungarla davvero la testa.

Mi porto uno di quei fiori freschi nel vaso, spero se lo riuscirà a ficcare in quel suo capo a cilindro!

 

(Lettera d’amore)

Mia cara, ti scrivo per spiegarti perché ora sono qui, solo come un pianeta nell'universo, ma mi piacerebbe esserti accanto. 

Mi chiedo perché t'ho sempre negata, fin da quando è stato subito amore, felicità.

Ti sollevavo stringendo le braccia sotto al sedere e sentivo la gioia, ma pure gravità ben celata nelle curve.

Poi i nostri corpi si sono allontanati e tenuti distanti, siamo diventati concetti, onde mentali l'uno dell'altro, ma sono sicuro che ci siamo sempre pensati. 

Dei sogni non t'ho mai raccontato perché sono perfetti e io non ci credo.

Scarrozzavo in giro i pensieri cercando di sottrarti alla loro essenza, perché la loro materia eri tu; altre volte di rinsaldarti dentro la consistenza rassicurante della ripetizione. Era un modo per tenerti in qualche modo vicino, senza affrontare le mie paure. Che scemo, chissà quale miracolo speravo. 

Nei sogni che non ricordavo tornavi, irriconoscibile. Eri come quei vuoti tra gli atomi di cui siamo fatti e non li sappiamo, la tua leggerezza pesante che facevo volare, speravo insieme alle mie paranoie. Erano quelle che dovevo cominciare ad amare, insieme a me, saremmo stati un noi. 

Non sei più tornata ma ti sento, come negazione che conferma l'esistenza, le cose che abbiamo in comune sono come un nostro alfabeto, apro gli occhi e non troverei strano avvistarti.

Torna, ti prego...

E al diavolo il vuoto tra gli atomi, la poesia e questo mio strano approcciare: quanto mi piacerebbe ricominciare a parlarti, girarti attorno come a un satellite.

Senza di te è un'altra vita, è quella di un altro. 

Mi hai sempre attratto, lo sai, con quella forza che non si riesce a spiegare, ci siamo pensati, non ho piu timori, e ti ho fatta volare.

***

CONCORRENTE NUMERO 8

(Racconto)

La donna misteriosa

Parigi in primavera era un tripudio di colori e profumi. Le vie erano piene di gente, che invogliata dal tepore del sole, uscivano per lunghe passeggiate e ne approfittavano anche per fare merenda  nei  piccoli bistrot. Antoine, che di mestiere faceva il cocchiere, parcheggiava  la sua carrozza, poco distante dalla boulangerie in piazza.

Capitava che restasse fermo in attesa di clienti o turisti anche dalle ore tra una corsa e l’altra e allora per occupare il tempo si divertiva a osservare tutti coloro che attraversavano la piazza.

Ogni giorno, sempre alla stessa ora lo sguardo di Antoine era attratto da una donna meravigliosa che passava davanti alla sua carrozza.  Era alta, bionda, con una  pelle bianca come la porcellana, sempre vestita con gonne svolazzanti. Ma ciò che lo colpiva era che la donna misteriosa teneva tra le sue mani sempre un mazzo di fiori, ogni giorno composto da fior diversi.

Le domande iniziarono a insinuarsi nella sua mente… a chi portava i fiori  ogni giorno? Dove andava a passo svelto? Forse era una ballerina  del Moulin Rouge, oppure una cameriera che comprava  su ordinazione della sua signora si recava al chiosco di fiori.

Era talmente bella e leggiadra nei suoi movimenti che non aveva nemmeno il coraggio di rivolgerle parola e certo non poteva permettersi di seguirla e lasciare a la sua carrozza e i suoi cavalli incustoditi. .

I giorni passavano tutti uguali e Antoine cercava sempre lo sguardo della sconosciuta.

Era  la Vigilia di Natale, la neve cadeva copiosa e aveva già imbiancato le strade e il manto scuro dei cavalli. L’aria di festa invadeva le strade e le case, ma un velo di malinconia si celò negli occhi di Antoine perché da quel giorno non vide più la donna misteriosa.

Chissà cosa le era successo? Chissà chi era? Domande a cui non seppe mai dare risposta.

 

 (Lettera d'amore)

Mio caro,

non so quando è iniziata questa nostra storia, né so spiegare tutto questo tumulto di sentimenti che vivono dentro di me. È difficile trasformare in parole i misteri che aleggiano nel cuore; per quanto io ci provi ho la sensazione di non esserne all’altezza.

Non è giusto ridurre questo sentimento così nobile in poche righe, non ti mentirò e ti confesso che ho anche paura di non saper trasmettere ciò che mi invade.

Quando mi guardi la scintilla dei miei occhi ti dice tutto quello che a parole non si può scrivere. Il passare del tempo insieme mi ha fatto capire che la vita riserva sempre piacevoli sorprese e a volte ti fa incontrare persone che sanno dare svolte inaspettate alla nostra  esistenza.

Né tu né io ci aspettavamo l’un l’altro.  Il giorno in cui ci siamo incontrati non so se sia stata una meravigliosa coincidenza o il risultato di una forza maggiore ma l’intesa tra di noi è stata immediata. Non mi riferisco solo agli sguardi ma anche a quella sensazione che irrompe dal profondo e ti inebria senza sapere come. Ricordo che  da lì tutto ha iniziato ad avere un senso.

Non importa dove andiamo, cosa facciamo o di chi parliamo, da quando ti ho trovato è come se il mondo esterno avesse cessato di avere importanza.

Sei diventato la mia coincidenza preferita. È difficile spiegarlo a parole ma la verità è che amo il modo in cui mi fai sentire.

Sei l’asse dei miei sorrisi, colui che muove i miei pensieri, il mio rifugio…

Amo ascoltarti perché mi aiuta a conoscerti e in un certo senso a sentirmi parte di te.

Da subito mi hai mostrato le tue luci ma che le tue ombre.

Ombre  che insieme abbiamo fatto diventare colorate.

Sei il mio punto di svolta, il filo conduttore dei miei sentimenti, il motore  dei miei sorrisi. E per tutte queste ragioni io voglio ringraziarti. Grazie per essere stato te stesso, fin da subito. A volte divertente, altre esplosivo, a volte un po’ testardo ma sei sempre stato essenzialmente TU.

Grazie perché, quando in me iniziano a prender piede l’insicurezza e la paura, tu mi prendi per mano e mi conduci fuori da quel labirinto di pensieri negativi.

Spero di camminare accanto a te ancora per molto tempo, intraprendendo quel meraviglioso sentiero che è la vita. La nostra vita.

Ti amo. 


E ORA VOTATE VOTATE VOTATE!

Si può votare fino alle 

ore 12 di giovedì  20 ottobre 2022


Qui di seguito i testi dei 3 concorrenti che hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica.

NON SONO SOGGETTI A VOTAZIONE, ma se dopo aver espresso il vostro voto relativamente ai concorrenti in ballottaggio, volete esprimere un commento anche sui testi che sono  già passati alla fase 3, potete farlo in un commento: gli autori ne saranno felici!


CONCORRENTE NUMERO UNO

(già promosso dalla giuria tecnica)


(Racconto)

 Il mazzo della modernità

Lavoro come addetta alle vendite presso il negozio di Lingerie del signor Bonnet dalla primavera di questo 1889 che oramai si appresta a consegnare le nostre vite all’ultima decade di un secolo che ci ha regalato rivoluzioni culturali e scoperte mirabolanti. Così, tra diverse fatiche e molti affanni appresso alle commesse da dirigere, nonché dietro alle assurde pretese della stolta clientela, giungo a sera sfinita, tutti i giorni, senza soluzione di continuità.

Però, a dirla tutta, un bel diversivo nelle mie settimane generose di seccature e discussioni c’è e mi regala sempre tante emozioni.

Ebbene, ve lo racconterò così come mi viene, così come lo vivo ogni sabato mattina, quando assisto alla scena.  Proprio qua vicino abita una giovane, si tratta della figlia di un mobiliere che gestisce il negozio a fianco a quello dove mi trovo io, tutti nel quartiere parlano di lei: è giovane e bella, con un volto angelico incorniciato da morbidi ricci biondi, ma il suo carattere è ribelle e anticonformista. Si chiama Julie Delacroix, lavora nell’esercizio del padre, ma sogna di fare la scrittrice. Da un paio di mesi si è innamorata di un cameriere della Caffetteria Le Petit che si trova sul lato opposto della via e in barba alle convenzioni, ogni sabato acquista un mazzo di fiori e lo porta al suo amato, suscitando lo stupore generale e attirando le critiche più aspre dagli astanti. Io mi diverto da morire. Il padre tutte le volte minaccia di diseredarla, ma lei se ne infischia. Prende i soldi dalla cassa e mentre il genitore è impegnato con qualche cliente, esce, acquista il bouquet e si precipita, sagittabonda, dal suo amore. Appena lo scorge a servire tra i tavoli del caffè, solleva il mazzo ed esclama: “Sono per te!” Dovete vedere le carrozze: i fiaccherai tirano le briglie e soffermano le vetture stupiti da cotanto ardire, come pure i loro passeggeri che si sporgono financo dall’abitacolo per guardarla meglio. Il fidanzato di costei imbarazzato sino all’inverosimile ritira i fiori, li annusa, ringrazia e li porta nel retro della Caffetteria. Ma lei non si dà per vinta, gli corre dietro, gli getta le braccia al collo, lo bacia davanti agli avventori del locale e poi tona versa il suo negozio tra lo sdegno generale.       

“Che svergognata, il mondo si è proprio rovesciato!” Urlano tutti. “Che donna all’avanguardia!” penso io.   


(Lettera d'amore)          

Amore mio,

Ti dedico queste poche righe, senza preamboli inutili, per mirare dritta al tuo cuore.

Mi hai colpita, impressionata, intimamente avvinta.

Quando il tuo sguardo si posa su di me, fuggevole e repentino, mi sento mancare. Un lieve crampo di piacere mi contorce i visceri, con la mente fantastico sul tuo corpo e si accresce in me il desiderio di averti in pieno su un letto disfatto. Ti amo. All’inizio era solo un’avventura della coscienza, poi, pian piano la tua eleganza mi ha sedotto incatenandomi alla voglia di te, imperitura e spasmodica.

Vorrei che i minuti trascorsi in tua compagnia potessero allungarsi, sì da diventare ore e poi anni, mesi, magari secoli, per non sprecare neppure un istante di questa vita che ci è stata donata in sorte e così dedicarla solo a te. La tua risoluta dolcezza mi disarma e sempre i tuoi modi garbati e gentili travolgono la mia anima sottomettendola al sentimento più antico del mondo.

Vorrei poterti dire “domani faremo” ma la vita mi ha insegnato a vivere nel presente e a cogliere il bene come un frutto assaporandolo immediatamente dopo averlo colto, senza lavarlo e senza attendere la sua perfetta maturazione: perché l’eternità risiede nel qui ed ora.

Perciò di quest’amore che ci unisce al di là dell’umana comprensione faccio tesoro proprio come l’attingere a una sorgente d’acqua costituisce un prezioso ristoro per il viandante assetato. Ti ringrazio per aver scardinato ogni mio freno emotivo permettendo all’entusiasmo di trovare finalmente scaturigine nella breccia che hai sapientemente aperto nel mio cuore. Tutto è caduco, tutto è precario ma la seduzione, fine, della lingua che, dispettosa, si affaccia nel parlare sul greto delle tue labbra mi regala la certezza dell’esistere che solo il fuoco vivo della passione sa donare.

Perciò, amore mio ti dico: eccomi, adesso, in questo posto.

***

CONCORRENTE NUMERO DUE

(già promosso dalla giuria tecnica)

(Racconto)

 Domani sarà diverso

 

Il primo vento d’autunno ha visitato Parigi in questi giorni, lasciando come ricordo la luce di un cielo terso, che rende più viva e brillante ogni cosa.
Ho pensato di fare una passeggiata fino al Pont Neuf, per sgranchire le mie vecchie gambe, ma non credevo che l’aria fosse già così fresca. Perciò indosso solo la solita cuffia bianca a coprire la testa, e il mio scialle preferito sulle spalle.  Azzurro, come questo cielo limpido.
Prima, però, voglio passare a salutare Jeanne. Mi basta attraversare la strada, il suo negozio di biancheria e camicie è proprio di fronte al portone del palazzo in cui abito.
Questa mattina Rue Lepic è davvero affollata. Pigalle è un quartiere molto frequentato, e, da quando hanno aperto quel nuovo locale – mi pare si chiami Moulin Rouge, se ricordo bene – il traffico è aumentato notevolmente.
Ecco passare di nuovo quella ragazza. Mi è già capitato di incontrarla. E’ sempre così ordinata, ma gli abiti che indossa sono invariabilmente di colore scuro, che contrasta con il candore della sua pelle. E, ogni volta che la vedo, regge tra le mani un mazzo di fiori. Oggi sono rosa, come le sue labbra sottili.
Quello che mi colpisce in lei è soprattutto la tristezza che le leggo negli occhi, talvolta così evidente che devo trattenermi dal fermarla, per domandarne il motivo.
Spesso gli uomini la seguono con lo sguardo. Come quel signore che sta passando ora in carrozza e la fissa intensamente.
Ma guarda, le è caduto qualcosa dalla tasca…
«Mademoiselle! Avete perduto un fazzoletto.»
«Dite a me? Oh, grazie! Ci tengo molto, perché apparteneva a mia madre.»
«Apparteneva?»
«Sì, purtroppo i miei genitori sono morti, e quando posso, porto dei fiori sulla loro tomba.»
Abbassa lo sguardo, arrossisce. E capisco che non dipende da questa intima confessione.
«Qualcosa non va?»
«Non è nulla, non vi preoccupate.»
Non mi convince, una lacrima le ha bagnato una guancia.
«Ne siete certa?»
«Quell’uomo in carrozza. E’ uno dei clienti del locale dove lavoro. Sono rimasta sola, ho cercato a lungo un impiego per mantenermi, ma finora ho trovato solo un ingaggio come ballerina nel Cabaret di Pigalle che hanno inaugurato di recente.
Devo indossare abiti succinti e danzare il Cancan, ma mi vergogno, mi sento fuori luogo.
E poi gli uomini si permettono avances, perché mi credono poco seria.»
La osservo mentre si allontana, le fragili spalle un po’ incurvate sotto il peso del suo destino.
So cosa significa, è capitato anche a me.
Ho conosciuto i bordelli, e ho ceduto a compromessi che ancora tormentano la mia anima. L’ho fatto per Jeanne. Non volevo abbandonarla, come fece suo padre.
Ma la storia non deve ripetersi.
Perciò, domani parlerò con mia figlia. Ha bisogno di un aiuto in bottega, adesso che aspetta un bambino. E tutto andrà a posto.
Ma non ora. Non oggi.
Oggi ho bisogno di respirare quest’aria pulita e leggera, e lasciare che il vento soffi sulla polvere mio passato, per aiutarmi a dimenticare.
Domani sarà diverso.


(Lettera d'amore)

A te che, forse, mi aspetti
 
Ancora una volta è scesa la notte, come accade dall’inizio dei tempi, secondo il volere degli Dei che hanno creato la Terra.
Le fatiche della giornata sono terminate, e gli uomini stanno riposando. Lo scafo accoglie le onde, tra i bagliori biancastri della luna, che disegna sentieri luminosi sullo specchio scuro del mare.  Sono finalmente solo sul ponte di prua, veglio e governo la nave, perché non perda la rotta.
Domani riprenderemo il viaggio, i remi canteranno la loro canzone, sollevando la spuma candida, mentre le vele schioccheranno al vento mattutino.
Ma ora, in questo silenzio smisurato e senza confini, ascolto il suono dei miei pensieri, e lascio che mi conducano a te.
Ti confesso che è con grande timore che permetto che ciò accada.
Ma come, potresti pensare, un Re, un eroe valoroso che ha sconfitto migliaia di nemici, ha paura di una donna?
E’ passato così tanto tempo, vent’anni sono lunghi lontano da casa, da te e da nostro figlio, che non ho visto crescere. Non ho potuto evitarlo, mia adorata, e vorrei spiegarti ciò che mi ha spinto ad allontanarmi, sperando che non sia troppo tardi.
Quando mi è stato chiesto di partire per una missione di guerra, ho accettato per un motivo evidente, e per un altro racchiuso nella mia anima.
Aiutare un amico e aiutare me stesso.
Ho sempre provato un desiderio incontrollabile di conoscere, di esplorare altri orizzonti, nuovi lidi. E questo tarlo che rodeva il mio spirito, non mi ha lasciato scampo. Dovevo andare per scoprire se sarei tornato, e allora sarebbe stato per sempre.
So che, in apparenza, potrei sembrare un mostro di egoismo che ha pensato solo a sé, e non a noi. Ma il demone che mi possedeva non accettava sconti, e attendeva la sua vittima sacrificale.
Perciò, alla fine, ho accettato la sfida. La più difficile, la più ignota, contro l’avversario peggiore… La mia natura umana, così irrequieta e meschina.
Ho deciso di intraprendere il mio folle viaggio, consapevole del fatto che non sapevo cosa avrei trovato al ritorno, portandovi con me, nel cuore. Giorno dopo giorno, sono riuscito a placare il fuoco che mi divorava e a colmare il vuoto scavato dall’inquietudine, superando lontananze nello spazio e nel tempo. Sono partito da casa, dove mi sentivo solo, nonostante voi, fuori luogo, quasi inutile.
Ho attraversato il mondo, e ora sto tornando.
Ma non sono più solo, perché mi sono ritrovato. E mi sono rassegnato a non essere ancora un Dio. Ho compreso che viaggiare non significa cercare altre terre, ma guardare la realtà che conosco con occhi diversi.
Sto tornando a Itaca, ma non sarebbe la mia patria se non l’avessi lasciata. E Itaca sei tu.
Tra qualche giorno getteremo l’ancora nel porto, finalmente. Le acque azzurre non celano più segreti o magie, il canto delle Sirene si è dissolto nei fischi gioiosi dei delfini.
Dove sei, dolcissima moglie? Vorrei che tu stessi tessendo un abito per me.   
Penelope, mio unico amore, potrai perdonarmi?
 
 Eternamente tuo, Ulisse


***

CONCORRENTE NUMERO CINQUE
(già promosso dalla giuria tecnica)

(Racconto)

 Nessuna rivoluzione


«Buondì Mademoiselle Madeleine, come state?»
«Saluti a voi, Baptiste. È una splendida giornata, grazie. E voi? Come vanno i vostri dipinti?»
La sua gentilezza supera di gran lunga la sua bellezza, farsi notare in piena mattina impegnata a conversare con me non deve essere semplice.
Madeleine è la figlia del gendarme, l’uomo che già tre volte ha pensato bene di farmi passare qualche notte in gattabuia. Certe abitudini ti attaccano un’etichetta che poi è davvero difficile da scollare.
Sarà anche per questo che nessuna galleria della città ha mai deciso di puntare sui miei quadri.
E io sono ancora un pittore squattrinato.
Ma come si fa a rinunciare all’arte? Come si può ignorare il bisogno di fare l’amore con la tavolozza? Non si può.
Come non si può che restare incantati davanti alla freschezza di questa giovane donna.
«Oh, i dipinti dormono sonni profondi. Sembra che in tutta Parigi non ci sia nessuno che abbia il desiderio di svegliarli. Forse riposano di sogni turbati e i galleristi della città pretendono soggetti più consoni al buonsenso.»
«Così mi incuriosite. Perché cosa dipingete? Non siete voi forse l’artista di cui si parla con lode per la capacità di rendere reali i paesaggi?»
«Vi confondete, Vostra Grazia. La mia pittura è più ardita…»
Lascio la frase in sospeso.
Studio la sua reazione mentre con la coda dell’occhio mi accorgo che Monsieur Moreau ci sta osservando dalla sua carrozza. Riferirà di aver visto la figlia del gendarme intrattenersi con il pittore delle cortigiane.
È questo quello che si dice di me nei palazzi.
Mi temono. Cercano di tenermi fuori dal giro che conta. Sì, perché nelle mie ore artistiche trascorse presso i bordelli della città, ho visto più di una volta i loro volti lasciarsi andare alla lussuria: banchieri, dottori, politici e gendarmi.
I miei occhi custodiscono un tesoro inestimabile.
«Cosa volete dire, Baptiste? Mi turbate.»
Si guarda intorno. Questo paese si vanta per aver fatto la Rivoluzione ma è rimasto ancorato alla sua infanzia. Almeno per ciò che concerne il pudore.
Io no.
Io oso.
Un uomo deve sempre azzardare al cospetto di una donna. Deve farlo. Con gentilezza e cortesia ma deve farlo.
«Dipingo corpi di donne senza veli, Mademoiselle. Rendo omaggio alla loro bellezza catturando l’anima più intima nascosta in ognuna di voi.»
«Volete dirmi che i vostri quadri rappresentano nudità?»
«Lo sto dicendo.»
Indietreggia.
Un cane che scodinzola viene investito dal suo imbarazzo.
«Santo cielo, Baptiste. Non vi vergognate?»
Me lo aspettavo. Ci sono abituato. Anzi, resto stupito dalla sua innocenza. Davvero non sapeva della mia poetica?
«Signorina, l’arte non può essere mai una vergogna. Mai.»
Eppure mi sembra in bilico tra la curiosità di proseguire il discorso e la necessità di allontanarsi per la vergogna: ci sono occhi e orecchie in ogni angolo a Parigi.
Sceglie la seconda opzione, nessuna rivoluzione oggi.
La osservo andare via. Nella mente la raffiguro stesa sul sofà vestita soltanto di quel mazzo di fiori che riflette la sua bellezza.
Dipingerei un capolavoro.

(Lettera d'amore)
Alla mia luna piena


Esse.
Esse come sentimento. Quello che provo ancora per te.
Esse come se deve essere una lettera d’amore, una sola, allora che sia la S.
Esse come scusa. Scusa amore se non sono stato in grado di capirti, di ascoltarti e di regalarti tutte le attenzioni che meritavi.
Esse come si fotta l’orgoglio. Così fragile davanti all’immensità del sentimento che lo travolge ogni volta che ripenso ai giorni che abbiamo trascorso insieme.
Esse come stelle. La cornice dove tutto è cominciato. Ricordi? Un bacio timido e infreddolito dalla brezza marina di una notte di metà agosto che non si può dimenticare. Non te l’ho mai detto, ma quella sera ho desiderato di poterti tenere tra le braccia per sempre. Ora maledico ogni giorno quella scia luminosa che tuffandosi in mare mi ha illuso di poterlo credere.
Esse come sono fatto così: sogno e credo nei sogni. E tu eri il mio desiderio più grande. Lo sei ancora.
Esse come sole che tramonta dentro di me ogni volta che ti penso. La nostalgia mi divora. Mi manchi. Ricominciamo?
Esse come so bene che non ho nessun diritto di chiedertelo e che non dovrei farlo. Le tue parole sono state chiare: non mi ami più. Sentirle uscire dalla tua bocca è stato doloroso. Truce.
Mi hanno fatto così male che come reazione ho pensato di odiarti. Ho cancellato dalla memoria tutti i baci, tutte le carezze e tutta la felicità che ci apparteneva.
Almeno credevo.
Invece giorno dopo giorno, quella reminiscenza ha scavato nel muro eretto dal dolore e si è aperta un varco. È riuscita a evadere dalla prigionia dell’orgoglio ed è arrivata fino a qui, fino a questa lettera. Fino a queste parole, le ultime, con cui ti chiedo di provare ad aggrapparti a quei ricordi. Immaginali come un film: guardali e ascolta l’effetto che fanno.
Esse come se sarai indifferente, allora prosegui per la tua strada. Sii felice. Se invece toccheranno ciò che risiede dentro di te, voltati da questa parte.
Esse come sarò lì ad aspettarti.
Esse come sincerità. Non posso giurarti che mi troverai cambiato, commetterei un altro errore. Mi troverai innamorato e pronto a custodire il bene più prezioso della mia vita. Tu.
Esse come senza troppi giri di parole. Senza intingere questo foglio nel miele.
Esse come sarai sempre la mia luna piena.
Esse come scrivere lettere d’amore. Abitudine che non mi appartiene.
Esse come stupire. Quello che confido di fare con queste parole dettate dal cuore.
Esse come speranza.
Esse come spiaggia. L’ultima.
Esse come stupido.
Esse come solo.
Esse come solo tu. 
 
Il tuo lupo mannaro

***
ATTENZIONE

Nella diretta di giovedì 20 ottobre alle 21, nella Pagina Facebook di Edizioni Convalle, svelerò i nomi degli autori dei testi del GIRONE A - FASE 2 (questo girone).

Complimenti a tutti i partecipanti! 

 Il Masterbook prosegue e rimarrà un solo vincitore, ma ci saremo tutti divertiti condividendo la stessa passione:

SCRIVERE!