Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

mercoledì 15 marzo 2017

Numero 271 - Posso prendere un po' di tempo per me? - 15 Marzo 2017


Posso prendere un po' di tempo per me? 
Stasera vi racconto una storia, la scrivo io perché a volte mi dimentico che il foglio bianco mi aspetta e tante, troppe volte lo sacrifico per dare spazio ad altre cose, tutte belle e appaganti come condividere con altri scrittori gioie e dolori di questa passione, ma la voglia di stare  con me stessa e le parole che bussano ad un cuore a volte stanco stasera vuole vincere.

Vi racconto una storia di condivisione.

Un giorno di qualche tempo fa mi venne in mente un'idea, un progetto particolare che nasceva dalla mia voglia di giocare con le parole, sfidando me, le mie presunte capacità, ma soprattutto la spinta a raccontare. 
Pensai che sarebbe stato bello iniziare un romanzo che sondasse tutte le lettere dell'alfabeto narrando le memorie di una vecchia signora, una anziana scrittrice, forse come io mi vedo proiettata nel futuro.

Il progetto era ambizioso - Dalla A alla Zeta, riflessioni romanzate. 

Ma a volte i progetti rimangono fermi per tanto tempo per modificarsi, superati dalla vita stessa che ti porta verso altre storie che mi hanno chiamata, i romanzi che ho scritto nel frattempo.

E così, quel progetto si è modificato, dentro un concetto che io amo: condivisione.
E' ripartito, da quell'idea originale, un percorso diverso insieme ad altri tre autori. L'impronta è cambiata e quel primo capitolo è rimasto lì a sonnecchiare tra i file di un vecchio computer.

Ma stasera, tra un bicchiere di vino e una sigaretta, ve lo voglio regalare.
Quell'inizio che ha anche una sua fine, tutto sommato.
Una piccola storia che può vivere di vita propria.
Eccolo.


UNA SEMPLICE  "A"
di 
Stefania Convalle

Dalla A alla Zeta, mi racconto. Così mi chiedono di fare e così faccio.
Mi hanno detto – prova a scrivere quello che ti viene in mente per ogni lettera dell’alfabeto – Fosse facile!

La lettera A evoca in me tante di quelle parole che sceglierne una è quasi impossibile; e allora penso che posso attraversarle tutte come se fossero un fiume da guadare.
Ne ho guadati di fiumi nei miei settant’anni di vita! 
Sono un’anziana signora piena di acciacchi, a volte le mani mi fanno così male per l’artrosi che fatico a scrivere, ma vado avanti lo stesso perché mettere le parole su un foglio è stata la mia vita e non potrei mai rinunciare a questa magia che mi porta in lungo e in largo per le strade della mia anima.

Anima, che parola importante. Ricordo un caro amico che è al mio fianco da tanti di quegli anni che non mi ricordo più,  che un giorno mi confidò, ricordandosi del nostro primo incontro che cominciò con un abbraccio, che per lui era stato come stringersi alla sua stessa anima;  aveva capito in quel  preciso istante come la nostra amicizia fosse una perfetta fusione  che andava al di là dello stesso amore.
Amici così ce ne sono pochi e devo dire che nella mia lunga vita sono stata fortunata perché ne ho avuti di importanti che mi hanno accompagnata fino a qui, a questo settantesimo compleanno che festeggio nella casa dove ho scelto di vivere i miei ultimi anni.

La casa sul mare.

La festa è iniziata, e tra torte e candeline, mare e amache legate ad alberi alti e rassicuranti dove ci dondoliamo ricordando la giovinezza che ci rendeva forti e leggiadri, ridiamo di noi e di quello che non riusciamo più a fare perché, diciamolo, diventare vecchi è faticoso, anche se devo ammetterlo: uno spettacolo imperdibile.

Dentro l’avvenimento di un’alba che  con i suoi rosa e arancio ci rallegra gli occhi e non ce la perdiamo più per niente al mondo – anche perché dormiamo meno – ascoltiamo le ansie e le angosce dei più giovani che non hanno ancora sciolto tutti i nodi e che noi, invece, per fortuna, ci siamo gettati dietro le spalle.
Un’amica di cinquant’anni mi chiede se vorrei tornare indietro a quell’età.
No, credo sia stato uno dei periodi peggiori della mia esistenza.
Lì, davvero, si chiude una porta, e a tratti non sappiamo darci pace,  ma ancora non capiamo che si apre un portone, perché gli anni che sopraggiungono dopo, seppur zoppicanti, sono quelli che assapori di più. Sono quelli che vivi apprezzando davvero ogni minuto presente, perché il futuro è un concetto che ti appartiene sempre meno.
Impari a godere della bontà di un fico colto dall’albero. Ti sorprendi a canticchiare mentre prepari il sugo per la pasta e lo fai senza fretta perché le corse sono finite.

E poi ti regali le cose che hai sempre sognato.
Questa casa, per esempio.
Una casa col patio, colorata dei colori caraibici, perché l’allegria sia sempre con me.
Non ho più bisogno di molte cose, le ambizioni per le cose materiali sono volate via, ma forse perché ho ottenuto quello che volevo. Il successo, per esempio, l’agiatezza. Sono stata fortunata, lo ammetto.

Però  quando si è aperta quella porta, ho avuto paura.

Ora lo posso dire, la fama mi ha spaventata da morire e ne sono quasi fuggita, ma è difficile uscire da un ingranaggio che viaggia come un frullatore al massimo della potenza.
Ho avuto quello che avevo cercato per tanti anni, si erano accorti di me, dei miei libri, delle mie storie. L’euforia iniziale lasciò  presto il posto a nuove ansie, le ansie di non avere più niente da dire, di non essere più capace di accontentare un pubblico composto di lettori in attesa. Ma tutto arriva per insegnarci qualcosa e quello che dovevo imparare era che essere famosi conta poco, ma importava riuscire a scrivere qualcosa di buono che arrivasse al cuore di qualcuno.
Sono scappata dal clamore, mi sono rifugiata qui. Mi sono scrollata di dosso le lusinghe, i piccoli giochi di potere, sono scesa da un piedistallo dove mi avevano messa, era scomodo e mi toglieva la libertà.
Ho preso poche cose, la mia macchina da scrivere, dei fogli bianchi, la matita e una gomma.
Ho lasciato le “a” scomode – le ansie, le angosce, le ambizioni, le  aspettative – e mi sono portata dietro le “a” che contano – l’amore, gli amici.
Ho attraversato il fiume con le mani piene di voglia di appartenere a giornate serene e senza allungare troppo lo sguardo su ciò che sarebbe arrivato dopo.
Con me c’è una “a” importante: il mio angelo custode. C’è da tutta una vita, ma lo sento solo da qualche anno e da quando l’ho cercato, chiamato, invocato, ecco che l’ho sentito, o si è fatto sentire, non lo so. A volte mi pare persino di vederlo, tra le ombre della sera, nel fruscio degli alberi, e mi sento più sicura perché avverto il suo sorriso e so che va tutto bene.

Le mie “a” sono finite. Un piccolo vocabolario che spero abbia creato una bella atmosfera dentro la quale perdersi e viaggiare ancora insieme.

È il momento di soffiare sulle candeline.

Siete con me?

https://youtu.be/7nXu0tGYqx8

martedì 14 marzo 2017

Numero 270 - Una storia romantica, ma sarà davvero così? ;-) - 14 Marzo 2017


Sarà la primavera, ma mi è tornata la voglia di giocare a raccontare una storia insieme ad altri autori :-) 
Loro ancora non lo sanno, lo scopriranno tra poco, quando li nominerò per proseguire questa sorta di staffetta dove lancio il primo capitolo e poi non si sa quello che accadrà! 
Un palleggio dove ogni autore andrà avanti a scrivere questa storia, seguendo la propria fantasia. 
Non si sa dove si andrà a finire, ed è questo il bello!
E allora, via, si parte!

Il secondo capitolo è affidato a
Francesco Lisa
Una new entry in questo Blog
Una nuova penna che vi piacerà;-)

Il terzo capitolo a una "vecchia" conoscenza di questo Blog, una penna che avete già avuto modo di apprezzare in "Rosamarea"
Daniela Perego

Quarto capitolo, una penna d'autore, quella di 
Riccardo Simoncini
ad un passo dalla pubblicazione della sua opera prima con la Edizioni Convalle ;-) 

Quinto capitolo, una scrittrice misteriosa già quotata ;-)
Veronica
una penna esperta;-)

Sesto capitolo, torna una penna che conosciamo bene, 
quella di
Tania Mignani
penna agile e strong!

Settimo capitolo, anche questa autrice è una "vecchia" conoscenza del blog
Maria Rita Sanna
ha dato un assaggio del suo stile ;-)
"un uragano" ;-)

Ottavo capitolo, torna
Francesco Lisa
con abilità porta avanti personaggi e storia
facendo crescere la suspance che sta appassionando i lettori
di capitolo in capitolo :-)

Capitolo nove: 
Michele Fierro
penna nota a questo Blog, 
aumenta l'intreccio ;-)
Il passato ritorna...

Capitolo dieci:
Daniela Perego
penna romantica, ma non solo;-)
e quel "non solo" ci piace un sacco!

Capitolo undici
Riccardo Simoncini
...romanticone... 

Capitolo dodici
Veronica
La stoffa della scrittrice: si vede;-)

Capitolo tredici
Tania Mignani
ma quanto è brava? ;-)

Capitolo quattordici
una concreta Maria Rita Sanna
sta tirando le fila?

Capitolo quindici
Michele Fierro
verso la soluzione? 

Capitolo sedici
Daniela Perego
il dilemma di Emma/Patrizia

Capitolo diciassette
Francesco Lisa
ma che svolta romantica!!!

Capitolo diciotto
Riccardo Simoncini
riconfermo: un romanticone ;-)

Capitolo diciannove
Veronica
Colpo di scena?

Capitolo venti
Tania Mignani
Questa storia è piena di valigie;-)



Il titolo?

Lo sceglierete voi lettori :-)

Capitolo 1
di 
Stefania Convalle

L'ora del tramonto, quando tutto si placa in una luce calda. C'era ancora qualcuno su quella spiaggia, assorto, a godersi lo spettacolo dei colori che offriva il cielo, illuminato dal sole che si tuffava nel mare. 
L'atmosfera era tranquilla, come ogni sera a quell'ora. Ma poco più in là, Emma era già in movimento. In qualche modo si godeva anche lei quel momento di pace prima della serata. 

Girava per i tavoli del suo locale in riva al mare controllando che tutto fosse a posto: le tovaglie di lino, le stoviglie rigorosamente bianche, i calici di cristallo, le candele poste a galleggiare in un recipiente insieme a dei fiori, tutto curato nei minimi particolari per garantire ai suoi ospiti una serata indimenticabile. Le stelle e il rumore del mare completavano lo scenario e non era un caso che il suo ristorante fosse sempre al completo. 

Quella sera pensò che era ormai trascorso un anno dal suo arrivo. Le sembrava passato un secolo: un'altra vita, un'altra Emma. 
Già, c'era stato bisogno di coraggio, ma quello non le era mai mancato. Un anno prima aveva mandato all'aria tutta la sua esistenza, tutte le certezze buttate al vento; aveva fatto la valigia e se n'era andata. 
Lontano. Altri luoghi. Altra gente. Altri colori. Altri suoni. Aveva detto basta
Aveva gridato, basta
E quelli che avevano cercato di fermarla, ammutoliti dalla sua determinazione, si erano fatti poi da parte e l'avevano lasciata passare. 
Un anno prima. Soltanto un anno prima.




Capitolo 2
di
Francesco Lisa

Federico aveva avuto una giornata tosta, di quelle che nascono storte e si concludono ancora peggio. Pareva che tutto il modo si fosse dimenticato di lui e della sua sensibilità. Ogni persona che aveva incontrato e ogni cosa che aveva osservato quel giorno sembravano avere un solo obbiettivo: distruggere la sua autostima. 
A nessuno importava più del simpatico ragazzo dalla carriera brillante, pure i riccioli d’oro che gli pendevano ai lati delle tempie si erano afflosciati quando, la sera prima, Marta lo aveva lasciato fuori di casa. Gli era bastato vedere le valigie appoggiate al portone per capire l’antifona, non aveva avuto nemmeno la forza di citofonarle o chiamarla per cercare un chiarimento. Dopo sette anni era tornato a passare la notte nella sua vecchia cameretta che era stata il suo nido dall’infanzia fino all’adolescenza. Le carezze di mamma Maria avevano alleviato il dolore accompagnandolo in un sonno profondo, come ai vecchi tempi, quando era un piccolo ometto da proteggere.

Al risveglio il dolore era tornato con veemenza scombussolandogli l’intera giornata che per fortuna era finita. Uscito dall’ufficio, prima di tornare a casa dei genitori, era andato al mare. Voleva accertarsi che almeno quello non si fosse dimenticato di lui e che non fosse fuggito via, si rallegrò quando lo vide lì, al solito posto, mentre accarezzava la spiaggia semideserta. 
Tolse le scarpe e corse a perdifiato costeggiando la riva fino alla scogliera del Tono per poi tornare indietro ancora più veloce, per eliminare le tossine. Sfinito dalla fatica si fermò a recuperare il fiato e si sedette sulla sabbia, di fronte al locale di Emma. 
Le onde gli lambivano le caviglie, alcune gli bagnavano i polpacci rinfrescando i muscoli, mentre lui fissava il mare. Sapeva di aver sbagliato, ma a volte un uomo va anche perdonato, pensava; avrebbe riavvolto il nastro per ricominciare da zero, ma non era possibile, e forse sarebbe stato fin troppo facile. 
Uno a uno scagliava i ciottoli verso l’orizzonte, sempre più forte, sempre più lontani, come fossero  pensieri cattivi dai quali voleva e doveva liberarsi al più presto, per sempre. 

Quando la spiaggia rimase vuota e silenziosa, sotto il cielo scuro come i suoi occhi, si tolse la camicia e i pantaloni e con una breve rincorsa si tuffò in acqua, ad affogare il malumore. Riaffiorò dopo parecchi secondi, distante una ventina di metri dalla riva, liberò i riccioli facendoli schizzare intorno e gli sembrò davvero di essersi liberato di un grande peso. Forse, davvero il mare non si era dimenticato di lui, aveva raccolto la zavorra negativa che si era scrollato di dosso e che ora doveva rimanere sul fondale per sempre. 
Uscì dall’acqua incurante che qualcuno lo potesse vedere, in spiaggia non c’era più nessuno e il locale di Emma era ancora vuoto. La luce della luna piena che si specchiava sul mare illuminava i lineamenti del suo corpo scolpito da anni di palestra. I pettorali e gli addominali ben definiti non passarono inosservati agli occhi di Emma che lo aveva seguito con lo sguardo,  incuriosita fin dal suo arrivo in spiaggia. Dopo essersi rivestito diede un'ultima occhiata al mare, forse aveva dimenticato di raccontargli qualche particolare di quella triste storia; si rimise in macchina e si avviò verso casa dei genitori. 

Ed Emma tornò a pensare al suo lavoro.



Capitolo 3
di
Daniela Perego

Era passato solo un anno. Trecentosessantacinque giorni  di Emma.
La "vecchia" Patrizia – ora Emma – era morta quel giovedì di giugno,  quando l’intera banda che gestiva la prostituzione in città venne arrestata. Grazie a lei.

Seduta sul muretto che separava il ristorante dalla spiaggia, con lo sguardo perso tra le onde, ripensò all’intera vicenda.
Era nata in una  famiglia molto religiosa, passava tutto il suo tempo libero in parrocchia, tra oratorio e sacrestia; negli ultimi anni aveva affiancato Don Albino nella missione - quasi impossibile - di togliere dalla strada le ragazze straniere arrivate in Italia con il sogno di una vita libera e di un lavoro onesto.

Un brivido le ricordò le fredde serate invernali, passate a parlare con Aina, Asabi, Irina, Raissa e molte altre di cui non seppe mai il nome; molte di loro non capivano e non parlavano neppure la lingua italiana. La paura di qualcuna vacillò, facendo pensare a lei e a Don Albino di essere riusciti nell’intento, ma la punizione degli sfruttatori  arrivò pesante e violenta lasciando una cicatrice sul volto di Raissa e il parroco sanguinante a terra.

Nonostante il divieto della famiglia, continuò a occuparsi delle ragazze, ormai sola. Ricevette minacce, comparvero scritte sul muro della sua abitazione e le incendiarono l’auto.

Esattamente un anno prima, in una notte stellata come quella sera, l’epilogo della storia: le forze dell’ordine arrestarono gli sfruttatori in Italia e nei Paesi coinvolti nel traffico di prostitute.
E in poche ore si trovò a decidere del suo futuro.

A molti piacerebbe rifarsi una vita, cambiare Paese, abitudini, clima, amici e altro ancora;  ma essere costretti a farlo per una ragione di vita o di morte è tutt’altro.
Fu straziante salutare i suoi genitori, suo fratello Claudio e sua sorella Lara.
Nessuno avrebbe potuto conoscere la sua nuova identità. Per tutti, lei doveva essere  morta. Il suo cuore tremò quando le dissero che era ora di andare, il tempo dei saluti era scaduto.

Dov’era Giorgio?
Non lo aveva salutato, non gli aveva spiegato. Non c’era stato tempo.
No, Giorgio no. Doveva sapere. L’avrebbe cercata. L’avrebbe odiata.
Ed Emma lo amava tanto. 
Ma l’amore per la vita aveva vinto: era partita.

Si asciugò le lacrime, pronta ad accogliere i primi clienti.

Respirò profondamente l’aria salmastra dando un ultimo sguardo alla spiaggia. Tra le ombre della sera le parve di notare qualcuno allontanarsi... 




 Capitolo 4
di
Riccardo Simoncini


Oggi era il merdaversario.
Un anno esatto dalla scomparsa di Patrizia.
Scomparsa era la parola esatta. Non si era nascosta, non lo aveva lasciato, non lo stava evitando. Era scomparsa. Come una bolla di sapone dopo i suoi pochi istanti di compattezza.

Quel giorno, Giorgio, si concesse l’insensato lusso di comporre ancora una volta il numero di telefono che aveva imparato a memoria durante la loro intensa storia. Gli rispose una donna gentile, che con una delicata voce registrata lo informava che il numero da lui selezionato era inesistente. Riagganciò, socchiuse gli occhi e appoggiò la fronte contro il vetro fresco della finestra senza provare alcun sollievo.

Dove sei, Patrizia? pensò. Da qualche parte, certamente. La madre, ammesso che sapesse qualcosa, era ossuta e forte come il carattere che aveva trasmesso alla figlia. Non aveva mai lasciato trapelare nulla, schermando informazioni ed emozioni nello scrigno inespugnabile di uno stoico, insensato silenzio. Il padre era l’anello debole. Su di lui avrebbe dovuto fare più pressione. Una volta, una sola volta, si era lasciato scappare parole di cui subito si era evidentemente pentito, frasi sconnesse pronunciate con un’espressione di sincero dolore, che gli avevano lasciato intendere che da qualche parte la donna con la quale aveva condiviso l’Amore aveva trovato rifugio. Era la conferma che Patrizia non aveva cessato di esistere.
“Quanto sei grande, Mondo? In quale delle tue tasche me l’hai nascosta, bastardo?” chiese alla minuscola porzione di panorama oltre la finestra.

Un anno.
Ogni volta che ti guardi indietro, un semplice anno si perde nei numeri grandi del passato. Ma l’ultimo, quello che ti sei appena lasciato alle spalle, quello più fresco, quello più recente, quello che non ha ancora avuto modo di nascondersi tra le pieghe del Tempo, sembra sempre avere un peso speciale, una massa più importante, un metabolismo più lento.

Giorgio lo sapeva.
Era questione di altro tempo, e un’altra donna sarebbe arrivata a cancellare la sua solitudine e i suoi ricordi. E quando si fosse innamorato di nuovo, avrebbe smesso di mangiare da solo, di dormire da solo, di fare l’amore da solo.

E Giorgio non voleva.
Non voleva un nuovo mare con onde impetuose che arrivassero a cancellare i segni che insieme a lei aveva disegnato sulla sabbia. Non voleva nuova vita, nuove gioie, nuove emozioni. Lui chiedeva soltanto di riprendere il suo percorso da dove era stato interrotto senza motivo, senza spiegazioni, senza la consolazione, per quanto amara, della rassegnazione.

Era odio quello che sentiva, in certi momenti. Odio che abbracciava l’amore e cercava di mischiarsi ad esso come se fosse della stessa natura. Ne era pieno. Dell’uno e dell’altro. Ma erano ben definiti, separati da una densità differente, come acqua e olio in uno stesso recipiente.
L’odio era facile. Dettato dall’esasperazione, regalava una piacevole compagnia facendo un sacco di rumore, fornendo spiegazioni e facili risposte alle mille domande che si ammassavano senza alcun ordine.

L’amore, invece, faceva un sacco di male. Era figlio dei ricordi e delle sensazioni. Rimava zitto, in silenzio, come un vecchio saggio e paziente, seduto in attesa, sorridente davanti all’eterna battaglia tra cuore e ragione.

Era fottutamente indisponente, l’amore.

Vaffanculo, amore mio, sintetizzò Giorgio soffiando su quella immaginaria prima candelina che segnava il tempo passato senza Patrizia.



 Capitolo 5
di
Veronica

Camminare a piedi nudi sulla battigia rappresentava, per Patrizia, uno dei piaceri a cui non avrebbe saputo rinunciare, e se a fare da cornice vi era uno scenario come quello, ecco, si sentiva graziata. All'inizio della settimana si concedeva sempre una passeggiata nel tardo pomeriggio, sapeva che erano giorni meno impegnativi rispetto all'affluenza solita e poi il locale era in buone mani con Carlo e Marina, i suoi collaboratori.
Stava bene in quella parte di mondo dove si era rifugiata, peccato non poter condividere quel paradiso con Giorgio, l'unico uomo che aveva amato sul serio, l'unico che aveva abbandonato senza una parola di spiegazione. Che ironia!
Si fermò, chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro, il vento le scompigliava i capelli, le carezzava la pelle e soprattutto le dava forza, ne aveva veramente bisogno così lontana dai suoi affetti, dalle sue abitudini, dalle sue radici.
Non era pentita delle sue scelte, anzi, era più che mai convinta di aver operato nella maniera giusta,  restare significava mettere in pericolo la vita dei suoi cari, non solo la propria.

Tornò verso il ristorante, il sole era già tramontato e a breve si sarebbero presentati i primi avventori.
Era quasi arrivata quando notò il ragazzo biondo seduto vicino all'acqua, lo stesso di qualche giorno prima; se avesse seguito l'istinto sarebbe andata a sedersi accanto a lui, ma il suo cuore non ne voleva sapere di nuove occasioni, troppa sofferenza ancora da smaltire, ci voleva tempo.
Entrò decisa nel locale dove qualcuno si era già accomodato, si accertò che tutto fosse a posto e si diresse verso la cucina per dare una mano. La situazione era sotto controllo e Carlo la rispedì in sala, dove sarebbe stata senz'altro più necessaria.
“Il mio chef non mi vuole fra i piedi” disse sorridendo ai clienti seduti vicino alla vecchia pendola in fondo alla sala, coi quali era più in confidenza.
“Le pietanze sono di vostro gradimento? Desiderate altro vino?”
Si girò per prendere nuove ordinazioni e si accorse, con sorpresa, che il ragazzo biondo era appena entrato e stava guardando in giro alla ricerca di un posto per sedersi.
Gli andò incontro e lo guidò verso uno dei tavoli vicino alle finestre, la posizione migliore, quella col  panorama mozzafiato per nutrire non solo il corpo, anche l'anima. 

“Io sono Emma. Grazie per aver scelto il nostro ristorante.”disse tendendogli la mano.
“Piacere, Federico. Era da un pezzo che volevo entrare e devo dire che le mie aspettative non sono state disattese, è molto accogliente. Immagino che la cucina sia all'altezza dell'arredo, vista l'affluenza di gente.”
La serata stava volgendo al termine, il locale si stava lentamente vuotando e la stanchezza cominciava a farsi sentire.
“Desidera altro, Federico? Vuole un dolce, il caffè?”
“Vorrei che si sedesse a chiacchierare un po' con me.”
“D'accordo, ma dammi pure del tu, siamo coetanei, immagino.”
“Da dove arrivi, Emma? Non ti avevo mai visto nei dintorni e a Gaeta ci si conosce tutti. Io ci sono nato, abito a poca distanza da qui.”
“Io... arrivo da Cuneo.”
“Ah, dal Piemonte, mi sembrava un accento famigliare! Ho trascorso diversi anni a Torino, fino a quando la multinazionale per cui lavoro non ha aperto una nuova filiale proprio a Gaeta, circa un anno fa, e mi ha proposto il trasferimento. Ma ho detto qualcosa di sbagliato? Sei diventata pallidissima!”
“No, va tutto bene. Sono solo un po' stanca, non preoccuparti.”
“Mi mancano gli amici di Torino, con alcuni sono ancora in contatto, perlopiù colleghi di lavoro. Quest'anno ho invitato due di loro a casa mia, trascorreremo insieme le vacanze; devo ancora dirlo ai miei ma non credo solleveranno problemi, abbiamo spazio a sufficienza.”

Dopo essersi salutati, Patrizia salì nella sua stanza e si buttò sul letto, esausta. Avrebbe dovuto mentire per tutta la vita e a chiunque.
Quante coincidenze, pensò, lei era proprio di Torino e Giorgio lavorava in una multinazionale.





Capitolo 6
di
Tania Mignani

La luce che filtrava dalla finestra colpì Lara come una spada acuminata proprio in mezzo agli occhi. Fissò il soffitto cercando di emergere da quel mare di incoscienza in cui le pareva di galleggiare. 
Qualcosa le pesava sul petto, un braccio tatuato il cui resto del corpo russava rumorosamente al suo fianco. Tentò di alzarsi a fatica mentre la testa vorticava furiosamente. Pur non conoscendo la combinazione dei vari locali in quell’appartamento del tutto sconosciuto, aprendo la prima porta trovò ciò che cercava. Pochi istanti dopo, inginocchiata davanti al gabinetto si liberava di tutte le sostanze bevute e sniffate durante la notte. Peccato non potere liberarsi dell’abituale disprezzo  che provava verso se stessa e gettarlo nel vortice di acqua generato dallo sciacquone. 
La testa le pulsava insopportabilmente, ingerì due aspirine bevendo direttamente dal rubinetto. Rialzandosi incontrò la sconosciuta riflessa nello specchio: un volto scarno, pallido dagli occhi infossati e lividi. Quasi si spaventò, poi sorrise amaramente nel riconoscere su quel corpo ossuto i segni della sua disperazione, di quel senso di inadeguatezza che sempre più spesso trovava sfogo nelle ferite autoinferte, cicatrici seppur sbiadite sulla pelle, ancora pulsanti nel suo animo.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, nella mente come tanti fotogrammi impazziti riaffiorarono ricordi: lei che la trovava in bagno e guardava inorridita i tagli sulle braccia e sulle gambe. “Che hai fatto Lara?”, le gridava disperata “Perché?”.
Già, perché?

Perché lo faceva? Per farli sentire in colpa? Perché per anni era stata sempre considerata quella non all’altezza?
Non brillante e intelligente come Claudio.
Non coraggiosa e intraprendente come Patrizia.
No, non erano queste le motivazioni, voleva semplicemente attirare l’attenzione, sentirsi amata, e la sorella lo aveva capito.
“Perché lo fai?” le gridava, mentre Lara fissava quasi in trance i sottili rivoli rossi che cadevano nella vasca. Ricordava le sberle, sonore, forti che la risvegliavano e la riportavano alla realtà. Le sue braccia che la accoglievano, la disperazione che finalmente trovava sfogo e tutte quelle lacrime che sgorgavano liberandole l’anima. Non era stato facile, ma ci erano riuscite, insieme. 
Patrizia era diventata il suo punto fermo, le aveva regalato una sorta di equilibrio, l’aveva aiutata ad accettarsi, a capire che anche lei valeva qualcosa. E quando finalmente ci stava riuscendo se ne era andata, per sempre.

Lara si sciacquò il viso con l’acqua fredda cercando di lavare via anche la nostalgia, esattamente un anno prima la sorella era scomparsa e ora lei stava sprofondando nuovamente in quel baratro dal quale Patrizia l’aveva strappata a fatica.
Inutile abbandonarsi ai ricordi, aveva problemi concreti e urgenti da risolvere. Pochi giorni prima aveva perso il lavoro, quei pochi soldi che guadagnava servendo ai tavoli di uno squallido ristorante le servivano a pagare l’affitto di una camera nell’appartamento condiviso con altre tre ragazze. Era in arretrato di quattro mesi e le sue coinquiline l’avevano cacciata. Splendido! Senza casa e senza lavoro.
Rivestendosi notò che l’appartamento in cui si trovava era piuttosto elegante, sicuramente il tizio col quale aveva trascorso la notte era il classico figlio di papà che giocava a fare il ribelle prima di omologarsi in una vita predefinita. 

Diede furtivamente un’occhiata in giro per cercare di capire dove potesse trovare dei soldi. Aprì cassetti e armadi senza alcun esito. Raccolse da terra i jeans del suo amante occasionale, nel portafogli c’erano solo dieci euro, meglio di niente e, a ben pensarci, forse lei non valeva un centesimo di più, concluse amaramente. Lanciò un’occhiata veloce allo scaffale sui cui erano allineati i cd, ne afferrò alcuni mettendoli velocemente nella borsa, sarebbe riuscita a rivenderli per qualche decina di Euro. Cercando di non fare rumore si chiuse la porta alle spalle e se ne andò. 
Il quartiere in cui si trovava le era sconosciuto, cercò inutilmente alcuni punti di riferimento tra il traffico del mattino e dopo aver vagato per vie del tutto estranee, entrò in un bar.
“Cosa vuoi?” la apostrofò la barista, evidentemente preoccupata dal suo aspetto poco rassicurante.
“Un caffè doppio” rispose poggiando sul bancone i dieci euro e ignorando la lampante ostilità della donna.
Poco dopo sorseggiando il liquido amaro si avvicinò alla vetrina del locale, alcuni palazzi dalla parte opposta della strada avevano attirato la sua attenzione. Era sicura di essere già stata da quelle parti, forse dopo una notte come quella appena trascorsa?
Giorgio!
Ricordò di avere accompagnato Patrizia a casa sua molto tempo prima. Fra loro due non c’era mai stato un buon rapporto, anzi, a voler essere sinceri si trovavano reciprocamente antipatici, durante quel difficile ultimo anno si erano incrociati un paio di volte in centro fingendo entrambi di non essersi riconosciuti.

Finì velocemente il caffè e pochi minuti dopo stava suonando il campanello. La porta si aprì.
“E tu, che ci fai qui?”




Capitolo 7
di
Maria Rita Sanna

Certo che una mareggiata simile non si era mai vista, soprattutto in piena estate. Emma e Federico camminavano con i piedi immersi nella fanghiglia e molti detriti sparsi nel locale. Era proprio vero che il clima stava cambiando e la sua furia lo dimostrava. Tutta la notte il vento aveva soffiato forte, una tromba d'aria aveva distrutto completamente un chiosco bar, all'altro lato della spiaggia. Il locale di Emma era inondato, inagibile, e lo sarebbe stato per alcuni giorni.

Federico era diventato un cliente abituale, si era affezionato a quella ragazza dagli occhi malinconici. All'alba di quella mattina trovò Emma tra le lacrime, nella sala ristorante, e lui senza dire niente si mise al lavoro per rimettere un po' d'ordine. Con l'arrivo poi di Carlo e Marina, fecero un bel mucchio di cose da buttare; nel pomeriggio entrò un raggio di sole a bucare  quella tetra visione.

Qualcosa nel cumulo di immondezza sorprese l'attenzione di Emma che, avvicinandosi, scoprì l'oggetto. Era una bottiglia, vuota e chiusa ermeticamente; anzi, qualcosa dentro c'era. Federico si avvicinò alla ragazza.
“Emma, per ora abbiamo finito, domani verranno gli elettricisti a ristabilire l'impianto, poi daremo una bella imbiancata e tra una settimana l'attività ripartirà. Vedrai, faremo una bella festa per i miei amici che passeranno qui qualche giorno di vacanza, e io ti aiuterò in tutto.”
“Ti ringrazio, Federico, mi stai aiutando parecchio e non solo manualmente. Da quando ti ho conosco mi sento più allegra, ma questo disastro, purtroppo, mi ha fatto crollare il mondo addosso... Per la seconda volta...”
Il giovane, sorvolando su quelle ultime parole, iniziò a fantasticare su quella strana bottiglia, ipotizzando un tesoro nascosto da cercare.
“Pensa, Federico, questa bottiglia è l'unica cosa simpatica di oggi. Dai, apriamola!”
Con mani emozionate, Emma, svolse il biglietto e insieme al nuovo amico lo lesse.

Patrizia! PATRIZIA! Dove sei? Ma che razza di persona sei?
Hai salvato delle puttane qualsiasi, ma non hai pensato a salvare me, che sarei stato il tuo futuro. Non hai pensato alla  tua famiglia, che ha scoperto la tossicodipendenza di tua sorella, ricaduta in quell'inferno.
Oh, come la odio! E quanto ti assomiglia! Vorrei eliminarla all'istante quelle rare volte che la incontro, solo perché lei c'è e tu no.
Dov'è il tuo Dio? Il NOSTRO Dio?
Pace, amore, solidarietà...
E io? Chi cazzo sono? Cosa cazzo ero per te?
Niente, ecco cosa rappresentavo. E guarda come sono ridotto, a scrivere i miei stronzi pensieri in un foglio e buttarli in mare.
Vorrei buttarmi pure io, per farla finita, ma non ho nemmeno quel coraggio. Non ho più nulla. Solo quello stupido numero di telefono che ancora compongo: il tuo. Macino chilometri con la macchina, in cerca di un possibile indizio che mi porti a te.
Forse ti amo ancora, sto impazzendo e sono disperato.
MARE, CIELO, TERRA, se mi ascoltate: io sono Giorgio e amo Patrizia.

“Però, che stronza, questa Patrizia!” disse Federico, che fece appena in tempo a prendere tra le braccia Emma, svenuta.



Capitolo 8
di
Francesco Lisa

Giorgio camminava nervoso intorno alla stanza e di tanto in tanto si fermava dietro la finestra a osservare il cielo. Il piagnisteo di Lara continuava inesorabile come una litania snervante, peraltro inconcludente. Giorgio aveva pensato di sbatterle la porta in faccia quando l’aveva vista. Ma alla fine aveva fatto prevalere la ragione sull’istinto e l’aveva fatta entrare. L’aveva accolta nel suo appartamento non perché le facesse tenerezza vederla ridotta in quello stato e nemmeno per evitare di sentirsi attanagliato dal rimorso di coscienza; lo aveva fatto solo perché quella donna era l’ultimo appiglio da afferrare; era lei l’unica persona che poteva tenere viva la speranza di ritrovare Patrizia.

Lara si era arresa alla sua fragilità riversandosi sul divano, tentava di asciugarsi le lacrime, mormorava frasi incomprensibili ch’erano figlie di quei maledetti pensieri che facevano a gara per prevalere l’uno sull’altro.
«Smettila di lamentarti, dovresti imparare ad amarti, piuttosto che ridurti in queste condizioni. Hai ventisei anni e ti comporti come se la vita non avesse più niente da offrirti.» gli arringava Giorgio fermandosi alle sue spalle.

Tante volte aveva assistito alle scene turbolente tra le due sorelle, così simili fisicamente e dannatamente diverse nel modo di affrontare la vita. Prendere il ruolo di Patrizia lo faceva sentire più vicino a quell’amore perduto, sparito nel nulla, ma mai morto definitivamente e che lui teneva in vita a modo suo, affidando i suoi pensieri al mare.

«Giorgio io non sono come lei, non sono nemmeno come Claudio. Io sono un fallimento, ecco cosa sono. La mela marcia della famiglia Cristante.»
«Tu non sei niente, non sei mai stata niente e sai perché? Perché hai avuto sempre tutto facile, non hai mai conosciuto il significato della parola sacrificio. Ti piaceva sperperare i soldi di tuo padre con quelle schifezze che ti passavano i tuoi amici e ora guardati. Guarda come cazzo ti sei ridotta. Dimmi, sei piombata a casa mia per fare cosa?»
«Ho perso il lavoro, non ho più un tetto sotto il quale ripararmi, e gli amici, quelli si sono dileguati come se fossi un pericolo per le loro vite. Sono nella merda, Giorgio, aiutami a uscirne. Ti prego.»
«Tieni!» le disse Giorgio porgendole un bicchiere d’acqua intanto che pensava a cosa fosse giusto fare.
Il futuro di quella ragazza ora dipendeva da lui e dalla decisione che avrebbe preso. Nessuno gli impediva di rifiutarsi di aiutarla. Per lei sarebbe stata la fine, non sarebbe mai tornata a chiedere aiuto ai genitori, la vergogna era troppa e non glielo permetteva. Magari sarebbe andata a dormire alla stazione o in qualche vicolo buio, sarebbe divenuta preda del degrado urbano. Giorgio la detestava ma non poteva riservarle niente di tutto questo, decise di proporle un patto.

«Senti, ora tu mi ascolti bene e fai quello che ti dico. Giocatela bene questa carta perché è l’ultima opportunità che hai di uscire dalla merda e farti una vita dignitosa. Un mese, non un giorno in più, potrai condividere l’appartamento con me, dormirai nella stanza degli ospiti. Non porterai dentro nessuno stronzo né quella roba che ti ha ridotto così. Ho parecchi amici imprenditori, proverò pure a trovarti un impiego ma devi promettermi due cose.»
«Tutto quello che vuoi, Giorgio, giuro che farò tutto quello che desideri basta che mi aiuti, non ce la faccio più a sentirmi così, così schifosa.» negli occhi aveva riflessa la speranza di una via d’uscita tanto cercata e mai trovata.
«Devi promettermi che in questo mese farai di tutto per farmi ritrovare Patrizia, dopo di che sparirai per sempre dalla mia vita.»
«La troveremo.» gli sussurrò Lara, con l’ultimo filo di voce che le era rimasto, scivolando ai suoi piedi.




Capitolo 9
di
Michele Fierro

Sapeva che erano lì, da qualche parte. Magari li avevano seguiti a distanza e si erano fermati in strada, proprio dietro l’angolo che avevano svoltato per appartarsi in quel residuo scampolo di boscaglia, in mezzo a quello schifo squallido di zona industriale.
Maledetti stronzi.
C’era voluto poco, subito dopo aver riacquistato la libertà, e insieme a quella il passaporto che le avevano portato via tanti anni prima, per ritrovarsi punto e a capo. Dicevano di essere “amici suoi”, che erano diversi da quelli di prima, che per lei sarebbe cambiato tutto.
Già, proprio così.
Tempo un paio di settimane e il prezzo di quella “amicizia” le era stato presentato, puntuale come la rata di un mutuo. Un debito eterno e sapeva benissimo che non lo avrebbe mai finito di pagare. Una cambiale senza data, incollata alla sua pelle come un tatuaggio.
Così il suo passaporto era sparito un’altra volta, svanito a forza di ceffoni sul muso e calci sulla schiena, là dove i lividi non si sarebbero visti. Ora, mentre sfiorava con le dita della mano la cicatrice sul suo giovane viso, ripensava a quella ragazza e a quel prete che avevano cercato di strapparla al suo destino infame.
Le era rimasto soltanto un nome, Patrizia, otto lettere che aveva archiviato con speranza tra le parole del suo italiano stentato. Quella donna, o la speranza che il prete fosse sopravvissuto alla lama tagliente che il suo stesso corpo aveva conosciuto quella sera, erano le sue uniche possibilità di sopravvivere.
Svetlana guardava le stempiature tristi dell’uomo seduto al posto di guida. I ciuffi di capelli, a lato della testa, non si muovevano più in quel modo grottesco che li faceva assomigliare a delle buffe ciglia.
In fondo era dispiaciuta per quello sconosciuto. Le aveva detto di chiamarsi Paolo, ma lei non ci aveva creduto. Conoscere il nome dei suoi clienti, quello vero, non era poi così importante. Erano tutti uguali, a modo loro, uguali per lei che faceva ormai presto a dimenticarli.
Non aveva nemmeno fatto in tempo a slacciarsi i pantaloni quando, strizzando gli occhi, si era portato la mano al petto tenendosi il braccio sinistro attaccato al fianco, rigido come una mazza da baseball.
Aveva capito subito cosa stava succedendo. Lo aveva capito lui, ma lo aveva capito anche Svetlana che, da infermiera diplomata, certe cose le aveva studiate.
Eppure non aveva trovato il coraggio di alzare un dito per aiutarlo. In quell’automobile non c’era la stessa donna che aveva studiato i sintomi di un infarto e alla quale avevano insegnato quanto fosse importante chiamare i soccorsi in quei casi. La vera Svetlana era altrove, rimasta sul fondo del cassone di un camion passato alla frontiera di Chiasso, solo qualche anno prima.
A un certo punto, quando l’uomo stava per emettere l’ultimo vagito prima di spirare, aveva persino avuto l’istinto di tappargli la bocca, già certa del suo disegno criminale e pronta a tutto pur di metterlo in pratica. Ma non ce n’era stato bisogno: l’uomo era morto senza nemmeno un rantolo e così, con certezza, nessuno aveva potuto sentire nulla.
La ricerca affannata nelle tasche dell’abito a buon mercato, addosso al cadavere, aveva dato scarsi risultati. Pochi spiccioli in un portafoglio estratto a fatica dalla tasca posteriore dei pantaloni, quasi irraggiungibile, schiacciato sotto il peso di quel corpo flaccido e immobile.
Ebbe più fortuna rovistando nel cassetto portaoggetti. Dentro una busta completamente anonima, che non lasciava promettere niente di buono, spuntarono fuori settanta bigliettoni bianchi e arancio, ognuno a modo suo promettente con un rassicurante numero cinquanta metodicamente stampigliato.
Davvero un bel gruzzolo, la pazienza della donna era stata premiata.
Si guardò alle spalle, nel tentativo di scorgere eventuali movimenti che potessero aiutarla a scegliere la direzione giusta per non essere seguita. Fuori da quell’auto la stava aspettando quella nuova vita che aveva sognato troppe volte.
Il sogno di una libertà mai assaporata, soffocata tra le braccia di sconosciuti avvinazzati e puzzolenti, madidi di sudori insopportabili e dalle mani sempre troppo sgraziate, la stava aspettando a pochi metri.
Dopo aver disattivato la luce dell’abitacolo, socchiuse la portiera della berlina tedesca, protetta dalla penombra e dal vestito scuro che la mimetizzava perfettamente sullo sfondo della carrozzeria nero lucente, e uscì all’aperto. Richiuse lo sportello, facendo attenzione a non far scattare la serratura, e si allontanò a piccoli passi in direzione opposta alla strada.
Conosceva fin troppo bene quella zona. Le sarebbe bastato arrivare dall’altra parte dei campi coltivati che lambivano la statale, con lo scopo di evitare la strada sulla quale l’avrebbero potuta vedere. Doveva assolutamente raggiungere i viottoli di campagna che l’avrebbero portata comunque fino alla città e, una volta lì, alla stazione dei treni.
Certe sue amiche stavano appena fuori città. Le avrebbe raggiunte e loro l’avrebbero aiutata a rifarsi un nome e dei documenti nuovi. Una nuova vita finalmente, da cominciare lontano da lì, alla ricerca dei suoi angeli custodi, una ragazza e un prete.
Si voltò indietro, solo per un attimo, a guardare l’auto immobile tra gli alberi, un po’ pentita per aver approfittato di quell’uomo. Si perdonò giusto un attimo dopo, pensando che in fondo lui stava per fare altrettanto con lei.
La stessa vita che quell’uomo aveva perso, a lei l’avevano portata via tanti come lui, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
Ora, dopo aver sepolto Svetlana sul cassone di quel camion di frontiera, in quell’auto aveva sepolto anche Raissa.

E non voleva rivederla mai più.




Capitolo 10
di
Daniela Perego

Emma si svegliò, mentre svanivano le immagini del sogno: era sulla spiaggia, svenuta, tra le braccia di Federico che ancora teneva nella mano la lettera della bottiglia; il destino sotto forma di una mareggiata l’aveva spinta fino a lei che pensava di essere ormai al sicuro, anche dai ricordi.

La missiva che Giorgio aveva affidato al mare era sul comodino. Al suo fianco, nel letto, Federico profondamente addormentato. Dopo lo svenimento del giorno prima, l’aveva accompagnata a casa, si era offerto di preparare la cena, anche se Emma non aveva toccato cibo. Visibilmente scossa, gli aveva chiesto di non lasciarla sola quella notte. Pensava così di allontanare il pensiero da Giorgio, ne percepiva quasi la presenza fisica.
Fu a lui che pensò quella notte, mentre faceva l’amore con un altro uomo, per la prima volta nella sua vita... Si trattenne per non gridare il suo nome.

Alla sua sinistra, l’amore e il passato; a destra, una nuova strada da percorrere e un possibile futuro da costruire o, semplicemente, l’avventura di una notte.

Un altro bivio nella sua vita.

Si alzò facendo attenzione a non svegliarlo, prese la lettera e si accomodò sul divano in salotto; la portò alle labbra e la baciò, inspirando per cercare una traccia del profumo di Giorgio: muschio e sandalo. Come le piaceva sentirselo addosso quando tornava a casa, dopo le ore passate insieme! La carta stropicciata, invece, era inodore, se non per un vago sentore di muffa.
Un attacco di nostalgia la portò indietro nel tempo, ai giorni felici con la sua famiglia e ai progetti da realizzare con la persona amata. Una casa da arredare, i preparativi per le nozze con l’aiuto e la complicità di mamma e Lara – ormai rinata a nuova vita – mentre il padre, falegname in pensione, pensava già a preparare la culla per il primo nipote.

Tutto svanito nel nulla.

La vibrazione del cellulare, la riportò al presente; soprattutto quando lesse il numero e il nome che lampeggiavano: l’unica persona a sapere dove si trovasse, il suo numero e soprattutto la sua identità.
Un brutto presagio  fece tremare la mano mentre scorreva il dito sul display per rispondere:
“Ciao Emma, tutto bene?  Ho saputo che lì, ieri, si è scatenato l’inferno!”
“Ciao, sì, un nubifragio e una mareggiata da paura, il ristorante ha subito seri danni; io sto bene. Con l’aiuto di Carlo e Marina e un po’ di fortuna, riaprirò tra una settimana. Perché hai chiamato? Tutto okay a casa, vero? Non ci saranno problemi con Lara?!”
“Non ti chiamo per Lara, anche se in quello che sto per dirti lei c’entra eccome.”
“Mamma, papà?”
“Emma, tuo padre è ricoverato in gravi condizioni al Policlinico. è stato picchiato dai pusher di tua sorella che è sparita nel nulla lasciando debiti ovunque nel giro...”
“Parto subito. Devo vedere papà, stare vicino alla mamma e trovare Lara. Dimmi un posto sicuro dove ci possiamo incontrare!”
Cercò di mantenere calma e lucidità. Mentre parlava aveva già raggiunto il bagno e aperto l’acqua della doccia.
“Calma, Emma. Non puoi tornare. Lo sai bene. Non fare sciocchezze. Il pesce più grosso dell’organizzazione non è ancora caduto nella rete; sappiamo che si trova nei Balcani, ma non sei ancora al sicuro. Tuo padre è grave ma i medici sono ottimisti. Mantieni la calma e tutto si risolverà al meglio, ne sono certo”
“Non capisci. La mia decisione è irrevocabile. Torno adesso, che tu lo voglia o no. Quando sarà tutto finito penserai a come farmi sparire di nuovo.”
“No. Non se ne parla. Hai accettato le condizioni e non puoi riapparire e sparire a tuo piacimento. Non avrei neanche dovuto avvisarti. Patrizia non esiste più. Emma è figlia unica, orfana di padre e madre. Discorso chiuso. Non ti muovere da lì o non potrò più proteggerti. Ti chiamo stasera.”

Mentre le lacrime le appannavano gli occhi, si diresse nel ripostiglio, aprì la cassaforte estraendo un album rilegato in stoffa con un nome ricamato al centro: Patrizia.
Alle spalle, la voce di Federico che sussurrava il “buongiorno” baciandola delicatamente sul collo.



Capitolo 11
di 
Riccardo Simoncini

Giorgio, papà, Lara. Federico.
Sono stata una stupida. Che senso ha fare l’amore con lui, se ancora, dentro, ho il profumo di Giorgio?
Federico ha un debole per me, questo è chiaro, e io non dovrei assecondarlo.
Sono stata una stupida e sto confermando di esserlo. Papà è in ospedale e io sono ancora qui. Non mi avrebbe mai chiamata se non fosse stato grave. E’ gentile, ma so che quella telefonata rappresenterà il suo scarico di coscienza, se papà non dovesse farcela. “Io non potevo dirtelo espressamente, ma ho cercato di farti capire che tuo padre stava davvero, molto male…”
E Lara. Maledizione, Lara, avevi promesso!
E Giorgio. Non mi ha dimenticata e mi cerca ancora, adesso ne ho la conferma.
Perché quel messaggio in bottiglia non può essere uno scherzo del caso, una combinazione del destino assolutamente unica. Quel messaggio non ammette errori.
Ma non ha una data.
Potrebbe essere di qualche giorno fa così come dell’anno passato. Giorgio potrebbe avermi dimenticata. Spero l’abbia fatto, perché è ciò che merito. Ma Lara? Lei sta certamente vivendo ancora la sua maledetta storia d’amore col veleno.
E papà? Non c’è nulla che riguardi papà, in bottiglia....

Seduta sul bordo della vasca, chiusa in bagno, Emma districava i pensieri annodati, mentre Federico canticchiava in cucina preparando la colazione. Era contento. Si sentiva dal tono allegro delle canzoni e dal volume alto della voce.

Povero ragazzo. Se non fossi nelle condizioni in cui sono potrebbe rappresentare il mio presente e il mio futuro, ma…
Io non voglio vivere piena di “ma”!
Ma papà?
Sono scappata via da casa, ho abbandonato ogni affetto e ogni prospettiva per dei bastardi che piegavano persone alla loro volontà, e adesso dovrei abbandonare al loro destino mamma, papà e Lara?
Davvero ho esaurito la possibilità di poter combattere per le giuste cause? Sul serio dopo una sola occasione, alla fine vincono loro e io sono costretta a sparire per sempre?
Un anno.
Ma cosa ho fatto? Come ho potuto? Come ho potuto permettere che l’egoismo e la paura dettassero i nuovi ritmi della mia vita, decidendo per me?
Giorgio, papà, Lara.

Patrizia asciugò lacrime che aveva sempre associato a debolezza, tirò su col naso, tossì un paio di volte per schiarirsi la voce e compose un numero di telefono.
“Pronto, Marina? Sì, sono io, Emma. Sì, sto bene, grazie. E’ tutto a posto davvero, ma ho un grandissimo favore da chiedervi: tu e Carlo dovreste pensare al ristorante per qualche giorno. Occuparvi voi della sistemazione, insomma. La mia assenza non peserà particolarmente mentre il locale è ancora chiuso. No, non so quanti, ma vi informerò. Ma no, non è nulla di grave! Ho solo delle piccole cose da sbrigare a Cuneo e non so ancora quanto tempo mi porteranno via. Grazie, Marina. E’ bello sapere di poter contare su di voi. Sì, mi farò sentire io. Ciao.”

Bene. Inutile stare a pensare. Nel dubbio, ho messo in moto gli eventi. Ho spinto giù la biglia in equilibrio precario. Adesso farò ciò che sono sempre stata abituata a fare. Affronterò gli eventi, uno per uno. E il primo mi attende fuori dalla porta.

“Federico…”
“Dimmi, Emma! Vieni a tavola intanto, che i pancake sono pronti! ”
“Federico, sei molto gentile, ma io penso di aver fatto un errore, stanotte, con te.”
Senza dargli il tempo di interromperla, proseguì.
Dopo aver preso la sua decisione, Emma si sentiva di nuovo Patrizia. Una nave inaffondabile che cavalca ogni onda, senza mai indietreggiare davanti a nessuna tempesta.
“Ho ricevuto delle telefonate. Parto per Cuneo oggi stesso. Non so quanto starò via, ma devo andare.”
Federico, un cuore ferito di recente, ma che non si arrendeva facilmente, un po’ le donne le conosceva. Il fatto che Emma le piacesse, non annebbiava la sua percezione delle cose. 
Lui non era stato un errore, le si leggeva negli occhi chiaramente. E poi c’era altro, meno immediato da interpretare, ma forse era una richiesta d’aiuto.
Sorrise, si alzò da tavola, batté le mani e disse: “Va bene! Il fatto che la fame mi sia passata è poco male. Vado subito a preparare la valigia. Vengo con te.”




Capitolo 12
di
Veronica

Il paesaggio correva veloce fuori dal finestrino. Patrizia non perdeva un'immagine di quel viaggio che mai avrebbe pensato di fare se non molto più avanti negli anni, quando le acque si fossero calmate.
Finalmente rilassata sulla comoda poltrona del treno, pregustava il momento in cui avrebbe rivisto i suoi famigliari, e naturalmente lui, Giorgio. Fantasticava sugli incontri elaborando le diverse situazioni che si sarebbero potute verificare, e ogni tanto le sfuggiva un sorriso di compiacimento.
Più di una volta aveva sorpreso il tizio seduto di fronte a guardarla, probabilmente incuriosito dalle sue eloquenti espressioni.
Le era spiaciuto dare una delusione a Federico, ma non poteva certo confessare di avergli mentito né metterlo al corrente dei fatti, non lo conosceva ancora abbastanza per avere la certezza di potersi fidare. Con imbarazzo, gli aveva spiegato che sarebbe stata molto impegnata, che non avrebbe avuto tempo da dedicargli e le sarebbe spiaciuto lasciarlo solo per la maggior parte del tempo. Gli aveva promesso che sarebbe tornata nel giro di pochi giorni e avrebbero parlato, anche del loro rapporto.
Federico era rimasto male davanti al fermo rifiuto di lei, non capiva, ma alla fine si era arreso alla sua determinazione, l'aveva baciata e se n'era andato con quell'aria imbronciata che riusciva perfino ad accentuare la bellezza del suo volto.

Il treno stava entrando in stazione, prese la valigia dal portaoggetti e si avvicinò alle porte automatiche, mentre una voce annunciava l'arrivo a Torino.
Salì su un taxi e diede l'indirizzo dell'ospedale dov'era ricoverato suo padre, la sua prima tappa.
Una volta arrivata, si recò al reparto rianimazione dove fermò il primo camice bianco che le capitò davanti e gli chiese notizie sulle condizioni di suo padre. Il medico disse che era ancora grave ma stazionario e loro erano fiduciosi che presto sarebbe migliorato.
Indossò gli indumenti sterili per entrare nella stanza; alla vista di quel corpo inerte scoppiò in lacrime: era pieno di ecchimosi e lividi, con un braccio ingessato e la testa fasciata. Era tenuto in coma farmacologico, attaccato alla vita da cannule e respiratore automatico.
Non poté fare altro che carezzarlo e pregarlo di reagire, di farlo per lei, che aveva un disperato bisogno di rivedere il suo rassicurante sorriso. 
Una volta fuori, inspirò una generosa dose di aria e si apprestò a cercare un albergo dove trascorrere la notte, era troppo stanca per vedere chiunque.
Il mattino successivo si svegliò di buon'ora, regolò il conto e prese la metropolitana che l'avrebbe condotta a casa di Giorgio. Il cuore le martellava nel petto, mille domande le affollavano la mente.
Come l'avrebbe presa? E se ad aprire fosse stata una donna, ipotesi assai probabile, cosa le avrebbe detto?

Il sabato mattina Giorgio si concedeva qualche ora di sonno in più, per questo non le aveva ancora risposto nonostante avesse già suonato due volte. A un tratto, le sembrò di udire rumore di passi e le venne voglia di scappare, ma i piedi rimasero incollati al pavimento.
“Patrizia?” fu la sola reazione, seguita da un silenzio insopportabile.
Per qualche istante si guardarono storditi, incapaci di qualsiasi iniziativa.
“Ma si può sapere dove diavolo eri finita?” fu il grido di rabbia di Giorgio quando la sorpresa lasciò il posto al dolore.
“Se mi fai entrare proverò a spiegartelo.”
Una volta chiusa la porta, non ebbero più voglia di parlare. Avvinghiati l'uno all'altro, si scambiarono interminabili baci mentre i vestiti cadevano velocemente sul pavimento. Si toccavano, increduli e, a un tratto, lui si bloccò, le tirò indietro i capelli e si riempì gli occhi della sua immagine. Neppure si spostarono, fecero l'amore nell'ingresso, appoggiati alla parete. E dopo ancora, in camera da letto.

Poi Patrizia gli raccontò ogni cosa.
“Lara sta qui da me.”
“Lara? E ora dov'è?”
“Lavora anche il sabato, sarà a casa verso le due.”
“Ma sta per arrivare! Non voglio che mi veda, per adesso! Io vado, poi mi spiegherai, telefonami appena ti è possibile, questo è il numero.”
Corse via come una ladra, felice come non lo era da tempo, nonostante tutto.

Lo sparo lacerò l'aria, e poi la sua carne. Cadde a terra e, abbracciata all'asfalto, si rese conto di essere preparata a quanto stava accadendo. Qualcosa di caldo le bagnò il viso prima che si abbandonasse al torpore.    




Capitolo 13
di
Tania Mignani

Il turno era ormai finito, Lara si avviò verso lo spogliatoio per cambiarsi. Finalmente era sabato, sorridendo pensò al programma per la serata: sapeva che Giorgio sarebbe rimasto a casa quella sera, così aveva pensato di fargli una sorpresa e preparare la cena.  Non era una brava cuoca, ma aveva studiato alcune semplici ricette fin nei minimi dettagli, nel tragitto verso casa avrebbe acquistato alcuni ingredienti che le mancavano.

Giorgio. Il suo pensiero riempiva ogni istante delle sue giornate, un sentimento sconosciuto e nuovo, nel quale dominava la riconoscenza per quanto aveva fatto per lei in tutte quelle settimane. Pareva che l’uomo avesse, almeno momentaneamente, accantonato il dolore per la scomparsa di Patrizia, per dedicarsi solo a Lara. Durante i primi giorni di quella strana convivenza era scostante, quasi sgarbato, anzi, a volte si comportava come se lei non esistesse e la ignorava. Una sera Lara era stata molto male, sapeva che sarebbe successo, la forza dei primi giorni era stata solo un’illusione, aveva già vissuto quell’incubo in passato superandolo grazie all’aiuto di Patrizia. Quella sera si sentiva sola, abbandonata alla sua debolezza,  ma nel momento in cui stava per gettare la spugna, pronta per uscire e andare incontro a quello che ormai considerava il suo inevitabile e unico destino, aveva incontrato gli occhi di Giorgio. L’uomo non aveva detto una parola, si era limitato a guardarla. Nei suoi occhi Lara aveva riconosciuto la sconfitta, la sua debolezza e si era finalmente interrogata se ne sarebbe valsa la pena. Con quel poco di lucidità ancora in suo possesso, rivisse come tanti fotogrammi la sua vita negli ultimi mesi, lo squallore di letti sconosciuti, dove credeva di trovare, se non tenerezza, almeno comprensione. Le notti e i giorni trascorsi a uccidersi piano piano. Giorgio era rimasto in silenzio ma il suo sguardo pareva dire: “Se è questo che vuoi, se sei così inetta e debole, apri quella porta e vattene, altrimenti sai cosa devi fare”. Aveva deciso di resistere ed era rimasta. 

Era stata la notte peggiore della sua vita e alla fine l’aveva superata. Giorgio era stato al suo fianco ogni istante, presenza silenziosa e forte, nelle cui braccia si era abbandonata riversando tutto il dolore e la disperazione che provava. Il mattino successivo si era risvegliata debolissima ma con la consapevolezza di avere ormai superato il momento peggiore. Nello sguardo di Giorgio c’era una luce nuova, la disapprovazione che vi leggeva fino alla sera precedente aveva lasciato spazio a sentimenti più positivi nei quali si celavano stima e soddisfazione per la forza che aveva dimostrato di possedere. Lara era consapevole che il cammino sarebbe stato ancora lungo, altre crisi l’avrebbero assalita, ma ora Giorgio era al suo fianco e i suoi occhi la spronavano, mentre  le sue braccia la accoglievano.
Poche settimane più tardi, grazie ad alcune amicizie dell’uomo, aveva cominciato a lavorare in quell’albergo in centro, acquisendo sempre più sicurezza e fiducia in se stessa.
“Ciao Lara, anche tu hai già finito per oggi?”
“Ciao Svetlana, com’è andata oggi ai piani?”
“Bene, siete tutti così carini e disponibili che s’impara in fretta il lavoro.”
Lara osservò il viso della nuova collega, la cicatrice che le attraversava la parte destra ne rilevava l’algida bellezza, qualche giorno prima Svetlana le aveva raccontato di essere stata vittima di un incidente automobilistico in Russia.
“Ho appuntamento con alcune amiche in centro, ti va di unirti a noi, Lara?”
“Grazie Svetlana, ma ho già un impegno per stasera, magari un’altra volta.”
“Un impegno galante?”
“Chissà, forse…”
“Buona fortuna allora…”
“Grazie, a lunedì”

Lara era appena scesa dall’autobus e stava ripassando mentalmente alcuni passaggi della ricetta quando qualcosa attirò la sua attenzione: in fondo alla strada, a pochi metri dal palazzo di Giorgio, un gruppo di persone stava osservando alcuni paramedici intenti a caricare una barella sull’ambulanza che ripartì immediatamente a sirene spiegate. Nell’istante in cui si affrettò per raggiungere, preoccupata, il luogo dell’incidente, si sentì afferrare con forza alle spalle. Una voce sconosciuta le sussurrò minacciosa di fingere di abbracciarlo e seguirlo. Nella schiena sentiva puntata la canna di una pistola. Lui la trascinò verso un’auto parcheggiata a pochi metri. La fece salire e ripartì velocemente nella direzione opposta.




Capitolo 14
di
Maria Rita Sanna

Federico aveva deciso: avrebbe raggiunto Emma a Cuneo.
Gli atteggiamenti ambigui di lei e le poche spiegazioni non lo avevano scoraggiato, anzi, gli avevano iniettato una buona dose di adrenalina. Non poteva lasciare quella ragazza da sola, l'avrebbe aiutata a qualunque costo. Stranamente, dopo la partenza, Emma non aveva risposto nemmeno una volta alle sue chiamate; tanto meglio, le avrebbe fatto una sorpresa.
Alle quattro del mattino le strade erano deserte e, se tutto fosse andato bene, sarebbe arrivato a Torino per l'ora di pranzo. L'amico Marco lo aspettava alla stazione Porta Nuova, dove avevano appuntamento; Federico aveva mantenuto buoni rapporti di amicizia con i suoi ex colleghi e dopo la visita in Piemonte, sarebbero scesi tutti insieme a Gaeta per la sospirata vacanza.
I due amici si salutarono affettuosamente, scambiandosi battute scherzose. Marco lasciò la sua auto nel parcheggio e salì su quella di Federico.
“Dunque, Federico, ho pianificato tutto. Passiamo a prendere Giorgio, dopo, passiamo da Flavio; il ristorante è prenotato per quattro, quello solito, come ai vecchi tempi.”
“Già, ricordo bene le nostre serate. Ma dimmi, Giorgio è sempre depresso?”
“Mah! È a fasi alterne, però ultimamente lo vedo sereno, anche nel lavoro è meno distratto. La vacanza che faremo insieme sarà un toccasana per lui. Ecco siamo quasi arrivati... Attento!”
Federico fece giusto in tempo a salire sul marciapiede per evitare il Suv che procedeva veloce contromano, proprio incontro a loro.
“Maledetto! Tranquillo, Fede, ho preso il numero di targa e il modello; ora lo segnalo alla polizia. Per fortuna il marciapiede era deserto!”
“Marco! La Polizia è laggiù, in fondo alla strada, e qui è tutto bloccato... Ma che succede?”
I ragazzi scesero dall'auto, corsero verso il capannello di curiosi, tenuti faticosamente alla larga da vigili e poliziotti; l'ambulanza partì a sirene spiegate. Marco riconobbe l'amico Giorgio, col viso sconvolto dal pianto; lo abbracciò chiedendogli cosa mai fosse successo.
“Vedi, Marco, avevo appena ritrovato la mia ragazza e un pazzo assetato di vendetta me l'ha portata via. Non mi hanno voluto nell'ambulanza, ti prego accompagnami all'ospedale.”
Era distrutto dal dolore mentre, commosso, faceva vedere ai due amici l'ultimo selfie che aveva scattato poche ore prima.
“Ero così contento di fare la vacanza da te, Federico! E volevo portare anche lei. Ecco, vedi, lei è Patrizia.”
“Emma!” Esclamò stupito Federico.
“Emma?!”  Disse Giorgio.
“Patrizia?!” Si sovrappose Federico.





Capitolo 15
di
Michele Fierro

«Agli ordini, commissario. La attendiamo in loco.»
Chiuse la comunicazione radio con il sovrintendente Di Stefano e parcheggiò l’auto di servizio davanti all’ingresso dell’albergo.
Il commissario Melis aveva ascoltato la voce gracchiante del piantone della centrale operativa, pochi minuti prima, e aveva così saputo che c’era stato uno scontro a fuoco nel quale era stata ferita gravemente una donna.
Aveva deciso che avrebbe raggiunto i suoi uomini dopo aver provato a raccogliere informazioni per l’indagine sul pestaggio che aveva subito il padre di Patrizia. Aveva scoperto che sua sorella Lara aveva trovato impiego in quell’albergo e sperava di poter ricavare qualche indizio prezioso che potesse illuminare il buio pesto nel quale stava vagando.
Soltanto dopo avrebbe raggiunto le pattuglie che aveva mandato sul luogo del ferimento di quella donna. Dopotutto era un tentativo, il suo, nel quale non riponeva grandi speranze ed era certo che ci avrebbe impiegato solo pochi minuti.
Scese dall’auto e attraversò l’ingresso dell’hotel. Si avvicinò al banco della reception infilando contemporaneamente la mano nella tasca interna della giacca, per estrarre il distintivo della Polizia.
Stava per aprire bocca e presentarsi, quando il suo occhio allenato colse un lampo dalla vista periferica che non poteva sfuggirgli. Quella cicatrice l’avrebbe riconosciuta in mezzo a mille altri volti e quello sguardo spento, quel disincanto per la vita, non lo avrebbe mai dimenticato.
Svetlana capì che l’uomo l’aveva riconosciuta e cominciò a maledire la mala sorte e il destino che le stavano giocando l’ennesimo brutto scherzo. Aveva dovuto aspettare che tutte le sue colleghe andassero via, prima di uscire da lì, per non essere vista mentre recuperava i suoi soldi che teneva nascosti al sicuro nell’armadietto dello spogliatoio.
La ragazza distolse lo sguardo e voltò il capo dritto davanti a sé, cercando di non dare nell’occhio, ma la sua tattica disperata non funzionò.
Il commissario ricacciò in fretta il distintivo nella giacca e, farfugliando poche indefinibili parole di scuse al portiere, tornò a grandi passi verso la porta di ingresso che la donna aveva appena superato.
Appena fuori in strada, vide la ragazza già parecchio distante che, quasi correndo, cercava di seminarlo. Non fu difficile per lui raggiungerla e, quando fu a portata di braccio, la afferrò per una spalla e la costrinse a fermarsi.
«Dove credi di andare?»
«Il più lontano possibile da te e da tutti voi.” Ripose Svetlana, restando con gli occhi puntati a terra.
«Proprio come un anno fa. Non cambierai mai, vero?”
La donna ricordò la casa di recupero in cui l’avevano tenuta al sicuro, dopo la retata che le aveva fruttato la cicatrice che portava sul viso. In quel posto l’avevano protetta per il tempo che le era stato necessario a guarire.
Ma gli sguardi delle altre ragazze, le loro storie tristi e le speranze che morivano, giorno dopo giorno, rimanendo nascoste come topi nella fogna, dopo un po’ erano diventate insopportabili. Fuggì da quel posto per poi ricascare tra le braccia dei suoi aguzzini, così come stava fuggendo anche quello stesso giorno.
Fuggire, sempre fuggire, in continuazione fuggire. Era stanca di tutta quella storia.
«Sei venuto per parlare con Lara, vero?»
«Non proprio. Volevo sapere se c’erano stati strani movimenti negli ultimi giorni, qui in albergo. Non credevo di incontrarti qui.»
«Ci lavoro solo da pochi giorni. Comunque io non ho visto nessuno, se proprio vuoi saperlo.»
Melis guardò la ragazza, indeciso se crederle o meno. C’era qualcosa nei suoi occhi che sembrava voler emergere dalla solita luce piatta che ricordava.
Svetlana era indecisa. Continuare a tenere gli occhi bassi e provare a riprendere il suo cammino nell’ombra, strisciando lungo i muri, o liberarsi del peso che si trascinava da sempre e provare a fidarsi di qualcuno. Sentiva che la seconda ipotesi era l’unica strada possibile, ormai. Quell’ultimo anno le aveva insegnato che da certi fantasmi non ci si libera e non ci sarebbe stato alcun posto al mondo nel quale sarebbe riuscita a sentirsi davvero sicura.
Alzò il capo e guardò l’uomo dritto negli occhi. Si accorse soltanto in quel momento di quanto fosse giovane. Forse anche bello, ma quella era una parola della quale aveva smarrito il significato da troppo tempo. Aprì la bocca per parlare e, mentre lo faceva, le sembrò quasi che non fosse la sua voce, quella che stava ascoltando.
«Io so che “lui” è qui a Torino.»
Non aggiunse altro, ma al commissario non servivano altre parole. Aveva già capito, o almeno era quello di cui era convinto, finché la donna non continuò.
«Avevo già deciso di andare via di qui, mi sono fermata a raccogliere le mie cose. Questo posto è diventato pericoloso per me dopo che hanno riempito di botte il padre di Patrizia.»
Melis ci mise un po’ a capire che l’uomo di cui stava parlando Svetlana, il suo vecchio aguzzino che l’aveva messa a lavorare in strada, forse aveva anche a che fare con la droga e i guai in cui si era cacciata Lara.
«Cosa sai del padre di Patrizia?»
«Quello che mi basta per non rischiare di finire all’obitorio. Ho conosciuto Lara in albergo e mi ha parlato di una sorella scomparsa un anno fa e di quello che hanno fatto a suo padre. Io ho fatto solo uno più uno.»
Gli occhi della donna ritornarono spietati e cinici mentre pronunciava quelle parole.
«Alcune mie amiche mi hanno avvisato di quello che “lui” ha fatto fare a quel vecchio e lo hanno sentito parlare di questo albergo. Lo conosco, prima o poi verrà a cercare Lara.»
«Quindi non è mai stato qui.»
«Qui no, per ora. Ma è in città e ha trovato Patrizia, anche lei è qui. Le mie amiche mi hanno avvisata che è andato a cercarla per “farla fuori”.»
Il commissario ebbe un brivido mentre pensava alla donna a cui avevano sparato pochi minuti prima, ma pensò che non poteva essere. Patrizia era lontana chilometri da lì.
«E tu dove pensavi di andare?»
«Non lo so ancora. Ovunque, pur che sia dalla parte opposta del mondo rispetto a dove sta “lui”.»
«Già, come se fosse facile sapere dove si trovi.»
«Poliziotto, forse sarà difficile per te, ma non per me. Io so dov’è.»
Melis sbiancò in viso nel sentire le parole della ragazza. Quella donna era preziosa come acqua nel deserto. Era deciso a non lasciarsela più scappare, a non lasciar scappare le informazioni che aveva e a non perdere quella bella luce che cercava di liberarsi dai suoi occhi.
Le prese la mano dolcemente e lei si lasciò trascinare fino alla sua auto.
L’uomo doveva scoprire un bel po’ di cose ed era deciso a farlo insieme a quella donna.





Capitolo 16
di
Daniela Perego

Quanto tempo era passato? Un’ora, un giorno o una settimana; non ne aveva idea. Il tempo si era fermato nell’attimo in cui qualcosa le era arrivato dritto addosso, esplodendole dentro; il fuoco e il dolore, poi il nulla. Solo il buio.
Non sapeva se fosse viva o stesse vivendo un’esperienza extra corporea. Poteva pensare ma non vedere. Sapeva di persone che, in coma o in pericolo di vita, vedevano i loro corpi e la scena in cui tutto si svolgeva: per lei non era così. Pensava e ricordava ogni istante, ma attorno c'era solo nero. Immaginò di essere vicina alla fine.
Le sembrò di sentire ancora i baci di Giorgio e le sue carezze, i loro corpi uniti nell’amore ritrovato. Come ultimo ricordo della sua vita terrena non poteva sperare in niente di meglio.
Immaginava il Commissario Melis, incazzato nero per avergli disubbidito, ma anche triste per le conseguenze della sua impulsività. Già, lei non pensava: agiva! Come nel voler aiutare quelle povere ragazze, a tutti i costi, mettendo in pericolo la sua vita e quella delle persone a lei vicino.
Non bastava Lara con i suoi problemi di personalità fragile che l’avevano spinta a drogarsi... Sua sorella si era annullata, venduta, era arrivata a tradire la sua famiglia per un pizzico di quella polvere magica che la stava uccidendo. Con tanta pazienza e determinazione l’aveva aiutata, riportandola a nuova vita. Iniezioni di fiducia, stima e tanto amore per non vedere crollare il fragile mondo di Lara; i genitori felici di questa “guarigione” avevano sperato in  un futuro sereno per la famiglia. 

Invece, testarda come sempre, aiutata da Don Luigi, si era fatta prendere da una nuova sfida molto più grande di lei. Aveva salvato le ragazze e assicurato alla giustizia i malfattori, ma all’inferno c’era finita lei. Privata del suo passato e del futuro. Addio alla famiglia e all’amore. E tutto questo non era servito a salvarla dall’ira dell’unica persona ancora latitante.
Il male aveva vinto. Lei aveva perso. Forse anche la vita.
Era colpa sua se la sorella era ricaduta nel baratro della droga. Non sapeva spiegare la sensazione d’angoscia che provava in quel momento, sentiva che la sorella era in pericolo e lei, ancora una volta, non c’era. Sì, l’aveva abbandonata. E sempre per colpa sua il padre giaceva in un letto d’ospedale in gravi condizioni. Se non fosse andata via, Lara si sarebbe  laureata e papà non sarebbe stato male.
Ah Patrizia, volevi solo fare del bene invece, hai causato tanto male…

Ma lei era anche Emma. 
Come tale si era sempre sentita molto sola. Si era reinventata una vita e un passato studiato a memoria durante il viaggio dal Piemonte a Gaeta. Gli unici amici: Carlo e Marina. Simpatici e molto disponibili nei suoi confronti, la invitavano spesso a uscire insieme, ma a lei non piaceva fare il terzo incomodo, quindi il più delle volte rifiutava con qualche scusa.
Un giorno si era presentato a cena un bel ragazzo di nome Federico che, piano piano, aveva conquistato la sua amicizia; con lui aveva passato delle belle serate sulla spiaggia, dopo il lavoro.
Rivide la tempesta con la mareggiata che si portò via buona parte del locale. Federico, insieme a Carlo e Marina, l’aveva aiutata a pulire e risistemare il tutto e,  proprio tra i detriti portati dal mare,  avevano trovato la bottiglia con la lettera di Giorgio.
Quella sera, Emma si era abbandonata a Federico. Non se lo sarebbe mai perdonata. Non come Emma ma, soprattutto, come Patrizia.

Amava Giorgio. Un amore così forte che accompagnava i suoi respiri e scorreva come linfa nelle sue vene. Era stato la sua vita sin dal primo incontro e se non fosse stata così testarda ora sarebbe felicemente al suo fianco. Le sembrava quasi di sentire la sua voce che la chiamava da molto lontano…
“Patrizia, amore mio, mi senti?”

Le sembrò di sentire voci sconosciute, in lontananza. Mentre qualcosa le punse il braccio e un liquido freddo le procurò un brivido.




Capitolo 17
di
Francesco Lisa

Federico si ritrovava nella condizione di uomo perduto, viveva lo stesso dolore che aveva provato la sera che Marta gli aveva fatto trovare le valigie pronte appoggiate al portone di casa.
Dal racconto dell’amico Giorgio era riuscito a capire la complicata evoluzione degli ultimi anni della vita di Patrizia. Una realtà che gli veniva difficile accettare, proprio ora che in quella ragazza aveva trovato un’amicizia così forte e vicina da tirarlo fuori dal buio in cui era piombato.
Ripensò a quella sera, quando avevano fatto l’amore... Non si era mai pentito, forse si era illuso di poter ricominciare da Emma per riuscire a dimenticare Marta. Ma l’amore per quella donna aveva lasciato un’impronta indelebile nel suo cuore, nemmeno nei momenti più felici con Emma era riuscito a dimenticarla del tutto. Marta era rimasta in lui, si era allontanata fisicamente, non si vedevano più da quasi tre mesi, ma i loro cuori, quelli non si sarebbero mai stancati di cercarsi.
Rannicchiato sul pavimento del bagno dell’appartamento di Giorgio, Federico versava lacrime amare e si interrogava su cosa ne sarebbe stato del suo futuro. Capiva le motivazioni che avevano spinto Patrizia a comportarsi come aveva fatto, non le portava rancore e ora che era stata dimessa dall’ospedale, era contento di vederla felice tra le braccia di Giorgio. In fondo, aveva cercato solo di proteggere i suoi cari, lo aveva fatto a modo suo, rischiando di perdere la vita per una lotta che avrebbe smesso di combattere solo quando si fosse conclusa definitivamente. Nonostante il perdono nei confronti di quella ragazza che aveva rappresentato una mera illusione, Federico si sentiva sprofondare nello sconforto più totale, non vedeva alcuna compagnia nel suo futuro se non quella della solitudine.
«Federico, tutto bene? Il telefono squilla insistentemente, penso che sia qualcosa di importante!» disse Giorgio bussando alla porta.
Federico pensò subito ai genitori, si ricompose in fretta e uscì dal bagno per afferrare il cellulare. Tirò un sospiro di sollievo quando vide sul display un numero che non aveva in rubrica.
«Pronto?» rispose spostandosi verso la vetrata del salone.
Ascoltava le parole dell’interlocutore senza riuscire a rispondere, si avvicinò al divano sul quale si lasciò sprofondare mentre le lacrime solcavano le sue guance. Giorgio e Patrizia lo osservavano con apprensione. Alla fine riuscì soltanto a dire: «Ti raggiungo stasera.»  Il suo viso si illuminò di una luce che abbagliò  il buio in cui era piombato.
«Allora? Chi era? Cos’è successo?» gli chiese Patrizia accarezzandogli il viso.
«Marta» pronunciò quel nome con la voce strozzata dall’emozione «è incinta di quattro mesi e mi ha chiesto di tornare a vivere con lei per accogliere il nostro bambino. Marta mi ama ancora e mi renderà padre.»

Mentre i due amici lo abbracciavano, Federico capì che l’amore lo aveva salvato  ancora una volta.



Capitolo 18
di
Riccardo Simoncini

Il commissario Melis ingranò la prima, la seconda e la terza marcia in rapida successione, per poi passare alla quarta e infine alla quinta in morbida sequenza, assestando il ritmo dell’auto a una rilassante velocità di crociera. Per la prima volta da diversi giorni non aveva fretta. Per la prima volta dopo molto tempo non era alla guida di un auto di servizio.
Spense la radio, fonte di distrazione e si dedicò a riordinare mentalmente la serie di fatti che lo avevano portato fino a quel punto, oggi, verso la sua insolita destinazione.
Svetlana era appena salita in auto quando la centrale lo aveva informato del precipitare degli eventi. I suoi timori si erano rivelati fondati: la donna a cui qualcuno aveva sparato era, inspiegabilmente, Patrizia. La sorella, Lara, era stata presa a forza, probabilmente dallo stesso autore del colpo di pistola e del pestaggio del padre. Quello stronzo era tornato all’opera, e sembrava che tutti i suoi obiettivi avessero deciso di radunarsi nello stesso punto per facilitargli l’impresa. Ancora adesso un brivido gelido gli percorse la schiena ripensando al caso che aveva messo Lara e Svetlana a lavorare nello stesso albergo. Ancora una volta ringraziò colui che muove le pedine dall’alto, per averlo fatto trovare al momento giusto nel posto giusto, fuori da quell’albergo, probabilmente a salvare inconsapevolmente la vita della donna ucraina.
Una volta ascoltate le novità trasmesse dalla radio, Svetlana aveva perso ogni reticenza, e aveva scaricato tutte le informazioni in suo possesso sull’unico soggetto ancora accanito, ancora pericoloso, probabilmente pazzo, di tutta quella torbida vicenda risalente ormai all’anno precedente. Il fatto che fosse stato isolato ed emarginato dal giro dei malavitosi perché ritenuto instabile e inaffidabile, spiegava come avesse fatto a rimanere inosservato alle forze dell’ordine, nell’ombra per così tanto tempo.
L’operazione era stata organizzata, perfetta e tempestiva, con efficienza della quale Melis si compiaceva e per la quale ringraziava la donna, che a conclusione delle operazioni – con Lara in salvo e il bastardo con un colpo di pistola piantato in petto – era crollata in un pianto isterico tra le sue braccia.
Ripensando a tutte le vicissitudini passate e presenti della ragazza, Melis non si stupiva della sua ferrea volontà di voler fuggire il più lontano possibile, non si meravigliava dell’espressione ostile che il suo volto assumeva ogni qualvolta si posasse su qualsiasi soggetto di sesso maschile, non si sorprendeva della stanchezza che trovava concretezza nel tratto oltraggioso di quella cicatrice sui lineamenti perfetti.
Quello che lo colpiva, invece, era stata la propria reazione.
Melis aveva dato piena disponibilità e appoggio anche ufficiale all’espatrio immediato di Svetlana, gestendo personalmente ogni pratica burocratica e logistica, e ottenendo anche l’utilizzo di modesti fondi per la realizzazione dei progetti della donna.
E poi le aveva chiesto di uscire. Di incontrarsi, di vedersi, di poter avere l’occasione di parlarle davanti a un bicchiere di vino e senza indossare una veste ufficiale, per sentirla raccontare di sé e non di indagini.
Non si aspettava un incontro galante, non si aspettava di poter guadagnare la fiducia di quella donna o farle recuperare da solo una luce che si era spenta dentro lei da troppo tempo. In realtà non sapeva cosa si aspettasse e non aveva neppure studiato adeguatamente ciò che lo avesse spinto a quella proposta. Troppo timido, Melis, per parlare d’amore, anche con se stesso. Troppo realista per aspettarsi un finale romantico inserito come un fiocchetto alla storia della donna che lo stava aspettando.
Ma era concreto, Melis. E aveva espresso questa sua improvvisa esigenza senza interrogarsi e senza fornire spiegazioni.
E Svetlana aveva accettato…



Capitolo 19
di 
Veronica

Lara era pronta per uscire, aveva un appuntamento alle quindici col tipo dell'agenzia immobiliare.
Aveva indossato un paio di jeans e una maglietta, ma sarebbe uscita anche come stava, una tuta scolorita e deformata per l'uso all'altezza delle ginocchia, tanto le importava cercare una nuova sistemazione.
Ma doveva andarsene, non poteva certo restare a casa di Giorgio a fare da terzo incomodo, ora che Patrizia era di nuovo insieme a lui.
Di tornare coi genitori non se ne parlava proprio, ormai aveva assaporato il gusto dell'indipendenza e non sarebbe più riuscita a sopportare i commenti e le critiche pesanti che spesso le muovevano. Viva la libertà! Almeno quella.
Aveva perso Giorgio. Chissà cosa si era messa in testa: non era amore, non era affetto, solo pietà.
Lei invece si era innamorata, si era persa seguendo un'illusione. Giorgio amava Patrizia, non c'era alcun dubbio; mai aveva rivolto a lei quegli sguardi, forse neppure la considerava come donna, era solo la sorella di Patrizia.
Stava malissimo quando li vedeva assieme, quando si abbracciavano o si scambiavano baci e carezze, incuranti di lei, quasi facesse parte dell'arredo.
“Smettetela! Non vedete che sto male? Perché dovete sempre stare appiccicati a quel modo?” pensava ogni volta, mentre cercava una scusa per uscire dalla stanza, da quella casa che l'aveva accolta e che ora la faceva soffocare. Punto e a capo.
Meglio il veleno, quello è sempre a portata di mano, lo compri ed è a tua disposizione, quando e come ti pare.
Uscì in strada e si incamminò verso l'agenzia, non era distante, sarebbe arrivata in dieci minuti.
Le vetrine dei negozi riflettevano la sua immagine, la guardava compiaciuta senza fermarsi, un gioco nuovo per lei che fino a qualche mese prima si detestava. Aveva preso qualche chilo e i capelli, una volta opachi e spenti, le scendevano morbidi sulle spalle; sexy nonostante il suo abbigliamento casual. Non sarebbe durata, presto sarebbe tornata quella di sempre, abbruttita dalla droga, incapace di combattere sul ring per la vita.
Il ragazzo dell'immobiliare la salutò con un largo sorriso e la invitò a salire sulla sua auto, avrebbero raggiunto la via dove era ubicato l'appartamento di due locali che aveva visto sulla locandina, l'unico che si poteva permettere.
Durante il tragitto Giancarlo, questo era il suo nome, portò avanti una conversazione brillante, infiorata di battute spiritose, ma Lara non era nella condizione di apprezzarle e desiderò che visita e trattative si risolvessero in fretta. Inoltre la infastidiva il suo modo di fissarla, sembrava scavarle dentro alla ricerca di verità inconfessabili.
Era così trasparente? Lui riusciva a vedere la sua fragilità, le sue colpe, i suoi desideri? E lei se la sentiva di appoggiarsi a un uomo nuovo, non altri che l'ultimo di una lunga serie?
Visionato l'appartamento, stavano tornando in agenzia per la firma del contratto.
Lui non mollava, la stava invitando a cena, le stava chiedendo che tipo di cucina preferisse.
Lara, deciditi, ci vuoi uscire o no?
Giancarlo parcheggiò, scese velocemente e la raggiunse, chiudendo la portiera. Erano vicini.
“Non mi hai ancora detto cos'hai intenzione di fare.”
“Mi piace il messicano.”
Per tutta risposta, preso dall'entusiasmo le diede un bacio e Lara lo assecondò, un po' stordita dall'incalzare degli eventi.
A un tratto, la netta sensazione di essere osservata, si girò e trasalì, sentendosi in colpa come fosse stata sorpresa a rubare. La voce le morì in gola mentre pronunciava il suo nome: Giorgio!
L'espressione di lui non lasciava spazio a dubbi...



Capitolo 20
di
Tania Mignani

Patrizia chiuse la valigia e si avvicinò alla finestra. Un’altra partenza, ormai non le sembrava di fare altro. Ripensò con un brivido agli ultimi avvenimenti. Il suo ferimento, il rapimento di Lara, ogni cosa si era fortunatamente risolta nel modo migliore. Tutti i componenti della banda erano stati arrestati, ora era libera finalmente. Libera di scegliere tra restare o andarsene, ma, soprattutto, libera di non nascondersi. 
E libera di amare? Ripensò a Giorgio e sorrise con tenerezza, perché era quello il sentimento predominante: tenerezza, affetto ma, l’amore? Avrebbe potuto accontentarsi, farselo bastare forse, vivere finalmente quella tranquillità che da tanto aspettava, ma aveva sentito la morte al suo fianco, se l’era trovata davanti, faccia a faccia, come avrebbe potuto semplicemente accontentarsi? No, non dopo aver provato sulla sua pelle quanto può essere labile e precaria questa vita, talmente breve da meritarsi di vivere appieno ogni singolo istante. Era stata felice di ritrovare Giorgio, i gesti, le abitudini, le parole che tanto le erano mancate durante quell’anno di lontananza, poi aveva capito: non era più amore. Un tempo forse, ora non più. 
Il vero amore era il senso di smarrimento e gli occhi abbassati di Lara quando si ritrovavano loro tre insieme. Il vero amore erano i silenzi di Giorgio, il suo sguardo alla finestra, il suo malcelato sollievo quando sentiva Lara rientrare. Patrizia aveva capito ciò che Giorgio non riconosceva ancora e quando Lara li aveva informati che se ne sarebbe andata, che stava cercando un appartamento in cui trasferirsi, il turbamento di Giorgio era talmente evidente che nessuno dei due era riuscito a ignorarlo.
Patrizia aveva parlato con sincerità: “Non siamo più gli stessi di prima, Giorgio, questo è evidente. Tutto ciò che è successo ci ha cambiati, dobbiamo riconoscerlo. È stato bello ritrovarti, riabbracciarti, e ci ho provato, Giorgio. Dio solo sa quanto ci ho provato: gettarmi tutto alle spalle e provare a ricominciare. Ma ho capito che noi non ci amiamo più, e, forse non ci siamo mai amati veramente. Ci conosciamo da tanti anni e tutto quello che è successo forse ha ingigantito i nostri sentimenti, è stato come osservare qualcosa sotto una lente di ingrandimento, una volta tolta puoi vedere sola la realtà.”
Giorgio aveva cercato di negare le parole di Patrizia, quasi a voler più convincere sé stesso, poi si era avvicinato alla finestra ed era rimasto in silenzio. Lei si era avvicinata e abbracciandolo le aveva sussurrato: “Vai ora, cercala e riportala a casa”.
Ora Patrizia era pronta, come quella valigia ormai chiusa. Pronta a ricominciare. Sapeva che doveva andarsene e questa volta non era una fuga, non si sarebbe più nascosta né da chi voleva farle del male né da sé stessa. Dove? Ancora non lo sapeva e non si sentiva smarrita per questo, al contrario, si sentiva libera finalmente.
Un ultimo sguardo a quella camera, alla casa, quasi a voler prendere commiato dalla sua vecchia vita, con gli occhi lucidi di lacrime ma il volto incorniciato da un sorriso.
Si richiuse la porta alle spalle.

“Sono pronta, andiamo!”.



Capitolo 21
di
Maria Rita Sanna

 L'uomo aspettava nervosamente sul marciapiede senza darsi pace; ancora una volta quella donna gli sfuggiva. Solo il giorno prima lo avevano informato che la giovane voleva partire, ma nessuno sapeva per dove. 
“Tranquilla, ragazza, non mi scapperai facilmente!”

Patrizia, nell'aria frizzante di quella mattina, si caricò di energia positiva e con determinazione si diresse verso l'agenzia di viaggi, a pochi isolati da lì, ma l'uomo alle sue spalle la raggiunse prendendola per un braccio, quasi strattonandola.
“Dove credi di andare... Patrizia!”
“Santo cielo, commissario Melis! Mi ha fatto prendere un colpo! È vero che in passato mi ha salvato la vita, ma ora è mancato poco perché la perdessi.”
I due, che da tempo non si vedevano, si abbracciarono amichevolmente, scambiandosi le notizie sulle loro vite. Tra loro era rimasta una profonda amicizia.
“Patrizia, so io dove mandarti, in Sardegna, a Costa Rei! Stai tranquilla, cara, nell'agriturismo gestito dalla mia famiglia, farai una vita da regina e mia sorella si occuperà di tutto. Per questa volta lascia che sia qualcuno a prendersi cura di te.”

Patrizia, in quella terra, iniziò una nuova vita, con la primavera che avanzava facendo sfoggio di sé tra ginestre e rosmarino, corbezzolo e lentisco; su tutto dominava il mare. La ragazza si rigenerava ogni giorno, guardando il sole nascere da quell'acqua turchese, quello stesso sole che per un anno intero lo aveva visto morire, quando si trovava nascosta a Gaeta.
Che contraddizione, la vita! Nei momenti in cui ero più vulnerabile e prigioniera, ho avuto la libertà di amare Federico e ritornare tra le braccia di Giorgio. Ora sono libera di muovermi con la mia identità, ma ho il cuore prigioniero della malinconia e non c'è più spazio per l'amore.

Da poco più di un mese questi pensieri l'accompagnavano spesso durante i suoi lavori nell'agriturismo, ma non quel giorno. Era atteso, poi, un giovane chef professionista per la stagione turistica che avanzava, e tutto doveva essere in ordine. Patrizia era ben felice di imparare nuove cose da una figura competente, e mentre diceva questo a una sua collega, improvvisamente si spalancò la porta della cucina. Antonio, lo chef, guardò le persone con occhi severi, imponendo subito la sua superiorità e dando ordini per la predisposizione della cucina. Iniziamo bene, pensò la ragazza, ma certo non cadrò ai suoi piedi.

Patrizia cadde, invece, sulle sue mani: forti, grandi, nodose. Antonio le muoveva con delicatezza tra quei cibi, trasformandoli in prelibati piatti colorati. Gli occhi di lui, seri e scuri, non lasciavano spazio a distrazioni; al contrario, la sua  mandibola, che formava una perfetta elle, e le labbra, gli donavano una certa simpatia. Dopo una settimana Patrizia aveva appreso alcuni segreti per cucinare ottimamente, ma aveva perso ogni controllo sulla ragione. E il cuore? Batteva forte davanti a lui. Ormai aveva le idee più chiare, si stava innamorando di quell'uomo che conosceva a malapena. In lui vedeva una barriera che aveva ben provato sulla sua pelle tempo prima.

Nella cucina, deserta a quell'ora di mattina, Patrizia cercò freneticamente una tisana per calmare i conati di vomito; sobbalzò dallo spavento quando sulla porta comparve Antonio.  La ragazza non fece in tempo a parlare, ebbe un forte capogiro e cadde a terra priva di sensi.
Antonio la svegliò dolcemente, regalandole per la prima volta un largo sorriso, ma Patrizia di nuovo in sé fu cosciente delle sue condizioni fisiche, e quel ritardo non dava spazio a dubbi: era incinta. 
Il suo nome scaturì da un tempo che sembrava lontano. Giorgio.
   
Tempo lontano
Natura selvaggia
Ridona vita





The end