Seduti allo stesso tavolo

Seduti allo stesso tavolo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle, sul mondo dell'editoria.

sabato 24 maggio 2025

Numero 473 - Masterbook seconda edizione, leggiamo il racconto-medaglia d'argento - 24 maggio 2025


Ieri ho postato il racconto vincitore del Masterbook: 

https://st62co.blogspot.com/2025/05/numero-472-il-racconto-vincitore-della.html

Oggi potrete leggere il racconto secondo classificato, quello scritto da Valentina Ciocca, che ha fatto un percorso, prova dopo prova, senza perdere un colpo. 



Valentina Ciocca e il suo racconto: brava!



VITTORIA SEGRETA


Capitolo uno


ANNA

I pensieri corrono più veloci del treno, mentre dal finestrino osservo la valle assopita nel candido abbraccio dell’inverno.
Ho rimandato fino all’ultimo questo viaggio, ma alla fine ho ceduto. Dopotutto, rivedrò Olga, mia madre. Non riesco a pensare a lei senza provare dolore e risentimento. Non la odio per qualcosa che mi ha fatto, ma per quello che non ha fatto. La sua indifferenza però mi ha resa quella che sono.
Per otto anni ho evitato di pensare alla mia vecchia vita; mi sono sforzata di recidere ogni legame con il passato e ora gli sto correndo incontro a cento chilometri all’ora.
Mi lascio cullare dal dondolio del treno che mi trascina in un leggero dormiveglia. In un attimo sono di nuovo preda dei demoni che pensavo di aver sepolto con la morte di Franco. Franco, quel padre che ha piegato mia madre, rendendola un guscio vuoto, insensibile alla sofferenza e all’amore.
Una piccola macchia di colore emerge nel bianco accecante. Un cappottino rosso cerca di nascondersi da un’ombra che lo insegue. Vorrei correre, ma il freddo mi paralizza e non riesco a muovermi. Cerco di gridare, ma le mie urla si spengono, inghiottite dal silenzio della neve.
La voce di Vittoria mi strappa via dal sogno che si dilegua, lasciandomi una sensazione di gelo addosso.
«Quanto manca, mamma?»
«Ci siamo quasi. Vedi quel ponte in legno? L’edificio lì accanto era la mia vecchia scuola, ma ora sembra ci sia qualcos’altro.»
Oggi come allora, l’assedio della neve è senza tregua.
Vittoria osserva con curiosità il piccolo paese ai piedi delle montagne in cui sono nata e cresciuta. Avevo giurato che non ci avrei mai più messo piede, e invece, eccomi qui.
Mi preparo, mio malgrado, a varcare il confine invisibile tra passato e presente.
«Andiamo, tesoro. È ora di scendere. Da qui alla casa della nonna sono solo pochi minuti a piedi.»
Cerco di dare alla mia voce la sicurezza che non ho. Vittoria non si accorge delle mani che mi tremano, è troppo presa a gustarsi con gli occhi ogni dettaglio e saltella impaziente, in attesa della fermata.
È la sua prima volta in treno ed è anche la prima volta che vede la neve. Maledetta neve, che soffoca ogni cosa e seppellisce la verità.
Non voglio che i miei pensieri cupi rovinino quella che per lei è una semplice gita, ma anche un giorno importante perché conoscerà la nonna.
Un alito di vento mi scompiglia i capelli come una spietata carezza e mi paralizza per un istante.
La stazione è vuota. Nessun passeggero infreddolito che aspetta di salire su un vagone a scaldarsi, nessuna famiglia che attende qualcuno a braccia aperte. Sui mattoni consumati della sala d’attesa riconosco ancora le scritte che avevamo fatto io e Laura, la mia migliore amica. A&L amiche per sempre. Un’altra promessa che ho infranto. Ma non c’è tempo per la nostalgia. Questo non è un paese per deboli di cuore.
La nostra non è una visita di cortesia. Viaggiamo leggere, senza bagagli. Ci fermeremo giusto il tempo per firmare i documenti, poi torneremo in città e ci lasceremo tutto alle spalle. Non permetteremo a questa breve parentesi di rovinarci l’esistenza.
«Che bel posto, mamma, qui non è per niente come in città! Mi piace questo silenzio, sembra di essere in un paese delle favole con tutta questa neve!»
Nonostante le paure, l’entusiasmo della piccola è contagioso. Ci addentriamo nel paese imbiancato, incastonato tra le montagne. Le luminarie natalizie illuminano la via principale. Un luogo incantevole dove vivere.
Ma è tutta una farsa. Dietro alle porte chiuse e alle imposte accostate si celano sguardi duri e accusatori e presto dovrò affrontarli, di nuovo. Questa volta sono preparata. Non sono più la ragazzina che è partita otto anni fa, ora torno a testa alta, orgogliosa di mostrare a tutti la mia bambina di cioccolato.
Scaccio i fantasmi che cercano di ingarbugliarmi i pensieri. Stringo forte la mano di Vittoria, lei è la mia forza.
«Mamma, guarda nel fiume! C’è una fontana di ghiaccio! Posso toccarla? Posso? Ti prego!››
Stretta nel cappotto, lascio che Vittoria si attardi a giocare con i ghiaccioli del ruscello. La sua risata cristallina mi rincuora.
«Forza, è ora di andare.»
A un tratto avverto l’urgenza di vedere Olga e chiudere questo capitolo della mia vita una volta per tutte.
Non ci vediamo da anni. Otto per la precisione. L’età della piccola Vittoria. L’ho chiamata così per dimostrare che ce l’avrei fatta, al contrario di quanto sosteneva lei.
E in effetti ce l’ho fatta, ho chiuso con un passato fatto di angosce e preoccupazioni. Mi sono affrancata dalla mia vecchia vita, ho studiato e cresciuto mia figlia da sola. Ora il passato è tornato, irruente e impetuoso come un fiume in piena. Ma non intendo farmi travolgere.
Busso con vigore al vecchio portone di rovere e tanto basta a riportarmi indietro nel tempo. 

Capitolo due

ANNA

Prima ancora di sentire la sua voce, avverto la sensazione familiare di angoscia che mi assale mentre varco la porta d’ingresso.
Il tempo, qui, si è fermato. L’odore di fumo è lo stesso che mi impregnava i vestiti e mi faceva vergognare quando andavo a scuola. L’unica differenza che noto è che i fiaschi di vino sono spariti. Olga deve essersene liberata dopo la morte di Franco. Non riesco proprio a chiamarlo padre.
«Sei venuta, alla fine.»
La sua voce è così flebile che fatico a riconoscerla.
«Non avevo scelta. Vittoria, lei è la nonna.»
Nella penombra lo sguardo spento di mia madre si ravviva per un istante mentre posa gli occhi su mia figlia.
La bambina porge la mano minuta e la ritrae istintivamente mentre le sfiora la pelle avvizzita e rugosa.
La casa è come la ricordo, triste e vuota. Sembra portare le stesse cicatrici di chi ci ha vissuto. Ogni angolo è intriso di un dolore passato. La panca accanto al camino, alcune candele smozzicate sul tavolo e nessun pentolone che brontola sul fuoco. Nemmeno un balocco a preannunciare il Natale imminente. Una casa che sa di solitudine.
«Sei davvero qui. Non ci speravo.»
Deglutisco, incapace di risponderle come meriterebbe.
Vittoria osserva Olga intimorita, mentre io sono sopraffatta. Vorrei urlare, accusarla, scuoterla. Ho immaginato mille volte questa scena e ora le parole muoiono sulle labbra, non riesco a dar voce ai sentimenti. Vorrei aggredire questa donna che mi ha negato l’affetto e mi ha insegnato a mie spese a cavarmela da sola. Ma davanti ho una vecchia consumata dagli anni e dalla malattia e, chissà, forse anche dai rimorsi.
«Ho preparato la tua vecchia stanza, se volete dormire qui.»
«Non sarà necessario, sbrighiamocela con queste carte, ripartiamo subito.»
«Mamma, mi piace questa casa, ti prego non torniamo subito in città, qui è tutto così bello e poi è quasi Natale, non voglio passare il Natale in treno.»
Le parole escono in un sussurro dalle labbra timide di Vittoria che osserva incuriosita l’anziana donna davanti a lei.
«Vedremo.»
Non riesco a fare promesse a lungo termine.
Mi siedo sulla vecchia poltrona e mentre sfioro nervosa il tessuto consumato, un’immagine fugace affiora alla mente: io e Olga siamo sedute proprio qui e lei mi pettina con dolcezza capelli. Il ricordo è talmente impalpabile e lontano che non riesco a nemmeno a capire se sia reale.
A un tratto sento il bisogno di uscire, le pareti della casa mi stanno strette. Non sopporto di condividere con lei gli stessi spazi, ma a quanto pare mia figlia non è della mia idea. Sembra incantata dalla voce di mia madre. La cerca con lo sguardo, la studia, è evidente che ne è attratta.
«Esco a fare due passi.»
Sono una codarda, lascio Vittoria nelle grinfie di quella strega e mi sento in colpa, ma non posso fare altrimenti.
Percorro la via centrale del paese; sembra diverso, ma le sensazioni sgradevoli che mi suscita sono le stesse. Al posto del circolo, dove Franco trascorreva la maggior parte delle sue giornate, hanno aperto una piccola pasticceria. Sembra graziosa e accogliente, ma non oso avvicinarmi troppo. Non vorrei rischiare di incontrare qualche vecchia conoscenza.
Perché ho accettato di venire? Questo posto non ha niente da offrirmi, se non il dolore di vecchie ferite che non guariranno mai.
Mi abbandono a un pianto inconsolabile quando una voce mi riporta alla realtà.
Una voce che avevo dimenticato, riposta in un angolo inaccessibile del cuore, sepolta da strati di dubbi e insicurezze.
«Anna...»
Basta quel richiamo per tornare con la mente ai ricordi più belli di un amore impossibile. Non ho bisogno di voltarmi per capire che è lui, il mio Jerome.
La mia paura o forse desiderio più grande si è materializzato davanti ai miei occhi.
Tremo, incapace di muovermi, sopraffatta da un misto straziante di gioia e dolore.
I nostri sguardi si incrociano mentre i respiri rimangono sospesi nell’aria gelida come fantasmi.
Non è più il ragazzino che ho lasciato, ora è un uomo, un bellissimo uomo. Un uomo dalle spalle larghe e il sorriso rassicurante, anche se nel suo sguardo leggo sofferenza. Il tipo di uomo che, forse, se gliene avessi dato la possibilità, mi avrebbe sostenuta e amata. Ma ora è troppo tardi.
«Jerome. Sei rimasto. Per tutto questo tempo...»
«Ti ho aspettata.»
«Non sono tornata per te, sono qui per mia madre. È malata, dobbiamo sistemare alcune questioni.»
«Perché sei scappata, Anna? Avremmo affrontato insieme i problemi... Ora è tutto diverso. La gente di qui ha capito; ci è voluto solo un po' di tempo.»
«Chi credi di ingannare, Jerome? Menti a te stesso. Sai benissimo che non avremmo avuto nessuna possibilità di stare insieme. Sai benissimo chi si nasconde dietro le tendine leziose e i centrini inamidati di questo maledetto paese.»
«I tempi sono cambiati, Anna. La gente ora mi conosce, mi apprezza; ho aperto un’attività mia, ti avrei dato un futuro.»
«Non essere ridicolo! La vuoi vedere una cosa? Lo vuoi vedere il futuro? Vieni con me e te lo mostro, il dannato futuro!»
Ancora una volta scappo via di corsa, ma questa volta Jerome mi blocca.
«Anna, fermati. Ti prego, parliamo. Non andartene di nuovo, non lo sopporterei. Eravamo felici. Io ti amavo davvero e forse non ho mai smesso...»
«Quante belle parole, Jerome! Sei come Olga! Mi amavi così tanto che mi hai lasciata andare quando avevo più bisogno di te! Non mi hai seguita, non hai fatto niente. Niente! Proprio come lei... Siete tutti uguali. Lasciami, lasciami andare. Vivi la tua vita mediocre e lascia in pace me e mia figlia.»
Le parole lo colpiscono come uno schiaffo.
Nel suo sguardo leggo confusione e disperazione.  
«Hai una figlia... Beh, avrei dovuto immaginare che ti saresti rifatta una vita altrove. Io, invece, sono rimasto qui a vivere nell’illusione di un amore passato. Sono uno stupido.»
Per un istante rivivo la sensazione di calore che solo lui sa trasmettermi e vorrei abbandonarmi tra le sue braccia, ma la rabbia prende il sopravvento e la mia voce si spezza mentre gli urlo in faccia la verità.
Lascio andare il fardello emotivo che per anni mi ha consumata.
«No, Jerome, abbiamo una figlia. Si chiama Vittoria, ha otto anni. Ero incinta quando me ne sono andata. Te lo avrei rivelato appena ce ne fossimo andati da qui, ma tu eri troppo testardo e orgoglioso e non sei voluto partire.»
Jerome si prende il volto tra le mani, incredulo e distrutto dal dolore.
«Come hai potuto lasciarmi all’oscuro? Perché non mi hai detto niente? Anna, rispondi! Voglio sapere, voglio vederla! Dov’è?»
Cerco di fuggire, ancora una volta, verso la casa di Olga. Ma questa volta Jerome mi segue come una furia. Non l’ho mai visto incendiarsi così.
Il vaso di pandora è stato scoperchiato.

Capitolo tre

OLGA

Alla fine, è venuta e ha portato con lei la bambina. È proprio nera. Ha la pelle di ebano; eppure, non posso dire che sia brutta, anzi, non lo è per niente. Ha uno sguardo mite e curioso.
Sono nonna. Che assurdità.
Nonna di una bambina color cioccolato. Franco si starà rivoltando nella tomba. Beh, che si rivolti quanto vuole, con tutte quello che ci ha fatto passare.
Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo della gravidanza di Anna? Di sicuro si sarebbe ubriacato e se ne sarebbe dimenticato nel giro di pochi giorni.
Ci stiamo studiando, io e la piccola; mi osserva, come se cercasse di capire se davvero apparteniamo allo stesso mondo.
La faccio sedere, le do del latte. Non so cos’altro potrei offrirle, non ho saputo offrire nulla a sua madre, sangue del mio sangue, figuriamoci a lei.
Anna è uscita, è scappata, come sempre quando deve affrontare un problema, ma che colpa ne ha? Non ho mai saputo proteggerla, nemmeno da un padre violento che beveva troppo. Non le ho mai insegnato niente, però è cresciuta forte, determinata e indipendente, devo ammetterlo. Ma non è merito mio. Tutta farina del suo sacco. Lei e la bambina sono vestite bene. Deve avere buon lavoro. È sempre stata intelligente e ambiziosa.
Chissà da chi avrà preso? Non di certo dal padre, che quel poco cervello che aveva se lo è bruciato nel vino.
«Ti ho portato un regalino di Natale, nonna, anche se in anticipo.»
Le labbra di Vittoria si muovono appena e il sussurro che ne esce è talmente impercettibile, che quasi penso di essermelo immaginato.
La bambina abbassa lo sguardo e mi porge un pezzo di carta spiegazzato.
Non so cosa dire. È una lettera che raffigura un grande albero e sotto quella che, credo, dovrei essere io.
Cara nonna, sono così emozionata! Presto ti conoscerò. Non ho mai avuto una nonna e non so bene cosa dire, non ci siamo mai viste ma un pochino mi sembra di conoscerti da quello che mi racconta la mamma. Le chiedo spesso di te, anche se capisco che non le va molto di parlarmi di quando era bambina, però cerca sempre di accontentarmi. Mi ha detto che il nonno è volato in cielo, ma di lui non vuole dirmi niente. Di te, mi ha detto che le hai insegnato l’educazione, che eri molto severa e lavoravi tantissimo. Forse non avevi molto tempo per stare con lei, però la mia mamma è la migliore del mondo e sicuramente è merito tuo che l’hai fatta così buona e perfetta e quindi ti ringrazio per aver fatto una mamma speciale come la mia.
Ti ho fatto solo un disegno come regalo perché i soldi li metto nel salvadanaio e li spendo solo per le cose importanti. Non pensare che il tuo regalo non sia importante, ma la mamma ha detto che bisogna tenere i soldi per i periodi di magra, anche se non so cosa vuol dire. Spero di andarti bene come nipote, sai, a volte la gente mi guarda in modo strano perché la mia pelle è così scura.  A scuola però ho conosciuto un altro bambino come me. Credo di aver preso questo colore dal mio papà, ma non ne sono sicura, non l’ho mai visto. È un argomento vietato e alla mamma non chiedo niente di lui. L’unica volta che l’ho fatto è diventata triste e non mi piace vederla così.
Sono una chiacchierona, nonna, spero di non averti annoiata e di piacerti, anche solo un pochino.
Ti saluto, ci vediamo presto.
La tua nuova nipote Vittoria.

In un attimo le mie certezze crollano, si sciolgono, come il nodo che da anni mi stringe il petto e appesantisce le spalle. Sono stata così stupida. Una vecchia ignorante, proprio come mi ha detto Anna l’ultima volta che ci siamo viste. Aveva ragione. Questa bambina è un dono di Dio e io volevo costringerla a disfarsene. Grazie al cielo, non mi ha dato ascolto.
«Perché piangi? Non ti piace il mio disegno?»
«No, Vittoria, piango perché non ho mai ricevuto un regalo in tutta la mia vita e questo, beh, questo è davvero un grande regalo.»
«Non hai mai ricevuto un regalo? Sai, a scuola, la maestra ci ha spiegato che fare dei regali serve a far capire alle persone che per noi sono importanti e che non servono occasioni speciali per regalare qualcosa.»
Mi tremano le mani e ho la bocca asciutta. Mi sento così piccola davanti a questa bambina. Mia nipote, che ho rinnegato con tutte le mie forze solo perché ha la pelle di un colore diverso dalla mia. Ora, forse, è troppo tardi perché io possa fare parte della sua vita.
«Sono stata una sciocca e devo scusarmi con te, con la tua mamma, e anche con il tuo papà.»
Ho parlato senza riflettere e ora la bambina mi guarda implorante.
«Conosci il mio papà?»
«Sì… Magari ne riparleremo…»
La mia voce è poco più di un soffio.
«Ora perché non cerchiamo qualche addobbo? Ti va di aiutarmi mentre aspettiamo la mamma?»
Leggo la delusione nei suoi occhi, un lampo di speranza che si spegne subito. Non posso dirle la verità. Non ora.
«Certo, nonna. Non ti dà fastidio se ti chiamo così, vero?››
Arrossisco, incapace di trovare le parole. Per la prima volta la bambina mi chiama nonna, e io lascio che accada.
«Forza, aiutami a prendere il vecchio albero di Natale. Sai, alla mia età le giornate sono lente e silenziose e il Natale invece dovrebbe essere un carosello di luci e colori. Una volta era così…››
Per un attimo mi perdo nell’immagine di Anna che mi chiede di mettere la stella cometa sulla cima dell’albero.
Lascio morire i ricordi, incapace di sostenerli.
La porta si spalanca, Anna appare sulla soglia, con Jerome al suo fianco. Per un istante, tutto è uguale a otto anni fa, come se il tempo non fosse mai passato. Ma non è così. Nulla è uguale. Il suo sguardo è una lama che mi trafigge. Non c’è rabbia, solo il peso di tutte le cose non dette. E io capisco che certe ferite non si rimarginano.
Vorrei poter riscrivere la nostra storia, ma indietro non si torna.
Perdonami, figlia mia, per tutto il male che ti ho fatto e per tutto il male che non ho saputo evitarti. Per la prima volta dalla morte di mio marito mi lascio andare alle lacrime. Allora erano lacrime di sollievo per essermi liberata di lui.
Oggi sono lacrime che chiedono perdono.
 
 
JEROME

Questa volta sono pronto ad affrontare Olga. Ho accumulato otto anni di rancore e frustrazione. Ma oggi siamo alla resa dei conti.
Entro come una furia.
Poi la vedo.
Piccola, luminosa, perfetta.
Tutta la rabbia che mi ha portato fin qui si dissolve, come neve al sole. Non sono più l’uomo in cerca di vendetta. Sono un padre che scopre sua figlia per la prima volta. E niente ha più importanza, se non lei.
Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto che in un istante hanno già capito tutto. Ha gli occhi chiari di sua madre, ma senza dubbio è mia figlia.
Una bambina di colore in questo piccolo paese, forse Anna ha fatto la scelta migliore andandosene.
Mi sono perso otto anni di lei, otto anni di vita e di amore, solo per la mia testardaggine. Avrei potuto seguire Anna in città, come mi aveva chiesto, ma il mio orgoglio mi ha trattenuto qui solo per dimostrare che potevo integrarmi, che potevo piacere agli ottusi abitanti di questo villaggio. Sono riuscito nel mio intento, ma a quale prezzo? Non sapevo, allora, che Anna portasse con lei un dolcissimo segreto.
È sempre stata così risoluta nelle sue decisioni, voleva studiare e dimenticare le sue origini.
E io cosa ho fatto? Niente. Ha ragione ad accusarmi di essere come Olga.
È una donna straordinaria e non intendo perderla un’altra volta. Olga non l’ha mai protetta dal padre, non ha mai fatto niente quando lei era solo una bambina indifesa e aveva bisogno di sua madre e io, io ho fatto la stessa cosa. Sono rimasto accecato dal mio orgoglio e non l’ho saputa proteggere. L’ho abbandonata. Proprio quando era più vulnerabile.
«Sei il mio papà?»
La voce intimorita di Vittoria mi riporta al presente.
Sono padre? Davvero? Un misto di gioia e trepidazione si fa strada nel mio petto.
Con lo sguardo cerco l’approvazione di Anna prima di rispondere, ma lei mi precede.
«Sì, Vittoria, lui è il tuo papà. Mi dispiace che tu lo conosca solo dopo tanto tempo, ma magari potremo recuperare…»
Nella voce rotta di Anna riesco a leggere qualcosa che mi dà una piccola speranza.
Voglio abbracciare la mia bambina e darle tutto l’amore che merita, quello che a sua madre è stato negato. Ma il percorso è tutto in salita.
 

ANNA
 
Entro in casa come un uragano, ma la rabbia evapora in un secondo e lascia posto allo stupore quando vedo mia madre che sta addobbando il nostro vecchio albero di Natale insieme a Vittoria.
Ridono e si guardano complici. Non è possibile, voleva a tutti i costi cancellare la prova della vergogna, voleva che mi sbarazzassi di lei appena ha saputo che ero incinta e ora la guarda incantata. Assurdo.
Jerome mi segue, incapace di aprire bocca.
Vittoria si volta e lo vede, lo riconosce al volo. I loro sguardi si incrociano e rimangono così, incatenatati e sospesi.
Per un attimo restiamo tutti in silenzio, ci sarebbe così tanto da dire, ma nessuno sembra avere il coraggio di fare il primo passo.
Poi tutto succede così in fretta che non capisco più nulla.
Olga mi abbraccia, come non aveva mai fatto. Mi stringe forte, ma io resto immobile, incapace di rispondere al suo slancio.
«Anna, non sono mai stata brava con le parole. Anzi, non sono mai stata brava in niente. Ho sbagliato tutto con te. Sono colpevole. Ti ho lasciata sola quando avevi bisogno di me, ho finto di non vedere molte cose, ho lasciato che tuo padre ti facesse del male e non ti ho protetta perché… Non lo so nemmeno io perché...»
«Credi che anni di vuoto e dolore si possano cancellare così? Solo perché ora sei in fin di vita?»
«No, non posso cancellare niente e nemmeno pretendere.»
«Mi hai spezzata, mamma. Mi hai insegnato a non fidarmi di nessuno e non mi hai dato alternative.»
«Lo so, questa è la mia colpa più grande. Non so come hai fatto, ma sei diventata una donna e una madre straordinaria. Al contrario di me, hai dato tutto a questa bambina. Perdonatemi, perdonatemi per aver rovinato le vostre vite. Perdonami, Jerome, per averti negato la gioia di sapere di essere padre. Perdonami piccola, perché ho allontanato la tua mamma dal tuo papà. Mi dispiace, per tutto. So che non c’è rimedio alle mie mancanze, che ho fallito come donna, come moglie, come madre.»
Le sue parole mi lasciano interdetta; vorrei tanto crederle, ma la paura mi impedisce di accettarle davvero.
«Anch’io ho una confessione da farti e qualcosa da farmi perdonare: ho rubato i tuoi risparmi quando sono partita. So che erano quelli che mettevi da parte di nascosto, per evitare che Franco li spendesse per comprarsi da bere. Ti ho privata di quella poca indipendenza su cui avresti potuto contare, ma io dovevo farlo per mia figlia. Spero che tu capisca.»
Olga sembra titubante, fragile.
«Anna, quei risparmi li avevo messi da parte per te. Sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui te ne saresti andata e ne avresti avuto bisogno. Non sono riuscita a fare di più perché sono stata una vigliacca. So che se te li avessi offerti non li avresti mai accettati.››
Questa rivelazione mi travolge, lasciando intravedere un passato diverso da quello che conosco. Ho sempre pensato di essere sola, invece lei ha fatto qualcosa per me, per darmi una possibilità.
«Mamma…»
Dopo otto lunghissimi anni, riesco di nuovo a pronunciare quella parola. Mi abbandono tra le sue braccia e la perdono. Le perdono tutto. Tutte le volte che non mi ha difesa da mio padre, tutte le volte che mi ha lasciata sola, tutte le volte che non mi ha capita e mi ha voltato le spalle. È valsa la pena arrivare fin qui solo per vedere con quanta dolcezza, ora, guarda la mia bambina.
Mentre stringo mia madre, sento Jerome muoversi accanto a noi. Per anni siamo stati frammenti sparsi di una storia mai scritta. Ma ora siamo di nuovo qui, insieme, pronti a ricominciare.
Lui mi guarda, e nei suoi occhi non c’è rabbia, non c’è rimprovero. Solo amore. Quello che non abbiamo avuto il coraggio di vivere, quello che forse potremo provare a ricostruire.
Vittoria si avvicina, incerta, ma quando Jerome le tende la mano, lei la afferra, senza esitazione. È così semplice, così naturale.
A un tratto questa casa fredda e spoglia mi appare come un rifugio. Forse, possiamo ripartire da qui, forse esiste ancora un noi.
Sorrido, mentre i frammenti di una vita complicata si ricompongono come un puzzle che finalmente ha trovato il suo ultimo pezzo.
Sono esausta, frastornata, ma ho una voglia improvvisa di addobbi, torrone e della torta di mele e cannella che preparo ogni Vigilia.
Il mio Jerome aveva ragione fin dall’inizio. 
L’amore può fare miracoli.

§§§

Non ci resta che fare tanti complimenti a Valentina Ciocca, seconda classificata al Masterbook, seconda edizione-2025, il torneo da me ideato, on line, a eliminazione diretta.
Un torneo molto difficile e per autori coraggiosi. 
Brava, Valentina!


Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle





 


 





venerdì 23 maggio 2025

Numero 472 - Il racconto vincitore della seconda edizione del Masterbook - 23 Maggio 2025


Si è conclusa la seconda edizione del Masterbook, il torneo di scrittura on line a eliminazione diretta, che ci ha intrattenuto per diversi mesi.
Attraverso le varie fasi del torneo, si è giunti alla rosa dei finalisti. Ricordiamo i loro nomi:

(in ordine alfabetico)

Valentina Ciocca
Antonella Malvestiti
Giovanna Agata Lucenti
Sandra Morara
Linda Silvia Scarpenti
Laura Scartabelli
Emanuela Tomiato

Chi è salito sul podio?

Al 1° posto si è classificato il racconto "Affinché nulla sia dimenticato" di Linda Silvia Scarpenti

Al 2° posto si è classificato il racconto "Vittoria segreta" di Valentina Ciocca

Al 3° posto si è classificato "Le ferite del cuore" di Giovanna Agata Lucenti

Questi racconti saranno postati nel Blog, a partire da oggi con il vincitore, scritto da Linda Silvia Scarpenti, a cui rivolgiamo i nostri complimenti per la delicatezza, il garbo, la profondità, e - molto importante - la correttezza del testo, la fluidità, l'eleganza.


Linda Silvia Scarpenti e il suo racconto vincitore: BRAVA!

 AFFINCHÈ NULLA SIA DIMENTICATO

 
Capitolo uno
La Stanza nr. 10

La sveglia della stanza nr. 10 non suonava mai. Adele non ne aveva bisogno.
Si svegliava prima dell’alba, ogni giorno alla stessa ora: un rituale cui era abituata ormai da anni.
A quell’ora, il silenzio – quasi assoluto – nella Residenza Villa Anna di Fornovo, un paesino adagiato sull’appennino tosco-emiliano nella provincia parmense, veniva interrotto solo dai lievi cigolii delle porte antiche, e dal lamento ovattato del vento che si insinuava tra le fessure delle finestre.
Adele rimaneva qualche minuto immobile, le mani incrociate sul petto, gli occhi aperti. E mentre aspettava di sentire i passi di Marta nel corridoio, godeva di quel silenzio in cui i ricordi facevano rumore e si affacciavano alla mente più che durante il giorno.
Non è sempre stato così, del resto... pensò Adele, lasciando correre la mente a tantissimi anni prima, a quando, giovane moglie e madre, ogni mattina era una corsa, un caffè al volo, un bacio sulla fronte di sua figlia, i registri scolastici sotto braccio.
Ma senza andare troppo in là nel tempo, anche quando era andata in pensione, seppure vedova da qualche anno, aveva mantenuto una vita attiva, con amiche, letture e viaggi.
Poi, gli anni passano, ahimè…  E il tempo è come se si dilatasse, e ogni giorno è simile al precedente: pasti caldi, pillole colorate, chiacchiere leggere con altri ospiti. Sono ormai quasi sette anni che vivo qui, dopo quella volta in cui…
I pensieri di Adele s’interruppero, quando sentì la voce di Marta.
«Buongiorno, signora Adele. Sempre sveglia prima di tutti, eh? Le ho portato un po’ di miele, al posto dello zucchero, come piace a lei» disse la giovane donna, che prestava servizio come infermiera nella struttura, entrando nella stanza con un sorriso aperto, e il vassoio della colazione in mano.
Adele si tirò su a sedere lentamente, le mani affusolate e sottili sembravano rami d’inverno. Aveva occhi chiari, vividi, che parevano osservare oltre le cose.
«Sei tu che piaci a me, Marta. Il miele è solo una scusa.»
Marta rise. Anche a lei piaceva Adele. Era una delle poche ospiti con cui si poteva parlare davvero. C’era qualcosa in lei che l’affascinava: un insieme d’ironia e malinconia, che legavano tra di loro con eleganza.
«Ha voglia di fare una passeggiata in giardino, questa mattina?»
«Più tardi, forse. Prima, vorrei scrivere un po’.»
«Scrivere?»
Adele annuì, indicando un quaderno dalla copertina blu, appoggiato sul comodino.
«Ho deciso di raccontare la mia vita, prima che svanisca come fumo
Marta si avvicinò curiosa.
«È un diario, quindi…»
«È una promessa a me stessa, che quello che ho vissuto non sia dimenticato.»
Marta prese il quaderno tra le mani, lo aprì lentamente. Le prime pagine erano già scritte con una calligrafia ordinata, elegante, di un’altra epoca.
«Posso leggerne un pezzo?»
«No, Marta. Tu lo leggerai quando non ci sarò più. Ma posso raccontartelo io, se vuoi. Tu sei un’ottima ascoltatrice.»
Marta si sedette accanto a lei.
Adele fece un respiro profondo e iniziò.
«Avevo poco più di nove anni, quando il mondo si fece buio: era il 1944. Vivevamo in campagna, in una cascina tra le colline. Mio padre era stato richiamato al fronte; mia madre si alzava ogni giorno prima del sole per occuparsi dei campi e di noi tre figli, di cui io ero la più grande.
Se chiudo gli occhi, avverto ancora l’odore della terra bagnata. A tavola, c’era poco e niente, oltre al pane raffermo. Ma quello che più ricordo erano le risate: sì, ridevamo, nonostante tutto.»
Marta ascoltava come rapita, quasi trattenendo il fiato.
«La sera, si sentivano in lontananza colpi di fucile; mia madre, per distrarci, era solita raccontarci storie inventate, di fate che giocavano a nascondino nei cieli alla ricerca di una bellissima signora di nome Pace, che presto si sarebbe presentata a ogni porta, portando con sé tante cose belle a tutti. E noi bambini le credevamo. 
Credevamo alle fiabe, noi bimbi... Invece, arrivarono i tedeschi» continuò Adele con il tono di voce strozzata.
«Adele, tranquilla. Facciamo una pausa.»
«No, cara, sto bene, grazie… Dov’ero rimasta? Ah, sì… Ecco, i tedeschi! Un giorno, vennero a cercare mio zio. Si era nascosto nella stalla, era un partigiano. Mia madre era riuscita a prendermi per mano in tempo, dicendomi di correre nel bosco fino alla casa della nonna, senza guardarmi indietro. E io corsi, e corsi, fino a non sentire più il dolore fisico che mi procuravano le scarpe strette. Fino a quando, raggiunte le prime case del paese vicino al nostro, mi accasciai a terra svenuta. Quando mi ripresi, il primo volto che vidi fu quello di mia nonna, che abbracciai piangendo, raccontandole quello che era accaduto. Il giorno dopo, dei vicini di casa ci dissero che la cascina non c’era più, e che tutto era stato bruciato.»
Per un momento, la stanza rimase in silenzio, come se il tempo si fosse fermato, e anche i mobili stessero ascoltando.
«Mi dispiace…» disse Marta quasi sussurrando.
«Non dispiacerti, Marta. Quella notte ho imparato cosa vuol dire avere coraggio e, soprattutto, quanto può costare. Il coraggio, vedi, non è qualcosa che si possiede. È qualcosa che si impara a riconoscere, ogni giorno; dopodiché, sta a noi decidere se farlo nostro o meno. Anche qui, in questo posto.»
Adele richiuse il quaderno e sorrise. Un sorriso sincero, ma stanco.
Marta annuì, colpita dalla lucidità di quella donna che aveva vissuto tanto e ancora conservava la voglia di capire, di dire, di lasciare una traccia.
«Vuole che le porti qualcosa per scrivere meglio? Una penna nuova?»
«Portami una matita e una gomma. Mi rassicura sapere che potrei cancellare qualcosa, anche se poi non lo faccio. Il passato non si cancella: si ricorda e si racconta.»
Il giorno, alla Residenza Villa Anna, proseguì lento, tra il pranzo e il riposo pomeridiano.
Adele, però, non dormì. Rimase seduta davanti alla finestra, guardando il giardino dove alcuni ospiti passeggiavano aiutati dai bastoni o dalle braccia degli infermieri.
Ogni tanto chiudeva gli occhi, e il giardino diventava un campo d’erba alta, la casa della nonna, le risate di bambini con le ginocchia sbucciate.
Il tempo non guariva. Ma raccontare, sì.
E Adele, nella stanza nr. 10, aveva appena cominciato.
 
 
Capitolo due
 Il tempo delle scelte
 
Qualche giorno dopo, in uno dei soliti pomeriggi assolati, quando la luce calda filtrava dalle tende, sulle pareti della stanza nr. 10, Marta sedeva accanto a Adele, con il quaderno blu sulle ginocchia. Era diventato un piccolo rito, quel momento: qualche minuto insieme, ogni giorno, per ascoltare la voce del passato.
«Oggi voglio parlarti di Bruno. Non ti ho mai raccontato di lui» disse Adele, accarezzandosi i capelli ormai candidi.
«Era suo marito?» le chiese Marta sollevando lo sguardo dal quaderno, incuriosita.
«No. Non lo è mai stato. Ma per un po’ ho creduto che lo sarebbe diventato.»
Si fece silenzio. Adele sembrava lontana, ma i suoi occhi – vivi – era come se stessero guardando qualcosa che solo lei poteva vedere.
«Avevo ventitré anni. Era estate, insegnavo da poco in un paesino dell’entroterra. Bruno venne a sistemare il tetto della scuola dopo un temporale. Non era bello nel senso classico, ma aveva mani forti, voce calma, e occhi che ti guardavano come se fossi importante. Mi chiese se poteva bere alla fontana, e poi... Cominciammo a parlare.»
Marta, silenziosa, osservava Adele con una curiosità mista a tenerezza. Non riusciva a immaginare la giovane donna che Adele doveva essere stata, con quegli occhi ora sognanti e le mani che, senza rendersene conto, si erano strette attorno alla tazza.
«Mi ricordo ancora com’era l’aria di quella giornata» continuò Adele, come se le parole fossero uscite da sole, senza bisogno di pensare.
Marta, sempre più interessata, non interruppe.
«Il sole era ancora alto, l’odore del fieno si mescolava al profumo della terra bagnata dal temporale. Bruno si sedette accanto a me sulla panchina, e mi parlò di cose che non avevano nulla a che fare con il tetto. Abbiamo parlato di tutto, ma allo stesso tempo non dicevamo niente. Non mi sentivo come quando parli con qualcuno per fare conversazione, mi sentivo come se stessi scoprendo qualcosa d’importante senza rendermene conto. Una sensazione strana. Ogni giorno, alla stessa ora, passava vicino alla scuola. Fingeva di sistemare qualcosa, ma cercava solo un pretesto per vedermi. E io lo aspettavo. Un giorno, mi prese la mano. Sorrise, e abbassando lo sguardo, mi baciò sotto il glicine. Ricordo ancora che avevo i capelli sciolti e indossavo il vestito buono» proseguì Adele nel raccontare con un tono di voce basso, come se il ricordo stesse diventando più delicato, quasi fragile.
Marta ascoltava, sempre immobile.
«Il giorno dopo, l’ho rivisto. E il giorno dopo ancora. Lui veniva a fare piccole riparazioni qua e là, sempre con quella calma, quella sicurezza che ti dava l'impressione che il tempo per lui non fosse mai urgente. Ma non era solo il tempo a sembrargli indifferente. Erano le parole, gli sguardi... Tutto sembrava in qualche modo sospeso tra noi. Ho cominciato a cercarlo, ogni mattina. A sperare che ci fosse qualcosa di più, anche se non avevo il coraggio di dirlo. Mi sentivo confusa, ma mi piaceva.»
Si fermò un attimo, come se stesse riflettendo, e aggiunse: «A volte, il cuore ti porta in posti in cui non pensavi di poter andare. E, quando ti accorgi che ci sei arrivata, non sai nemmeno come ci sei finita. Eppure, sei lì.»
«E che cosa accadde, alla fine?» chiese Marta, con un’espressione sorpresa e curiosa allo stesso tempo, incapace di trattenere la domanda.
«Purtroppo, nulla. O meglio, successe tutto e niente allo stesso tempo» le sorrise Adele, con un velo di malinconia negli occhi.
Si fece di nuovo silenzio, e Marta non osò più parlare.
Quel racconto, pur incompleto, sembrava aver scavato un piccolo varco nel cuore di Adele, e Marta sapeva che avrebbe potuto aspettare ancora per la risposta a quella domanda.
«Era innamorata?»
«Sì, follemente. Ma la vita, Marta, è fatta di strade che, quando meno te lo aspetti, si chiudono all’improvviso. Senza preavvisi né segni a indicarti il momento giusto per fermarti.»
Adele smise un istante di parlare, come per decidere se continuare o no.
Poi, proseguì, dicendo: «La verità era che Bruno era promesso a un’altra. Lo sapevo e la conoscevo: era una ragazza del paese, figlia del fornaio. Le famiglie avevano già parlato, già deciso tutto. Ma lui diceva che mi avrebbe scelta comunque. Che avrebbe trovato il modo per sistemare le cose.»
«E non lo fece, vero?»
«No, non trovò il coraggio. Quel coraggio di cui ti ho già parlato… Quello che si impara a riconoscere, giorno dopo giorno, fino a farlo diventare parte di noi.»
Marta avvertì un nodo alla gola.
«Mi scrisse una lettera, una sola. Perdonami… Poi sparì. Mi sentii vuota per mesi. Ma continuai a insegnare ai bambini, per poter rispondere alle loro domande. Sono convinta che furono loro a salvarmi in quel periodo.»
Adele si alzò a fatica, appoggiandosi al bastone. Si avvicinò al comodino, aprì il secondo cassetto, e ne estrasse una busta ingiallita.
«È questa» disse, porgendola a Marta. «Non l’ho mai riletta.»
«Vuole che la legga io?»
Adele annuì piano.
Marta aprì la busta con delicatezza e lesse quelle poche righe, dalla scrittura decisa, maschile, quasi impaziente.
Adele,
Non sono l’uomo che pensavi. Ho paura, non di te, ma del dolore che potrei infliggere. Ho scelto la strada più semplice, anche se so non essere quella giusta. Spero che un giorno tu possa amare di nuovo… E dimenticarmi.
Perdonami.
Bruno.
Ci fu un lungo silenzio.
«L’ha mai più visto?» chiese Marta.
«Una volta, a un funerale. Anni dopo. Aveva tre figli, ormai ragazzini. Io avevo appena partorito la mia.»
«Si era sposata anche lei, quindi?»
«Sì. Con un uomo buono e onesto. Non era Bruno, no, ma era giusto per me. L’ho conosciuto a scuola, quattro o cinque anni dopo, quando arrivò per ricoprire il ruolo di Direttore. Era un po’ più vecchio di me. Aveva un modo di parlare gentile, e uno sguardo calmo che sembrava vedere oltre le apparenze. Con il tempo, ho imparato ad amarlo, anche se in modo diverso… Più quieto, più duraturo. E, così, scoprimmo di aver gettato insieme le basi di un amore che non bruciava, ma scaldava. Un legame che non aveva l’urgenza delle passioni giovanili, ma la solidità delle cose vere, costruite nel tempo, giorno dopo giorno. Con lui ho avuto Laura.»
«La sua bambina…» le sorrise Marta.
Adele sorrise a sua volta, ma con uno sguardo pieno di malinconia.
«Ci sentiamo pochissimo» disse l’anziana donna quasi sussurrando.
«Posso chiederle perché?»
«Perché a volte essere madre significa scegliere. E non sempre scegli bene. Quando Laura, finita l’università, si trasferì in Canada per conseguire un master in giornalismo, decise di continuare a vivere lì. Un giorno, quando aveva poco più di trent’anni, mi disse di essersi innamorata di un uomo sposato, e più vecchio di una quindicina d’anni. Cominciai a temere per lei e l’affrontai a muso duro: ero terrorizzata al pensiero che la vita potesse travolgerla. Le dissi cose dure, e ci allontanammo. Seppi poi che quell’uomo, dopo un paio d’anni di progetti e promesse di vita insieme, ero tornato dalla moglie. Ho sperato, allora, che ritornasse a casa, ma lei ha continuato a vivere lì, dove ha sempre fatto la giornalista.»
«E i vostri rapporti si sono sempre più raffreddati?»
«Abbiamo lo stesso carattere… E in aggiunta l’orgoglio è un muro difficile d’abbattere. Ho passato notti a chiedermi cosa avrei potuto fare per evitarlo. Ho scritto lettere che non ho mai spedito; ho continuato a vivere nel rimpianto, con la convinzione che le cose sarebbero cambiate con il tempo. Ma nulla è cambiato, Marta… Più il tempo passava, più diventava difficile tornare indietro. Così, abbiamo cominciato a sentirci meno. Sì, certo, in tutti questi anni, qualche volta è tornata a casa. Ma poi ha cominciato a diradare. L’ho rivista per il funerale di suo padre, e un altro paio di volte, quando è venuta a trovarmi qui, alla Residenza Villa Anna: una, durante la riabilitazione dopo l’intervento cui fui sottoposta per la frattura al femore… Ti ho raccontato, vero, della caduta per cui mi ruppi il femore? E di come Angela, spaventata a morte, proprio perché non ero andata ad aprirle la porta di casa come sempre, abbia chiamato un’ambulanza vedendomi a terra in bagno?»
«Sì. Mi ha raccontato di essere scivolata in bagno, uscendo dalla doccia, e che l’ha soccorsa la donna delle pulizie che, per fortuna, arrivò di lì a poco, essendo uno dei giorni in cui sarebbe dovuta venire a casa sua, giusto?»
«Esatto! Che cosa stavo dicendo… Ah, sì! E l’altra volta in cui vidi mia figlia – l’ultima volta – fu quando decisi di voler rimanere qui a vivere, perché il solo pensiero di tornare a casa sola mi spaventava. Il resto è storia.»
Marta si fece seria. Si chinò leggermente in avanti verso l’anziana per chiederle: «Adele, se potesse dirle una sola cosa – una sola – quale sarebbe?»
«Che l’ho sempre amata. Anche quando ho avuto paura per lei. Anche quando non l’ho capita» rispose Adele, senza pensarci su.
«Allora, forse, dovrebbe farglielo sapere» le sussurrò la giovane infermiera, prendendole la mano.
«Arriverà il giorno in cui lo verrà a sapere, di sicuro» mormorò Adele, chiudendo di nuovo gli occhi.
Quella notte, Marta rimase a pensare, rileggendo mentalmente le parole di Adele, i frammenti di una vita fatta di scelte, rinunce e silenzi.
Aveva imparato qualcosa da quella donna. Che ogni amore è un rischio. Che ogni decisione lascia una traccia. E che – a volte – il perdono non arriva dall’esterno, ma da dentro.
Nel silenzio della casa di riposo, nella stanza nr. 10, una donna anziana prendeva in mano una nuova pagina bianca, per non smettere di scrivere: non solo per sé, ma anche per chi si era allontanato.
 
 Capitolo tre
Ultima luce
 
L’autunno arrivò senza rumore.
Le foglie del giardino di Villa Anna si tinsero di rosso e di giallo, e l’aria si fece più rarefatta. Era come se il tempo stesso avesse rallentato il passo.
Adele si svegliava ancora presto, ma le sue mani erano più tremanti e il respiro più corto: anche Marta l’aveva notato.
Era un pomeriggio grigio quando Adele le chiese di prenderle il quaderno blu e sedersi vicino a lei.
«Oggi voglio che tu legga tutto quello che ho scritto finora. Non ho più la forza di raccontare ad alta voce.»
Marta aprì il quaderno, lentamente. La grafia si faceva via via più incerta, le righe meno ordinate, ma le parole erano sempre intense, lucide. Parlavano di amore e di guerra, di speranza e delusioni, di maternità, di sogni e ferite. Parlavano di una donna che non aveva vissuto una vita straordinaria, ma l’aveva amata fino in fondo. Pagina dopo pagina, Marta sentiva crescere qualcosa dentro. Un rispetto profondo. Un legame che andava oltre i ruoli di infermiera e paziente.
«È bellissimo, Adele…» le disse la giovane donna alla fine della lettura, con gli occhi lucidi.
«Non è letteratura. È vita.»
«Ma è proprio per questo che è bello, che vale.»
Adele le sorrise, stanca ma felice. Poi, con un filo di voce, aggiunse: «Marta, ho bisogno di un favore.»
«Qualsiasi cosa, mi dica.»
«Voglio scrivere un’ultima lettera a Laura. Ma non riesco più a tenere in mano la penna. Potresti scriverla tu per me?»
Marta annuì subito, commossa.
Adele dettò lentamente, scegliendo con cura ogni parola.
Cara Laura,
non so se leggerai mai questa lettera, come tutte quelle che ti ho scritto in questi anni, ma anche per questa sento il bisogno irrefrenabile di farlo. Ho sbagliato tante cose con te. 
Ho avuto paura, ho cercato di proteggerti, ma ho finito per allontanarti. Poi, la distanza, le incomprensioni e il tempo ci hanno messo del loro.
Sei stata il mio orgoglio, la mia luce, anche quando non sapevo dirtelo.
Se la vita ti porterà mai a leggere queste parole, sappi che ti amo.
Mamma
Quando Marta finì di scrivere, le mani le tremavano.
«Vuole che la spediamo?»
«La consegnerai tu, quando sarà il momento, con tutte le altre che non le ho mai spedito. Guarda per cortesia nel mio armadio, in fondo, in quella scatola di latta…» le rispose Adele, guardandola negli occhi.
Nelle settimane successive, Adele parlava meno, ma ascoltava sempre.
Marta la curava con una delicatezza; l’affetto reciproco che si era creato tra loro era come un filo invisibile che le teneva legate.
Un giorno, mentre fuori cadeva una pioggerellina leggera e il cielo sembrava fatto di fumo, Adele la prese per mano e sussurrò: «Non ho più paura, Marta, promettimi una cosa.»
«Qualsiasi.»
«Quando incontrerai mia figlia, dille di non smettere mai di raccontare le storie degli altri. Le parole salvano, anche quando arrivano tardi.»
Marta annuì, con un nodo alla gola.
Adele se ne andò in silenzio, alle 11:30 di una mattina di novembre. Aveva il viso sereno, e tra le mani il suo quaderno blu.
Marta pianse, ma non a lungo. Aveva promesso qualcosa, e intendeva mantenere la parola.
Il medico di turno, una volta constatata la morte, cominciò a disbrigare alcune pratiche, cercando il contatto della figlia, che risultava essere l’unica parente diretta della donna. Marta si offrì, così, di chiamare Laura.
La figlia di Adele non aveva dormito bene, quella notte: uno strano senso d’ansia l’aveva accompagnata fino alle prime ore dell’alba, quando, alle 05:30 del mattino, aveva deciso che sarebbe stato meglio alzarsi.
Seduta in cucina a sorseggiare un caffè, e ascoltando le news alla radio, ricevette una telefonata – quasi – inaspettata: erano quasi le 08:00 del mattino.
«Pronto…» rispose titubante.
«Signora Spagnoli? Laura Spagnoli… È lei?»
«Sì, ma chi parla?»
«Buonasera, anzi, buongiorno… Mi scusi dell’orario, chiamo dall’Italia, dalla Residenza Villa Anna, qui a Fornovo… Mi chiamo Marta Becci, sono un’infermiera della struttura dove risiede sua madre. È venuta a mancare questa mattina, mi spiace…» le disse sempre quella voce gentile dall’altra parte del telefono.
Il mondo, per un attimo, sembrò fermarsi, e quel senso di colpa latente, che ormai accompagnava la figlia di Adele da anni come un’ombra invisibile, si presentò con prepotenza per reclamare il posto dovuto.
«Capisco, mi organizzo e arrivo» riuscì a dire Laura, prima di riattaccare.
Prese il primo volo per l’Italia. Tornare a casa, per giunta per quel motivo, le sembrò quasi irreale.
Il giorno dopo, una volta atterrata, chiamò Marta e, ritirata l’auto a noleggio, si diresse verso Villa Anna.
Fu proprio Marta ad accogliere Laura nella sala d’aspetto.
La donna dai capelli grigi che si trovò davanti aveva occhi chiari, proprio come quelli di sua madre. 
Era stupita, diffidente. Ma l’infermiera le parlò con pacatezza, raccontandole di Adele, e di come un importante legame si fosse instaurato tra di loro. Poi, le porse il quaderno e una serie di lettere.
Laura li prese tra le mani senza dire nulla. E pianse per la prima volta da anni.
«Ho avuto paura. Più il tempo passava e più avevo paura, e il divario tra di noi sembrava sempre più incolmabile… Non è passato un solo giorno in cui non abbia pensato a lei, senza però mai immaginare che anche lei soffrisse: sono stato presuntuosa.»
«Anche sua madre non ha mai smesso di farlo» le disse Marta, accompagnandola nella camera mortuaria allestita, dove la salma di Adele era ancora esposta.
Le porse un piccolo mazzo di fiori secchi, aggiungendo: «Li teneva sempre sul comodino, accanto al letto. Diceva che glieli aveva portati sua figlia, tanti anni prima.»
Laura non ricordava, ma la commozione le chiuse la gola.
Marta le lasciò sole e uscì dalla camera.
Dopo il funerale, Laura si fermò ancora qualche giorno.
Marta fu più presente di quanto la donna non si aspettasse. L’aiutò con le pratiche, con la casa di Parma, dove era cresciuta e che Adele non aveva mai voluto vendere prima di morire, ma soprattutto con i ricordi.
Le raccontò aspetti della madre che lei non ricordava o mai aveva conosciuto: di come ogni giorno chiedesse che le venisse letta una poesia; di come parlasse spesso di Montréal, e di quella volta in cui era andata a trovare sua figlia; e di come si arrabbiasse quando le portavano il tè troppo zuccherato.
E tra di loro sembrò nascere un’intesa silenziosa fatta di sguardi e pause.
Laura si accorse che parlava con Marta come non parlava da anni. E Marta, che si era sempre presa cura delle vite degli altri con discrezione, trovò in Laura uno spazio in cui lasciare andare anche le sue stanchezze.
«Non so come ringraziarti» le disse Laura, una sera, al tramonto.
«È stata tua madre a farci incontrare. Forse, è stato il suo modo di farsi perdonare il silenzio.»
Quando ripartì per il Canada, Laura abbracciò Marta, come si abbraccia un vecchio amico: due generazioni e due vite diverse, unite da un filo di parole scritte.
Ma non fu un addio. Con la promessa che ogni anno a novembre Laura sarebbe tornata a Parma per portare fiori freschi a sua madre, all’inizio cominciarono a scriversi e, poi, a sentirsi ogni settimana.
Una sera, durante una di quelle telefonate, Laura disse a Marta di aver cominciato a scrivere un libro, che avrebbe voluto intitolare Affinché nulla sia dimenticato.
«Sono a buon punto. Ti leggo la dedica… A mia madre Adele, che, attraverso Marta, mi ha insegnato che, solo se lo si racconta, il passare del tempo può anche guarire.»
«Allora, dovrò mettermi all’opera per la presentazione ufficiale: ho degli amici che hanno una libreria qui in città, e che saranno lieti di ospitarti» le disse Marta con euforia.
La libreria nel centro di Parma era piena di gente. Tutte le sedie erano occupate, e alcuni ascoltatori incuriositi, che come altri non erano riusciti a sistemarsi in piedi davanti agli scaffali, stavano davanti alle due vetrine aspettando di poter entrare. La bella giornata primaverile sembrava non essere d’ostacolo alla loro attesa.
Laura sedeva al tavolo degli autori, un microfono davanti, il suo primo libro tra le mani. Accanto a lei, una giovane donna dallo sguardo vivace osservava il pubblico con calma: Marta, l’infermiera che aveva conosciuto sua madre.
«Quando ho incontrato Marta, circa un anno e mezzo fa» cominciò Laura, con voce sicura ma commossa, «non sapevo ancora che mi avrebbe cambiato la vita. Aveva conosciuto mia madre nella struttura in cui ha passato gli ultimi anni della sua esistenza. Mi ha raccontato che, ormai prossima ai suoi novant’anni, scriveva per non dimenticare, e non aveva ancora perso la voglia di andare avanti. Io, purtroppo, non la vedevo da anni, non solo perché vivo in Canada, ma perché uno stupido orgoglio aveva creato una ferita che entrambe avevamo creduto di non poter rimarginare. E, sempre attraverso Marta, ho saputo che mia madre era convinta che scrivere non serve a trattenere il passato, bensì a renderlo vivo per chi viene dopo.»
Fece una pausa, guardando il pubblico, e proseguì. «Questo mio libro è nato da lì. Dalle sue parole. E dalle lettere che mi aveva sempre scritto, senza mai spedirle. Mia madre aveva una storia, ma non l’ho mai voluta ascoltare.»
Smise di parlare e si girò verso Marta, che annuì con un sorriso.
«La memoria è un’eredità. E noi, a volte, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ce la consegni con delicatezza» concluse.
Dopo l’applauso, durante il firmacopie, si avvicinò a Laura una ragazzina adolescente, con gli occhi grandi e una copia del libro, chiedendole l’autografo.
«Mi piacerebbe tanto poter scrivere, un giorno, come lei. Ma ho paura che nessuno voglia ascoltarmi e leggermi» le disse la ragazza.
L’autrice le prese il libro e le chiese come si chiamasse.
«Adele.»
Laura la guardò e sorrise. Alzò gli occhi al cielo per un attimo, prima di scriverle la dedica.
Le storie che valgono sono quelle vere, quelle che nascono da dentro. Anche se fanno male o se sembrano insignificanti. Scrivile, un giorno qualcuno ti ringrazierà.

§§§

Complimenti ancora alla vincitrice!
Nei prossimi giorni posterò anche gli altri due racconti del podio.
Concludo questo numero del Blog ringraziando il pubblico che ci h seguito in questa lunga avventura! Grazie anche alla giuria  che ha letto e, insieme a me all'ultimo giro ;-), ha messo tanto impegno e tempo per giungere a una decisione, la più giusta possibile!
Ricordiamo chi sono:
Silvana Da Roit
Marta Martello
Tiziana Mazza
Tania Mignani
Gianluca Nespoli
Maria Rita Sanna



Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle

 


domenica 4 maggio 2025

Numero 471 - RITRATTI - Il giardino sonoro di PINUCCIO SCIOLA (a cura di Maria Rita Sanna) - 4 Maggio 2025


 

IL GIARDINO SONORO DI PINUCCIO SCIOLA
 
C’è un posto in Sardegna dove le pietre suonano al tocco di una mano. Proprio così: se le accarezzi, esse producono un suono dolce o profondo secondo il materiale che costituisce la pietra.



Il Maestro scultore che ha modellato questi elementi, voluminosi e millenari, è Pinuccio Sciola (1942 – 2016), e il luogo in cui si trovano i particolari strumenti musicali è San Sperate (Ca).
Il Giardino Sonoro ospita, oltre la casa studio dell’artista, la Fondazione Pinuccio Sciola, portata avanti dai suoi tre figli, numerose pietre dalle dimensioni più svariate, intagliate, forate, levigate. Attraverso ogni taglio si può acchiappare il raggio di sole, si può vedere la colata lavica di un’era geologica, oppure si può sentire il battito dell’acqua che ha impregnato quella pietra migliaia di anni prima.
Il materiale è basalto, oppure calcare.



Il noto architetto italiano Renzo Piano ha detto di lui:
C’è un patto tra Pinuccio Sciola e le pietre di Sardegna, tant’è vero che assomigliano l’uno alle altre come due gocce d’acqua.
Deve essere la ragione per cui le pietre si lasciano fare di tutto, da lui: tagliare, perforare, frammentare. Riesce persino a farle suonare.
Pinuccio Sciola ha l’arte della scultura nel sangue. 
La partecipazione a una mostra per studenti gli è valsa una borsa di studio che gli ha permesso di proseguire gli studi al liceo artistico di Cagliari e, in seguito, a Firenze. 
Ma Sciola non si ferma, grande è la sua sete di conoscere e modellare le pietre. I suoi viaggi studio lo portano in varie città d’Europa, conosce diverse personalità artistiche di fama internazionale. Scolpisce, modella, crea opere d’arte dalla pietra, ma di più vola in Messico dove apprende l’arte del muralismo come simbolo identitario del luogo, trasportato, in seguito, nelle vie del suo paese natale e da lì in tutta la Sardegna.
Nel tempo viene scoperta l’arte di Pinuccio Sciola, le sue opere sono esposte in molte città europee, in ampi spazi in cui i visitatori posso accedere con facilità; l’artista condivide la sua filosofia confermando un’intima e stretta relazione tra arte e natura, operando sul territorio e sull’ambiente naturale per creare un rapporto simbiotico con la stessa.

Ho vissuto ere geologiche interminabili.
Immani cataclismi hanno scosso la mia memoria litica.
Porto con emozione i primi segni della civiltà dell’uomo. 
Il mio tempo non ha tempo.

Con queste parole si svela anche la natura poetica di Sciola.
La sua sete di conoscenza arriva, agli inizi degli anni ’90, a rivelare al mondo una nuova scoperta sulla lavorazione della pietra: essa è in grado di produrre il suono.
La pietra non è solo un oggetto da vedere e toccare, ma si può anche ascoltare. Basta accarezzarla.
È una rivoluzione, un’evoluzione che porta l’artista a livelli di massima espressione dell’arte. Nascono le Pietre Sonore.
Nel 1996, per la prima volta, al Festival Time in Jazz di Berchidda, in Sardegna, il percussionista Pierre Favre suona la pietra scolpita da Sciola.
Questo originale strumento musicale è un’innovazione, produce suoni, meglio vibrazioni, provenienti dalla prima formazione della pietra.
Dalla pietra di origine calcarea viene riprodotto, con la carezza della mano, un suono liquido, evoca il tipico rumore del sottofondo marino, dolce e melodioso; oppure rappresenta la dolcezza di un violino se strofinata col tipico archetto.
La pietra di basalto, di origine vulcanica, riproduce un suono più duro, profondo, evoca la natura stessa della pietra: di terra e fuoco.
 
Nel 2008 Pinuccio Sciola espone ad Assisi un insieme di 150 pietre naturali, del peso di circa 140 Kg ciascuna. Nella piazza inferiore della Basilica di San Francesco emerge un suggestivo paesaggio formato dai Semi della Pace, pietre di basalto incise in profondità per evidenziare il nucleo della materia. Il significato di questa esposizione è il richiamo alla vita, la potenza di un semplice seme che affondato sulla terra origina vita, diventa germoglio.
La pace è l’indispensabile acqua che alimenta questi semi.
Poche settimane prima della sua scomparsa, 2016, Sciola espone le sue Pietre Sonore a fianco alla statua marmorea del Mosè di Michelangelo, a Roma, un evento che porta alla riflessione tra il mutismo della statua di marmo, verso cui è rivolta la nota domanda Perché non parli?, e la potenza musicale delle pietre sonore scolpite dall’artista sardo.
Per il suo impegno artistico, Pinuccio Sciola viene insignito, nel 2012, dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana.
Il 13 maggio 2016, giorno della sua morte, tutto il pase di San Sperate, lo ha celebrato con lenzuola bianche e drappi appesi ai balconi e finestre delle abitazioni. I suoi concittadini hanno voluto ricordare in questo modo la sua rivoluzione artistica che ha trasformato il paese in un museo a cielo aperto, iniziando proprio dalle pareti di case e palazzi.

Le mie sculture per ora sono qui, 
nei luoghi in cui le ho piantate
perché mettessero radici e tornassero a vivere.
Un giorno che non conosco, 
spero tornino all’Universo che le ha generate.

Pinuccio Sciola ci lascia in eredità il suo Giardino Sonoro, un luogo in cui è possibile attraversare il tempo nello spazio di una fessura nel monolite, ascoltare la vita nella vibrazione di un elemento primordiale. Quelle pietre ci parlano, la loro forma costituisce l’anima di una filosofia di vita spesa nel nome dell’arte.

Grazie a Maria Rita Sanna per averci fatto conoscere l'artista Pinuccio Sciola, dando un interessante contributo al Blog.
Maria Rita Sanna è autrice di Edizioni Convalle, ha al suo attivo due romanzi e una raccolta di racconti. 
La sua Sardegna è viva e palpitante nei suoi racconti e teatro dei suoi due romanzi, entrambi premiati alla Rassegna della Microeditoria di Qualità di Chiari, ottenendo il Marchio di Qualità. 
Inoltre collabora con Edizioni Convalle nella ricerca e la cura di autori, per la Collana Diari di viaggio, Young adult e Narrativa non di genere.


Le sue opere


https://edizioniconvalle.com/product/25219761/pane-e-fragole-978-88-85434-19-6


https://edizioniconvalle.com/product/25219791/mandorla-amara-978-88-85434-43-1


https://edizioniconvalle.com/product/26153063/la-colpa-dei-padri


Al prossimo ritratto
dalla vostra
Stefania Convalle

 


mercoledì 23 aprile 2025

Numero 470 - RITRATTI - Antonia Pozzi (a cura di Tiziana Mazza) - 23 Aprile 2025


 

RITRATTO DI ANTONIA POZZI (1912-1938)
a cura di Tiziana Mazza
 
Vivo della poesia come le vene vivono del sangue.
In questa frase è racchiusa l’essenza di Antonia Pozzi, una grande poetessa dalla vita troppo breve. Antonia Pozzi muore infatti suicida a soli 26 anni, lasciando ai posteri una grande quantità di opere.
Antonia nasce a Milano, figlia dell’avvocato Roberto Pozzi e discendente di Tommaso Grossi. La bisnonna Elisa Grossi è la capostipite di una grande genealogia femminile che Antonia avrebbe voluto raccontare in un romanzo, ma poi si dedicò alla poesia, più adatta a esprimere le inquietudini della sua anima sensibile, purtroppo condannata all’infelicità.
Tra le passioni di Antonia Pozzi c’è sicuramente quella per la montagna, tema largamente trattato nelle sue poesie. Pasturo, ai piedi della Grigna nei pressi di Lecco, è il suo luogo dell’anima, dove trascorre le sue vacanze estive e dove chiede di essere sepolta: pensare di essere sepolta qui non è nemmeno morire, è un tornare alle radici.
Antonia Pozzi adora scalare le montagne, l’ascesa verso la cima simboleggia per lei un’ascesa spirituale.
 
Dolomiti

Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d'ascesa. E noi strisciamo
sull'ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l'arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnammo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d'immenso,
inalberiamo sopra l'irta vetta
la nostra fragilità ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l'umidore ed un remoto
lamento s'ode, ch'è come il singhiozzo
trattenuto, incessante, della terra.
 
Antonia Pozzi frequenta il liceo classico Manzoni di Milano e qui ha come professore Antonio Maria Cervi di cui s’innamora perdutamente. Una storia destinata a non avere un lieto fine. Il padre osteggia questa relazione, infrangendo il sogno di Antonia di avere un figlio da lui. Il tema del bambino mai nato ritorna spesso nella poetica di Antonia.

Saresti Stato
 
Annunzio
saresti stato
di quel che non fummo,
di quello che fummo
e che non siamo più.
 
In te sarebbero
ritornati i morti
e vissuti i non nati,
sgorgate le acque
sepolte.
 
La poesia,
da noi amata e non sciolta
dal cuore mai,
tu l'avresti cantata
con gridi di fanciullo.
 
L'unica spiga
di due zolle confuse
eri tu –
lo stelo
della nostra innocenza
sotto il sole.
 
Ma sei rimasto laggiù,
con i morti,
con i non nati,
con le acque
sepolte –
alba già spenta al lume
delle ultime stelle:
non occupa ora terra
ma solo
cuore
la tua invisibile
bara.
 
Antonia Pozzi è dedita allo studio del pianoforte e delle lingue, motivo per cui viaggia moltissimo, all’università frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia e si laurea in Estetica con una tesi su Flaubert. Stringe amicizia con vari intellettuali tra cui Remo Cantoni, il suo secondo amore, destinato anche questo a procurarle sofferenza, in quanto non ricambiato.
Ma le delusioni per Antonia non arrivano solo sul fronte amoroso, gli accademici Antonio Banfi ed Enzo Paci esprimono un parere negativo sul suo lavoro poetico, troppo emozionale, e la invitano a scrivere di meno.
Antonia trova conforto nella fotografia, che inizia a sperimentare nel 1929 come strumento capace di catturare l’essenza delle persone, degli oggetti o della natura: i suoi scatti sono poesie visive.
Pochi mesi prima del suicidio Antonia regala le sue fotografia a Dino Formaggio, l’ultimo amore e anche l’ultimo dolore in quanto, ancora una volta, non è contraccambiato. Le foto sono accompagnate da una dedica: Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele. Perché l’unico fratello della mia anima sei tu e tutte le cose che mi sono state più care le voglio lasciare in eredità a te.
Il 2 dicembre del 1938 Antonia si reca a Chiaravalle, dove aveva trascorso tanti pomeriggi piacevoli in compagnia di Dino. Si sdraia sul prato, assume una forte dose di barbiturici e attende la morte. Quando la trovano, non c’è più niente da fare, morirà la sera dopo.
Antonia si sentiva come una nave in balia dei venti e dagli oceani in tempesta, incapace di trovare un approdo salvifico. 

Da: Il porto
 
Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata dagli uragani –
io vengo da mari lontani
e carica d’innumeri cose
disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –
io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo –
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l’onda sfinita?
Del suo viaggio
Oh, il cuore ben sa
La sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare al suo lido!
 
La protagonista della poetica di Antonia Pozzi è sempre l’anima, che si interroga sul modo di raggiungere l’agognata serenità, ma l’unico modo per trovare un po’ di pace è la poesia stessa.
 
Nell’ultima lettera - testamento ai genitori Antonia scrive: Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, constante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. [...] Desidero essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra i cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace.


***

Grazie a Tiziana Mazza per il suo prezioso contributo al Blog, con questo Ritratto della Poetessa Antonia Pozzi.
Tiziana Mazza è autrice di Edizioni Convalle, ha al suo attivo tre romanzi e una raccolta di racconti, tutti giallo/thriller.
Il suo primo romanzo "Sulle tracce di Lucifero", un giallo rosa, ha ottenuto il Marchio della Microeditoria di Qualità. 
Inoltre collabora con Edizioni Convalle nella ricerca e la cura di autori, per la Collana Gialli/Thriller.


Le sue opere

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Al prossimo ritratto!


Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle