Ieri ho postato il racconto vincitore del Masterbook:
https://st62co.blogspot.com/2025/05/numero-472-il-racconto-vincitore-della.html
Oggi potrete leggere il racconto secondo classificato, quello scritto da Valentina Ciocca, che ha fatto un percorso, prova dopo prova, senza perdere un colpo.
Valentina Ciocca e il suo racconto: brava!
VITTORIA SEGRETA
Capitolo uno
ANNA
I pensieri corrono più veloci del treno, mentre dal finestrino osservo la
valle assopita nel candido abbraccio dell’inverno.
Ho rimandato fino all’ultimo questo viaggio, ma alla fine ho ceduto. Dopotutto,
rivedrò Olga, mia madre. Non riesco a pensare a lei senza provare dolore e
risentimento. Non la odio per qualcosa che mi ha fatto, ma per quello che non
ha fatto. La sua indifferenza però mi ha resa quella che sono.
Per otto anni ho evitato di pensare alla mia vecchia vita; mi sono
sforzata di recidere ogni legame con il passato e ora gli sto correndo incontro
a cento chilometri all’ora.
Mi lascio cullare dal dondolio del treno che mi trascina in un leggero
dormiveglia. In un attimo sono di nuovo preda dei demoni che pensavo di aver
sepolto con la morte di Franco. Franco, quel padre che ha piegato mia madre,
rendendola un guscio vuoto, insensibile alla sofferenza e all’amore.
Una piccola macchia di colore emerge nel bianco accecante. Un cappottino
rosso cerca di nascondersi da un’ombra che lo insegue. Vorrei correre, ma il freddo
mi paralizza e non riesco a muovermi. Cerco di gridare, ma le mie urla si spengono,
inghiottite dal silenzio della neve.
La voce di Vittoria mi strappa via dal sogno che si dilegua, lasciandomi
una sensazione di gelo addosso.
«Quanto manca, mamma?»
«Ci siamo quasi. Vedi quel ponte in legno? L’edificio lì accanto era la
mia vecchia scuola, ma ora sembra ci sia qualcos’altro.»
Oggi come allora, l’assedio della neve è senza tregua.
Vittoria osserva con curiosità il piccolo paese ai piedi delle montagne
in cui sono nata e cresciuta. Avevo giurato che non ci avrei mai più messo
piede, e invece, eccomi qui.
Mi preparo, mio malgrado, a varcare il confine invisibile tra passato e
presente.
«Andiamo, tesoro. È ora di scendere. Da qui alla casa della nonna sono solo
pochi minuti a piedi.»
Cerco di dare alla mia voce la sicurezza che non ho. Vittoria non si
accorge delle mani che mi tremano, è troppo presa a gustarsi con gli occhi ogni
dettaglio e saltella impaziente, in attesa della fermata.
È la sua prima volta in treno ed è anche la prima volta che vede la neve.
Maledetta neve, che soffoca ogni cosa e seppellisce la verità.
Non voglio che i miei pensieri cupi rovinino quella che per lei è una
semplice gita, ma anche un giorno importante perché conoscerà la nonna.
Un alito di vento mi scompiglia i capelli come una spietata carezza e mi
paralizza per un istante.
La stazione è vuota. Nessun passeggero infreddolito che aspetta di salire
su un vagone a scaldarsi, nessuna famiglia che attende qualcuno a braccia
aperte. Sui mattoni consumati della sala d’attesa riconosco ancora le scritte
che avevamo fatto io e Laura, la mia migliore amica. A&L amiche per sempre.
Un’altra promessa che ho infranto. Ma non c’è tempo per la nostalgia. Questo
non è un paese per deboli di cuore.
La nostra non è una visita di cortesia. Viaggiamo leggere, senza
bagagli. Ci fermeremo giusto il tempo per firmare i documenti, poi torneremo in
città e ci lasceremo tutto alle spalle. Non permetteremo a questa breve
parentesi di rovinarci l’esistenza.
«Che bel posto, mamma, qui non è per niente come in città! Mi piace
questo silenzio, sembra di essere in un paese delle favole con tutta questa
neve!»
Nonostante le paure, l’entusiasmo della piccola è contagioso. Ci
addentriamo nel paese imbiancato, incastonato tra le montagne. Le luminarie
natalizie illuminano la via principale. Un luogo incantevole dove vivere.
Ma è tutta una farsa. Dietro alle porte chiuse e alle imposte accostate
si celano sguardi duri e accusatori e presto dovrò affrontarli, di nuovo. Questa
volta sono preparata. Non sono più la ragazzina che è partita otto anni fa, ora
torno a testa alta, orgogliosa di mostrare a tutti la mia bambina di cioccolato.
Scaccio i fantasmi che cercano di ingarbugliarmi i pensieri. Stringo
forte la mano di Vittoria, lei è la mia forza.
«Mamma, guarda nel fiume! C’è una fontana di ghiaccio! Posso toccarla?
Posso? Ti prego!››
Stretta nel cappotto, lascio che Vittoria si attardi a giocare con i
ghiaccioli del ruscello. La sua risata cristallina mi rincuora.
«Forza, è ora di andare.»
A un tratto avverto l’urgenza di vedere Olga e chiudere questo capitolo
della mia vita una volta per tutte.
Non ci vediamo da anni. Otto per la precisione. L’età della piccola
Vittoria. L’ho chiamata così per dimostrare che ce l’avrei fatta, al contrario
di quanto sosteneva lei.
E in effetti ce l’ho fatta, ho chiuso con un passato fatto di angosce e
preoccupazioni. Mi sono affrancata dalla mia vecchia vita, ho studiato e
cresciuto mia figlia da sola. Ora il passato è tornato, irruente e impetuoso
come un fiume in piena. Ma non intendo farmi travolgere.
Busso con vigore al vecchio portone di rovere e tanto basta a riportarmi
indietro nel tempo.
Capitolo due
ANNA
Prima ancora di sentire la sua voce, avverto la sensazione familiare di
angoscia che mi assale mentre varco la porta d’ingresso.
Il tempo, qui, si è fermato. L’odore di fumo è lo stesso che mi impregnava i vestiti e mi faceva vergognare quando andavo a scuola. L’unica differenza che noto è che i fiaschi di vino sono spariti. Olga deve essersene liberata dopo la morte di Franco. Non riesco proprio a chiamarlo padre.
«Sei venuta, alla fine.»
La sua voce è così flebile che fatico a riconoscerla.
«Non avevo scelta. Vittoria, lei è la nonna.»
Nella penombra lo sguardo spento di mia madre si ravviva per un istante mentre posa gli occhi su mia figlia.
La bambina porge la mano minuta e la ritrae istintivamente mentre le sfiora la pelle avvizzita e rugosa.
La casa è come la ricordo, triste e vuota. Sembra portare le stesse cicatrici di chi ci ha vissuto. Ogni angolo è intriso di un dolore passato. La panca accanto al camino, alcune candele smozzicate sul tavolo e nessun pentolone che brontola sul fuoco. Nemmeno un balocco a preannunciare il Natale imminente. Una casa che sa di solitudine.
«Sei davvero qui. Non ci speravo.»
Deglutisco, incapace di risponderle come meriterebbe.
Vittoria osserva Olga intimorita, mentre io sono sopraffatta. Vorrei urlare, accusarla, scuoterla. Ho immaginato mille volte questa scena e ora le parole muoiono sulle labbra, non riesco a dar voce ai sentimenti. Vorrei aggredire questa donna che mi ha negato l’affetto e mi ha insegnato a mie spese a cavarmela da sola. Ma davanti ho una vecchia consumata dagli anni e dalla malattia e, chissà, forse anche dai rimorsi.
«Ho preparato la tua vecchia stanza, se volete dormire qui.»
«Non sarà necessario, sbrighiamocela con queste carte, ripartiamo subito.»
«Mamma, mi piace questa casa, ti prego non torniamo subito in città, qui è tutto così bello e poi è quasi Natale, non voglio passare il Natale in treno.»
Le parole escono in un sussurro dalle labbra timide di Vittoria che osserva incuriosita l’anziana donna davanti a lei.
«Vedremo.»
Non riesco a fare promesse a lungo termine.
Mi siedo sulla vecchia poltrona e mentre sfioro nervosa il tessuto consumato, un’immagine fugace affiora alla mente: io e Olga siamo sedute proprio qui e lei mi pettina con dolcezza capelli. Il ricordo è talmente impalpabile e lontano che non riesco a nemmeno a capire se sia reale.
A un tratto sento il bisogno di uscire, le pareti della casa mi stanno strette. Non sopporto di condividere con lei gli stessi spazi, ma a quanto pare mia figlia non è della mia idea. Sembra incantata dalla voce di mia madre. La cerca con lo sguardo, la studia, è evidente che ne è attratta.
«Esco a fare due passi.»
Sono una codarda, lascio Vittoria nelle grinfie di quella strega e mi sento in colpa, ma non posso fare altrimenti.
Percorro la via centrale del paese; sembra diverso, ma le sensazioni sgradevoli che mi suscita sono le stesse. Al posto del circolo, dove Franco trascorreva la maggior parte delle sue giornate, hanno aperto una piccola pasticceria. Sembra graziosa e accogliente, ma non oso avvicinarmi troppo. Non vorrei rischiare di incontrare qualche vecchia conoscenza.
Perché ho accettato di venire? Questo posto non ha niente da offrirmi, se non il dolore di vecchie ferite che non guariranno mai.
Mi abbandono a un pianto inconsolabile quando una voce mi riporta alla realtà.
Una voce che avevo dimenticato, riposta in un angolo inaccessibile del cuore, sepolta da strati di dubbi e insicurezze.
«Anna...»
Basta quel richiamo per tornare con la mente ai ricordi più belli di un amore impossibile. Non ho bisogno di voltarmi per capire che è lui, il mio Jerome.
La mia paura o forse desiderio più grande si è materializzato davanti ai miei occhi.
Tremo, incapace di muovermi, sopraffatta da un misto straziante di gioia e dolore.
I nostri sguardi si incrociano mentre i respiri rimangono sospesi nell’aria gelida come fantasmi.
Non è più il ragazzino che ho lasciato, ora è un uomo, un bellissimo uomo. Un uomo dalle spalle larghe e il sorriso rassicurante, anche se nel suo sguardo leggo sofferenza. Il tipo di uomo che, forse, se gliene avessi dato la possibilità, mi avrebbe sostenuta e amata. Ma ora è troppo tardi.
«Jerome. Sei rimasto. Per tutto questo tempo...»
«Ti ho aspettata.»
«Non sono tornata per te, sono qui per mia madre. È malata, dobbiamo sistemare alcune questioni.»
«Perché sei scappata, Anna? Avremmo affrontato insieme i problemi... Ora è tutto diverso. La gente di qui ha capito; ci è voluto solo un po' di tempo.»
«Chi credi di ingannare, Jerome? Menti a te stesso. Sai benissimo che non avremmo avuto nessuna possibilità di stare insieme. Sai benissimo chi si nasconde dietro le tendine leziose e i centrini inamidati di questo maledetto paese.»
«I tempi sono cambiati, Anna. La gente ora mi conosce, mi apprezza; ho aperto un’attività mia, ti avrei dato un futuro.»
«Non essere ridicolo! La vuoi vedere una cosa? Lo vuoi vedere il futuro? Vieni con me e te lo mostro, il dannato futuro!»
Ancora una volta scappo via di corsa, ma questa volta Jerome mi blocca.
«Anna, fermati. Ti prego, parliamo. Non andartene di nuovo, non lo sopporterei. Eravamo felici. Io ti amavo davvero e forse non ho mai smesso...»
«Quante belle parole, Jerome! Sei come Olga! Mi amavi così tanto che mi hai lasciata andare quando avevo più bisogno di te! Non mi hai seguita, non hai fatto niente. Niente! Proprio come lei... Siete tutti uguali. Lasciami, lasciami andare. Vivi la tua vita mediocre e lascia in pace me e mia figlia.»
Le parole lo colpiscono come uno schiaffo.
Nel suo sguardo leggo confusione e disperazione.
«Hai una figlia... Beh, avrei dovuto immaginare che ti saresti rifatta una vita altrove. Io, invece, sono rimasto qui a vivere nell’illusione di un amore passato. Sono uno stupido.»
Per un istante rivivo la sensazione di calore che solo lui sa trasmettermi e vorrei abbandonarmi tra le sue braccia, ma la rabbia prende il sopravvento e la mia voce si spezza mentre gli urlo in faccia la verità.
Lascio andare il fardello emotivo che per anni mi ha consumata.
«No, Jerome, abbiamo una figlia. Si chiama Vittoria, ha otto anni. Ero incinta quando me ne sono andata. Te lo avrei rivelato appena ce ne fossimo andati da qui, ma tu eri troppo testardo e orgoglioso e non sei voluto partire.»
Jerome si prende il volto tra le mani, incredulo e distrutto dal dolore.
«Come hai potuto lasciarmi all’oscuro? Perché non mi hai detto niente? Anna, rispondi! Voglio sapere, voglio vederla! Dov’è?»
Cerco di fuggire, ancora una volta, verso la casa di Olga. Ma questa volta Jerome mi segue come una furia. Non l’ho mai visto incendiarsi così.
Il vaso di pandora è stato scoperchiato.
Il tempo, qui, si è fermato. L’odore di fumo è lo stesso che mi impregnava i vestiti e mi faceva vergognare quando andavo a scuola. L’unica differenza che noto è che i fiaschi di vino sono spariti. Olga deve essersene liberata dopo la morte di Franco. Non riesco proprio a chiamarlo padre.
«Sei venuta, alla fine.»
La sua voce è così flebile che fatico a riconoscerla.
«Non avevo scelta. Vittoria, lei è la nonna.»
Nella penombra lo sguardo spento di mia madre si ravviva per un istante mentre posa gli occhi su mia figlia.
La bambina porge la mano minuta e la ritrae istintivamente mentre le sfiora la pelle avvizzita e rugosa.
La casa è come la ricordo, triste e vuota. Sembra portare le stesse cicatrici di chi ci ha vissuto. Ogni angolo è intriso di un dolore passato. La panca accanto al camino, alcune candele smozzicate sul tavolo e nessun pentolone che brontola sul fuoco. Nemmeno un balocco a preannunciare il Natale imminente. Una casa che sa di solitudine.
«Sei davvero qui. Non ci speravo.»
Deglutisco, incapace di risponderle come meriterebbe.
Vittoria osserva Olga intimorita, mentre io sono sopraffatta. Vorrei urlare, accusarla, scuoterla. Ho immaginato mille volte questa scena e ora le parole muoiono sulle labbra, non riesco a dar voce ai sentimenti. Vorrei aggredire questa donna che mi ha negato l’affetto e mi ha insegnato a mie spese a cavarmela da sola. Ma davanti ho una vecchia consumata dagli anni e dalla malattia e, chissà, forse anche dai rimorsi.
«Ho preparato la tua vecchia stanza, se volete dormire qui.»
«Non sarà necessario, sbrighiamocela con queste carte, ripartiamo subito.»
«Mamma, mi piace questa casa, ti prego non torniamo subito in città, qui è tutto così bello e poi è quasi Natale, non voglio passare il Natale in treno.»
Le parole escono in un sussurro dalle labbra timide di Vittoria che osserva incuriosita l’anziana donna davanti a lei.
«Vedremo.»
Non riesco a fare promesse a lungo termine.
Mi siedo sulla vecchia poltrona e mentre sfioro nervosa il tessuto consumato, un’immagine fugace affiora alla mente: io e Olga siamo sedute proprio qui e lei mi pettina con dolcezza capelli. Il ricordo è talmente impalpabile e lontano che non riesco a nemmeno a capire se sia reale.
A un tratto sento il bisogno di uscire, le pareti della casa mi stanno strette. Non sopporto di condividere con lei gli stessi spazi, ma a quanto pare mia figlia non è della mia idea. Sembra incantata dalla voce di mia madre. La cerca con lo sguardo, la studia, è evidente che ne è attratta.
«Esco a fare due passi.»
Sono una codarda, lascio Vittoria nelle grinfie di quella strega e mi sento in colpa, ma non posso fare altrimenti.
Percorro la via centrale del paese; sembra diverso, ma le sensazioni sgradevoli che mi suscita sono le stesse. Al posto del circolo, dove Franco trascorreva la maggior parte delle sue giornate, hanno aperto una piccola pasticceria. Sembra graziosa e accogliente, ma non oso avvicinarmi troppo. Non vorrei rischiare di incontrare qualche vecchia conoscenza.
Perché ho accettato di venire? Questo posto non ha niente da offrirmi, se non il dolore di vecchie ferite che non guariranno mai.
Mi abbandono a un pianto inconsolabile quando una voce mi riporta alla realtà.
Una voce che avevo dimenticato, riposta in un angolo inaccessibile del cuore, sepolta da strati di dubbi e insicurezze.
«Anna...»
Basta quel richiamo per tornare con la mente ai ricordi più belli di un amore impossibile. Non ho bisogno di voltarmi per capire che è lui, il mio Jerome.
La mia paura o forse desiderio più grande si è materializzato davanti ai miei occhi.
Tremo, incapace di muovermi, sopraffatta da un misto straziante di gioia e dolore.
I nostri sguardi si incrociano mentre i respiri rimangono sospesi nell’aria gelida come fantasmi.
Non è più il ragazzino che ho lasciato, ora è un uomo, un bellissimo uomo. Un uomo dalle spalle larghe e il sorriso rassicurante, anche se nel suo sguardo leggo sofferenza. Il tipo di uomo che, forse, se gliene avessi dato la possibilità, mi avrebbe sostenuta e amata. Ma ora è troppo tardi.
«Jerome. Sei rimasto. Per tutto questo tempo...»
«Ti ho aspettata.»
«Non sono tornata per te, sono qui per mia madre. È malata, dobbiamo sistemare alcune questioni.»
«Perché sei scappata, Anna? Avremmo affrontato insieme i problemi... Ora è tutto diverso. La gente di qui ha capito; ci è voluto solo un po' di tempo.»
«Chi credi di ingannare, Jerome? Menti a te stesso. Sai benissimo che non avremmo avuto nessuna possibilità di stare insieme. Sai benissimo chi si nasconde dietro le tendine leziose e i centrini inamidati di questo maledetto paese.»
«I tempi sono cambiati, Anna. La gente ora mi conosce, mi apprezza; ho aperto un’attività mia, ti avrei dato un futuro.»
«Non essere ridicolo! La vuoi vedere una cosa? Lo vuoi vedere il futuro? Vieni con me e te lo mostro, il dannato futuro!»
Ancora una volta scappo via di corsa, ma questa volta Jerome mi blocca.
«Anna, fermati. Ti prego, parliamo. Non andartene di nuovo, non lo sopporterei. Eravamo felici. Io ti amavo davvero e forse non ho mai smesso...»
«Quante belle parole, Jerome! Sei come Olga! Mi amavi così tanto che mi hai lasciata andare quando avevo più bisogno di te! Non mi hai seguita, non hai fatto niente. Niente! Proprio come lei... Siete tutti uguali. Lasciami, lasciami andare. Vivi la tua vita mediocre e lascia in pace me e mia figlia.»
Le parole lo colpiscono come uno schiaffo.
Nel suo sguardo leggo confusione e disperazione.
«Hai una figlia... Beh, avrei dovuto immaginare che ti saresti rifatta una vita altrove. Io, invece, sono rimasto qui a vivere nell’illusione di un amore passato. Sono uno stupido.»
Per un istante rivivo la sensazione di calore che solo lui sa trasmettermi e vorrei abbandonarmi tra le sue braccia, ma la rabbia prende il sopravvento e la mia voce si spezza mentre gli urlo in faccia la verità.
Lascio andare il fardello emotivo che per anni mi ha consumata.
«No, Jerome, abbiamo una figlia. Si chiama Vittoria, ha otto anni. Ero incinta quando me ne sono andata. Te lo avrei rivelato appena ce ne fossimo andati da qui, ma tu eri troppo testardo e orgoglioso e non sei voluto partire.»
Jerome si prende il volto tra le mani, incredulo e distrutto dal dolore.
«Come hai potuto lasciarmi all’oscuro? Perché non mi hai detto niente? Anna, rispondi! Voglio sapere, voglio vederla! Dov’è?»
Cerco di fuggire, ancora una volta, verso la casa di Olga. Ma questa volta Jerome mi segue come una furia. Non l’ho mai visto incendiarsi così.
Il vaso di pandora è stato scoperchiato.
Capitolo tre
OLGA
Alla fine, è venuta e ha portato con lei la bambina. È proprio nera. Ha
la pelle di ebano; eppure, non posso dire che sia brutta, anzi, non lo è per
niente. Ha uno sguardo mite e curioso.
Sono nonna. Che assurdità.
Nonna di una bambina color cioccolato. Franco si starà rivoltando nella tomba. Beh, che si rivolti quanto vuole, con tutte quello che ci ha fatto passare.
Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo della gravidanza di Anna? Di sicuro si sarebbe ubriacato e se ne sarebbe dimenticato nel giro di pochi giorni.
Ci stiamo studiando, io e la piccola; mi osserva, come se cercasse di capire se davvero apparteniamo allo stesso mondo.
La faccio sedere, le do del latte. Non so cos’altro potrei offrirle, non ho saputo offrire nulla a sua madre, sangue del mio sangue, figuriamoci a lei.
Anna è uscita, è scappata, come sempre quando deve affrontare un problema, ma che colpa ne ha? Non ho mai saputo proteggerla, nemmeno da un padre violento che beveva troppo. Non le ho mai insegnato niente, però è cresciuta forte, determinata e indipendente, devo ammetterlo. Ma non è merito mio. Tutta farina del suo sacco. Lei e la bambina sono vestite bene. Deve avere buon lavoro. È sempre stata intelligente e ambiziosa.
Chissà da chi avrà preso? Non di certo dal padre, che quel poco cervello che aveva se lo è bruciato nel vino.
«Ti ho portato un regalino di Natale, nonna, anche se in anticipo.»
Le labbra di Vittoria si muovono appena e il sussurro che ne esce è talmente impercettibile, che quasi penso di essermelo immaginato.
La bambina abbassa lo sguardo e mi porge un pezzo di carta spiegazzato.
Non so cosa dire. È una lettera che raffigura un grande albero e sotto quella che, credo, dovrei essere io.
Cara nonna, sono così emozionata! Presto ti conoscerò. Non ho mai avuto una nonna e non so bene cosa dire, non ci siamo mai viste ma un pochino mi sembra di conoscerti da quello che mi racconta la mamma. Le chiedo spesso di te, anche se capisco che non le va molto di parlarmi di quando era bambina, però cerca sempre di accontentarmi. Mi ha detto che il nonno è volato in cielo, ma di lui non vuole dirmi niente. Di te, mi ha detto che le hai insegnato l’educazione, che eri molto severa e lavoravi tantissimo. Forse non avevi molto tempo per stare con lei, però la mia mamma è la migliore del mondo e sicuramente è merito tuo che l’hai fatta così buona e perfetta e quindi ti ringrazio per aver fatto una mamma speciale come la mia.
Ti ho fatto solo un disegno come regalo perché i soldi li metto nel salvadanaio e li spendo solo per le cose importanti. Non pensare che il tuo regalo non sia importante, ma la mamma ha detto che bisogna tenere i soldi per i periodi di magra, anche se non so cosa vuol dire. Spero di andarti bene come nipote, sai, a volte la gente mi guarda in modo strano perché la mia pelle è così scura. A scuola però ho conosciuto un altro bambino come me. Credo di aver preso questo colore dal mio papà, ma non ne sono sicura, non l’ho mai visto. È un argomento vietato e alla mamma non chiedo niente di lui. L’unica volta che l’ho fatto è diventata triste e non mi piace vederla così.
Sono una chiacchierona, nonna, spero di non averti annoiata e di piacerti, anche solo un pochino.
Ti saluto, ci vediamo presto.
La tua nuova nipote Vittoria.
In un attimo le mie certezze crollano, si sciolgono, come il nodo che da anni mi stringe il petto e appesantisce le spalle. Sono stata così stupida. Una vecchia ignorante, proprio come mi ha detto Anna l’ultima volta che ci siamo viste. Aveva ragione. Questa bambina è un dono di Dio e io volevo costringerla a disfarsene. Grazie al cielo, non mi ha dato ascolto.
«Perché piangi? Non ti piace il mio disegno?»
«No, Vittoria, piango perché non ho mai ricevuto un regalo in tutta la mia vita e questo, beh, questo è davvero un grande regalo.»
«Non hai mai ricevuto un regalo? Sai, a scuola, la maestra ci ha spiegato che fare dei regali serve a far capire alle persone che per noi sono importanti e che non servono occasioni speciali per regalare qualcosa.»
Mi tremano le mani e ho la bocca asciutta. Mi sento così piccola davanti a questa bambina. Mia nipote, che ho rinnegato con tutte le mie forze solo perché ha la pelle di un colore diverso dalla mia. Ora, forse, è troppo tardi perché io possa fare parte della sua vita.
«Sono stata una sciocca e devo scusarmi con te, con la tua mamma, e anche con il tuo papà.»
Ho parlato senza riflettere e ora la bambina mi guarda implorante.
«Conosci il mio papà?»
«Sì… Magari ne riparleremo…»
La mia voce è poco più di un soffio.
«Ora perché non cerchiamo qualche addobbo? Ti va di aiutarmi mentre aspettiamo la mamma?»
Leggo la delusione nei suoi occhi, un lampo di speranza che si spegne subito. Non posso dirle la verità. Non ora.
«Certo, nonna. Non ti dà fastidio se ti chiamo così, vero?››
Arrossisco, incapace di trovare le parole. Per la prima volta la bambina mi chiama nonna, e io lascio che accada.
«Forza, aiutami a prendere il vecchio albero di Natale. Sai, alla mia età le giornate sono lente e silenziose e il Natale invece dovrebbe essere un carosello di luci e colori. Una volta era così…››
Per un attimo mi perdo nell’immagine di Anna che mi chiede di mettere la stella cometa sulla cima dell’albero.
Lascio morire i ricordi, incapace di sostenerli.
La porta si spalanca, Anna appare sulla soglia, con Jerome al suo fianco. Per un istante, tutto è uguale a otto anni fa, come se il tempo non fosse mai passato. Ma non è così. Nulla è uguale. Il suo sguardo è una lama che mi trafigge. Non c’è rabbia, solo il peso di tutte le cose non dette. E io capisco che certe ferite non si rimarginano.
Vorrei poter riscrivere la nostra storia, ma indietro non si torna.
Perdonami, figlia mia, per tutto il male che ti ho fatto e per tutto il male che non ho saputo evitarti. Per la prima volta dalla morte di mio marito mi lascio andare alle lacrime. Allora erano lacrime di sollievo per essermi liberata di lui.
Oggi sono lacrime che chiedono perdono.
JEROME
Sono nonna. Che assurdità.
Nonna di una bambina color cioccolato. Franco si starà rivoltando nella tomba. Beh, che si rivolti quanto vuole, con tutte quello che ci ha fatto passare.
Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo della gravidanza di Anna? Di sicuro si sarebbe ubriacato e se ne sarebbe dimenticato nel giro di pochi giorni.
Ci stiamo studiando, io e la piccola; mi osserva, come se cercasse di capire se davvero apparteniamo allo stesso mondo.
La faccio sedere, le do del latte. Non so cos’altro potrei offrirle, non ho saputo offrire nulla a sua madre, sangue del mio sangue, figuriamoci a lei.
Anna è uscita, è scappata, come sempre quando deve affrontare un problema, ma che colpa ne ha? Non ho mai saputo proteggerla, nemmeno da un padre violento che beveva troppo. Non le ho mai insegnato niente, però è cresciuta forte, determinata e indipendente, devo ammetterlo. Ma non è merito mio. Tutta farina del suo sacco. Lei e la bambina sono vestite bene. Deve avere buon lavoro. È sempre stata intelligente e ambiziosa.
Chissà da chi avrà preso? Non di certo dal padre, che quel poco cervello che aveva se lo è bruciato nel vino.
«Ti ho portato un regalino di Natale, nonna, anche se in anticipo.»
Le labbra di Vittoria si muovono appena e il sussurro che ne esce è talmente impercettibile, che quasi penso di essermelo immaginato.
La bambina abbassa lo sguardo e mi porge un pezzo di carta spiegazzato.
Non so cosa dire. È una lettera che raffigura un grande albero e sotto quella che, credo, dovrei essere io.
Cara nonna, sono così emozionata! Presto ti conoscerò. Non ho mai avuto una nonna e non so bene cosa dire, non ci siamo mai viste ma un pochino mi sembra di conoscerti da quello che mi racconta la mamma. Le chiedo spesso di te, anche se capisco che non le va molto di parlarmi di quando era bambina, però cerca sempre di accontentarmi. Mi ha detto che il nonno è volato in cielo, ma di lui non vuole dirmi niente. Di te, mi ha detto che le hai insegnato l’educazione, che eri molto severa e lavoravi tantissimo. Forse non avevi molto tempo per stare con lei, però la mia mamma è la migliore del mondo e sicuramente è merito tuo che l’hai fatta così buona e perfetta e quindi ti ringrazio per aver fatto una mamma speciale come la mia.
Ti ho fatto solo un disegno come regalo perché i soldi li metto nel salvadanaio e li spendo solo per le cose importanti. Non pensare che il tuo regalo non sia importante, ma la mamma ha detto che bisogna tenere i soldi per i periodi di magra, anche se non so cosa vuol dire. Spero di andarti bene come nipote, sai, a volte la gente mi guarda in modo strano perché la mia pelle è così scura. A scuola però ho conosciuto un altro bambino come me. Credo di aver preso questo colore dal mio papà, ma non ne sono sicura, non l’ho mai visto. È un argomento vietato e alla mamma non chiedo niente di lui. L’unica volta che l’ho fatto è diventata triste e non mi piace vederla così.
Sono una chiacchierona, nonna, spero di non averti annoiata e di piacerti, anche solo un pochino.
Ti saluto, ci vediamo presto.
La tua nuova nipote Vittoria.
In un attimo le mie certezze crollano, si sciolgono, come il nodo che da anni mi stringe il petto e appesantisce le spalle. Sono stata così stupida. Una vecchia ignorante, proprio come mi ha detto Anna l’ultima volta che ci siamo viste. Aveva ragione. Questa bambina è un dono di Dio e io volevo costringerla a disfarsene. Grazie al cielo, non mi ha dato ascolto.
«Perché piangi? Non ti piace il mio disegno?»
«No, Vittoria, piango perché non ho mai ricevuto un regalo in tutta la mia vita e questo, beh, questo è davvero un grande regalo.»
«Non hai mai ricevuto un regalo? Sai, a scuola, la maestra ci ha spiegato che fare dei regali serve a far capire alle persone che per noi sono importanti e che non servono occasioni speciali per regalare qualcosa.»
Mi tremano le mani e ho la bocca asciutta. Mi sento così piccola davanti a questa bambina. Mia nipote, che ho rinnegato con tutte le mie forze solo perché ha la pelle di un colore diverso dalla mia. Ora, forse, è troppo tardi perché io possa fare parte della sua vita.
«Sono stata una sciocca e devo scusarmi con te, con la tua mamma, e anche con il tuo papà.»
Ho parlato senza riflettere e ora la bambina mi guarda implorante.
«Conosci il mio papà?»
«Sì… Magari ne riparleremo…»
La mia voce è poco più di un soffio.
«Ora perché non cerchiamo qualche addobbo? Ti va di aiutarmi mentre aspettiamo la mamma?»
Leggo la delusione nei suoi occhi, un lampo di speranza che si spegne subito. Non posso dirle la verità. Non ora.
«Certo, nonna. Non ti dà fastidio se ti chiamo così, vero?››
Arrossisco, incapace di trovare le parole. Per la prima volta la bambina mi chiama nonna, e io lascio che accada.
«Forza, aiutami a prendere il vecchio albero di Natale. Sai, alla mia età le giornate sono lente e silenziose e il Natale invece dovrebbe essere un carosello di luci e colori. Una volta era così…››
Per un attimo mi perdo nell’immagine di Anna che mi chiede di mettere la stella cometa sulla cima dell’albero.
Lascio morire i ricordi, incapace di sostenerli.
La porta si spalanca, Anna appare sulla soglia, con Jerome al suo fianco. Per un istante, tutto è uguale a otto anni fa, come se il tempo non fosse mai passato. Ma non è così. Nulla è uguale. Il suo sguardo è una lama che mi trafigge. Non c’è rabbia, solo il peso di tutte le cose non dette. E io capisco che certe ferite non si rimarginano.
Vorrei poter riscrivere la nostra storia, ma indietro non si torna.
Perdonami, figlia mia, per tutto il male che ti ho fatto e per tutto il male che non ho saputo evitarti. Per la prima volta dalla morte di mio marito mi lascio andare alle lacrime. Allora erano lacrime di sollievo per essermi liberata di lui.
Oggi sono lacrime che chiedono perdono.
Questa volta sono pronto ad affrontare Olga. Ho accumulato otto anni di rancore
e frustrazione. Ma oggi siamo alla resa dei conti.
Entro come una furia.
Poi la vedo.
Piccola, luminosa, perfetta.
Tutta la rabbia che mi ha portato fin qui si dissolve, come neve al sole. Non sono più l’uomo in cerca di vendetta. Sono un padre che scopre sua figlia per la prima volta. E niente ha più importanza, se non lei.
Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto che in un istante hanno già capito tutto. Ha gli occhi chiari di sua madre, ma senza dubbio è mia figlia.
Una bambina di colore in questo piccolo paese, forse Anna ha fatto la scelta migliore andandosene.
Mi sono perso otto anni di lei, otto anni di vita e di amore, solo per la mia testardaggine. Avrei potuto seguire Anna in città, come mi aveva chiesto, ma il mio orgoglio mi ha trattenuto qui solo per dimostrare che potevo integrarmi, che potevo piacere agli ottusi abitanti di questo villaggio. Sono riuscito nel mio intento, ma a quale prezzo? Non sapevo, allora, che Anna portasse con lei un dolcissimo segreto.
È sempre stata così risoluta nelle sue decisioni, voleva studiare e dimenticare le sue origini.
E io cosa ho fatto? Niente. Ha ragione ad accusarmi di essere come Olga.
È una donna straordinaria e non intendo perderla un’altra volta. Olga non l’ha mai protetta dal padre, non ha mai fatto niente quando lei era solo una bambina indifesa e aveva bisogno di sua madre e io, io ho fatto la stessa cosa. Sono rimasto accecato dal mio orgoglio e non l’ho saputa proteggere. L’ho abbandonata. Proprio quando era più vulnerabile.
«Sei il mio papà?»
La voce intimorita di Vittoria mi riporta al presente.
Sono padre? Davvero? Un misto di gioia e trepidazione si fa strada nel mio petto.
Con lo sguardo cerco l’approvazione di Anna prima di rispondere, ma lei mi precede.
«Sì, Vittoria, lui è il tuo papà. Mi dispiace che tu lo conosca solo dopo tanto tempo, ma magari potremo recuperare…»
Nella voce rotta di Anna riesco a leggere qualcosa che mi dà una piccola speranza.
Voglio abbracciare la mia bambina e darle tutto l’amore che merita, quello che a sua madre è stato negato. Ma il percorso è tutto in salita.
Entro come una furia.
Poi la vedo.
Piccola, luminosa, perfetta.
Tutta la rabbia che mi ha portato fin qui si dissolve, come neve al sole. Non sono più l’uomo in cerca di vendetta. Sono un padre che scopre sua figlia per la prima volta. E niente ha più importanza, se non lei.
Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto che in un istante hanno già capito tutto. Ha gli occhi chiari di sua madre, ma senza dubbio è mia figlia.
Una bambina di colore in questo piccolo paese, forse Anna ha fatto la scelta migliore andandosene.
Mi sono perso otto anni di lei, otto anni di vita e di amore, solo per la mia testardaggine. Avrei potuto seguire Anna in città, come mi aveva chiesto, ma il mio orgoglio mi ha trattenuto qui solo per dimostrare che potevo integrarmi, che potevo piacere agli ottusi abitanti di questo villaggio. Sono riuscito nel mio intento, ma a quale prezzo? Non sapevo, allora, che Anna portasse con lei un dolcissimo segreto.
È sempre stata così risoluta nelle sue decisioni, voleva studiare e dimenticare le sue origini.
E io cosa ho fatto? Niente. Ha ragione ad accusarmi di essere come Olga.
È una donna straordinaria e non intendo perderla un’altra volta. Olga non l’ha mai protetta dal padre, non ha mai fatto niente quando lei era solo una bambina indifesa e aveva bisogno di sua madre e io, io ho fatto la stessa cosa. Sono rimasto accecato dal mio orgoglio e non l’ho saputa proteggere. L’ho abbandonata. Proprio quando era più vulnerabile.
«Sei il mio papà?»
La voce intimorita di Vittoria mi riporta al presente.
Sono padre? Davvero? Un misto di gioia e trepidazione si fa strada nel mio petto.
Con lo sguardo cerco l’approvazione di Anna prima di rispondere, ma lei mi precede.
«Sì, Vittoria, lui è il tuo papà. Mi dispiace che tu lo conosca solo dopo tanto tempo, ma magari potremo recuperare…»
Nella voce rotta di Anna riesco a leggere qualcosa che mi dà una piccola speranza.
Voglio abbracciare la mia bambina e darle tutto l’amore che merita, quello che a sua madre è stato negato. Ma il percorso è tutto in salita.
ANNA
Entro in casa come un uragano, ma la rabbia evapora in un secondo e
lascia posto allo stupore quando vedo mia madre che sta addobbando il nostro
vecchio albero di Natale insieme a Vittoria.
Ridono e si guardano complici. Non è possibile, voleva a tutti i costi cancellare la prova della vergogna, voleva che mi sbarazzassi di lei appena ha saputo che ero incinta e ora la guarda incantata. Assurdo.
Jerome mi segue, incapace di aprire bocca.
Vittoria si volta e lo vede, lo riconosce al volo. I loro sguardi si incrociano e rimangono così, incatenatati e sospesi.
Per un attimo restiamo tutti in silenzio, ci sarebbe così tanto da dire, ma nessuno sembra avere il coraggio di fare il primo passo.
Poi tutto succede così in fretta che non capisco più nulla.
Olga mi abbraccia, come non aveva mai fatto. Mi stringe forte, ma io resto immobile, incapace di rispondere al suo slancio.
«Anna, non sono mai stata brava con le parole. Anzi, non sono mai stata brava in niente. Ho sbagliato tutto con te. Sono colpevole. Ti ho lasciata sola quando avevi bisogno di me, ho finto di non vedere molte cose, ho lasciato che tuo padre ti facesse del male e non ti ho protetta perché… Non lo so nemmeno io perché...»
«Credi che anni di vuoto e dolore si possano cancellare così? Solo perché ora sei in fin di vita?»
«No, non posso cancellare niente e nemmeno pretendere.»
«Mi hai spezzata, mamma. Mi hai insegnato a non fidarmi di nessuno e non mi hai dato alternative.»
«Lo so, questa è la mia colpa più grande. Non so come hai fatto, ma sei diventata una donna e una madre straordinaria. Al contrario di me, hai dato tutto a questa bambina. Perdonatemi, perdonatemi per aver rovinato le vostre vite. Perdonami, Jerome, per averti negato la gioia di sapere di essere padre. Perdonami piccola, perché ho allontanato la tua mamma dal tuo papà. Mi dispiace, per tutto. So che non c’è rimedio alle mie mancanze, che ho fallito come donna, come moglie, come madre.»
Le sue parole mi lasciano interdetta; vorrei tanto crederle, ma la paura mi impedisce di accettarle davvero.
«Anch’io ho una confessione da farti e qualcosa da farmi perdonare: ho rubato i tuoi risparmi quando sono partita. So che erano quelli che mettevi da parte di nascosto, per evitare che Franco li spendesse per comprarsi da bere. Ti ho privata di quella poca indipendenza su cui avresti potuto contare, ma io dovevo farlo per mia figlia. Spero che tu capisca.»
Olga sembra titubante, fragile.
«Anna, quei risparmi li avevo messi da parte per te. Sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui te ne saresti andata e ne avresti avuto bisogno. Non sono riuscita a fare di più perché sono stata una vigliacca. So che se te li avessi offerti non li avresti mai accettati.››
Questa rivelazione mi travolge, lasciando intravedere un passato diverso da quello che conosco. Ho sempre pensato di essere sola, invece lei ha fatto qualcosa per me, per darmi una possibilità.
«Mamma…»
Dopo otto lunghissimi anni, riesco di nuovo a pronunciare quella parola. Mi abbandono tra le sue braccia e la perdono. Le perdono tutto. Tutte le volte che non mi ha difesa da mio padre, tutte le volte che mi ha lasciata sola, tutte le volte che non mi ha capita e mi ha voltato le spalle. È valsa la pena arrivare fin qui solo per vedere con quanta dolcezza, ora, guarda la mia bambina.
Mentre stringo mia madre, sento Jerome muoversi accanto a noi. Per anni siamo stati frammenti sparsi di una storia mai scritta. Ma ora siamo di nuovo qui, insieme, pronti a ricominciare.
Lui mi guarda, e nei suoi occhi non c’è rabbia, non c’è rimprovero. Solo amore. Quello che non abbiamo avuto il coraggio di vivere, quello che forse potremo provare a ricostruire.
Vittoria si avvicina, incerta, ma quando Jerome le tende la mano, lei la afferra, senza esitazione. È così semplice, così naturale.
A un tratto questa casa fredda e spoglia mi appare come un rifugio. Forse, possiamo ripartire da qui, forse esiste ancora un noi.
Sorrido, mentre i frammenti di una vita complicata si ricompongono come un puzzle che finalmente ha trovato il suo ultimo pezzo.
Sono esausta, frastornata, ma ho una voglia improvvisa di addobbi, torrone e della torta di mele e cannella che preparo ogni Vigilia.
Il mio Jerome aveva ragione fin dall’inizio.
Ridono e si guardano complici. Non è possibile, voleva a tutti i costi cancellare la prova della vergogna, voleva che mi sbarazzassi di lei appena ha saputo che ero incinta e ora la guarda incantata. Assurdo.
Jerome mi segue, incapace di aprire bocca.
Vittoria si volta e lo vede, lo riconosce al volo. I loro sguardi si incrociano e rimangono così, incatenatati e sospesi.
Per un attimo restiamo tutti in silenzio, ci sarebbe così tanto da dire, ma nessuno sembra avere il coraggio di fare il primo passo.
Poi tutto succede così in fretta che non capisco più nulla.
Olga mi abbraccia, come non aveva mai fatto. Mi stringe forte, ma io resto immobile, incapace di rispondere al suo slancio.
«Anna, non sono mai stata brava con le parole. Anzi, non sono mai stata brava in niente. Ho sbagliato tutto con te. Sono colpevole. Ti ho lasciata sola quando avevi bisogno di me, ho finto di non vedere molte cose, ho lasciato che tuo padre ti facesse del male e non ti ho protetta perché… Non lo so nemmeno io perché...»
«Credi che anni di vuoto e dolore si possano cancellare così? Solo perché ora sei in fin di vita?»
«No, non posso cancellare niente e nemmeno pretendere.»
«Mi hai spezzata, mamma. Mi hai insegnato a non fidarmi di nessuno e non mi hai dato alternative.»
«Lo so, questa è la mia colpa più grande. Non so come hai fatto, ma sei diventata una donna e una madre straordinaria. Al contrario di me, hai dato tutto a questa bambina. Perdonatemi, perdonatemi per aver rovinato le vostre vite. Perdonami, Jerome, per averti negato la gioia di sapere di essere padre. Perdonami piccola, perché ho allontanato la tua mamma dal tuo papà. Mi dispiace, per tutto. So che non c’è rimedio alle mie mancanze, che ho fallito come donna, come moglie, come madre.»
Le sue parole mi lasciano interdetta; vorrei tanto crederle, ma la paura mi impedisce di accettarle davvero.
«Anch’io ho una confessione da farti e qualcosa da farmi perdonare: ho rubato i tuoi risparmi quando sono partita. So che erano quelli che mettevi da parte di nascosto, per evitare che Franco li spendesse per comprarsi da bere. Ti ho privata di quella poca indipendenza su cui avresti potuto contare, ma io dovevo farlo per mia figlia. Spero che tu capisca.»
Olga sembra titubante, fragile.
«Anna, quei risparmi li avevo messi da parte per te. Sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui te ne saresti andata e ne avresti avuto bisogno. Non sono riuscita a fare di più perché sono stata una vigliacca. So che se te li avessi offerti non li avresti mai accettati.››
Questa rivelazione mi travolge, lasciando intravedere un passato diverso da quello che conosco. Ho sempre pensato di essere sola, invece lei ha fatto qualcosa per me, per darmi una possibilità.
«Mamma…»
Dopo otto lunghissimi anni, riesco di nuovo a pronunciare quella parola. Mi abbandono tra le sue braccia e la perdono. Le perdono tutto. Tutte le volte che non mi ha difesa da mio padre, tutte le volte che mi ha lasciata sola, tutte le volte che non mi ha capita e mi ha voltato le spalle. È valsa la pena arrivare fin qui solo per vedere con quanta dolcezza, ora, guarda la mia bambina.
Mentre stringo mia madre, sento Jerome muoversi accanto a noi. Per anni siamo stati frammenti sparsi di una storia mai scritta. Ma ora siamo di nuovo qui, insieme, pronti a ricominciare.
Lui mi guarda, e nei suoi occhi non c’è rabbia, non c’è rimprovero. Solo amore. Quello che non abbiamo avuto il coraggio di vivere, quello che forse potremo provare a ricostruire.
Vittoria si avvicina, incerta, ma quando Jerome le tende la mano, lei la afferra, senza esitazione. È così semplice, così naturale.
A un tratto questa casa fredda e spoglia mi appare come un rifugio. Forse, possiamo ripartire da qui, forse esiste ancora un noi.
Sorrido, mentre i frammenti di una vita complicata si ricompongono come un puzzle che finalmente ha trovato il suo ultimo pezzo.
Sono esausta, frastornata, ma ho una voglia improvvisa di addobbi, torrone e della torta di mele e cannella che preparo ogni Vigilia.
Il mio Jerome aveva ragione fin dall’inizio.
L’amore può fare miracoli.
§§§
Non ci resta che fare tanti complimenti a Valentina Ciocca, seconda classificata al Masterbook, seconda edizione-2025, il torneo da me ideato, on line, a eliminazione diretta.
Un torneo molto difficile e per autori coraggiosi.
Brava, Valentina!
Alla prossima
dalla vostra
Stefania Convalle