BARBARA ROMANO
Nel caos del traffico milanese, amplificato dal disagio dell’acquazzone, tutti avevano fretta di raggiungere la loro destinazione.
Le automobili scivolavano sull’asfalto luccicante, sollevando ondate di acqua sporca.
Sara correva in direzione della stazione della metropolitana M1 di Piazzale Loreto.
Quel giorno avrebbe dovuto sostenere l’ultimo esame universitario per poter quindi discutere la tesi, ma era rimasta intrappolata nel vecchio ascensore per un lasso di tempo che le era parso interminabile, prima che il portiere riuscisse a liberarla.
Dovevo scendere le scale a piedi, pensò mentre oltrepassava i tornelli e sfrecciava in direzione dei binari.
Il cartello luminoso che pendeva dal soffitto annunciò che il convoglio successivo, a causa di un problema tecnico, sarebbe arrivato dopo sedici minuti.
Ci mancava anche questa… Sospirò tra sé.
Con una calma glaciale imboccò l’entrata della linea rossa da Corso Buenos Aires, arrivando alla banchina del treno. Notò il cartello luminoso che indicava un ritardo di sedici minuti.
Mancano solo sedici minuti, pensò Hina.
Hina si avvicinò al bordo del marciapiede, sfiorando con lo guardo assente Sara, che si trovava accanto a lei.
Fu questione di un attimo.
Sara che afferrava Hina un istante prima che si lanciasse nel vuoto. Sara che abbracciava stretta Hina, come se non volesse più lasciarla andare. Hina che piangeva sulla spalla di Sara.
Mentre il vagone chiudeva le porte, riprendendo indifferente il suo viaggio.
Cercava quegli occhi celesti che il giorno prima lo avevano fulminato, nell'andirivieni all'uscita del metrò, prima che la folla lo trasportasse sull'onda della frenesia, fra semafori dai tempi impossibili, auto insofferenti nei confronti dei pedoni, rumori di smog e grigie isterie.
Cercava quella pelle di porcellana, quei capelli neri sparsi sulle spalle alla fermata dell'autobus, in mezzo a volti inchiodati sui cellulari, sguardi persi su riviste sfogliate meccanicamente e nelle corse a perdifiato di chi quel mezzo lo avrebbe perso, per un soffio.
Come perso era lui, in quella follia nella follia, nel ricercare l'ago in un pagliaio che si disfa a velocità assurde, senza concedere ossigeno a batticuori che vadano oltre un attraversamento pedonale con l'arancione.
Poi, proprio mentre si stava voltando per tornare alla scrivania, la scorse: vestita di verde speranza, immobile innanzi al bar delle volatili colazioni.
A rotta di collo fece la rampa di scale che lo separava dall'uscita e in un battibaleno si trovò sepolto dall'indifferente moltitudine cittadina, che tutto fagocita; giunto all'uscio del locale un profumo di vaniglia, rapido quanto un addio clandestino, aveva preso il posto della graziosa fanciulla, sfuggita per la seconda volta, risucchiata dal caos di quella città che ora lui ferocemente odiava, dal più profondo del suo Essere.
MENZIONI SPECIALI
Fredda Saint Louis
Con un sospiro di rassegnazione Victor Caruso si appoggiò al muro di un palazzo in mattoni ed estrasse un fazzoletto bianco, che arrotolò come meglio poté e lo avvolse attorno alla ferita. Cercò di fare un nodo stretto che gli bloccasse la circolazione, ma i movimenti erano goffi e impacciati.
Nella sua misera vita era sempre stato lui a trovarsi dalla parte del vincente o dell’arma fumante; invece, questa volta aveva visto in faccia la bocca di fuoco della pistola.
Il mondo si è capovolto, pensò con un sorriso beffardo. Alzò lo sguardo per ammirare quelle insegne luminose che donavano un sinistro colore alla viuzza nella quale si era rifugiato. Il ritmato e fastidioso lampeggiare del neon rendevano l’atmosfera retrò.
Sicuramente ho i minuti contati, meditò mentre scivolava sulla fredda e sporca pavimentazione. Non avrebbe mai pensato di morire in quel modo disonorevole, proprio lui che aveva servito il suo capo da quando aveva quattordici anni. Invece, nell’ultimo anno tutto era cambiato e da essere il braccio destro di Alfredo Miles si era visto appellare come una maledetta spia della polizia. Qualcuno lo aveva incastrato e lui, come un novellino, era caduto dentro la trappola.
Dei passi smorzati dalle suole di gomma si fecero più vicini. Victor alzò la testa e guardò il suo antagonista e assassino.
«Hai avuto quello che volevi?» domandò.
«Sì, dopo che ti avrò ucciso» replicò l’uomo e senza attendere oltre puntò la pistola alla testa di Victor e fece fuoco.
Una densa caligine avvolge i tetti e rende ovattati i rumori di sottofondo. Gli antichi palazzi si rispecchiano nella laguna, con le loro bifore e la facciate che sembrano dei merletti riccamente lavorati.
E le calli sono così strette da impedire quasi il passaggio di chi le attraversa. Le vetrine dei negozi espongono maschere e abiti d’epoca in un tripudio di colori, broccati e passamanerie, brillantini e piume. Non è il periodo in cui si celebra il famoso Carnevale, eppure la città sembra in festa.
Seguo la mappa stampata sul voucher dell’hotel, stretto nella mia mano. Le indicazioni mi dicono che devo superare solo due ponti per giungere a destinazione. Sono quasi arrivata.
Mi soffermo in cima a una rampa ad ammirare il canale. Le acque piatte sono smosse da una gondola che arriva silenziosa. I due giovani innamorati che trasporta forse sono due sposi in viaggio di nozze. Chissà…
Mi appresto a scendere la successiva rampa e supero il secondo ponte. Qui i negozi sono radi, ma ci sono tipiche trattorie e abitazioni dalle cui finestre illuminate s’intravedono stucchi, ricchi tendaggi, suggestivi soffitti a cassettoni e preziosi lampadari di Murano.