Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

martedì 31 gennaio 2017

Numero 266 - Garetta di riscaldamento: chi ha vinto?;-) - 31 Gennaio 2017


La gara del tram

E anche questa gara lanciata nel Blog si è conclusa. 
Tanti bei racconti che avevano come oggetto il tram, originali, commoventi, divertenti, nostalgici. Come sempre vi siete lanciati in questa condivisione di scrittura con passione e partecipazione.


Grazie a tutti coloro che hanno letto e hanno espresso il proprio voto, anche se era difficile scegliere, lo so!

Ma adesso:

complimenti alla vincitrice!

Avrete già capito dalla foto che è lei,
ué, ma questa Quadri è forte!

Daniela Quadri, super penna, si porta a casa anche questa vittoria!


Cosa ha vinto?
Curiosi, eh?

Un trattamento zen shiatsu!

Ho pensato che dopo tutte queste fatiche di penna, si fosse guadagnata un bel momento rilassante!


Complimenti anche ai secondi classificati:

Barbara Gallo
Tania Mignani
Daniela Perego
  


Ora, però, cominciate a scaldare penne e motori per la terza edizione del 
premio letterario Dentro l'amore!
A breve il bando!

Vi voglio tutti presenti!









mercoledì 25 gennaio 2017

Numero 265 - Un premietto ogni tanto, fa bene allo spirito! ;-) - 25 gennaio 2017



Una bella notizia :-D 
Ho appena saputo che un mio racconto (tratto dalla raccolta "Dentro l'amore") è stato premiato al concorso LeggiadraMente, organizzato dall'associazione 
Carta e Penna di Torino: 
Menzione d'onore
Non è salito sul podio, ma dai, sono contenta ugualmente :-D

Eccolo qui!
Scritto dopo una mini vacanza a Firenze, nel 2011, dopo aver posato per un ritratto di strada :-) 
La foto ha immortalato l'evento;-)

IL RITRATTISTA
di
Stefania Convalle

Mi siedo.

La piazza mi guarda e anche lui, il pittore, colui che si accinge a ritrarmi.
Prende la sua matita carboncino e la passa su una carta vetrata, mi fa venire in mente la lama di un rasoio e il gesto del barbiere per affilarla.
Mi sento indifesa di fronte a quel gesto come se gli avessi offerto il collo e gli avessi detto – mordimi pure – E se lo facesse davvero?

Siedo, lo devo guardare – così mi ha detto – ma all’inizio faccio fatica a farlo, mi sento come una donna che sta per essere spogliata per la prima volta dal suo uomo. Lui mi spoglia con gli occhi, ma non gli interessa il corpo, gli interessa l’anima.
Mi chiede che faccio nella vita – scrivo – è la mia risposta.
Sento il carboncino scivolare sul foglio, non vedo cosa fa, ma so che sta scavando nei miei occhi e mi sento nuda.
Mi dice – hai il tratto della scrittrice – Mi sta lusingando, lo so, ma quando i nostri sguardi sono fissi uno nell’altro, sento che ne è catturato.
“Quanto  fuoco, sotto la cenere!”
Non rispondo, gli sorrido.

I movimenti della mano si fanno frenetici, prende la gomma e cancella qualcosa. Indugia sui miei occhi: – Quanta luce! – Ma non rispondo di nuovo. Mi limito a sorridere.
Non riesce a smettere, la matita corre e m’insegue nei tratti, mi vuole e poco importa se ormai ha superato tutti i tempi canonici di un ritratto in strada.
Non parla più, sento solo il suo sguardo appoggiato su di me, leggero come quella matita e profondo come un blu cobalto.
“Mi fermo qui.”
“Posso guardare?”  

Sono emozionata. Mi alzo e guardo il ritratto. La mia bocca. I miei occhi parlano da quel foglio.
Rimango a fissare il ritratto, mi ha dipinta più giovane, con qualche particolare che non ritrovo in me, ma lui mi spiega che il ritratto non è una fotografia,  è come ti vede il pittore.
Arrotola il cartoncino e me lo consegna.  Mi dispiace andarmene e indugio. Lui lo capisce: “Se non hai fretta, possiamo fare due passi, ti mostro qualche angolo di Firenze poco conosciuto.” Sorpresa gli rispondo: “Sì!”
Ripone  tutte le sue cose,  chiude il cavalletto, piega gli sgabelli che sono serviti a entrambi durante il ritratto e affida il tutto a un collega, lì come lui, negli assolati pomeriggi estivi ad aspettare i clienti nella piazza del Duomo. Cominciamo a camminare e presto ci infiliamo dentro dei vicoli che ci allontanano dalle vie principali del centro. Immediatamente si percepisce una quiete che placa la mente, l’ombra creata dai palazzi ravvicinati attenua l’afa che nella piazza, in pieno sole, era diventata faticosa da sopportare.

Camminiamo in silenzio ed è una sensazione nuova per me. Lui è uno sconosciuto, ma non sento il bisogno di riempire quel momento con delle parole, mi sento a mio agio e tranquilla.
Arriviamo nei pressi dell’Arno, ci sediamo sul prato che costeggia il fiume e da lì ammiriamo il Ponte Vecchio, un nuovo punto di vista, diverso dal classico a cui si è abituati. Ci sediamo su un muretto.
“Da qui vedere il tramonto è tutta un’altra cosa. Come ti chiami?”
“Valentina.”  
“Nick.”  

Aspettiamo il tramonto e lo ammiriamo in quello scorcio da cartolina, mentre tutto sembra ammorbidirsi in quella luce più morbida e calda.
Tutto mi pare strano, ma non mi faccio troppe domande, mi godo quell’attimo di pace a fianco di un uomo mai visto prima, ma così vicino a me.
All’improvviso mi indica un abbaino che si affaccia sul fiume.
“Abito lì.”
“Accidenti! Mica male!”  
“Sto per partire. Domani, per la precisione. Starò via qualche mese. Cerco qualcuno che badi ai miei fiori. Tu sei una scrittrice, ti va di stare a casa mia fino a quando  tornerò? Ti assicuro che è un luogo dove l’ispirazione t’investirà. In cambio dovrai solo occuparti delle mie piante, le vedi? Su quel terrazzo…”

Rimango sorpresa da quella proposta. Per un attimo mi sfiora l’idea che sia un pazzo, ma siccome sono pazza anch’io, accetto. In fondo non ho nessuno a casa che mi aspetta. Sono libera.
Non penso a niente. Lui pare contento della mia decisione e sorride.
“Vieni, ti mostro la casa.”
Ci riportiamo sulla strada e raggiungiamo il palazzo dove abita. Un palazzo antico, malmesso, ma dignitoso e fascinoso nella sua decadenza.
Saliamo le scale fino all’ultimo piano dove c’è la sua porta, l’unica del pianerottolo. Sembra quasi di andare in un solaio. Mi attraversano mille pensieri – E se fosse un maniaco? Avrò fatto male a venire fino a qui? – Ho paura e penso che dovrei voltarmi e andarmene in fretta, ma qualcosa mi trattiene.
Apre la porta. La luce investe i miei occhi, un lucernaio rimanda gli ultimi raggi di sole del tramonto. Mi aspettavo un corridoio e invece sono in una serra. Enorme. Calda. Umida. Mi gira la testa, lui m’invita a sedermi, recupera una sedia. Mi porge un bicchiere d’acqua fresca. Bevo e guardo attraverso il vetro del bicchiere. Credevo si riferisse a pochi fiori di cui occuparmi, ma mi rendo conto che è molto di più, qualcosa di incredibile. Accende uno stereo e la stanza si riempie della musica di Mozart. Mi fa cenno di seguirlo e mi conduce verso l’altra parte della casa. Ora tutto appare più normale, un unico spazio arredato in qualche modo, ma pur sempre qualcosa che assomigli a un appartamento.
“Sei turbata dalla mia serra?”
“…Diciamo che non me l’aspettavo…  è insolito…”
“Adoro i fiori, le piante, ciò di cui è capace la natura. Lo so che questa casa è un po’ particolare: hai cambiato idea? Vuoi rinunciare a seguire i miei fiori?”
“…No… Anche se per un attimo l’ho pensato.”

Mi sorride e mi tende la mano, io la prendo e mi lascio condurre al tavolo dove m’invita a sedermi mentre lui si appresta a preparare qualcosa per cenare insieme. Lo osservo e mi accorgo della sua giovinezza, quella che è dentro i gesti, gli occhi, l’entusiasmo che si ha nel preparare un piatto di spaghetti al pomodoro fresco. Quasi non vedo più le rughe del suo viso che mi avevano fatto collocare la sua età intorno al mezzo secolo o qualcosa in più. Mentre apparecchia la tavola  dal piano di marmo, come una vecchia cucina toscana, mi versa del vino e mi chiede di brindare al suo viaggio imminente.
“Dove vai, posso chiedertelo?”
“Sono un mercante, vado a scovare l’artigiano vero in Oriente.”
“Credevo fossi un pittore.”
“Faccio ritratti in strada, mi piace osservare le persone ed entrare nei loro sguardi mentre li ritraggo; mi piace vedere le titubanze quando si avvicinano,  hanno quasi paura che qualcuno indaghi troppo dietro la maschera… Perché il ritrattista vede quello che c’è dietro, lo sai?”
Sorride sornione mentre me lo dice.
“E cosa hai scoperto di me?”
“…Che non indossi maschere e che sei perfetta per i miei fiori che vogliono solo mani candide.”
Arrossisco. Mi alzo e mi affaccio all’abbaino che mi aveva indicato dall’Arno; vedo di nuovo il Ponte Vecchio da una prospettiva ulteriormente diversa. La vista è bellissima e credo abbia ragione: l’ispirazione si impadronirà di me.

Dopo cena mi dà le istruzioni per prendermi cura della serra come se si trattasse di una figlia. Mi lascia il suo numero di telefono e, mentre prepara i bagagli, mi avvisa che alla mattina partirà molto presto e che sarà meglio salutarsi ora.
Credo di essere pazza, all’improvviso mi rendo conto che sto prendendo un impegno da cui non potrò scappare e non so quando tornerà. Glielo chiedo, ma lui risponde solo con un laconico  “tornerò”.
E sia. Sia quel che sia.

Al mattino mi alzo, lui è già partito, inizio questa strana esperienza e comincio a eseguire le istruzioni che mi ha lasciato.  Devo impegnarmi, non ho mai avuto un talento per il giardinaggio e ho paura di non essere capace di mantenere in vita quel polmone verde in una soffitta fiorentina.
I giorni trascorrono, uno dopo l’altro. Mi godo questa strana parentesi della mia vita in cui mi divido tra fiori, computer per scrivere, pochi passi fuori per la spesa e per scambiare due parole con qualcuno. E poi di nuovo nella soffitta, perché di questo si tratta, una soffitta adibita a serra e ad abitazione. Per qualche istante mi sento quasi Anna Frank, ma lei era condannata, io posso fuggire.

Fuggire. Mi accorgo che dopo qualche settimana è un pensiero che mi coglie spesso. Non ho notizie di lui. Potrebbe anche essere morto, non lo saprei. Non so quando tornerà, tra un mese, tra un giorno, tra un’ora, mai. Sento che comincio ad essere preda dell’ansia. Cammino nella serra e guardo le piante, i fiori, li guardo sotto una luce nuova, vorrei capire chi è quell’uomo e perché ha scelto me per questo compito. Osservo i colori dei petali, le forme, il verde delle foglie, c’è un messaggio in mezzo a tutto questo, lo so, lo sento, lo posso avvertire sulla pelle perché i brividi mi stanno dicendo che c’è del vero in quello che sto pensando. Un messaggio, ma quale  e per chi? Non certo per me che mi ha vista una manciata di ore.

Non trovo niente, so che è lì, sotto i miei occhi, ma non lo vedo, non lo metto a fuoco.
Esco, altrimenti impazzisco. Torno alla piazza dove l’ho conosciuto. Ci sono i suoi amici. Indugio, ma poi decido di chiedere qualche informazione su Nick. Sembra che nessuno sappia niente, oppure nessuno vuole parlare. Sono evasivi, poche parole, niente di più di quello che so. Delusa, mi avvio verso  casa quando una donna sulla porta del suo negozio mi fa cenno di avvicinarmi.
“Che vuoi sapere di Nicola?”
“Qualsiasi cosa.”
“Perché?”
Non so rispondere. Non so se posso dire cosa sto facendo a casa sua. Cerco velocemente di trovare un motivo valido per le mie domande.
“Perché mi aveva fatto un ritratto  e vorrei commissionargliene un altro.”
La donna mi guarda dritto negli occhi e capisco che non mi crede.
“Ti ha affidato i suoi fiori?”
La domanda mi disorienta. Non rispondo, ma il mio silenzio parla da solo.
“Entra.”

Mi conduce nel retro del negozio. Si mette a rovistare tra scatole e fogli, fino a quando trova una lettera. La apre e me la fa leggere. 
“Lo sai quanto tenga ai miei fiori, sono l’unica cosa che mi rimane di lei, ma senza di lei non so vivere. Tengo in vita la serra per avere l’illusione di toccare ciò che ha toccato, di sentire i profumi del suo profumo. Non so quanto possa reggere. L’altro giorno mi sono detto che se dovessi nascere oggi, da cosa ricomincerei? Azzerare il passato, i ricordi, i dolori, anche i momenti belli, sì, anche quelli, perché sono la causa di questo senso di mancanza di lei. Voglio andarmene, non so ancora se solo da questa città o da questa vita, ma voglio lasciarmi tutto alle spalle. Aspetterò il momento giusto, aspetterò l’impossibile, che il destino mi faccia incontrare una donna che mi ricordi lei e che si prenda cura di quell’amore; lo so, è una pazzia la mia, qualcosa che difficilmente accadrà, ma credo che questa donna arriverà perché mi verrà mandata e io la riconoscerò.”
Alzo lo sguardo, incontro gli occhi della donna pieni di lacrime.
“Ma di chi parla Nicola, chi è la donna della serra?”
“Nostra figlia. Noi due non siamo più insieme da tanti anni e Anna era rimasta con lui, innamorata di quel luogo dove ha voluto creare quella serra che ha curato fino all’ultimo con un amore inesauribile per ogni forma di vita.”

Mentre la donna continua a parlare ricordo il particolare della cena con lui, quella luce che avevo colto nei suoi occhi, quell’amore ed entusiasmo per la vita. Non mi sembrava un uomo disperato. Glielo dico, ma lei mi risponde che probabilmente  era euforico perché sapeva di essere libero; ora che aveva trovato la donna che cercava, alla quale affidare la serra, lui poteva andarsene, forse a morire.
Sono sconvolta. Mi sento impigliata in una rete da cui non so come liberarmi. Ricordo di avere il numero di telefono, quello che mi ha lasciato prima di partire, lo dico alla donna, glielo mostro, lei lo guarda e abbassa gli occhi.
“E'  il mio.”

Senza via d’uscita. Ecco come mi sento. Imprigionata in un compito affidatomi da un uomo che forse non tornerà più. Cerco la soluzione, mi sento responsabile per quella presunta eredità che mi ha lasciato.  Vago per la città e poi mi ritrovo seduta lungo l’Arno, dove mi aveva condotta e da dove mi aveva mostrato quell’abbaino. Le ore passano lente, come il fiume davanti a me. Non so che fare. Potrei fregarmene e andarmene, consegnare le chiavi alla donna del negozio e che ci pensi lei a quei fiori…. Ma non riesco, sento quasi di avere un impegno morale verso quell’uomo. In fondo, lui mi ha affidato la cosa più cara che avesse, ha scelto me.
E'  sera ormai, ma non mi decido a tornare in quella casa. Guardo l’abbaino  e vedo la finestra illuminata. C’è qualcuno. Il cuore accelera il battito, ho paura, non so se è lui o chi altro, ma vado, devo andare a vedere.
Cammino sempre più velocemente, mi accorgo che ho cominciato a correre, salgo le scale due gradini alla volta, ma mi devo fermare, non sono più così giovane  e mi chiedo come Nick abbia potuto vedere in me, una donna della sua età,  qualcosa che gli ricordasse la figlia. Arrivo sul pianerottolo, la porta è socchiusa. Mi fermo un attimo e cerco di essere razionale, potrebbe essere un ladro, devo essere prudente. Mentre rifletto, eccolo, apre la porta e mi guarda.
“Mi sembrava di aver sentito qualcuno arrivare… Ciao…”
Sono sollevata, è lui, è vivo, è tornato. Lo osservo e ora sì, la scorgo quell’inquietudine che gli sta mordendo l’anima. Entro.
“Tu le assomigli tanto, lo sai?”
Sono ammutolita. Mi chiede se può abbracciarmi.
“Certo che puoi.”
Il nostro abbraccio dura un’eternità, mi avvolge, sento il suo corpo di uomo maturo e quasi mi vergogno per le emozioni che mi suscita perché in quel momento per lui è come se io fossi la figlia.
“Non sono lei, lo sai vero?”
“Sì, lo so, ma hai il suo candore.”
Scioglie l’abbraccio e un po’ mi dispiace. Mi fa i complimenti per come ho seguito la serra, ora ritrovo il suo sorriso, anche se, è vero, è pieno di malinconia.
“Sono contenta che tu sia tornato. Davvero.”

Il cerchio si chiude e si chiude con una nuova cena, come al mio arrivo, solo che adesso lui sa che io so e io so cosa gli attraversa l’anima. Questa volta i suoi gesti sono stanchi, come se non ce l’avesse fatta a farla finita e fosse rassegnato a vivere nel suo dolore, con la sua serra. Gli spaghetti non hanno lo stesso sapore della volta prima,  sono pieni di amarezza e di solitudine.
Mi alzo, lo conosco appena, ma non riesco a vederlo così. Prendo una bottiglia di vino, la apro. Il rumore del turacciolo che esce dal collo della bottiglia richiama la sua attenzione, gli sorrido, verso il vino nel suo bicchiere. Lo invito a un brindisi. Questa volta sono io a proporlo. Ci guardiamo, i bicchieri allegri di vino rosso, lo guardo dritto negli occhi:
“A noi due, alla vita che apre nuove porte quando stavamo per gettare la spugna…”
Lui solleva lo sguardo e sembra che mi veda per la prima volta. So che mi sta vedendo  in una nuova luce, non come quando  gli ricordavo  sua figlia. Me ne accorgo da una scintilla diversa, c’è curiosità verso di me.
“Hai voglia di andare a fare due passi? La serata è bella, fresca, voglio sapere di te.”
“Sì, andiamo.”
Mi prende per mano e questa volta sento le sue  toccare quelle di una donna, una donna nuova.
Una vita nuova.


lunedì 16 gennaio 2017

Numero 264 - Nero su bianco - 16 gennaio 2017


NERO SU BIANCO 
di
Stefania Convalle

Nero su bianco scrivo la vita che in serate come queste – fumose, annebbiate – scivola su una pagina vuota senza trovare la strada, niente cartelli, direzioni obbligate. La luna calante dissemina di pulviscolo d’opale un cielo che s’interroga: chissà se anche le costellazioni hanno dubbi o paure? Inquietudini nell’angolo buio, disseminate come ricordi dentro una vecchia agenda, confondono le certezze.
Eppure non dovrebbe essere difficile vivere. Ma quello che vedo, e che forse sono anch’io, sono  esseri umani in continuo vagare dentro se stessi, nelle falle di una vita difficile da capire.

Ieri scrivevo così, a metà tra poesia e un racconto che butta male, ho chiuso il pc e mi sono detta che fosse meglio andare a vedere un film alla tv.
Detto, fatto: film che mi si para davanti al naso, “Un altro mondo”.  Il riassunto recita così: Andrea, giovane uomo, una famiglia ricca alle spalle, un difficile legame con una madre algida e anaffettiva, vive una vita superficiale e priva di responsabilità insieme alla sua ragazza Livia. Il giorno del suo compleanno Andrea riceve una lettera: il padre, che non vede da più di vent'anni, è in punto di morte e gli chiede di raggiungerlo in Kenya per l'ultimo saluto. Andrea vince le proprie resistenze e parte per Nairobi. Contro ogni previsione si ritroverà a dover gestire un'eredità alquanto singolare: un fratellastro di otto anni che il padre ha avuto da una donna del luogo. A questo punto inizia per Andrea un viaggio fisico e interiore che lo porterà molto più lontano di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

Ecco qui, volevo qualcosa per ridere, distrarmi e rimango incastrata dentro una visione che parla di maternità, paternità, viaggi interiori, struggimenti vari.
Lasciamo perdere i sogni di questa notte.
E al risveglio pigro come ogni inverno, non è bastato il cappuccino con la brioche a risollevarmi l’umore. Quel sole abbagliante, così stonato in un gennaio qualsiasi, non migliora l’umore, anzi, mi fa desiderare la pioggia, la pioggia che ti mimetizza, anzi, un bel temporale che ti fa sentire  protetta e fortunata nella casa accogliente che la vita mi ha concesso, ma i sensi di colpa sono in agguato perché il pensiero va a chi, un riparo, non ce l’ha. E allora? Non c’è salvezza. Dov’è l’equilibrio?
Lo cerco nei panni da stirare, lavoro fisico che fa sempre bene, tgcom24, un gigantesco panettone a forma di babà con gocce di rhum; ma sì, affondiamo i pensieri cupi negli zuccheri e nell’alcol!
Eh, ma mica è così facile, babà = senso di colpa per i chili di troppo.
Niente da fare. Non se ne esce.
Ma il tapis-roulant mi chiama, ok, arrivo, ci provo, scarpette da ginnastica, tenuta da atleta vera, musica e si parte con una corsetta leggera.
Mi vedo riflessa nei vetri delle finestre, guardo i quadri appesi alle pareti, lo sguardo cade su una foto ingrandita di Rebecca che sorride dai suoi due anni di qualche anno fa. Un nodo alla gola si scioglie all’improvviso.

Ora è  tutto chiaro.

Alla fine, posso scrivere duecento libri, aprire dieci case editrici, riempirmi la vita d’amore e di amici, cani e gatti, ma il vuoto della maternità mancata non si riempirà mai con niente.
Eh sì, dura realtà e triste consapevolezza. Eh sì, mi dico, ero nata per essere madre.
E allora?
E allora, avanti. Troppa consapevolezza tutta insieme non fa nemmeno bene. O forse sì, forse ricordarsi che quella mancanza ci sarà per sempre e che prima o poi l’accetterò davvero – anche perché non posso fare altro – magari verso i novant’anni, non è così nociva.
Tutto sommato, ricordarsi qual è la vera causa di momentanei, e per fortuna saltuari, umori in caduta libera, restituisce il sorriso. Un sorriso di rassegnazione. Ma pur sempre un sorriso.
E'  vero, non sarò mai madre; e se ho un po’ di pancia, non è perché io sia al quinto mese di gravidanza (vedi, mi ritorna pure l’ironia), ma cazzo, e scusate se lo dico, anzi, lo ridico, CAZZO, ho me stessa, e noi stessi siamo i figli di cui dobbiamo prenderci cura.


Sì, proprio così.