Volevo solo avere più tempo

Volevo solo avere più tempo
Il nuovo romanzo di Stefania Convalle

venerdì 30 settembre 2022

Numero 412 - Masterbook, i racconti del GIRONE C, Fase 1, per il voto popolare - 30 settembre 2022


 Ultima tappa della FASE 1 del Masterbook

Ieri sera, 29 settembre 2022, durante la diretta Facebook sulla Pagina di Edizioni Convalle, ho svelato i nomi degli autori dei racconti del Girone B

La Fase 1 per loro si è conclusa e i 5 autori che passano alla Fase 2 sono:

Maria Grazia Conti    (voto giuria tecnica)

Pamela Pirola (voto giuria tecnica)

Barbara Romano (voto giuria tecnica)

Emanuela Tomiato (voto popolare)

Tatiana Vanini (voto giuria tecnica)

Complimenti a loro, ma anche agli altri 3 autori che hanno partecipato alla gara: 

Marco Lazzaro

Michela Rossi

Simona Valiante

Tutti i racconti erano belli, ma bisognava scegliere!

Ieri sera, durante la diretta, ho letto i racconti in gara del Girone C, Fase 1.

In 4 hanno passato il turno, approdando alla Fase 2, grazie al voto della giuria tecnica.

Per gli altri 4, però, come le scorse settimane, non tutto è perduto e uno di loro potrà essere ripescato attraverso il voto popolare.

Sarete voi, lettori, a poter ripescare un racconto e "ributtarlo" in gara attraverso il vostro voto che dovrete esprimere in un commento a questo numero del blog, all'interno del blog stesso.

Potrete esprimere una sola preferenza scrivendo: VOTO IL RACCONTO NUMERO... 

Mettete il vostro nome e cognome nel commento, non sono graditi i commenti anonimi.

Se volete scrivere anche la motivazione, all'autore farà piacere, anche se non sapete a chi appartiene il testo (ma lo saprete in un secondo tempo).

I racconti verranno postati in questo numero senza il mio intervento, nessuna correzione verrà da me apportata. Tutti i testi saranno qui riportati esattamente come mi sono arrivati.

Comincio quindi a postare qui di seguito i 4 testi che potrete votare.

 

RACCONTI DA VOTARE

 

GIRONE C – ELABORATO NUMERO 2

Il matrimonio di Mitzi


C'è aria di fermento in casa Petek, questa mattina. Oggi si sposa Mitzi, la figlia di Paron Bepi. Le voci si sentono fino nel cortile e le comari, già sveglie dall'alba sorridono, complici. Mitzi è quasi pronta. Ha indossato una gonna di taffetà blu e una camicetta dello stesso colore con minuscoli pois bianchi. Si guarda allo specchio e sistema il bellissimo colletto ricamato. Certo, lei avrebbe tanto desiderato un vestito bianco. Sarebbe stato semplice, a vita bassa, con un piccolo strascico. L'avrebbe cucito con le sue mani, le sue amiche l'avrebbero di certo aiutata e Madame Katarina, la proprietaria dell'atelier in cui lavora, a Pola, le avrebbe di sicuro fatto uno sconto sull'acquisto del tessuto. Maledetta guerra  che ha stravolto tutto!
Con le lacrime agli occhi, Mitzi si gira verso la porta che si appena aperta con fragore.
È suo fratello Rudy che vuole scattarle alcune foto.
«Dai, girati che almeno ti si vede la faccia.» dice, saltellando tutto agitato con la macchina fotografica a penzoloni.
«Attento che la farai cadere!» lo ammonisce lei. Ma lui non l'ascolta, continua a girarle intorno. Il suo colonnello, che gli ha prestato l'apparecchio, si è raccomandato di non fare scatti a vanvera perché le pellicole costano, per questo cerca il lato migliore di sua sorella. All'improvviso si sente in “clic”.
« Ti me ga fotografado el dedrio, » dice Mitzi ridendo.
Rudy sta per risponderle malamente ma, da fuori, si sentono voci che reclamano la sposa.
La ragazza esce in tutta fretta, accolta da grida festose e sale sul carretto. Suo padre, vestito con il suo vecchio completo blu, le stringe la mano senza parlare, ha gli occhi velati dalle lacrime. Invece sua madre non è uscita di casa e non parteciperà alla cerimonia. Donna tutta d'un pezzo la siora Eufemia. Aveva giurato che se sua figlia avesse sposato un talian lei non sarebbe andata al matrimonio e così ha fatto. Mitzi non si capacita che sua madre non capisca.
L'Istria è terra di confine e gli italiani sono sempre stati mal sopportati. Se poi sono anche militari e come tali invasori, ancora meno. Poco importa se Pietro, il suo sposo, è un ragazzo di ventidue anni, travolto come tutti loro dall'ondata di follia che sta sconvolgendo il mondo.

In breve arrivano alla chiesa. Prima di scendere, Mitzi da uno sguardo alla sua città: L'Arena, la Riva, i Giardini e il mare, il suo amato mare...quanto le mancheranno! La ragazza sa che fra non molto le toccherà fuggire da quei luoghi tanto amati. Quelli come sua madre non vedono di buon occhio i matrimoni come il suo e potrebbero perseguitarli o anche peggio. Da qualche tempo, si sente sempre più spesso parlare di foibe, di persone di cui non si sa più nulla. Meglio andarsene.

Ma ora, non è il momento dei pensieri tristi. Il suo Pietro la sta aspettando e appoggiandosi al braccio del padre, a passi leggeri, si avvia verso di lui.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 3

Lei amava scrivere

Lei amava scrivere. Avrebbe sempre scritto, se il mondo glielo avesse permesso.
I miei genitori non lo sapevano. Nessuno lo sapeva. Come nessuno sapeva il resto.
Eravamo diverse come la terra dal cielo, il giorno dalla notte, l’acqua dal fuoco. Io ero la figlia del signore; lei era la cameriera. Io potevo studiare, leggere se volevo; lei non poteva fare nessuna di queste cose sebbene le amasse più della sua stessa vita. Io studiavo, ma capivo poco e niente di libri e scrittura; lei non ne aveva la possibilità, ma aveva una sensibilità d’animo straordinaria per tutte arti.  
La ammiravo e volevo aiutarla. Di nascosto presi a comprarle carta e penna, gliela facevo trovare sotto il materasso nella sua stanzetta. Non parlavamo mai. Non potevamo parlare: uno sguardo o una parola di troppo e ci avrebbero scoperto. E poi, per la verità, non avrei saputo nemmeno cosa dirle. Che la ammiravo, appunto. Perché era coraggiosa, perché lottava per una passione in un mondo che le era ostile, perché non rinunciava a un sogno. Perché lavorava da matti di giorno e ciononostante non c’era notte che non sedesse a quella scrivania, a buttare giù due parole.
La ammiravo. Pensavo di ammirarla. Avevamo un rapporto strano che non capivo a pieno, un rapporto di sguardi e sorrisi proibiti. E poi il nostro unico contatto, quel momento in cui la sera veniva da me silenziosa, quasi furtiva, e con uno sguardo e un gesto mi chiedeva di aiutarla a sbottonare il vestito sulle spalle. In quei momenti sapevo che era felice, perché la giornata era finita e poteva dedicarsi alla scrittura. Non capivo, però, che anche qualcos’altro la rendeva felice: il nostro contatto.
In un mondo di regole e proibizioni, un mondo in cui una cameriera non poteva studiare, in cui a una donna non era permesso quanto a un uomo, in cui due ragazze di diversa estrazione sociale non potevano essere amiche, in cui rapporti profondi non erano concepiti tra persone dello stesso sesso… In un mondo di regole e proibizioni la aiutavo a sbottonarsi il vestito.
Io, nobile, aiutavo una cameriera a svestirsi.
E questo unico, breve momento di ribellione è quello che mi è rimasto più impresso da quando i miei genitori l’hanno mandata via.
Era più alta di me, così per aiutarla prendevo uno sgabello. Ricordo la nuca, i capelli appena scomposti, il collo aggraziato. Liberavo quei bottoni lentamente, osservandola. Era alta e fiera, orgogliosa e delicata. Era una sognatrice: soffriva e amava in silenzio. A pensarci ora mi vengono i brividi. A pensare a quei momenti, intendo. Mi dava i brividi sfiorarle la pelle, infrangere quella barriera sottile e invisibile ma salda e intrisa di sofferenza. Toccarla mi dava i brividi, ma allora non capivo il perché. Non pienamente. E, anche se l’avessi capito, non avrei potuto dirlo a nessuno. Non avrei avuto il coraggio allora.
Ma adesso sì, posso dirlo: io la amavo.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 4
La notte dei cristalli

Berlino, novembre 1938
Mi piaceva guardarla quando si rivestiva. Sempre di spalle, quasi come a nascondere quel corpo che, solo pochi attimi prima, si era abbandonato al mio.
Quel giorno - che non sapevo ancora essere l’ultimo – le scattai una foto di nascosto. La maglietta, con il colletto di pizzo ancora da abbottonare, lasciava intravedere il piccolo neo al limite del collo e un ciuffo ribelle di capelli neri che era sfuggito alla costrizione delle forcine.
Era la primavera del 1938 quando mi trasferii a Berlino con la mia famiglia. La nostra casa era situata davanti alla panetteria che Esther gestiva con i genitori, così diventammo subito assidui clienti.
L’alchimia che esisteva fra me e Esther era così potente che, a un certo punto, decise per noi facendo nascere un sentimento autentico, pulito e pieno di speranza.
Ma eravamo due anime fuori dal nostro tempo, un tempo che di tutto parlava meno che di amore.
A Berlino, in quel periodo, si stavano diffondendo notizie che non riuscivo a comprendere. Si vociferava che Hitler volesse eliminare gli ebrei per la loro inferiorità razziale e biologica e io, che ormai avevo diciannove anni, volevo capirne di più ma tutte le volte che chiedevo spiegazioni a mio padre – ufficiale del Terzo Reich - ricevevo sempre la stessa risposta.
Non ascoltare voci sovversive. La disoccupazione diminuisce e nessuno adesso patisce più né freddo né fame. Grazie a Hitler, avremo una Grande Germania.
Ma Esther era preoccupata e io, anche se cercavo di rassicurarla, pure.
«Franz, io ho paura. Sono ebrea e se le voci che girano corrispondono a verità, finirà tutto.»
«Amore mio, stai tranquilla. Ho parlato con papà. Dice che sono solo voci rivoluzionarie.»
Ma il cuore conosce sempre ciò che la mente nega, per questo il mio - come un oggetto di vetro da trattare con cura – cercava rifugio.
Così, quando nella notte dei cristalli le mazzate della Gestapo frantumarono le vetrine del negozio di Esther, anche il mio cuore fece la stessa fine. Nel giro di poche decine di minuti fui catapultato in un altro mondo e in un altro corpo.
Un militare del Terzo Reich -mandato da mio padre - irruppe in casa nostra, ci fece vestire in fretta e - consegnandoci nuove identità – ci condusse alla stazione ferroviaria, dove io e la mamma prendemmo il primo treno diretto a Zurigo; lì, un altro ufficiale ci accompagnò alla nuova residenza.
Avevo perso tutto. Mi restava solo quella foto.

Zurigo, novembre 1989
Tutti i telegiornali stanno trasmettendo la notizia della caduta del muro di Berlino. Avverto un vuoto in mezzo al petto e capisco che devo andare. Sono un uomo solo che per oltre cinquant’anni ha vissuto una vita che non era la sua.
Devo recuperare, anche fosse solo un frammento di quella vita gettata nel nulla.
In mezzo a quella folla immensa, cado.
«Mi scusi» mi affanno a dire alla signora che, a mia volta, ho fatto cadere.

…………

«Franz?»
«Esther.»
L’alchimia ha riacceso la speranza.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 7

La donna senza volto


Faccio questo lavoro da anni e ogni volta è come la prima volta. Quella scossa era stata forte: magnitudo 4.0. Ancora oggi ho davanti agli occhi tutta la crudezza di quelle immagini. 
Ho iniziato a fare il pompiere che avevo solo vent’anni e ricordo che al corso di addestramento ci ordinarono di essere razionali e distaccati; in quarant’anni di lavoro lo sono sempre stato. Non quel 9 aprile. Stranamente sentivo che, in quella cittadina, ormai distrutta, avrei recuperato un pezzo di me.
Da subito, quei luoghi mi diedero un senso di appartenenza. Eppure non ne ero originario. La mia famiglia adottiva proveniva da tutt’altra nazione.
Perciò non capivo come mai, per la prima volta, non riuscivo a rimanere vigile.  Infatti, tra le macerie e le urla di disperazione, forse per sfuggire al dolore, mi fermavo a guardare i vari oggetti rimasti in superficie. Lo sguardo mi cadde su una foto insabbiata, più che foto, sembrava un dipinto. Una donna di spalle. L’istinto mi indusse a riporla in tasca, non potevo soffermarmi a guardarla. Dovevo darmi da fare, il dolore della gente mi chiamava.
Andai a casa dopo due mesi. Era sempre difficile tornare alla normalità dopo aver fatto un intervento simile e quella foto divenne la compagna delle mie notti insonne. Non capivo perché mi sentissi tanto attratto da quella donna di spalle.
Quel vestito da educanda mi riconsegnava alla fanciullezza, avevo l’impressione di essere, un neonato tra le braccia di quella donna senza volto. Quando chiudevo gli occhi mi sembrava di sentire il tocco vellutato di quell’abito sulle mie gote appoggiati sui suoi seni.
Erano tante le domande che mi frullavano nella testa. Immaginavo chi potesse essere e che vita poteva aver vissuto. C’era una data nella parte posteriore: 28.06.1945. La foto ritraeva una ragazza di circa vent’anni, perciò, secondo i calcoli, doveva avere ottant’anni.  Coincidenza, l’età della mia madre adottiva. Anche se il mio principale tarlo era del perché una foto di spalle? Che senso potesse avere? Forse era una foto rubata, fatta senza che se ne rendesse conto, oppure non voleva farsi vedere. Iniziai a fantasticare su di lei, su un collo che appariva sensuale. All’improvviso, non l’avevo notato prima, sotto la nuca, due piccoli nei. Li avevo anch’io e nello stesso punto.
Non avevo nessun elemento per avviarmi in una ricerca, infatti nemmeno internet mi fu di aiuto. Più passava il tempo e più l’immagine prendeva la forma dell’ossessione.
Da Anni ero ormai separato e vivevo con mia madre. Una sera, tornai dal lavoro era lì, aveva le lacrime agli occhi. Conosceva il mio segreto. Il dipinto trovato sotto il mio cuscino. Ne tirò fuori uno identico, dove si vedeva il volto della donna.  Una bella donna. Notai che avevo i suoi occhi e il suo sorriso. Era mia madre. Abbracciai la vecchia signora seduta in poltrona e le dissi che la mamma è una sola, colei che mi aveva cresciuto e la ringraziai per tutto l’amore che mi aveva dato in tutti quegli anni. 


E ORA VOTATE VOTATE VOTATE!

Si può votare fino alle 
ore 12 di giovedì  6 ottobre 2022

Qui di seguito i 4 racconti che hanno passato il turno grazie al voto della giuria tecnica.

NON SONO SOGGETTI AL VOTO DEL PUBBLICO



GIRONE C - ELABORATO NUMERO 1

Il signor Orfeo


“No, non hai capito. I capelli non completamente raccolti. Lascia scendere qualche ciocca.
Sì, perfetto. Girati di spalle ora. Lasciane libera qualcuna anche dietro. Ottimo. Puoi aprire un altro bottone sulla schiena e alzare lievemente il colletto?  No, non da quel lato. Sì, esatto. Sulla sinistra. Ora ferma. Non ti muovere. Non ti girare. Resta così”.
Debora rimase immobile, trattenendo il respiro.
Fra poco sarebbe finita e se ne sarebbe andata con cinquecento euro in tasca.
Sarah aveva ragione. Quel vecchio, il signor Orfeo, era strano, ma non sembrava pericoloso.
Scattava alcune foto in bianco e nero, di spalle, a donne tra i venti e i trent’anni con i capelli castani e pagava prima degli scatti senza discutere.
Soldi facili.
Soldi di cui aveva maledettamente bisogno da quando Enzo aveva smesso di pagare gli alimenti, la fabbrica aveva chiuso e Paolino aveva cominciato ad avere bisogno di nuove cure.
Soldi che le sarebbero bastati a malapena per pagare l’affitto.
E poi?
Poi cosa avrebbe fatto?
Come sarebbe andata avanti?
“Meravigliosa. Erano anni che non riuscivo a scattare una foto così bella. Grazie. Girati pure, Debora. Ti chiami così, vero?  Vuoi vederla? Dai, vieni qui che te la mostro”.
Debora non si mosse.
C’era qualcosa nella voce del vecchio che non le piaceva.
Doveva essere pronta a tutto.
Forse il vecchio non era così innocuo.
Lo sapeva che non doveva farlo, che nessuno le avrebbe dato tutto quel denaro per così poco, che la buona sorte ce l’aveva con lei sin da quando era nata.
Lentamente si girò e quello che vide la lasciò senza parole.
Il vecchio era seduto a terra. In una mano teneva la macchina fotografica. Nell’altra una foto incorniciata.
Stava piangendo a dirotto.
“Signor Orfeo, si sente male?” chiese preoccupata.
“No, non è niente. Vai pure a cambiarti. Grazie di tutto Debora” rispose il vecchio singhiozzando.
Debora non se lo fece ripetere due volte.
Paolino sarebbe uscito dall’asilo fra un’ora. Non aveva altro tempo da perdere. Con il traffico dell’ora di punta gli autobus non erano mai puntuali.
Si tolse quell’assurdo vestito, vecchio di chissà quanti anni, che le aveva fatto indossare e si preparò per andarsene.
“Allora io andrei” disse aprendo il portone.
Nessuna risposta.
Si fermò.
Non poteva lasciarlo così.
Quando rientrò in salotto il vecchio, tra le lacrime, stava ancora guardando le due foto.
Debora si avvicinò e le osservò per la prima volta.
Erano identiche o quasi. La differenza principale i segni del tempo sulla foto incorniciata.
Si inginocchiò vicino al vecchio.
“Chi è lei?” gli chiese.
“Anna non voleva mai farsi fotografare, mai. In cinquant’anni di vita insieme ho solo questa e poche altre foto di spalle” rispose lui tra i singhiozzi.
Mentre preparava un tè caldo al signor Orfeo, Debora mandò un messaggio a Sarah per chiederle di andare a prendere Paolino.
Quando la sera uscì dall’appartamento, lasciò sopra il mobile dell’ingresso i cinquecento euro.
Se la sarebbe cavata anche senza.
Ne era sicura, o almeno lo sperava.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 5
Rosa

Caldo.
Sembra ancora di sentire la morsa della canicola che in quei giorni si avventò su di noi: testimone indesiderato di quelle ore di peccato e passione.
Affittammo un piccolo appartamento a due passi dal mare, all’imbocco di uno di quei budelli che caratterizzano i paesi della costa nei pressi di Genova.
C’erano un piccolo fornello sotto la finestra, un tavolino usurato dal tempo e un divano che trasudava vita e storie passate per quel locale. Un vaso in ceramica con la nostalgia dei fiori era l’unico vezzo che quelle quattro mura si permettevano.
E poi la camera.
Essenziale nel suo essere il complice perfetto.
Rosa arrivò la mattina del venerdì. La sua presenza diede fin da subito nuova linfa all’ambiente. Io la raggiunsi nel pomeriggio.
Per tre giorni ci fummo solo noi e il rumore del mare in lontananza, alternato a quello di un ventilatore che dava sollievo ai nostri corpi vestiti soltanto del caldo di luglio.
È l’inferno, ripeteva Rosa.
Quello che ci meritiamo, le rispondevo io.
I nostri sensi si univano a ripetizione mentre le nostre vite e le nostre esistenze soffocavano nei sensi di colpa e nella vergogna.
Ma quanto può essere sbagliato agire in nome di ciò che ci rende felice? A che punto sta il confine tra la soddisfazione e la legalità di quel piacere? Che prezzo morale ha lo star bene?
Rosa era il mio bene.
Lo è stata per quei tre giorni.
Un solo e unico weekend desiderato e bramato per una vita intera. Sognato a ogni raduno di famiglia, nascosto negli sguardi colpevoli di quei pranzi in cui si è seminato il frutto che in quei giorni abbiamo avidamente raccolto e succhiato.
Sei mio cognato, diceva, mentre mi dava le spalle e si slacciava il bottone del colletto di quell’abito nero che la rendeva irresistibile.
Sei mia, le rispondevo appoggiando il mio corpo al suo e sfiorandole il collo con le labbra.
Sapeva di tutto quello che desideravo.
Poi scioglieva i capelli e si lasciava andare al mio volere. Al peccato.
Una volta. E poi un’altra. E poi ancora.
Lo specchio al centro del piccolo armadio, rotto sull’angolo destro, rifletteva i nostri respiri lussuriosi e l’ombra ingombrante delle nostre coscienze sporche.
Sporche e appagate.
Il bene e il male convivevano in quella stanza come vecchi compagni che per mano si erano trascinati fino alla domenica sera.
Fu lei ad abbandonare quel luogo per prima.
Io restai a respirare quell’aria piena di vizio e amore per qualche momento in più.
Poi chiusi a tre mandate la porta in legno verniciata d’azzurro e lasciai le chiavi sotto il vaso del cactus sul davanzale della finestra.
Sentii le spine pungere il cuore.
Infilai le mani in tasca, accesi una sigaretta e mi rifugiai in un bar.
Due bicchieri mi furono amici e lavarono lo sporco incrostato sulla mia anima.
Per il momento.
Poi mi mossi in direzione del porto.
La mia nave salpò quella notte stessa.


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 6
Lo strappo

Luisa era uscita da quella stanza con il cuore in tumulto, senza proferire parola, aveva fatto appena in tempo ad appoggiarsi alla parete del corridoio, era come paralizzata.
Tanto tempo era passato ma adesso, era come essere ripiombati in un attimo nel buio di quel giorno. Dal profondo del suo essere risaliva tutta l’angoscia, la paura provata, tutto ciò che le sembrava di avere sconfitto si riaffacciava, materializzato in quel letto.
La donna che era diventata spariva e si rivedeva bambina in quella stanza dalle pareti tappezzate di una stoffa dai colori sbiaditi dove a malapena risaltavano alberi e voli di uccelli. Erano gli anni sessanta e Luisa, appena dodicenne, si era recata come quasi ogni pomeriggio da Teresa, la vicina di casa. Giocava spesso con i suoi due piccoli figli e per la donna, la giovinetta era un aiuto mentre svolgeva le faccende domestiche.
Luisa amava stare con quei bambini che l’adoravano e appena terminati i compiti, correva da loro per inventarsi nuovi giochi o leggere qualche storia.

Quel pomeriggio aveva indossato il vestitino blu a pois cucito dalla zia e che a lei piaceva tanto, soprattutto da quando l’anziana donna lo aveva impreziosito con un colletto bianco di organza ricamata, ricavato da una camicetta ormai logora. Aveva raccolto i capelli in sù e dandosi un ultimo sguardo soddisfatto allo specchio, ancora sorridendo era andata a suonare il campanello della casa di Teresa.
C’era un insolito silenzio dietro la porta, di solito i bimbi strillando facevano a gara per aprirle. Le aveva aperto invece il loro papà che aveva intravisto solo qualche volta nella casa, l’uomo l’aveva fatta entrare dicendole che la moglie e i figli stavano per arrivare e aveva richiuso la porta dietro di lei.
La spensierata e ingenua adolescenza di Luisa era finita lì, fra i capelli disfatti e nel colletto bianco strappato di un vestito che non avrebbe mai più indossato.
Non ne aveva parlato con nessuno e aveva vissuto i giorni seguenti con la paura che le si leggesse in faccia quello che era successo. Quel senso di colpevolezza e di vergogna, dilatandosi nel tempo, aveva influenzato i suoi rapporti sociali, aveva storpiato e falsato ogni tipo di legame sia d’amore che d’amicizia.
Come un mostro mai sconfitto in maniera definitiva, bastava un niente per riportarlo a galla: un odore, un gesto, uno sguardo o un semplice contatto e ripiombava in quella bruttura che si portava cucita addosso.
E ora? Ora a distanza di tanti anni lui era lì, solo, in un letto d’ospedale.
Luisa lo aveva riconosciuto subito quando gli si era avvicinata per la terapia, respirava appena e i pochi capelli bianchi erano appiccicati sulla fronte per la febbre. L’aveva guardata distratto richiudendo gli occhi subito dopo, certo non l’aveva riconosciuta, lei sì.
Era quasi scappata da quella stanza, come se quell’uomo, ormai consumato dalla malattia, potesse ancora farle del male. Tremando, era scivolata piano dalla parete finendo a terra e chinata la testa fra le ginocchia, aveva finalmente pianto. 


GIRONE C - ELABORATO NUMERO 8
La fotografia

La valigia è pronta. È arrivato anche per me il momento di partire.
Ho preso la fotografia, quella che avevo rubato. Non l’ho mai più guardata, ma tu eri nei miei ricordi e questo mi è bastato.
Ne sono passati di anni da quello scatto. Era il 10 gennaio 1944.
Non sono riuscito a dimenticare la potenza dei passi di quegli uomini, mentre salivano le scale della nostra casa e il forte boato quando irruppero, distruggendo la porta.
Mamma e papà erano partiti da giorni. Prima di lasciarci, ci rammentarono che per quel viaggio, che avremmo intrapreso presto anche noi, bisognava portare qualcosa d’importante, per non abbandonare per sempre la nostra vita.
Tu decidesti di indossare il tuo abito più bello, quello della domenica, anche se aveva uno stupido bottone sul retro che si slacciava di continuo. Io invece presi la mia macchina fotografica. Sai, pensavo di immortalare la nostra nuova vita. E in qualche modo questo avvenne.
Ci alzammo in fretta dal letto, tu con il tuo bellissimo vestito, io con la mia Leica in mano. Ricordo che mi chiedesti di allacciarti il bottone. Lo feci e avrei voluto anche riordinarti i capelli, ancora arruffati dall’ultima notte passata nella nostra casa, ma non mi diedero il tempo.
Ci spinsero giù per le scale. Arrivammo su un lungo viale, dove file di uomini e di donne camminavano silenziosi con la testa china in avanti. Un pallone, mosso dal vento di quel freddo inverno, si adagiò sui i piedi di un bambino. Vidi il suo sorriso e la sua mamma, con rapidità, calciarlo lontano da lui.
Gli uomini da un lato e le donne dall’altro.
Un soldato si avvicinò, mi prese il braccio e mi disse: «Du fotografier!» E io fotografai.
Salimmo su dei camion. Ci portarono alla stazione Centrale. Tra tutte quelle donne riuscii a vederti. Eri di spalle. Ero dietro di te e tu lo sapevi.
Ci fecero scendere e raggiungere un binario, posto al di sotto di quelli principali: Binario 21, annunciava il cartello. Ci misero ancora in fila, prima le donne e poi gli uomini, spingendoci verso il treno che ci stava aspettando. Sentii tirarmi il braccio, era lo stesso soldato. «Du fotografier!» E io fotografai.
Poi mi spinse con forza verso il muro, insieme ad altri uomini. Diede loro delle vanghe. Capii che bisognava lavorare sulla terra attorno alle rotaie. Questa volta il soldato mi guardò negli occhi, indicò la mia macchina fotografica. «Du fotografier!» E io fotografai.  
Non compresi subito cosa stesse succedendo, ma non ti persi di vista nemmeno per un secondo. Insieme alle altre donne ti stavi avvicinando a dei vagoni merci. Tu eri l’unica a camminare a testa alta. Eri fiera di te. Ma non ti girasti mai dalla mia parte. Apriste i grandi portelloni e un odore putrido ci invase. Una dopo l’altra saliste sul treno e io rimasi su quella banchina e ti fotografai. Quello stupido bottone si era slacciato un’altra volta, ma io non riuscii mai a riagganciarlo.

ATTENZIONE

Nella diretta di giovedì 6 ottobre alle 21, nella Pagina Facebook di Edizioni Convalle, svelerò i nomi degli autori dei testi del GIRONE C (questo girone).

Complimenti a tutti i partecipanti! 


Il Masterbook prosegue e rimarrà un solo vincitore, ma ci saremo tutti divertiti condividendo la stessa passione:

SCRIVERE!

Nella diretta di giovedì 6 ottobre spiegherò come prosegue il Masterbook e come si svolgerà la FASE 2. 

Formerò due nuovi gruppi (a estrazione) con gli autori che avranno superato la FASE 1. 

MA ATTENZIONE!

Siccome coloro che avranno superato la prima fase sono in numero dispari, farò un'ulteriore estrazione tra i nomi degli esclusi e uno di loro verrà recuperato e rimesso in gioco.

Quindi non mancate alla prossima diretta che sarà piena di suspance ;-)


Alla prossima

dalla vostra 

Stefania Convalle



 

 


24 commenti:

  1. Voto la Donna senza volto. Questa settimana sono stata molto indecisa tra questo racconto e la notte dei Cristalli. Mi hanno emozionata e coinvolta entrambi, oltre ad aver ritrovato in entrambi l'immagine
    . La scelta, peró, ricade sulla donna senza volto perche' mi ha fatto riflettere su come una foto possa essere strumento di scoperta, ricerca e ritrovamento!... Grazie a tutti per i bei racconti e in bocca al lupo per la fase 2😊💪🤗

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  2. Io voto "La notte dei cristalli", lo trovo un testo espressivo e ben curato, un boom di emozioni, anche perché l'argomento non era facile. Alcune parti del testo, ad esempio il finale, catturano il lettore tramite colpi di scena. Il testo è coerente con l'immagine proposta.

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  3. Voto l’elaborato n. 4, La notte dei cristalli. Mi è piaciuta la storia raccontata, la descrizione iniziale di lei e il messaggio di speranza che trasmette. Curata anche la punteggiatura.

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    1. Nicoletta Mandaradoni . Voto il numero 7 La donna senza volto

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  4. Voto "La notte dei cristalli". Un bel racconto, con un finale inatteso ed emozionante. Scritto in modo coinvolgente, ricco di immagini, punteggiatura ben curata.

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  5. Voto il racconto n.8 “La fotografia “ . Giuliana Degl’Innocenti

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  6. Voto il n. 4 La notte dei cristalli. Marta Martello

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  7. La donna senza volto.
    Tutti molto belli, difficile scegliere ma questo è quello che più mi ha emozionata. Complimenti.

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  8. Voto il matrimonio di Mitzi, un racconto fresco e vivo, dalla lettura scorrevole, con belle pennellate dialettali.
    Luca Togni.

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  9. Sono Elena Mazza, questa settimana tutti e quattro i racconti mi hanno emozionata, il mio voto lo do' al nr. 4 perche' mi piace pensare che la vita fino all'ultimo puo' sorprenderti e regalarti un sogno

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  10. La notte dei cristalli è un racconto che perdona i tempi oscuri e restituisce luce ai sogni
    Costanza Trotti

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  11. Il N.2 perché la storia ,pur essendo ambientata in un periodo drammatico quale può essere la guerra, è raccontata in modo leggero,non superficiale. È la vita che continua nonostante tutto.
    Trovo il racconto realistico , è anche per questo che lo ho scelto .
    Elsa De Stefani

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  12. Giovanna Agata Lucenti3 ottobre 2022 alle ore 08:33

    Voto il racconto "Il matrimonio di Mitzi".
    Narra con semplicità e in maniera realistica un periodo buio della nostra storia.
    Come Mitzi, chissà quante altre ragazze in quel periodo hanno vissuto la stessa esperienza...

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  13. Voto l’elaborato numero due: Il matrimonio di Mitzi. Mi è piaciuta la descrizione delicata del coronamento di un amore. E ho apprezzato il mondo in cui viene reso il difficile momento storico in cui è ambientata la storia. Interessante l’uso del dialetto che rende ancor più vera la scena.

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  14. Io voto il racconto numero 4. Racconto davvero emozionante e con un finale inaspettato

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  15. Voto l’eleborato numero 7 per la tematica trattata. Enza La Gala

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  16. Voto il racconto n. 2 Il matrimono di Mitzi, un'ambientazione storica inusuale, fatti di cui ancora oggi si parla poco, e uno stile fresco, vivace.

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  17. Voto l'elaborato numero 3: Lei amava scrivere

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  18. Mi è piaciuto molto il racconto numero 3, Lei amava scrivere

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  19. Sono Emanuela Tomiato; tutti molto belli, ma scelgo LA NOTTE DEI CRISTALLI

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  20. Voto “La donna senza volto”, un racconto intenso, emozionante e coinvolgente. Il tema della foto, inoltre, che stiamo affrontando anche nei nostri elaborati è stato capace di far emergere in me molti aspetti ed emozioni vissuti personalmente. Maria Grazia Conti

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  21. Voto il racconto n.2, "Il matrimonio di Mitzi"

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  22. Racconti davvero tutti molto belli. Scelgo "La donna senza volto"
    Penso che la vita non lascia mai senza risposte...è solo questione di tempo e il caso che non è mai un caso ci mette lo zampino. Mi ha commosso.

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    1. Ore 5.56 Ho dimenticato di mettere il mio nome. Pinuccia Sassone

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